Vi proponiamo una intervista con Fabrizio Fassio, coautore con Giuseppe Nicolosi de I Visionari, l’ambigua utopia digitale a cui a suo tempo dedicammo una breve recensione. Ci proponiamo di rilanciare i temi di questa opera che si focalizza sull’innovazione come originale sviluppo della contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e sistema capitalistico.
G.S.: caro Fabrizio, le tue attività ripercorrono un intervallo di tempo che è stato decisivo per lo sviluppo dell’informatica che tu hai seguito da un osservatorio privilegiato. Inoltre hai pubblicato delle tue riflessioni sul questa fase epocale Ci puoi riassumere il tuo percorso?
F.F.: Nel 1970 dopo un viaggio di ricerca antropologica lungo un anno in America Latina sono stato selezionato in IBM. Per 25 anni lavoro sia in ambito nazionale che internazionale per il gigante dell’ informatica che al tempo aveva più del 75% del mercato mondiale dell’hardware e del software. Dopo il primo anno partecipo alla costruzione di un consiglio di fabbrica e vengo eletto. Mi rovino la “carriera” ! Ma adeguo il conflitto con il lavoro sulle metodologie di progettazione dei sistemi informativi. Le applico a decine di pubbliche amministrazioni, banche, assicurazioni e industrie. Poi passo nel dipartimento internazionale dedicato a progetti per Sud Europa, Africa e Medio Oriente. Esco dall’IBM con assegnazione ad un piccolo, ma potente “salotto buono” da cui propongo ed avvio progetti per la Commissione Europea. Vinco alcune gare e coordino progetti su Tecnologie per il turismo, beni culturali e ambiente. Infine fondo una società che produce e gestisce una ventina di progetti della Commissione Ue ognuno della durata da uno a cinque anni. Non abbandono l’interesse e il lavoro sulla ricerca antropologica sul campo.
G.S.: Se non sbaglio condividi con molti la valutazione che le trasformazioni avvenute non siano state frutto di un processo di evoluzione naturale e che abbiano visto al centro dell’iniziativa dell’industria informatica le forme di organizzazione del lavoro interne.
F.F.: Fin dalle prime contrattazioni sindacali il mio centro di interesse era l’organizzazione del lavoro. Forse è stata la mia frequentazione di gruppi tribali ad influenzarmi. Capire che prima dell’organizzazione di produzione c’è l’organizzazione sociale e che le gerarchie sono il DNA sociale. Ad esempio nelle tribù amazzoniche non vi è quasi relazione gerarchica tra padri e figli. I figli fino all’iniziazione sono un gruppo coeso ed unico che si muove e agisce con grande autonomia. Le relazioni che sottointendono una gerarchia sono solo quelle operative di emergenza. La vita quotidiana slega dai rapporti di potere e rimangono solo quelli funzionali all’intera tribù. Tornando all’informatica ero interessato e coinvolto nello studio dell’evoluzione degli skill e della cooperazione tra programmatori e sistemisti. L’ambizione era di migrare da semplici programmatori alla costruzione di architetture complesse della informazione e comunicazione. La conoscenza e l’applicazione di metodologie più efficaci a capire i flussi comunicativi nelle organizzazioni pubbliche, private ed industriali. Vedevo uno scenario di progressione sul potere dei dati infatti divenni “data architect”. Il problema chiave era scoprire che qualità hanno le relazioni tra dati, come rilevarle nelle organizzazioni umane concrete.
G.S.: Ritieni che al di là del modello organizzativo della grande industria informatica vi sia stata una diffusione sociale di un nuovo rapporto con l’attività lavorativa? Personalmente ricordo che un elemento di grande frustrazione nella formazione di base consisteva nel fatto che alle aumentate competenze dei lavoratori non corrispondeva alcuna modifica del mansionario, anzi, in qualche caso il processo di formazione si risolveva in uno schiacciamento del lavoratore su compiti meramente esecutivi.
F.F.: La potenza sovranazionale dell’IBM era attenta alle ricerche mondiali più avanzate di psicologia relazionale applicata alle organizzazioni in fasi storiche segnate dall’incertezza. L’IBM per i suoi fini di profitto e per rinforzare la fedeltà corporativa dei dipendenti reinventò la sua struttura organizzativa e inventariò tutte le mansioni che riconosceva con le relative attività in un librone di “job description”. In pochi anni aveva schiacciato la gerarchia da una struttura piramidale e tayloristica riducendola a pochi livelli; quattro/cinque per nazione. Controllava meglio, riduceva passaparola e carte, responsabilizzava i bassi livelli e li aggregava a quelli intermedi. Costituiva gruppi di 3-7 persone a supporto completo dei clienti di media dimensione. Al contrario vediamo come drammaticamente stabile rimane la presenza di organizzazioni iperverticali nelle nostre strutture istituzionali: Comuni, Province e Regioni ma anche in quelle cooperativistiche e in quelle delle stesse associazioni ambientali e sociali. Vige una regola seguita passivamente; costituire organizzazioni verticali lasciando le mansioni, presunte basse, alla subalternità e allo sfruttamento. Questo non è più sopportabile e sostenibile in epoca di conoscenza distribuita. Vorremmo proposte e soluzioni avanzate specie adesso in tempi di New Generation EU. Magari anche copiando ciò che facevano 30 anni fa nelle California Valleys. Nel mio programma politico ideale chiederei 4 livelli gerarchici in ogni struttura pubblica.
