La parola territorio ricorre sempre in qualsiasi capitolo della storia del nostro paese, dal processo di unificazione, alla dicotomia nord-sud, al modello di sviluppo dal triangolo industriale del dopoguerra, alla creazione dei distretti industriali, che allungano le proprie filiere produttive e commerciali nella globalizzazione. La televisione ha diffuso la lingua italiana, assieme alla scolarizzazione di massa che alfabetizzava le nuove generazioni, in una nazione dove i dialetti si diversificavano da un versante all’altro di una valle e gli idiomi regionali hanno la dignità di una lingua.
A livello territoriale si mappano le dinamiche di contaminazione delle matrici ambientali, attorno agli insediamenti produttivi e nei luoghi di sversamento dei rifiuti pericolosi, l’altra faccia di un capitalismo che così riesce a comprimere i propri costi, riducendo gli investimenti, mentre comprime i salari ed espande il lavoro precario; in quegli stessi territori si radicano le lotte in difesa della salute e dell’ambiente – da cui nasce una critica complessiva al modello di sviluppo – e crescono le lotte nelle filiere della logistica, che mappano lo sviluppo diseguale del paese.
L’utopia dell’industrializzazione diffusa
L’utopia di un modello di industrializzazione fondato sulla produzione diffusa – che pure nella sua capacità di mobilitazione, di messa al lavoro delle relazioni sociali, della capacità di cooperazione, nella sua concreta rappresentazione del cosiddetto ‘capitale sociale’ è stata studiata in tutto il mondo, come modello capace di portare allo sviluppo di aree arretrate – ha rivelato tutti i suoi limiti: non poteva essere il solo motore della trasformazione capitalistica, della crescita della formazione sociale italiana nella globalizzazione dei mercati, delle filiere produttive e della finanza, nel processo di concentrazione e di crescita dimensionale delle imprese. Una selezione darwiniana si è imposta nei distretti industriali, mentre il paese piombava in una stagnazione pluridecennale, nella gabbia d’acciaio dei trattati europei, col vincolo di una moneta forte.
Eppure la società italiana mantiene tutta la sua complessità che si compone della peculiarità dei singoli territori, della loro specifica composizione tecnica, sociale culturale, ambientale e paesaggistica. Un insieme di fattori che costituiscono le risorse per un possibile sviluppo, in questo senso un ‘capitale sociale’, la cui messa a lavoro ha costituito una componente del modello di sviluppo italiano, che mantiene o forse trasforma una sorta di spirito comunitario, che è diventato anche un modo di rappresentarsi, parte del marketing politico e territoriale.
Aldo Bonomi afferma: ”Essere territorialisti, per dirla alla Magnaghi (2010), e non sovranisti e localisti rancorosi, significa pensare il territorio nelle lunghe derive e porsi, nel pensarlo, il come costruire una rete di esperienze di senso da intelletto collettivo sociale. Che non può che partire da ciò che resta della comunità, della voglia di comunità di territorio nell’epoca della simultaneità dei luoghi rispetto ai flussi e viceversa. (…) non tutte le comunità sono buone in sé, appaiono le comunità del rancore con l’abitare il luogo come rinserramento, ma per fortuna la voglia di comunità produce comunità di cura e l’interrogarsi sulla crisi dello sviluppo induce comunità operose. Per ritrovare tracce del farsi intelletto collettivo sociale dalle comunità di cura e dalle comunità operose che pensano il territorio, occorre partire.”1
L’intervento del Next generation EU ripropone tutte le domande sui limiti ormai storici modello di sviluppo del nostro paese, sulla possibilità di una sua trasformazione radicale, a fronte di una sua indubbia necessità, sulla sua articolazione non solo settoriale, ma anche per macro aree, metropoli, città e territori.
Quale ruolo per i territori possibile in questa trasformazione?
Ancora Aldo Bonomi, spogliato della sua retorica della territorialità, del suo linguaggio ricco di metafore, nel titolo dell’intervista su L’Espresso “Un capitale chiamato territorio” sottotitolato “Città e distretti possono essere i veri motori della ripresa. Ma serve un nuovo umanesimo per rilanciarli: industriale, sociale e ambientale e la forza delle istituzioni” definisce le coordinate generali del problema.
Pubblica amministrazione – innovazione tecnologica – coesione sociale
Nelle due precedenti puntate della nostra analisi sulla trasformazione digitale della pubblica amministrazione2 abbiamo visto la distanza dell’attuale organizzazione della PA dall’essere un motore dello sviluppo e delle prospettive che si aprono con un salto di qualità della sua digitalizzazione.
