di Roberto Rosso e Alessandro Scassellati –
“Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile… quello con la pistola è un uomo morto.” – Sergio Leone, Per un Pugno di Dollari.
L’Italia è senza dubbio uno dei Paesi dove il rapporto tra i cittadini e la burocrazia è più conflittuale. Come è noto, il nostro Paese occupa le ultime posizioni delle classifiche internazionali che misurano l’efficienza della pubblica amministrazione. Paradossalmente, però, l’ipertrofia degli apparati statali non accenna a diminuire, nonostante che da quasi due decenni si siano investiti miliardi per riformarli e spingerli verso la nuova frontiera della digitalizzazione. Il futuro è digitale e i numeri dicono che gli italiani non si tirano indietro quando lo Stato promette di rendere più semplice il rapporto con il cittadino. Ma, nel pieno della rivoluzione digitale dei servizi pubblici che dovrebbe semplificare il rapporto tra cittadini, imprese e PA, si assiste a fenomeni paradossali che segnalano il persistere di criticità nell’organizzazione dei servizi e nella relazione tra stato e cittadino.
Antefatto
Chi scrive è un ricercatore sociale con tre decenni di esperienza professionale sui temi dello sviluppo locale che per poter continuare a lavorare, a partire 1996, è stato costretto ad aprire una partita IVA e una posizione previdenziale INPS (con iscrizione alla “gestione separata”), divenendo parte di quello che allora veniva chiamato il “popolo del 10%” (nel frattempo la quota contributiva da versare è salita al 22%), formato da “lavoratori autonomi di seconda generazione”. Poi, nel 2001, per poter ottenere delle assegnazioni per progetti di ricerca/intervento da parte degli enti e amministrazioni pubbliche e partecipare a bandi pubblici con dotazioni finanziarie di una certa consistenza, ho dovuto anche creare, insieme ad un socio, una società a responsabilità limitata (SRL), della quale sono diventato amministratore unico. In questi anni, dunque, con la consulenza di un dottore commercialista, per poter continuare a fare il mio lavoro di ricercatore sociale mi sono dovuto occupare di tutte le questioni amministrative, fiscali, giuridiche relative alla gestione sia di una partita IVA personale e sia di una piccola SRL. Di seguito cercherò di raccontare brevemente l’esperienza traumatica che ho vissuto nel rapporto con la pubblica amministrazione digitale tra il 22 febbraio e il 2 marzo di quest’anno.
Nella primavera del 2019, mentre lavoravo in un territorio dell’Italia meridionale sui temi dello sviluppo rurale e dell’agricoltura sostenibile, sono venuto a sapere che un ente territoriale aveva in programma di pubblicare un bando su temi che erano in linea con le mie competenze professionali e con quelle della SRL. Pertanto, ho attivato la mia rete di relazioni sia sul territorio sia in ambito universitario e ho cominciato ad ipotizzare una possibile proposta progettuale da condividere e su cui aggregare un partenariato. In questo modo, quando dopo un paio di mesi, il bando è stato pubblicato, sono stato in grado di formare un gruppo di lavoro (composto, oltre che dalla mia SRL, da tre dipartimenti di due università diverse, 9 aziende agricole, un ente territoriale disposto a fare da capofila e un soggetto detentore di un know-how tecnico registrato) che in poco tempo ha definito una proposta progettuale condivisa.
Insieme ad un collaboratore, ho poi materialmente scritto la proposta, compilato tutti i moduli del bando, recuperato tutta la documentazione richiesta (autodichiarazioni, manifestazioni di interesse, copie dei documenti personali ed aziendali dei partner, etc.), fatto il budget del progetto, aiutato il soggetto capofila a formulare gli inviti per selezionare due fornitori di servizi e a “caricare” tutto il materiale raccolto e compilato sul portale digitale dell’ente territoriale che aveva emesso il bando (novembre 2019). La mia SRL è stata una delle tre invitate dal soggetto capofila a partecipare alla procedura di offerta di un preventivo (senza una base d’asta) per la fornitura di una parte dei servizi e al termine della procedura era risultata quella vincente.
Le procedure di valutazione del progetto e di aggiudicazione del bando hanno richiesto diversi mesi e finalmente nel settembre 2020 l’ente aggiudicante ha approvato il nostro progetto. Da allora sono state espletate tutte le procedure burocratiche necessarie (tra cui la costituzione di una ATS, una Associazione Temporanea di Scopo, tra i soggetti partner). Sono successivamente venuto a sapere che per alcune settimane i responsabili del soggetto capofila hanno discusso e chiesto consiglio ai funzionari regionali riguardo a come procedere con i fornitori di servizi già selezionati prima dell’aggiudicazione: se considerare ancora valide le offerte presentate nel novembre 2019 o se invitare nuovamente tutti coloro che avevano partecipato al precedente invito a presentare la migliore offerta in riferimento ad una richiesta di preventivo in cui la base d’asta era l’offerta presentata dalla mia SRL. Per evitare possibili contestazioni da parte delle autorità di controllo, la decisione del capofila è stata quella di rifare la procedura di invito.
Nel tardo pomeriggio del 24 febbraio, il RUP dell’ente pubblico territoriale capofila del progetto ha inviato a tutte e tre le società tre PEC (Posta Elettronica Certificata) contententi una serie di materiali in formato pdf e firmati digitalmente inerenti all’invito di richiesta di un preventivo per l’affidamento di servizi “External Service” (una copia del progetto approvato, la richiesta, un allegato con la scheda di sintesi servizio, un messaggio riepilogativo).
Il RUP è il responsabile unico del procedimento, una figura tecnica individuata con atto formale del dirigente responsabile dell’Unità Organizzativa dell’ente pubblico appaltante (la “stazione appaltante”) per ogni procedura di affidamento di un appalto o di una concessione, per le fasi della programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione. Il RUP è individuato nel rispetto di quanto previsto dall’art. 31 del Codice Appalti, tra i dipendenti di ruolo inquadrati come dirigenti o dipendenti con funzioni direttive. In concreto, sono le le linee guida n. 3 dell’Autorità Nazionale Anti Corruzione (ANAC) che disciplinano la nomina, il ruolo ed i compiti del responsabile del procedimento negli appalti pubblici.
Per fortuna, la mattina successiva vengo a sapere da un amico fraterno che lavora all’interno dell’ente territoriale che aveva emesso il bando che il capofila della compagine aggiudicataria aveva mandato gli inviti per le offerte di preventivo alle tre società. Rimango stupito, dal momento che all’indirizzo della PEC aziendale non era arrivato nulla. Richiamo il mio amico che mi dice di parlare con il RUP, ma solo il giorno successivo in quanto si tratta di un dipendente che lavora presso l’ente territoriale capofila solo tre giorni a settimana. La mattina successiva, inizialmente il RUP rimane meravigliato del fatto che non sia arrivato nulla, poi controllando la PEC dell’ente scopre che in effetti i messaggi non sono stati mai recapitati alla mia PEC aziendale, perché aveva digitato l’indirizzo PEC in modo errato (mancava una lettera).