G.S.: Quali furono le spinte che determinarono questo salto organizzativo?
F.F.: Rispondo puntualmente e rimando a dei testi
- Necessità di maggiore coinvolgimento dei dipendenti. La disciplina era un fattore oramai obsoleto e perdente. Meglio stimolare l’autoresponsabilità 2) Maggiore efficienza produttiva 3) Maggiori profitti. 4) Selezione ed autoesclusione di chi non ce la faceva a raggiungere gli standard elevati di efficienza.
- Aver studiato ed adattato alla propria organizzazione gli studi dei sociologi del lavoro, degli economisti e degli psicologi comportamentali tra i quali:
Lawrence & J. Lorsch: Contingency Theory (1967),
J.D Thompson: Organizations In Action -1967,
Herbert A. Simon: “Progettazione di organizzazioni per un mondo ricco di informazioni”, (1971),
Alfred Dupont Chandler: The Visible Hand: The Managerial Revolution in American Business – 1977,
G.S.: Dunque un processo che si avvia prima della robotizzazione dell’industria…
FF: Si, dici correttamente. L’informatica di processo che precedette la robotizzazione era una branca sociotecnica separata da quella applicata nei servizi. Doveva solo replicare dei processi industriali fregandosi degli operai, anzi sostituendoli. Sembrava necessario passare dalle organizzazioni funzionali alla rivoluzione industriale digitale e da questa ad un post industriale. Già dalla fine degli anni 60 i sistemi informativi erano concentrati sul funzionamento dei servizi della pubblica amministrazione centrale. Parimenti si avvertiva il bisogno di riconfigurare le strutture aziendali sulla base dello scambio informativo e comunicativo con un nuovo target di utenti/consumatori. Roba distante dalla percezione pubblica dei processi industriali avanzati che hanno proseguito a specializzarsi su nuovi modelli di business. La distrazione politica è stata grave ed ha inibito uno sviluppo sia dei servizi pubblici che il decollo di un talento industriale che era emerso in particolare, ma non isolato, dall’esperienza Olivetti.
G.S.: Perciò un processo che ci può far considerare il dispiegarsi dell’innovazione quando ancora perdurano i conflitti contro il lavoro salariato… qualcosa che non nasce direttamente dal conflitto operaio degli anni 60 e 70 quanto dalla rigidità e incomprimibilità del salario nei suoi termini più generali, se così posso dire il conflitto intrinseco capitale/lavoro piuttosto che la risoluzione di una fase di lotte…
FF: Le lotte degli anni 70 erano giustissime per controbilanciare la grande crescita produttiva ed i margini di profitto. La carenza di comprensione della vecchia classe dirigente e l’irruenta incazzatura di una minoranza studentesca e operaia avevano messo in scacco l’intera impalcatura ideologica del capitalismo di quei tempi evidenziandone il pavloviano ricorso alla disciplina repressiva e contemporaneamente dimostrando la fragilità del suo potere. Senza l’obbedienza dei sudditi il capitale si sentiva come un re nudo. La risposta padronale si fece attendere un decennio. Una riconfigurazione tardiva e scarsamente efficace nelle organizzazioni pubbliche, che chiamammo riforme, applicata verso la metà degli anni 80. In seguito, in Italia, non c’è stata più evoluzione significativa. Le organizzazioni si sono stabilizzate, le gerarchie riprodotte e moltiplicate. Sono inefficienti e strutturalmente incoerenti rispetto alla loro stessa mission. La riproduzione della struttura avviene come per talea botanica. La selezione delle nuove leve privilegia skill individuali con poca o nessuna creatività artistica o scientifica così da somigliare specularmente alla vecchia struttura. I nuovi selezionati sono spesso scelti secondo regole che privilegiano solo la conoscenza di una moltitudine di regole, esplicite o spesso implicite, norme e articoli di legge tralasciando in particolare le capacità scientifiche. Piacciono invece i “tecnici” ovvero tutti coloro che posti ai bassi livelli gerarchici devono soddisfare le infinite incompetenze degli “umanisti” che comandano…..
G.S.: In quale relazione si trova l’innovazione rispetto all’ideologia neoliberista?)