L’ondata di privatizzazioni che ha investito il nostro paese – secondo i canoni che hanno guidato la costruzione dell’unione monetaria e dell’unione politica dell’Europa – ha ridotto drasticamente la portata dell’intervento pubblico e ha bloccato la riorganizzazione della PA, in termini di risorse disponibili e personale: essa non è evidentemente dipende fortemente dal ruolo strategico che le viene assegnato, come accade per ogni organizzazione – non solo dalle risorse a sua disposizione. Privatizzazioni e catastrofe della PA, per dirla in sintesi, sono due facce della stessa medaglia, il risultato di un processo iniziato nell’ultima decade del secolo scorso. Il taglio della spesa pubblica e le privatizzazioni hanno ridotto ai minimi termini una PA la cui struttura – di una stratificazione che si è depositata nella straordinaria evoluzione del paese nella seconda metà del secolo scorso, dall’espansione delle funzioni di stato sociale – aveva bisogno di una riorganizzazione profonda.
In questi ultimi 30 anni di trasformazione radicale dei rapporti sociali di produzione sotto la spinta dell’innovazione tecnologica e della globalizzazione finanziaria, sono cresciute le diseguaglianze a livello tanto sociali che territoriali, l’intervento pubblico, l’azione dell’amministrazione pubblica, era ed è più che necessario per invertire quello che si è rivelato essere il ‘prodotto naturale’ di questa ristrutturazione globale. Non c’ è stata solo la riduzione progressiva delle risorse pubbliche e delle prestazioni erogate: come accade in ogni organizzazione che si impoverisce e perde il senso della propria missione, della propria visione strategica – si è disarticolato il coordinamento verticale e orizzontale tra le singole amministrazioni. La condizione delle amministrazioni locali ne è un indice significativo, non solo piccoli comuni di aree marginali, ma anche grandi metropoli come Napoli sono state più di una volta vicini al default. Più il territorio si impoverisce più crescono i bisogni che il pubblico dovrebbe soddisfare mentre diminuiscono le risorse a disposizione. I meccanismi redistributivi sono ben poca cosa, rispetto alle necessità.
Dalla modifica del Titolo Quinto della Costituzione3, al tentativo di cancellazione delle province, rimaste appese con poche prerogative come ente di secondo livello, sino alla proliferazione delle aree metropolitane – da Roma a Reggio Calabria – si sono succeduti interventi disparati che hanno contribuito alla frammentazione delle politiche nazionali e territoriali, non riconducibili ad un progetto generale.
Banche, imprese e territori
Nello stesso periodo si è venuto modificando anche il ruolo del sistema bancario, che in passato ha sostenuto la formazione dei distretti e si è diffuso sul territorio accompagnandone lo sviluppo; ricordiamo l’acquisizione da parte del Banco di San Paolo del Banco Lariano4 che portava in dote il rapporto con la rete delle piccole e medie imprese del comasco e del varesotto. Il processo di concentrazione del sistema bancario e la finanziarizzazione dell’economia hanno modificato profondamente il rapporto con le reti economiche territoriali, si è ridotta l’autonomia dei dirigenti locali nel definire le politiche del credito, si è ampliata l’offerta di prodotti finanziari alla clientela, come ne sia stata carpita la fiducia sono piene le cronache degli scorsi anni, che ci hanno raccontato anche le crisi di istituti che avevano fondato le loro fortune sullo sviluppo delle province più industrializzate5. Il sistema economico italiano non si è mai riavuto dalla crisi del debito sovrano 2010-20116, i diversi aspetti della crisi-stagnazione incidono sul rapporto tra le banche e le imprese7.
Comunità della cura, comunità operosa nella pandemia
Nella fascia pedemontana lombarda, le province di Bergamo e Brescia, celebrate per la loro vitalità produttiva, il nesso tra ‘comunità della cura’ e ‘comunità operosa’ non ha dato gran prova di sé nello scoppio della pandemia nella prima e seconda ondata, nonostante lo sviluppo in quei territori delle reti volontariato. La catastrofe sanitaria nella prima e seconda ondata, il fallimento nella campagna vaccinale gestita – si fa per dire – dall’agenzia ARIA dimostrano come non si possano isolare nell’analisi delle formazioni sociali singoli elementi, per quanto rilevanti, come la forza delle filiere produttive o la ricchezza delle reti di volontariato, per delinearne la traiettoria di sviluppo e la sua qualità complessiva. La distruzione della sanità pubblica, al servizio di preponderanti interessi privati, ha distrutto qualsiasi capacità di governo, di selezionare quadri dirigenti capaci e strutture organizzative efficienti; la catastrofe degli apparati pubblici si manifesta anche nel non funzionamento delle più elementari procedure informatiche. La regione che conta per un sesto della popolazione italiana e per circa un terzo del Pil nazionale, strutturata attorno alla celebrata ‘Città Infinita ’ che da Milano si prolunga nell’area pedemontana, con un bacino di attrazione che supera i confini regionali verso Novara a ovest e verso Piacenza a sud, ha prodotto il peggior esempio di organizzazione della sanità in termini assoluti ed in rapporto alle risorse disponibili.
