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Auto-inchiesta (operaia?)

di Giancarlo
Scotoni

Chi come me ha fatto dell’esercizio del mezzo informatico un impegno a suo modo militante, sebbene su piccola scala e isolatamente o quasi, è particolarmente sensibile all’intreccio tra la tecnica e il suo uso sociale. Attorno al digitale, su transform-italia.it S. Bellucci, F. Fassio, R. Rosso, A. Scassellati e altri hanno scritto molti articoli approfonditi che riporto in calce: io vorrei aggiungere -per così dire- un po’ di carne e sangue, raccontando della mia esperienza di lavoro in questa parte del mercato e della produzione. Infatti, dalla fine degli anni ottanta a una decina di anni fa mi sono guadagnato il pane in quella che si chiamava “formazione in informatica” di base. Questa vorrebbe essere, insomma, una specie di auto-intervista da parte di chi si è sentito un operaio dell’innovazione, qualcosa di limitato a un percorso personale ma con un occhio alla generalizzabilità della propria esperienza.

Sono stato tra coloro che attorno alla metà degli anni ’80 videro nella diffusione del personal computer una occasione di appropriazione di massa di strumenti di intelligenza e governo. Ai nostri occhi l’innovazione prometteva un orizzonte progressivo e nel mio caso questo abbaglio era forse dovuto al ciclo precedente di lotte, a un non accettare la radicalità del mutamento nei rapporti di forza. Altri accanto a me erano passati per il movimento della pantera e avevano altra ottica e altri approcci.

Certo era presente nella mia coscienza il nesso tra la ristrutturazione capitalistica e le lotte degli anni ’70 sia a occidente che a oriente: e se fosse stato possibile rivitalizzarne il senso anche grazie alla potenza dell’innovazione? Quell’innovazione che sembrava superare la vecchia divisione del lavoro, coinvolgere le poteniazlità individuali, sovvertire le gerarchie e che si presentava nuova e ricca di prospettive.

L’uso comunitario dell’innovazione a tanti sembrò un passo breve che non comportava sconfiggere il capitale, ma servirsi della sua spinta. L’illusione si sarebbe rivelata tale attraverso dei passaggi che oggi appaiono ovvii ma che allora si rivelavano pian piano. Alcuni di essi sembravano residui del passato: il carattere paritario dell’uso dell’informatica si sarebbe imposto sulla vecchia divisione del lavoro e sarebbero andati in soffitta capiufficio e dirigenti (tanto più che proprio loro erano i più refrattari a imparare il nuovo, semplice, verbo).

Si faceva grande affidamento al potenziale di intelligenza sociale che la diffusione dei personal computer metteva a disposizione e alla struttura potenzialmente egualitaria del software collaborativo e della rete… si pensava all’aspetto migliore della tecnologia, alla possibilità di ridurre il tempo di lavoro necessario, ma non che questo risparmio sarebbe finito tutto in forma di profitto nel deposito di zio Paperone.

Non che si avesse gli occhi foderati di prosciutto: la forza del marketing era leggibile. Capitava persino di fare scelte “etiche”: quante critiche al software Microsoft e alla sua distribuzione che stimolava l’uso pirata dei suoi prodotti fin quando era necessario per assicurarsi la penetrazione nel mercato1. E poi il fallimento dell’intenzione di erogare corsi sulla base della competenza e non del logo della casa produttrice.

A queste ingenuità e abbagli le critiche da sinistra che giudicavano dall’alto il fenomeno senza coglierne la reale dimensione erano ininfluenti. Anzi, non raggiungevano proprio il campo in cui ci si arrabattava.  Si richiamavano al passato, erano correttissime ma ingessate e senza forza. Né eravamo coinvolti come soggetti del ciclo capitalistico, né eravamo raggiunti da una proposta praticabile diversa da quella dell’accettare un lavoro solo formalmente indipendente, una partita IVA o un codice fiscale privo di diritti e ruoli. Ritenute d’acconto o fatture, versamenti INPS insufficienti per accumulare una pensione, nessun diritto alla malattia: flessibilità e subordinazione.

Eppure ero entusiasta di lavorare nella formazione e nella divulgazione dei software, anche se già negli anni ‘80 si descriveva la forbice tra la crescita delle conoscenze necessarie e la quantità di formazione che era possibile erogare. A ritmi sostenuti l’hardware diventava sempre più complesso e i linguaggi e i software si rinnovavano costantemente.