Ricevo le e-mail PEC e scopro che il contenuto dell’allegato con la scheda di sintesi del servizio per cui la mia SRL dovrebbe presentare un’offerta di preventivo non corrisponde a quello originario previsto. Richiamo il RUP e gli faccio notare l’incongruenza. Lui mi risponde che è impossibile, perché ha fatto un “taglia e incolla” della sezione del progetto approvato riferita ai servizi esterni che la mia SRL si era impegnata a fornire e che comunque avrei dovuto “leggere il progetto”. La discussione si è fatta presto animata anche perché, nonostante avessi ribadito più volte che non avevo bisogno di leggere il progetto dato che l’avevo scritto parola per parola, mi ha continuato ripetutamente a dire “lei si legga il progetto!”. Ho chiuso la comunicazione dicendo che se quello era il contenuto dell’invito, la mia società non avrebbe presentato alcuna offerta e che comunque avrei informato il vertice dell’ente territoriale capofila.
Dopo circa 20 minuti mi sono arrivati diversi messaggi Whatsapp da parte del RUP che mi hanno avvertito che “c’è un errore nel file allegato … a breve riceverà l’allegato corretto … mi dispiace del disguido … era stato allegato il file dell’altra procedura [di fornitura di servizi], mi raccomando di seguire le istruzioni della piattaforma. Saluti”. In sostanza, il RUP aveva sbagliato a fare il “taglia e incolla” e d’altra aprte nel corso della nostra animata conversazione telefonica aveva ammesso di non sapere “niente del progetto”. L’ho ringraziato per aver ammesso l’errore e mi sono scusato per essere stato aggressivo.
Quel giorno è stato un giorno intenso di lavoro e solo dopo le 18.00 ho avuto la calma per andare a registrarmi sulla piattaforma digitale dell’ente territoriale capofila (ottenere una user ID e una password) e poi, seguendo le istruzioni inviatemi dal RUP, andare sul “cruscotto”, cliccare su “richieste di preventivo”, inserire, nel campo “codice invito” delle richieste di preventivo, il codice inviatomi dal RUP nella richiesta e nel testo di una delle e-mail PEC, per riuscire a vedere cosa – quali documenti ed informazioni – venisse richiesto. Si richiedeva l’inserimento dei seguenti documenti con firma digitale: un’offerta economica, per la quale veniva fornito un facsimile; un DGUE; un PassOE; una descrizione della struttura tecnica aziendale con nomi e qualifiche di tutti i soggetti; un curriculum aziendale; uno o più curriculi professionali.
DGUE e PassOE
Ovviamente, non avevo alcuna idea di cosa fossero il DGUE e il PassOE. In una delle PEC del RUP c’era scritto che “per qualsiasi informazione riguardante la procedura, la invitiamo ad utilizzare primariamente l’area messaggistica online presente sulla piattaforma”. Ho preferito fare una ricerca su internet, in modo da abbreviare i tempi.
Ho così scoperto che il DGUE è il Documento di Gara Unico Europeo, un’autodichiarazione dell’impresa sulla propria situazione finanziaria, sulle proprie capacità e sulla propria idoneità per una procedura di appalto pubblico. È disponibile in tutte le lingue dell’UE, compreso l’italiano1, e si usa per indicare in via preliminare il soddisfacimento delle condizioni prescritte nelle procedure di appalto pubblico nell’UE. Grazie al DGUE gli offerenti non devono più fornire piene prove documentali e ricorrere ai diversi moduli precedentemente in uso negli appalti UE, il che costituisce una notevole semplificazione dell’accesso agli appalti transfrontalieri. A partire da ottobre 2018 il DGUE è fornito esclusivamente in forma elettronica.
Ho seguito gli step della procedura di compilazione inserendo via via i dati richiesti e segnando le risposte pertinenti. Nel giro di 5 minuti ho ottenuto un documento in pdf di 15 pagine da firmare digitalmente e poi caricare sul portale dell’ente capofila del progetto.
Per quanto riguarda il PassOE ho scoperto che è un codice numerico che l’Operatore Economico acquisisce dall’ANAC e trasmette alla stazione appaltante affinché quest’ultima possa verificare in capo all’aggiudicatario il possesso dei requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed economico-finanziario dichiarati in sede di gara, mediante il sistema AVCpass, quale strumento che consente sia l’acquisizione della documentazione a comprova dei requisiti a seguito della cooperazione applicativa con i vari Enti, che la mera trasmissione di richieste ad altri soggetti certificatori. In sostanza, il PassOE, come sancito dall’art. 2 della Delibera 157 del 17.2.2016, permette rispettivamente alle Stazioni Appaltanti e agli Enti aggiudicatori l’acquisizione dei documenti a comprova del possesso dei requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed economico-finanziario per l’affidamento dei contratti pubblici ed agli Operatori Economici di inserire a sistema i documenti la cui produzione è a proprio carico ai sensi dell’art. 6-bis, comma 4, del Codice.
Prigioniero del portale ANAC
Bene! Sono andato sul portale dell’ANAC per registrarmi. Veniva richiesto l’inserimento dei seguenti dati: Nome e Cognome, Codice Fiscale, e-mail personale e e-mail PEC. Dopo aver inserito questi dati ho cliccato sul pallino relativo alla normativa sulla privacy e poi sulla casella “avanti”. La nuova schermata mi ha annuciato che mi sarebbe stato inviato un codice password sulla mail che avevo indicato come personale.
Dopo 10 minuti, non essendo arrivata alcuna mail, sono tornato indietro nella schermata del portale ANAC per accorgermi che anch’io, come il RUP, avevo sbagliato a digitare il mio indirizzo e-mail, omettendo inavvertitamente una lettera. Ho provato a correggere, aggiungendo la lettera mancante e ad andare avanti, ma in alto appariva una scritta in rosso “Error. Esiste già una persona che corrisponde a questi dati”. Panico, anche perché ho scoperto che il call center dell’ANAC funziona solo tra le 8.00 e le 18.00.