Non siamo di fronte alla dicotomia nord-sud o allo spopolamento delle aree marginali, ma alla crisi radicale nel cuore tecnologico ed economico del paese. Non si può attribuirlo semplicemente al governo centrale della regione, non possiamo pensare ad una semplice autonomia del politico in salsa lombarda, siamo di fronte ad una disarticolazione delle classi dirigenti, alla incapacità di produrre un pensiero collettivo, un progetto partecipato di società, una trasmissione di saperi e conoscenze, in assenza di obiettivi condivisi. D’altra parte siamo solo nel cuore di una delle aree più inquinate d’Europa, dove lo stato di salute della popolazione dell’ambiente sono uno dei nodi del suo futuro sviluppo. Siamo altresì in una regione, in una area metropolitana dove l’innovazione tecnologica, sociale e culturale fiorisce, ma siamo ben lontani dal manifestarsi di un ‘intelletto collettivo sociale’ capace di orientarne la trasformazione, le sue manifestazioni hanno un carattere di nicchia, una struttura dispersa quasi un carattere puramente indiziario.
Nel 1999 esce un libretto, Tracce di Comunità, che raccoglie una serie di scritti di Arnaldo Bagnasco (il Mulino). I capitoli (I) Sociologia della comunità: persistenze e mutazioni, (III) Teoria del capitale sociale – scritti alla vigilia di dello sviluppo esponenziale della rete digitale globale, ma già nel pieno della stagnazione italiana, dopo la stagione delle grandi privatizzazioni, due anni prima della crisi delle Dot Com a cui seguirà la crescita esplosiva dei media digitali – costituiscono una buona sintesi delle problematiche relative al modello di sviluppo a base territoriale; da sottolineare la conclusione del terzo capitolo8.
Rispetto alle previsioni di Bagnasco, si ha l’impressione che si sia esaurito quel ‘capitale sociale’ che ha dato forma ad una prima fase di sviluppo territoriale: secondo il modello dei distretti, ma non solo. Forme nuove di cooperazione, di espressione di un intelletto sociale collettivo, di capitale sociale, non si sono espresse in modo adeguato a modificare la traiettoria della formazione sociale italiana. Il ruolo dello stato della pubblica amministrazione è manato, sarebbe stato e sarà assolutamente cruciale, ma come abbiamo visto negli ultimi 30 anni è stato drasticamente ridotto e la PA non ha né i sensori per percepire quelle realtà e quelli che esistono, non sono coordinato in termini integrazione delle informazioni acquisite, di progettazione strategica ed azione conseguente.
I discorsi sull’innovazione si sono succeduti come un mantra da un governo all’altro, senza assurgere alla dignità di una effettiva politica nazionale. D’altra parte non si tratta ‘semplicemente’ di mettere in rete poli di innovazione, cosa che peraltro non è mai riuscita, di fronte alla scarsità delle risorse, pubbliche e private, alla erraticità delle politiche, ma di intervenire sui caratteri complessivi della formazione sociale, causa ed effetto di decenni di stagnazione decenni; vale a dire le profonde diseguaglianze sociali e territoriali, la scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro, in un circolo vizioso tra la struttura delle attività economiche e la mancanza di servizi sociali. Alla base sta la posizione subalterna dell’apparato produttivo italiano nelle filiere, produttive globali. Pensiamo solo al settore del settore dell’automotive il passaggio alla mobilità elettrica impone una riconversione radicale di tutta la filiera entro cui si colloca la Motor Valley, con un cambiamento radicale nella componentistica, pensiamo alla creazione da parte della Volkswagen di sei mega siti di produzione delle batterie.