Dall’altra parte, da quella dei “formati” nei corsi, l’acquisizione di nuove capacità di lavoro e di nuovi livelli di produttività non veniva riconosciuta. Se in un’ora di lavoro era possibile moltiplicare il prodotto, sempre di un’ora di lavoro si trattava, per il padrone.

Ancora, ben presto ho assistito a una centralizzazione generalizzata: in azienda si concentravano i livelli decisionali e di controllo, nel mondo dell’informatica diventavano prevalenti le grandi software-house con le loro strutture e con l’accumulo di conoscenze private.

Una delle carte che ho sempre visto mettere sul tavolo come un atout è stata la attribuzione della qualifica di “tecnico” a elementi del problema che erano invece politici in termini di modello sociale e di relazione. Così ho sviluppato una idiosincrasia per la parola e per il ruolo.

La diffusione del personal computer sembrava aver cancellato l’immagine dei tecnici in camice bianco capitanati dall’ingegnere (il fratello di quello dell’industria degli anni ‘50) ma la costruzione della figura del tecnico o del programmatore era sempre all’opera con l’immaginario dello smanettone, del genialoide fuori di testa e via andando. Ma dietro l’immaginario stava il governo della divisione del lavoro che si faceva profonda e incomunicante. E non era con i corsi che si sarebbe potuta colmare.

Tra l’altro la riduzione dei badget spingeva a eliminare dall’insegnamento le parti che nelle intenzioni avrebbero potuto evitare di produrre operatori inconsapevoli e si concentravano esclusivamante sulla operatività.

Insegnavo strumenti di produttività individuale in grado di venire a capo di problemi complessi. Era vivo il ricordo di un sapere operaio che alla FIAT era in grado di esercitare dal basso una comprensione della fabbrica superiore e più completa di quella della direzione; ma le cose andavano in senso contrario.

Dapprima fu evidente una tendenza al depauperamento delle mansioni e la formazione dovette produrre sempre più fatturato. Mentre dall’azienda o dall’ente venivamo reclutati2 per insegnare funzioni anche sofisticate, al lavoratore e alla lavoratrice non veniva richiesto di conoscere il foglio elettronico, ma di utilizzare un programma dedicato che centralizzava l’intelligenza dei processi e la strada per salire quella scala non era quella delle competenze informatiche personali.

Spesso i “programmi dedicati”, cioè sviluppati a misura di cliente, erano dati in out-soucing all’esterno dell’azienda e talvolta il fornitore aveva un team in loco. Fabrizio Fassio racconta della sua esperienza in IBM, una azienda che espresse intelligenza, internità e trasformazione dei processi: io ho assistito invece per lo più a paradossi e assurdità. Ho visto tecnici annidati nelle istituzioni dalle loro aziende. Forse erano competenti, ma il gioco tra committenza e fornitore li escludeva, si trovavano costretti da scelte che esulavano dal loro controllo e si manifestavano tragicamente incompetenti. Qualcuno, sopra di loro, aveva fatto delle scelte di comodo delegando a loro, ai tecnici di mandare avanti la baracca. Una volta mi capitò di dare un piccolo suggerimento, una cosa banale che insegnavo nei corsi ma a suo modo decisiva per chi non la conoscesse. Ovviamente lo diedi ai tecnici questo suggerimento, cioè a coloro con cui potevo parlare. Mi chiesero poi come dovessero ringraziarmi. Risposi che non c’era problema e mi auguro che possano aver fatto una piccola buona figura con chi li teneva in quella situazione di isolamento e frustrazione.

Insomma, uno sguardo a distanza restituisce un groviglio di sviluppo capitalistico e di rendita di posizione entrambe giocate a danno dei produttori, che li si voglia chiamare utenti o li si voglia chiamare tecnici.

Proseguendo, il programma dei corsi si sviluppava a fronte di tempistiche sempre più ridotte e sempre più  venivano elargiti a personale che di lì a poco sarebbe stato dichiarato in esubero… corsi propedeutici alla mobilità, insomma. Invece, che io abbia visto, erano le aziende e gli enti di formazione professionale a occuparsi dei corsi di riqualificazione per cassa integrati; ma dell’insegnare il database ai conduttori di macchine movimentazione terra scriverò altrove.