La mattina successiva (giovedì 25 febbraio), alle ore 8.00, ho chiamato il call center, e dopo una breve attesa sono riuscito a parlare con Paola che mi ha detto che lei non poteva fare nulla. Il sistema è progettato in modo tale che l’operatore del call center non può intervenire, ma che dopo un massimo di 72 ore, se la registrazione non viene completata con l’inserimento del codice password, il sistema cancella automaticamente i dati inseriti e, quindi a quel punto avrei potuto fare un nuovo tentativo di registrazione. Le ho fatto presente che avevo bisogno di ottenere un PassOE per poter partecipare ad una gara entro le ore 20.00 di martedì 2 marzo e allora lei mi ha detto che c’era la possibilità di attivare una procedura di sollecito per una urgenza.
L’operatrice mi ha spiegato che sul portale ANAC in alto a destra dovevo cliccare su “comunica con noi” e poi cercare il link che consente di inoltrare un sollecito. Mi ha avvertito che dovevo riempire tutti i campi, compreso uno dove dovevo spiegare il motivo per cui chiedevo il sollecito, e allegare in pdf una dichiarazione firmata (non necessariamente digitalmente) e la copia di un documento d’identità. Una volta inviato tutto questo materiale, il portale mi avrebbe indicato il numero identificativo del sollecito e inviato una mail al mio indirizzo personale contenente anch’essa il numero identificativo. Ho fatto il più velocemente possibile tutta l’operazione, indicando la necessità di modificare l’indirizzo e-mail personale nel format di registrazione in modo da poter recuperare una password per attivare la registrazione. La mail dell’ANAC mi ha avvisato che “Provvederemo al più presto a prendere in carico la richiesta” e che “Per ogni ulteriore informazione è possibile contattare il Contact Center al numero verde 800-896936, dal lunedì al venerdì, dalle ore 8.00 alle ore 18.00.”
Dopo un po’ di ore ho provato a ridigitare i miei dati nel form di registrazione del portale ANAC, mettendo l’indirizzo e-mail personale corretto, ma mi ha ridato “Error. Esiste già una persona che corrisponde a questi dati”. Ho richiamato il call center e dopo aver spiegato la situazione, Daniela mi ha detto di avere pazienza, l’unica cosa che poteva fare era un sollecito del sollecito, utilizzando il codice identificativo inviatomi dal portale ANAC. Ha fatto il sollecito del sollecito, ma il resto della giornata è passato senza che la situazioni fosse mutata.
Il giorno successivo (venerdì 26 febbraio), la mattina presto ho riprovato a registrarmi, ma la situazione era sempre la stessa. In ogni caso prima delle 8.00 e, quindi prima di poter chiamare il call center, ho fatto un ulteriore sollecito attraverso il “comunica con noi” del portale ANAC, inserendo il numero identificativo che mi era stato inviato il giorno precedente per e-mail e allegando la dichiarazione e la copia del documento d’identità. Mi è stato dato e inviato un nuovo numero identificativo. Ho parlato con Daniele e mi ha detto che rusultavano i due solleciti, ma che dovevo aspettare.
Firma digitale
A questo punto, ho cercato e trovato il lettore e la smartcard per la firma digitale che non usavo da anni, ma dopo poco scopro che la smartcard è scaduta e, quindi, non è valida per la firma dei documenti in pdf. Una smartcard o una chiavetta USB per la firma digitale ha una validità di soli 3 anni. E’ rinnovabile prima della scadenza, ma se scade occorre farne una nuova.
Ero sull’orlo di una crisi di nervi perché mi ero ricordato di aver acquistato la smartcard alla Camera di Commercio, che da quando é iniziata la pandemia da CoVid-19 riceve solo su appuntamento. Ho deciso di inviare una e-mail PEC per chiedere un appuntamento d’urgenza allo sportello della Camera di Commercio dedicato alla firma digitale.
Poi, ho telefonato al commercialista che mi ha detto che era possibile acquistare una chiavetta USB anche nei negozi Buffetti o di altri venditori di forniture per uffici. Ho telefonato al Buffetti più vicino. Aveva la chiavetta USB e mi ha detto che l’attivazione sarebbe avvenuta entro le 24 ore dall’acquisto. Mi sono precipitato al negozio, ho riempito tutti i moduli necessari, ho esibito documento d’identità e tesserino sanitario (che vengono fotocopiati). Ho pagato 102 euro, ma sono tornato a casa sollevato.
Dopo 10 minuti è arrivata sul cellulare la chiamata di un operatore dello sportello per la firma digitale della Camera di Commercio. Mi ha detto di aver risposto alla mia e-mail PEC e che sarei potuto andare lunedì mattina a ritirare una nuova smartcard o chiavetta USB. Piacevolmente meravigliato, l’ho ringraziato e gli ho detto di aver risolto da Buffetti. Lui era dispiaciuto per la mia mancanza di fiducia e mi ha spiegato che la Camera di Commercio vende le chiavette USB a 70 euro.
In compenso, dopo due ore è arrivata una e-mail da Buffetti per avvisarmi che la chiavetta USB era stata attivata. Ho installato la chiavetta sul computer e firmato digitalmente tutti i documenti richiesti per l’offerta. Li ho caricati sul portale, inclusa una dichiarazione relativa all’iscrizione della società alla Camera di Commercio richiesta nel facsimile dell’offerta economica (l’ho inserita nello spazio dedicato ai curriculi del personale, l’unico che consentiva di caricare file extra). Mi mancava solo il PassOE.
Liberato dagli operatori del call center
Siamo arrivati a sabato 27 febbraio. Ho provato sul portale ANAC, ma niente. Ho deciso di scrivere una e-mail PEC all’ANAC, in cui ho rispiegato la situazione e ho minacciato anche di andare a fare una denuncia ai carabinieri. Ho allegato anche i file in pdf che avevo allegato al sollecito fatto attraverso il portale. La PEC non ha vuto mai alcuna risposta e lunedì 1 marzo un operatore del call center mi ha detto che l’ANAC non risponde né alle e-mail normali né a quelle PEC. Ho deciso anche di fare un nuovo sollecito attraverso il portale ANAC e ho ottenuto un terzo numero identificativo via-email.
Domenica non ho provato a fare nulla per non deprimermi ulteriormente, ma sono tornato alla carica lunedì 1 marzo. Dopo aver riprovato invano, ho chiamato il call center alle 8.03 e Andrea mi ha detto che tutti i miei solleciti erano visibili e che il problema era stato risolto, la mail era stata corretta. Soprattutto, mi ha detto di stare tranquillo perché nel caso della mia gara la mancanza del PassOE non sarebbe stata motivo valido di esclusione. In sostanza, il PassOE era un documento inutile. Comunque, insieme abbiamo seguito la procedura di recupero password e dopo pochi secondi il portale mi ha inviato una mail con la password da inserire. A questo punto, mi ha guidato per completare la registrazione, ma al momento della validazione dei dati il portale non accettava la mia e-mail personale (la considerava errata) e non consentiva di andare avanti. Andrea mi ha consigliato di inviare una e-mail al support center dell’ANAC per sollecitare un intervento di urgenza per poter modificare nel mio profilo l’indirizzo della e-mail personale (per fortuna ne ho tre) e poi richiamare il call center dopo 10 minuti.