FF: L’ innovazione si plasma sulle organizzazioni e le ingessa sui principi di inefficienza e potere che interessano la massima dirigenza. Se questa operazione è liberista allora sarà neoliberista l’adattamento della tecnologia. Ma qui c’è la contraddizione. Se la tecnologia significa anche razionalità elevata per risolvere problemi collettivi allora come hanno storicamente applicato le tecnologie le strutture istituzionali e industriali ? Male, spesso malissimo privilegiando i piccoli poteri di una gerarchia irrazionale. In ogni caso negli ultimi 40 anni pochi sono i sistemi informativi che rispettano chiarezza, trasparenza, utilità e qualità. Anche la consapevolezza dei manager politici, industriali e sociali sembra scarsa e spesso inadeguata alle esigenze democratiche e popolari.
G.S.: Nel libro “I visionari” che hai scritto a quattro mani con Giuseppe Nicolosi, parlate di una consapevolezza ciclica dell’innovazione…
FF: Questo è un elemento importante per capire come un processo che va dalla “scoperta scientifica”, sempre molto, forse troppo, evidenziata, alla sua applicazione reale ci sia un gap da investigare. Infatti si chiama “frozen zone”. Applicare l’innovazione necessita di visione, investimenti di risorse e un nuovo pool di scienziati e tecnici di diverse discipline. Ancora più significativo e determinante è la terza fase del processo ciclico: l’impatto sociale atteso. Come queste applicazioni possano essere utilizzate da una massa significativa di persone. Il ciclo spesso non si chiude con il successo e poche persone vogliono o sono in grado di utilizzare il nuovo servizio innovativo. E’ proprio il caso attuale del recovery and resilience facility plan. Nel piano, se vogliamo ottenere periodicamente i finanziamenti, abbiamo il dovere di completare l’ intero ciclo realizzativo. E l’effetto finale da ottenere sul corpo sociale deve essere fissato nelle proposte. Quindi prevedibile, misurabile ed esplicito. Nelle bozze di piano e nella discussione presente questo mi sembra ignorato o genericamente auspicato. Avremo l’accesso ai fondi pluriennali se solo se vi sarà questo un concreto e misurabile effetto sociale, ambientale ed economico come risultante degli progetti presentati. La consapevolezza dell’innovazione è incentrata sia sulla semplificazione e chiarezza dei processi avviati, ma soprattutto sulla maturità e critica sociale del momento. Se la volontà e la conoscenza collettiva saprà rispondere agli stimoli dei progetti avviati producendo feed back dettagliati si potranno rifinire e reingenierizzare le applicazioni che sono state elaborate dalla scienza e dalla tecnologia portandole ad un significativo grado di usabilità . Un ciclo in più per dare corpo ad una compiuta azione strategica di rilancio sociale ed economico. Nel libro parliamo di credere nel possibile ed i riferimenti teorici di questi possibili successi li dobbiamo attribuire a: K. Marx, S. Papert, D. Norman, P. Levy ed tanti altri che ci hanno preceduto.
G.S.: Spesso ci si focalizza sull’informatica che è sicuramente indispensabile agli sviluppi scientifici e tecnologici, dall’astrofisica alle nano-tecologie, dalla genetica all’antropologia applicata (se mi passi il termine)… Qual’è dunque il significato più completo di “innovazione”?
F.F.: Innovazione tecnologica ci sarà e sarà elemento positivo per l’evoluzione umana solo se sarà guidata da nuove forme di organizzazione sociale. Ad organizzazione sociale invariante i processi innovativi tecnologici non avranno presa. Anzi saranno distruttivi forzando cambiamenti comportamentali verso le peggiori derive individuali e sociali.
G.S.: Prima di invitarti a essere con noi per una nuova puntata che mi piacerebbe dedicare all’innovazione dell’Amministrazione Pubblica, vorrei chiudere invitandoti a riprendere con noi la tesi finale –o l’augurio- dei “I visionari” e cioè “il futuro non è scritto”. E ti chiederei dov’è la penna?
F.F.: Grazie volentieri. Problema enorme è capire che alcune innovazioni porranno problemi complessi. Questi avranno impatti che costituiranno i grandi, nuovi problemi umani da risolvere. Se capisco bene la penna è il soggetto che potrà avviare una nuova fase e proporre i cambiamenti necessari. La risposta è equivoca e incerta. Sostituire la classe dirigente non è facile in una fase senza coesione sociale. Ma direi che capire le avanguardie culturali antagoniste e autogestite sia in Italia che nel mondo sia un buco della serratura dal quale osservare il cambiamento. E spingere per una ristrutturazione organizzativa ad iniziare dalle forme sociali più vicine a noi. La vera innovazione possibile sarebbe quella sociale oppure sarà una mutazione indipendente dalla nostra volontà.