Cocciuti (cocciuto) come eravamo (ero) di nuovo salutammo internet come la potenziale innovazione sociale che era e che non fu nel modo da noi sperato. Di nuovo ci disponemmo a assistere ai processi di privatizzazione, di centralizzazione, di articolazione del dominio. Di nuovo lo sviluppo dell’innovazione si risolveva in concorrenza capitalistica, produzione separata di conoscenza, “tecnica” giocata contro appropriazione comune del bene, naturalmente con le incongruenze e le clientele che ci si dovevano aspettare.

L’internet diventava sempre più estensione globale del mercato, il lavoratore-cittadino-utente veniva ridotto a consumatore, de-alfabetizzato e interfacciato ai tecnici su posizioni di crescente inferiorità.

Forse opportunamente, in un sussulto di sincerità, i corsi di informatica venivano sostituiti da quelli di comunicazione o di programmazione neuro-linguistica; ma, fortunatamente ho solo assaggiato questa nuova fase innovativa.

Nell’attuale divisione del lavoro i monopoli dell’informatica hanno superato da tempo la fase in cui si procacciavano programmatori a basso prezzo in India o nell’est ex-sovietico e si giovano del patrimonio di una produzione diffusa quando non possono affidare alle macchine lo sviluppo del software. Quantificano il lavoro umano a minuti e lo distribuiscono tramite asta in tempo reale: la dimensione  finanziaria dell’azienda e la piramide conoscitiva che governa sono più efficienti di qualsiasi segreto industriale e l’open-souce è stata inglobata nel sistema. E’ continuamente agito il sequestro della scienza, della conoscenza e della dimensione dello sviluppo umano. A fronte della distruzione dell’ambiente e della de-escenza degli abitanti del pianeta siamo chiusi in una geo-politica di guerra e distruzione strettamente connessa all’innovazione permanente.

Non parliamo dei vaccini che minacciano di introdurre nuove stratificazioni di disuguaglianza con l’esclusione differenziata di fasce di popolazione sulla base dell’accesso alla salute.

Concludendo, negli anni di cui posso parlare, mi sembra si sia riproposto sempre un elemento base, un passaggio atomico, e cioè l’uso della figura del tecnico come elemento neutro o di servizio, il segnale di una delega indifferente e di una rinuncia a ricomporre politicamente una articolazione della divisione del lavoro. Certo, solo un segnale di un processo estremamente complesso e contraddittorio che ai miei occhi continua a mostrare una più matura raggiungibilità del bene e il suo rovesciamento.

Oggi più che ieri le forme inusitate prodotte dall’innovazione capitalistica promettono tanto se solo fosse possibile appropriarsene. Così Sergio Bellucci propone spesso una vision generosa in cui si ipotizza il passaggio al pubblico della potenzialità delle piattaforme e degli altri meccanismi collaborativi. Queste promesse si traducono, tuttavia, in un compito difficile con cui solo un soggetto autonomo e una costruzione politica efficace potrebbero misurarsi disarticolando e rivolgendo una catena del valore contro i meccanismi della sua appropriazione capitalistica.

Mi riprometto, per così dire da tecnico con coscienza di classe di proporre in futuro e con il senso di questa auto-inchiesta alcuni interventi “dal basso” sugli aspetti quotidiani e pratici dell’uso dell’informatica.

Riferimenti al già pubblicato su transform-italia.it

Sergio Bellucci

Fabrizio Fassio

Roberto Rosso

Roberto Rosso e Alessandro Scassellati

  1. Davvero  interessante è  la storia della nascita del MSDOS di Microsoft come costola del PCDOS di IBM prodotto dal medesimo team e la successiva complessa messa a punto di Windows.[]
  2. il personale insegnante di questi corsi aziendali era costituito per lo più da partite iva surrettizie; le aziende appaltatrici dei corsi nelle grandi aziende erano costituite sovente da ex-dirigenti o manager andati in pensione; i fondi erano spesso quelli della formazione permanente… Almeno sul mercato romano, le grandi agenzie di formazione private indipendenti ebbero vita breve…[]
digitale, lavoro
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