Con Liviana ho provato a completare la validazione dei dati per attivare la registrazione. Dalla schermata risultava mutata la e-mail personale, ma questa volta il sistema si bloccava sulla e-mail PEC. Liviana mi ha fatto rientrare nel portale ANAC con un profilo anonimo e ho provato a reinserire l’indirizzo della e-mail PEC, ma non c’è stato nulla da fare. La validazione veniva bloccata. Allora, mi ha consigliato di scrivere un’altra e-mail al support center con allegata una dichiarazione firmata digitalmente e la copia di un documento di identità e poi richiamare il call center subito dopo.
Con Antonio sono riuscito finalmente a completare la registrazione. Il sistema ha generato un atto notorio in pdf di 4 pagine contente i miei dati personali e una serie di dichiarazioni. L’ho scaricato sul download del computer, ma cliccando in basso sull’identificativo del file, il file che si apriva recava una scritta in inglese che avvertiva che c’era un problema. Antonio mi ha detto di non preoccuparmi e di recuperare il file in pdf scaricato nel downlaod perché quello sicuramente lo avrei potuto aprire e leggere. Mi ha confessato che il portale dell’ANAC entra in conflitto con Google Chrome, ossia con il browser internet più utilizzato al mondo.
A questo punto, per completare la procedura di registrazione del mio profilo non restava che inviare al support center dell’ANAC l’atto notorio firmato digitalmente, insieme ad una visura camerale della società, chiedendo di attivare una procedura di urgenza, in considerazione della scadenza della gara e dei problemi tecnici incontrati da quasi una settimana per effettuare la registrazione. Normalmente, infatti, per certificare l’atto notorio e la visura camerale, l’ANAC ha bisogno di due giorni lavorativi.
Ho inviato la richiesta con i due documenti e alle 16.40 ho richiamato il call center. Stefania ha controllato e mi ha annunciato che la registrazione era stata attivata. A questo punto, insieme a lei ho seguito tutta la procedura per ottenere il PassOE che il portale dell’ANAC ha finalmente generato alle 16.50. L’ho firmato digitalmente e caricato sul portale dell’ente capofila potendo finalmente inviare l’offerta.
Il giorno dopo ho ricevuto una telefonata e una e-mail PEC dal RUP che mi ha comunicato l’aggiudicazione “provvisoria” della gara, ma che comunque mancava la documentazione relativa al DURC (il Documento Unico di Regolarità Contributiva). Gli ho chiesto dove avrei mai potuto caricarla, visto che non c’era uno spazio dedicato e che in ogni caso avrei potuto inviargli una autodichiarazione ai sensi degli art. 46 e 47 del DPR 28 dicembre 2000, n. 445, firmata digitalmente, e attestante che la SRL “così come previsto dal proprio statuto societario, per le particolari competenze necessarie per realizzare i progetti di ricerca, opera conferendo di volta in volta incarichi professionali a consulenti esterni/professionisti dotati di propria partita IVA, ognuno dei quali quindi dotato di propria autonoma copertura previdenziale ed assicurativa.”
La pubblica amministrazione ai tempi dei social media
Ora proviamo collocare l’esperienza appena descritta nel contesto che l’ha generata per capirne le ragioni e le evoluzioni possibili.
L’Italia, tra i primi 10 Paesi industriali, crolla al 53º posto se si valuta l’efficacia del suo sistema amministrativo. In Italia la burocrazia non è mai stata al servizio del cittadino e l’inefficienza della Pubblica Amministrazione paralizza il Paese. La politica ha mantenuto un controllo ferreo sugli apparati pubblici che ha impedito la formazione di una burocrazia e un corpo professionale di funzionari scelti in base a competenza (che costituisce l’applicazione della regola di buona organizzazione e della divisione del lavoro finalizzata all’efficenza) e motivazione, e sottoposti solo alla legge.
L’assenza di un ceto di amministratori, autonomi dalle contingenze economiche mediate dalla politica, ha prodotto un sistema in larga parte autoreferenziale rispetto ai cittadini, indifferente alle competenze e che coniuga la nomina in base alla preferenza politica con la progressione di carriera secondo l’anzianità e con anche la proliferazione di personale precario in molti settori dell’impiego pubblico. Alla fine, il problema non è non più tanto la politicizzazione della burocrazia, quanto la burocratizzazione della politica rimasta imprigionata nella “gabbia d’acciaio” di cui parlava Max Weber.
L’orizzonte elettorale dei politici è troppo limitato temporalmente, perciò l’identificazione di un problema può essere fatta da un politico, ma la decisione, valutazione e messa in opera, cioè tutta la fase dell’implementazione, sfugge al politico ed è tutta in mano agli apparati amministrativi. Il risultato è che Stato, Regioni e Comuni non sono in grado di amministrare correttamente la “cosa pubblica” e di investire, non perché (o quanto meno non solo) manchino le risorse, ma perché mancano le competenze tecnico-gestionali e le capacità progettuali e perché sono perennemente immerse in contenziosi burocratici dovuti alla sovrapposizione delle competenze. Ogni ufficio è una isola con responsabilità frammentate che cura un singolo aspetto di un procedimento sulla base degli atti formali che possiede, non ha alcuna responsabilità che l’intero processo possa essere fatto bene o male. Alcune procedure sembrano scritte più per difendere il funzionario che il cittadino. Un sistema di funzionamento che, malgrado le riforme, nessuno ha mai modificato.
Si governa sempre più per decreto, ma la pubblica amministrazione non sa trasformare i disegni politici in conseguenti decisioni legislative e in conseguenti atti amministrativi. Il corpo burocratico-amministrativo, in prevalenza composto da laureati in legge e giuristi, a cominciare dai suoi “mandarini” (capi di gabinetto, direttori generali, ragionieri generali dello Stato, magistrati della Corte dei Conti), è diventato un insieme sociale a sé stante, con una logica di pura sopravvivenza o di progressivo consolidamento di sé stesso, in larga parte incapace di svolgere in modo adeguato le funzioni di applicazione e implementazione delle decisioni politiche.