La situazione attuale delle disparità territoriali e regionali, è l’eredità di un processo di industrializzazione, e di un modello di sviluppo, in cui lo strumento principe delle politiche di riequilibrio territoriale la Cassa per il Mezzogiorno, che ha prodotto la costruzione delle ‘cattedrali nel deserto’, ma non solo, è mancata l’integrazione di strategie di intervento sociale, territoriale ed urbano con la promozione degli interventi industriali; il ruolo della rendita fondiaria, costruzione della rete dei servizi essenziali, le politiche agricole, le reti della ricerca, le forme di garanzia del reddito ( conosciamo il ruolo delle pensioni di invalidità come strumento clientelare di erogazione del reddito, per dirne una). Esiste una letteratura sterminata, sul rapporto nord-sud nel processo di industrializzazione, urbanizzazione e migrazione di massa da sud a nord, dalle campagne alle città. La riflessione ‘meridionalista’ è consegnata alla storia ed alla riflessione critica dell’oggi.
Abbiamo conosciuto dopo la ‘Cassa’ le ‘Missioni per lo sviluppo’ ed i ‘Patti territoriali per lo sviluppo’, così come una miriade di progetti di sviluppo locale legati ai finanziamenti europei; esiste una cultura dello sviluppo locale, dell’innovazione sociale, che si sostanzia in una serie di pratiche, che come continuiamo a ripetere non emerge come elemento trainante della trasformazione (termine che ci rendiamo conto si ripete anch’esso come un mantra). Ricordiamo l’attività progettuale della ‘Fondazione con il sud’9.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) dovrebbe definire quel passaggio che il nostro paese non ha mai fatto, nella sua alternanza di stagnazione e crisi, lavorando sulla complessità del paesaggio economico e sociale italiano, in testa stanno la transizione digitale e quella ecologica-energetica, che riassumono i termini del passaggio epocale che stiamo vivendo ed i nodi irrisolti del nostro paese.
La crisi da pandemia, impone interventi giganteschi da parte degli stati e delle banche centrali, l’Italia riceve la tranche di gran lunga più importante dei fonti del NG-EU. Senza entrare qui nel merito sulla composizione di questi finanziamenti ed il confronto con altre fonti di finanziamento sul mercato dei capitali, la domanda è come si ripercorre quella complessità, quali forme di partecipazione alla costruzione di un progetto in tempi brevi se non brevissimi, quale il sistema nervoso che potrà regolare gli interventi? Certo non potrà essere una pila di fogli elettronici strumento di controllo occhiuto da parte della burocrazia della commissione europea.
Decenni di interventi territoriali, esperienze, saperi e competenze sono stati di volta in volta dispersi, con la logica delle politiche di intervento temporanee, nei progetti costretti nei tempi dei finanziamenti.
Una rete di saperi, una capacità di intervento che solo in minima parte si riproduce e fa una vita di nicchia. Può rivitalizzarsi solo in un nesso tra conflitti sociali, vertenze e progetti territoriali.
È necessarie legare progettualità, lotte e vertenze di filiera, obiettivi sociali generali, legati al reddito ed all’erogazione dei servizi e dei beni fondamentali, dalla salute alla casa, dall’educazione/accesso alla conoscenza alla mobilità. Per tutto questo è necessaria la produzione, la mobilitazione di quel sapere sociale collettivo che nasce e si riproduce nella dimensione metropolitana e territoriale e costruisce le proprie reti nazionali, globali. Al di là di modelli più o meno precostituiti dell’organizzazione, la dimensione di un tale reticolo richiede una forte strutturazione, la costruzione di hub di produzione e scambio delle conoscenze: ricchezza e complessità sia dei nodi che della rete. Si parte dalla condizione umana e sociale svelata ed aggravata dalla pandemia, producendo conoscenza, lotta e solidarietà.
Allora sì che si possono costruire la comunità della e la comunità operosa, che vivono nel conflitto, nelle lotte vincenti e solidali che impongono cambiamenti istituzionali, vincono contrattualmente, normano condizioni lavorative. La dimensioni territoriale e metropolitana, quell’intreccio proprio della formazione sociale Italia sono un sistema di riferimento ineludibile, per imporre una transizione che si consolidi materialmente, nella difesa della salute, dell’ambiente, della soddisfazione dei bisogni fondamentali, in forme tanto generali quanto peculiari secondo condizioni, sociali e economiche, storiche e culturali.