Un corpo immerso in una cultura giuridica che ha portato all’esasperazione della norma e il diritto fine a se stesso, dove il cavillo e la forma diventano la sostanza, e anche la tradizione dei rapporti tra PA, cittadini e imprese è imbevuto di questa cultura. Di fondo, c’è una mancanza di fiducia tra gli attori del sistema, e allora la PA si rapporta nei confronti dei cittadini come se fossero dei sudditi o quasi come se dovesse controllare tutto ciò che fanno. Il cittadino viene “dopo” le norme, le procedure, le consuetudini, le prassi amministrative. Il cittadino diventa una “pratica”, diventa un numero identificativo, fa parte di una lista di prenotazione. Il sistema regolamentare di moltissime amministrazioni non parte dalla premessa della centralità della persona e del cittadino.
PA agente attivo della dialettica sociale?
Non può essere ignorato il fatto che la Costituzione italiana, pur occupandosi in diversi articoli di democrazia e di istituzioni democratiche, e di pubblica amministrazione, non mette mai in relazione diretta le due entità. La democrazia è una nota essenziale dell’ordinamento (art. 1), che si esprime in alcuni istituti (come il voto popolare, art. 48) e istituzioni (il parlamento, i consigli regionali etc., artt. 55 ss.,122): ma non viene riferita mai alla pubblica amministrazione, i caratteri della quale (buon andamento e imparzialità, art. 97) sono teoricamente predicabili anche della amministrazione di uno Stato non democratico.
Ciò nonostante, da parte dei cittadini c’è una forte domanda di adeguamento della macchina amministrativa e burocratica della pubblica amministrazione che sia funzionale al passaggio da uno Stato che da Stato-soggetto autoreferenziale diventi sempre più uno Stato-funzione “capacitatore”, esercitando la funzione di promuovere l’empowerment dei cittadini, di metterli assieme, di concertare e definire insieme delle politiche e degli interventi, valorizzando passioni e competenze della cittadinanza attiva. Un modello che utilizza l’approccio della “capacitazione” (capability approach) pensato dal premio Nobel Anartya Sen (2000) e da Martha Nussbaum (2019). Il ruolo della Pubblica Amministrazione digitale dovrebbe rafforzare questo compito di “capacitazione”, ma la centralità del cittadino digitale è garantita solo a condizione che la burocrazia digitale sia “veramente” e “nativamente” digitale: una amministrazione semplificata, trasparente, che opera in rete, e che non ci siano condizioni di “divario digitale”.
Senza la sponda attiva delle istituzioni, la dialettica sociale si inceppa: potere politico e società non comunicano, ma coltivano le proprie autoreferenzialità, si delegittimano reciprocamente avvitandosi in una spirale di accuse mediatiche sempre più rancorose. Senza la sponda attiva dei corpi intermedi non esistono più istanze collettive, ma solo rivendicazioni individuali che si traducono in un attacco perenne a tutto quello che non viene fatto. Inevitabilmente, il livello del dibattito pubblico si abbassa, perché lo scontro si polarizza, i toni diventano più accesi e le argomentazioni più scadenti.
Il governo Conte aveva sostenuto che l’intenzione dell’Italia era di lavorare “su tre linee strategiche: modernizzazione del Paese, transizione ecologica, inclusione sociale, territoriale e di genere. Stiamo lavorando per avere una pubblica amministrazione più efficiente, digitalizzata. Dobbiamo assicurare che le tecnologie digitali già esistenti per la vita di tutti i giorni possano incrementare la produttività”. Il governo Draghi ha mantenuto tali impegni come priorità della sua azione, ma deve fare i conti con il fatto che solo un quarto delle famiglie italiane, contro il 60% della media europea, viene raggiunto dalla rete fissa a banda larga ultraveloce.
Il rapporto con la pubblica amministrazione (PA) anzi con le pubbliche amministrazioni (PPAA), come con qualsiasi organizzazione, è a due vie, in entrata ed in uscita. Ogni flusso materiale o finanziario è regolato dall’informazione, dall’invenzione della scrittura e dei sistemi di calcolo ed ancor prima.
Il 28 febbraio come stabilito dal Decreto Legge “semplificazione e innovazione digitale”, era la data entro la quale le PPAA dovevano: integrare nei propri sistemi informativi SPID/Sistema Pubblico di Identità Digitale e CIE/carta d’Identità Elettronica come unico sistema di identificazione per l’accesso ai servizi digitali; integrare la piattaforma pagoPA nei sistemi di incasso per la riscossione delle proprie entrate; avviare i progetti di trasformazione digitale necessari per rendere disponibili i propri servizi sull’App IO. Dovevano, nel senso che non tutte le amministrazioni sono arrivate preparate alla scadenza2
“Al momento della realizzazione di questo contributo, le amministrazioni che consentono l’accesso ai servizi online anche attraverso SPID sono poco meno di 6.300, su una platea complessiva di oltre 20.000 enti pubblici (…) Più alto il dato relativo alle amministrazioni attive su PagoPA, poco più di 18.000, corrispondenti a quasi circa l’80% degli enti in perimetro. Anche qui, però, occorre considerare che gli enti “attivi”, ovvero le PA che hanno riscosso pagamenti su pagoPA per almeno un servizio, sono poco meno di 8.800.” Soltanto 42 enti l’hanno adottato la CIE come chiave di accesso.
Più avanti si dice: “L’utente dovrebbe sottoporre l’istanza o la dichiarazione e tutto procede fino alla conclusione senza bisogno di interagire n volte per il richiedente o addirittura non sapere l’andamento della pratica. Tra l’altro il CAD prevede anche che il cittadino possa seguire l’andamento delle proprie istanze”. Il CAD citato è il Codice per l’Amministrazione Digitale3, che è un testo unico che riunisce e organizza le norme riguardanti l’informatizzazione della Pubblica Amministrazione nei rapporti con i cittadini e le imprese. L’ideale enunciato dal CAD ovvero la tracciabilità delle procedure avviate dai cittadini, è condizione necessaria per assicurare la trasparenza nei rapporti tra cittadini ed amministrazione, e garantire la piena assunzione di responsabilità.
La tracciabilità, come ogni prerequisito di funzionamento di una organizzazione, è innanzitutto un problema di persone ed organizzazione. La condivisione e l’elaborazione dell’informazione tramite la rete ed i dispositivi digitali modifica le forme stesse dell’organizzazione.
Ciò è accaduto più volte dalla prima informatizzazione. Le tecnologie evolvono e le innovazioni sono continue, ciò impone di definire i principi fondanti l’attività dell’amministrazione che ne informano l’agire e devono essere rispettati.
Assieme alla tecnologia evolve anche la società la definizione dei diritti, dei bisogni delle rivendicazioni e delle richieste di partecipazione dei cittadini stessi. I dispositivi digitali nella loro evoluzione possono aderire al mutare delle esigenze organizzative, ne possono favorire il cambiamento richiesto, tuttavia le soluzioni adottate in concreto possono facilitare tanto quanto intralciare il funzionamento dell’organizzazione.