La formazione sociale italiana, richiede il connubio tra una straordinaria mobilitazione sociale – un appello alla partecipazione rivolto alle soggettività di ogni tipo – e lo sviluppo di un dispositivo di produzione uso e condizione delle conoscenze. Se questo è vero a livello italiano, per tutte le peculiarità della situazione nazionale, è altrettanto rilevante per la situazione con la straordinaria varietà delle realtà territoriali, metropolitane e regionali e di questo dovremo ragionare, su questo reti di movimento – sociali, culturali e ambientali – e reti politiche si dovranno sperimentare.
Concludiamo con un ritorno al ruolo del pubblico, in particolare con la necessità della messa a disposizione delle conoscenze, dei dati e delle informazioni che la PA produce, assieme alla necessità della apertura totale, della disponibilità in tempo reale delle informazioni che definiscono i rischi per la salute pubblica e l’ambiente, ciò vale per il ‘ciclo di vita’ di ogni prodotto e servizio. Un buon esempio di messa a disposizione dei dati e delle informazioni è quello di Open Coesione 10 degli Open data delle strategie dell’Open Government rimandiamo al nostro articolo sulla PA digitale.
Infine di fronte all’accumulazione di informazione da parte dei media sociali, che competono e confliggono con prerogative che erano state degli stati, la concezione della struttura, della funzione degli obietti, dei confini della PA, vanno ridefiniti in particolare nel suo ruolo di animazione della società e non più solo di controllo e di erogazione normata di servizi, un ruolo nello stimolo nella produzione di media sociali alternativi, radicati nelle forme di relazione e cooperazione locali. Rimandiamo alla conclusione del già citato articolo sulla PA digitale11.
- Per un intelletto collettivo sociale. Piccole note per una teoria e una pratica dell’esodo. SCIENZE DEL TERRITORIO. ISSN 2284-242X. n. 6 le economie del territorio bene comune, pp. 26-31, DOI: 10.13128/Scienze_Territorio-24363. © 2018 Firenze University Press.[↩]
- https://transform-italia.it/quando-i-cittadini-incontrano-la-pubblica-amministrazione-digitale/.[↩]
- http://www.governo.it/it/costituzione-italiana/parte-seconda-ordinamento-della-repubblica/titolo-v-le-regionile-province-e-i.[↩]
- https://asisp.intesasanpaolo.com/intesa-web/heritage/blc/banco-lariano.[↩]
- https://www.altroconsumo.it/finanza/fiscale-e-legale/crack-finanziari/dossier/banche-fallite/i-default-delle-banche-venete-banca-etruria-e-le-altre.[↩]
- https://www.consob.it/en/web/investor-education/crisi-debito-sovrano-2010-2011.[↩]
- https://www.repubblica.it/economia/2017/07/15/news/cgia_prestiti_banche-170832616/.[↩]
- Le dimensioni portate alla luce dalla teoria del capitale sociale sono nella sostanza importanti La capacità auto-organizzative della società saranno un tema politico e analitico cruciale in futuro. Per questo le possibilità del capitale sociale non vanno sprecate. Ciò significa anzitutto non sovraccaricarlo troppo di compiti (di nuovo pratici e analitici: il tema del capitale social “funziona” come parte di schemi analitici complessi e differenziati, non può essere adoperato per semplificare una società complessa e differenziata. Per quanto importante poi sia la cultura, anche come componente del capitale sociale, questa non può essere condotta ad una cultura armonica condivisa, fermando il tempo: i network di relazioni sono qualcosa di più mobile e complicato di una comunità. La società spontanea a piccola scala di oggi nella società razionalizzata e a grande scala di oggi non è comunque la comunità.[↩]
- https://www.fondazioneconilsud.it/.[↩]
- https://opencoesione.gov.it/it/. “OpenCoesione è l’iniziativa di open government sulle politiche di coesione in Italia. Sul portale sono navigabili dati su risorse programmate e spese, localizzazioni, ambiti tematici, soggetti programmatori e attuatori, tempi di realizzazione e pagamenti dei singoli progetti. Tutti possono così valutare come le risorse vengono utilizzate rispetto ai bisogni dei territori.”[↩]
- https://transform-italia.it/quando-i-cittadini-incontrano-la-pubblica-amministrazione-digitale/ “(…) ridefinendo i confini della PA, le linee di trasmissione e condivisione dell’informazione, i protocolli di validazione, ci si può accingere all’impresa, costruendo nuove forme di collaborazione con quanto la società produce. Come la scuola e la sanità, per fare gli esempi più ovvi, costruire l’infrastruttura pubblica digitale per la partecipazione istituzionale e la collaborazione sociale dovrebbe diventare un obbligo costituzionale.”[↩]