Da questo punto di vista, il pensiero “digitale” deve influenzare il miglioramento dei servizi pubblici (e l’eliminazione dei processi e delle norme inutili) e non limitarsi ad automatizzare i processi esistenti. La trasformazione digitale dovrebbe essere la reinvenzione del modo in cui i servizi pubblici sono concepiti, disegnati, implementati e gestiti. La tecnologia è tipicamente un abilitatore al cambiamento, ma “essere digitali” è solo in parte il prodotto di attività tecnologiche. Spesso funzionari e dirigenti della PA confondono l’implementazione della strategia digitale con la semplice applicazione di tecnologie digitali di vecchi processi. Spesso la trasformazione digitale della PA è, infatti, confusa con la pubblicazione di manuali, moduli, circolari, dati in formato pdf e la produzione di siti, portali e app, che sono spesso pagati troppo, non sono funzionali (e molte volte non funzionanti e comunque non user friendly), sono poco utilizzati e che vengono fatti perché “ci sono i fondi da spendere, altrimenti li perdiamo”.
La tracciabilità di una procedura attivata da un cittadino, non coinvolge solo l’interfaccia con cui il cittadino dialoga, ma si fonda sulla tracciabilità del processo che concretamente la gestisce che a sua volta deve essere univocamente rappresentabile, in tutte le sue fasi.
Privatizzazioni e digitalizzazione
Negli ultimi 30 anni assieme allo sviluppo esponenziale delle tecnologie è mutato profondamente il quadro in cui opera la PA, come sono mutati i suoi compiti. La corsa verso le privatizzazioni dei servizi a livello centrale e periferico ha contribuito a disarticolarne l’organizzazione con effetti conseguenti e dirompenti sulla digitalizzazione, riducendo ai minimi termini la capacità di programmazione.
L’eterogeneità dei sistemi informatici scelti dai diversi enti, la loro scarsa interoperabilità ne sono una conseguenza. La pretesa di arrivare al 28 febbraio 2021 all’adozione degli standard SPID, CIE e Pago PA non era evidentemente fondata, nonostante i diversi governi che sino succeduti abbiano rilanciato piani di digitalizzazione. Quasi nessuno dei progetti pilota che avrebbero dovuto fare da drivers della trasformazione digitale della PA ha avuto successo, a cominciare, appunto, dalla vicenda dello SPID, ossia del tentativo, che è alla base di ogni architettura di modernizzazione della PA, di dare un’identità digitale ad ogni cittadino e alla scarsa diffusione – almeno per ora – del fascicolo sanitario digitale, che oltre ad essere una semplificazione, può salvare delle vite umane. Le diverse amministrazioni non sono in grado di incrociare i dati di diversi database in loro possesso. Ad esempio, non esiste oggi la possibilità di incrociare le banche dati anagrafiche per la patente di guida e per la carta d’identità, il che significa che il cittadino in possesso di una carta di identità deve fornire tutti i propri dati all’amministrazione per fare la domanda per la patente. Lo stesso vale per il passaporto, per il certificato di laurea richiesto dagli enti previdenziali per la domanda di pensione ecc. In sostanza, ancora oggi non è applicato il DPR n. 445 del 2000 (cosiddetta legge Bassanini) che vietava alle pubbliche amministrazioni di chiedere al cittadino informazioni che fossero già in loro possesso.
Erano le premesse che erano in contraddizione con l’obiettivo. Privatizzazione, precarizzazione del lavoro, riduzione del campo d’azione della PA, riduzione dei fondi a sua disposizione sono state in piena contraddizione con l’adozione di un indirizzo strategico nella riorganizzazione della PA e della sua digitalizzazione.
Il servizio pubblico è stato “spoliticizzato” – abolendo gli spazi di partecipazione dei cittadini alla sua gestione e programmazione -, con una burocrazia che – secondo i programmi della “new public management theory” – deve simulare il settore privato come se agisse sul mercato, con criteri di valutazione dell’efficienza che incorporano il principio di competizione e che comportano la standardizzazione dei processi produttivi, la diffusione di una logica di incentivi e disincentivi centrata su obiettivi aziendalistici di efficienza produttiva (massimizzazione di output, dati gli input), nonché la creazione di “lavoro flessibile” nell’occupazione del settore pubblico. Inoltre, molti dei servizi pubblici sono stati esternalizzati, dati in outsourcing e appaltati attraverso dei contratti di servizio ad imprese private, cooperative ed operatori del settore no profit. Lo status di cittadino è stato depoliticizzato e ridotto a quello di cliente/consumatore, al quale erogare servizi sempre più standardizzati e far compilare questionari di gradimento per misurare la customer satisfaction in nome di una supposta democrazia dei consumatori come alternativa alla democrazia dei cittadini.
La sanità è stata vittima dell’aziendalizzazione e della regionalizzazione – introdotta con la (contro)riforma Amato-De Lorenzo nel 1992 -, le cui conseguenze abbiamo imparato a conoscere da un anno con lo sviluppo della pandemia da CoVid-19. Ricordiamo che con il decreto legislativo 502/92 è stato imposto che i livelli di assistenza dovessero essere subordinati alle disponibilità finanziarie: lo Stato doveva stabilire le prestazioni che si poteva permettere, mentre le Regioni, se volevano garantire di più, dovevano trovare fondi propri (ad esempio, le mutue e assicurazioni private). Dei sistemi sanitari regionali abbiamo conosciuto la diversità non solo nelle prestazioni sanitarie, ma anche nella comunicazione delle informazioni.
A partire dalla fine degli ’80, le forze politico-culturali socialdemocratiche e della sinistra riformista e progressista hanno rinunciato a qualsiasi progetto di trasformazione radicale del sistema sociale ed economico. Utilizzando la bandiera del “riformismo” e spostando la loro attenzione dal cittadino al consumatore, hanno accettato l’idea che non ci fossero alternative, che la via indicata dall’ortodossia neo e ordoliberista fosse in fondo la via da seguire, quella cioè del mercato, della politica dell’offerta (la supply-side economics), dell’alleggerimento dello Stato, della flessibilizzazione del mercato del lavoro, dell’arretramento sui canoni di protezione sociale.
Queste correnti politico-culturali hanno ritenuto che la via della liberalizzazione dell’economia fosse l’unica capace di rendere dinamico il sistema economico-produttivo e hanno incorporato nella loro ideologia e pratica politica l’idea del governo come incapace di rispondere alle richieste individuali. Hanno sostenuto che la capacità dell’individuo/consumatore di plasmare la propria vita o quella della società contemporanea era molto meglio soddisfatta dalle forze di mercato che dai servizi e dalle protezioni offerte dalle istituzioni statali.
Oggi, con la crisi sociale ed economica pesantemente aggravata da oltre un anno di pandemia, ci stiamo rendendo conto che la trasformazione della PA è condizione dello sviluppo della democrazia nel nostro paese. E’ parte della sua costituzione materiale. È condizione dell’affermarsi della “cittadinanza digitale” che a sua volta è una componente fondamentale dei diritti di cittadinanza nelle società a capitalismo avanzato.
Dati aperti e conoscenza bene comune
Sino ad ora abbiamo approcciato il rapporto tra il singolo soggetto e la PA mediato dall’interfaccia digitale, di cui la testimonianza raccontata in apertura è un esempio al tempo drammatico e surreale, in base a questo approccio abbiamo delineato le principali contraddizioni della macchina amministrativa.
C’è un altro aspetto che deve essere considerato ed è il diritto dei cittadini ad accedere alle informazioni che le istituzioni producono in tutto l’arco delle proprie attività e dei servizi gestiti. È il tema dei cosiddetti Open Data e dell’Open Government. L’accesso ai dati prodotti dalla PA è regolato dal cosiddetto FOIA-Freedom of Information Act4.
“L’accesso civico generalizzato, istituito dalla normativa FOIA, differisce dalle altre due principali tipologie di accesso già previste dalla legislazione. A differenza del diritto di accesso procedimentale o documentale (regolato dalla legge n. 241/1990), garantisce al cittadino la possibilità di richiedere dati e documenti alle pubbliche amministrazioni, senza dover dimostrare di possedere un interesse qualificato. A differenza del diritto di accesso civico “semplice” (regolato dal d. lgs. n. 33/2013), che consente di accedere esclusivamente alle informazioni che rientrano negli obblighi di pubblicazione previsti dalla legge (in particolare, dal decreto legislativo n. 33 del 2013), l’accesso civico generalizzato si estende a tutti i dati e i documenti in possesso delle pubbliche amministrazioni, all’unica condizione che siano tutelati gli interessi pubblici e privati espressamente indicati dalla legge.”
La Circolare n. 1 del 2019 Attuazione delle norme sull’accesso civico generalizzato (c.d. FOIA)5 dà una idea di come principi apparentemente semplici si complicano in fase di attuazione ed in funzione della cultura prevalente nelle amministrazioni. Soprattutto, come abbiamo già sottolineato, i processi organizzativi con la loro implementazione digitale, devono essere predisposti a fornire le informazioni richieste. Questa situazione ha dato origine ovviamente ad una serie di contenziosi davanti ai tribunali amministrativi. Per questi motivi manca ancora una misurazione del risultato delle policies, delle politiche pubbliche. La PA non dispone di basi di dati empirici per valutare gli effetti delle decisioni. In altre parole, è pressoché impossibile effettuare un’analisi dei costi e dei benefici, una valutazione di lungo periodo.
Il reale sviluppo della democrazia, l’affermazione della libera circolazione dell’informazione, della condivisione della conoscenza come bene comune richiede non un atteggiamento passivo da parte della PA, vale a dire “se tu mi chiedi, io ti dico”, ma proattivo, cioè la messa a disposizione dei dati prodotti – il cosiddetto “open by default”, la pubblicazione di data-set, per intenderci tabelle, accompagnati da metadati, il contenuto di ogni colonna – che ne definiscano il contenuto ed in un formato che ne renda immediatamente possibile l’elaborazione.6 Per capirsi, pubblicare una tabella in un documento PDF, ne rende impossibile l’utilizzo7. Una condizione necessaria per un loro reale utilizzo è che siano “ricercabili”.
L’articolo citato di Forum PA fornisce una visione ampia ed ottimistica sull’uso dei dati aperti, ma si evince quale sia il potenziale insito nella loro piena applicazione, tuttavia nessuna tecnologia o metodologia è neutrale ed è diversamente applicata in diversi modelli di società. Non solo un eccesso di informatizzazione sovrapposto allo stato attuale dell’organizzazione della PA, l’implementazione digitale delle procedure vigenti produce più danni che benefici, come ci raccontano Tito Boeri e Roberto Perotti nel loro articolo “Vaccini anti-Covid, la catena degli errori“ su La Repubblica di lunedì 8 marzo.
Cosa possa implicare il libero accesso alla conoscenza si può ben capire dalla vicenda dei vaccini contro il virus Sars-Cov-2. Le case farmaceutiche globali li hanno prodotti con ingenti finanziamenti pubblici e la disponibilità è limitata dai vincoli posti dai brevetti. Contro questo stato di cose nasce la richiesta della liberazione dei vaccini dai brevetti: siamo di fronte solo all’ultimo benché più drammaticamente rilevante esempio della lunga battaglia per l’Open Access, per il libero accesso alla conoscenza.
I brevetti e i contratti relativi alle forniture dei vaccini sono un esempio di occultamento quasi paradossale di informazioni essenziali. Di ciò ci siamo resi conto quando l’europarlamentare Manon Aubry ha mostrato il testo dei contratti siglati dalla Commissione Europea con le case farmaceutiche nel quale erano censurati tutti i passaggi che ne definivano il contenuto.
Le tecnologie non sono neutrali
Le tecnologie non sono neutrali, dato che il governo delle reti digitali, dei media sociali, della produzione e trasmissione della conoscenza ne definisce la valenza.
Il regime cinese ha adottato dal 2014 un controverso registro nazionale del “credito sociale” (collegato con il riconoscimento facciale in tempo reale e la raccolta dei dati personali) volto a migliorare il comportamento “affidabile” dei cittadini attraverso sanzioni e premi, che nel 2018 ha bloccato 23 milioni di viaggiatori “screditati” dall’acquisto di biglietti aerei o di treni ad alta velocità (altre sanzioni includono una connessione ad Internet più lenta o l’interdizione dal credito bancario, dall’acquisto di assicurazioni, immobili o prodotti di investimento), ma anche milioni di casi di blocchi delle carriere professionali, di non assunzione nella pubblica amministrazione e di interdizione (temporanea) dai corsi universitari e dai viaggi all’estero. I reati di “credito sociale” vanno dal non pagare imposte individuali o multe o debiti, al diffondere informazioni false, cercare di evitare il servizio militare, violare le regole del traffico, assumere droghe e non fare la raccolta differenziata dell’immondizia, ma anche dall’uso di biglietti scaduti al fumo su un treno o al portare a passeggio un cane senza guinzaglio. Punti si possono guadagnare facendo volontariato, donando il sangue, segnalando prodotti contraffatti o attraendo investimenti. Ad un certo punto, utilizzando le tecnologie informatiche e i big data, ogni cittadino cinese avrà un punteggio personalizzato e le autorità cinesi avranno creato uno Stato orwelliano di sorveglianza e controllo di massa, un “totalitarismo postmoderno“, che saprà tutto su suoi cittadini – dove viaggiano, cosa fanno, chi conoscono, cosa stanno dicendo e a chi lo dicono. L’obiettivo finale è fare in modo che le persone interiorizzino le esigenze dello Stato e le mettano in pratica attraverso l’autocensura, l’autosorveglianza e l’autosupervisione.
Per evitare questo futuro distopico dobbiamo tornare allora alla necessità di alimentare il conflitto sull’uso ed il governo delle tecnologie come pratica ineludibile per la trasformazione della società, condizione necessaria per ogni forma di conflitto sociale.
Una condizione di base, il livello zero, è la diffusione di quella che viene chiamata “information literacy” che non è semplicemente l’alfabetizzazione informatica, ma è la comprensione del valore delle informazioni che utilizziamo e produciamo, la capacità di costruire basi di conoscenza -personali e condivise – sempre più complesse.
Il panorama dei social media ci mostra la mancanza di questa educazione di base, quando vediamo l’incapacità, la noncuranza nel valutare le fonti di una informazione, nel costruire deduzione, mettere in relazione fatti e piani di realtà diversi, di salire dal particolare al generale e viceversa; mettere in relazione la propria esperienza diretta con quella mediata digitalmente, quasi in tempo reale.
La PA come media sociale e ‘social media’
Le osservazioni fatte sino ad ora ci mostrano il valore che la pubblica amministrazione può avere nella educazione dei cittadini, nella costruzione di pratiche fondanti la condivisione e la libera circolazione delle conoscenze.
È indubitabile, è esperienza comune il fatto che la PA sembra volersi difendere dall’ingresso dei cittadini nel suo funzionamento, occultandone il più possibile i meccanismi le informazioni più rilevanti o comunque rendendone difficile l’acquisizione e l’interpretazione. La PA deve produrre beni immateriali e servizi di maggior valore come salute, strade, istruzione e giustizia, ma se c’è totale autoreferenzialità, la logica prevalente è quella funzionale all’autoconservazione. Ovvero un modello organizzativo chiuso, concentrato sui mezzi per ottenere il fine dell’autoconservazione, refrattario ai cambiamenti della società.
Questo nonostante vi siano una molteplicità di norme che ne decretano l’apertura. L’art. 8 del Codice dell’amministrazione digitale, ad esempio, ha stabilito che lo Stato, le Regioni, gli Enti locali, le Scuole, le Università, i gestori di esercizi pubblici, etc. “…promuovono iniziative volte a favorire la diffusione della cultura digitale tra i cittadini, con particolare riguardo ai minori e alle categorie a rischio di esclusione, anche al fine di favorire lo sviluppo di competenze di informatica giuridica e l’utilizzo dei servizi digitali delle pubbliche amministrazioni…”.
La pubblica amministrazione può essere un media sociale innovativo capace di alimentare la partecipazione dei cittadini e la collaborazione tra le istituzioni. Partecipazione e collaborazione fondate sulla condivisione della conoscenza. Dove la conoscenza è un bene comune si costruisce in quanto bene pubblico.
In tutta evidenza questa pratica non può che confliggere con la logica della privatizzazione di ogni servizio di interesse generale. Quindi, sottopone a critica tutto quanto è stato realizzato negli ultimi 30 anni.
Pensare alla PA come media sociale, richiede di ridefinirne le pratiche ed i confini, mettere in relazione procedure più rigide e ambiti aperti, gradi diversi di formalizzazione, promuovere e regolare la partecipazione. L’innovazione che si produce allora non è semplicemente dettata da chi ha il monopolio della produzione tecnologica, ma è il prodotto di una dialettica tra pratiche partecipative e conflittuali e strategie di governo della società. La partecipazione verrebbe ad avere non più un ruolo ancillare e secondario, ma costituirebbe -necessariamente anche nelle sue forme conflittuali- un motore, il secondo corno, della trasformazione e del governo della società. Il concetto di stabilità degli ordinamenti e dei rapporti sociali su cui lavorare è quello di un sistema complesso, di un organismo vivo, non quello strettamente gerarchico e meccanico che pretende non solo di regolare, ma di fissare la forma di ogni attività.
Il caso australiano, in cui abbiamo visto come la chiusura di Facebook alle news ed in generale ad informazioni di pubblica utilità abbia prodotto la paralisi, l’interruzione anche di catene comunicative istituzionali e sociali, indica la necessità di ribaltare il paradigma dominante. Ciò non può avvenire attraverso la progettualità degli apparati burocratici, magari con la collaborazione di consulenti alla Mckinsey. Al contrario, ridefinendo i confini della PA, le linee di trasmissione e condivisione dell’informazione, i protocolli di validazione, ci si può accingere all’impresa, costruendo nuove forme di collaborazione con quanto la società produce. Come la scuola e la sanità, per fare gli esempi più ovvi, costruire l’infrastruttura pubblica digitale per la partecipazione istituzionale e la collaborazione sociale dovrebbe diventare un obbligo costituzionale.
Ciò richiede necessariamente un grande investimento economico e tecnologico. Ricordiamo come alla base della crescita delle società del Big Tech, le cinque GAFAM, ci sia lo sviluppo della tecnologia del Cloud Computing, sui cui servizi Amazon, per dirne una, fa una parte decisamente importante dei propri profitti. Una tecnologia che coniugata con lo sviluppo adeguato della rete, permette di coniugare il massimo di centralizzazione delle risorse e di distribuzione delle funzioni.
Una utopia concreta si aggiunge all’orizzonte delle nostre lotte. Non stiamo proponendo l’estinzione dello Stato per via tecnologica, ma una sua più modesta, ma radicale trasformazione.
- http://www.base.gov.pt/deucp/filter?lang=it[↩]
- https://www.forumpa.it/pa-digitale/switch-off-digitale-la-pa-e-ancora-in-ritardo-ma-unaccelerazione-e-possibile-ecco-perche/ [↩]
- https://www.agid.gov.it/it/agenzia/strategia-quadro-normativo/codice-amministrazione-digitale [↩]
- http://www.funzionepubblica.gov.it/foia-7 [↩]
- http://www.funzionepubblica.gov.it/articolo/dipartimento/02-07-2019/circolare-n-12019-attuazione-delle-norme-sull%E2%80%99accesso-civico [↩]
- https://www.forumpa.it/pa-digitale/open-data-cosa-sono-come-sfruttarli-e-stato-dellarte-in-italia/ [↩]
- salvo l’uso di programmi ad hoc i cosiddetti scraper, come tabula: https://tabula.technology/ [↩]