Non è usuale che i diplomatici, usi alla riservatezza, lancino pubblici messaggi alla politica. Ciò nonostante, nel caso dell’appello sulla guerra in Ucraina, un folto gruppo di diplomatici in pensione, come a suo tempo Sant’Agostino, “non ha potuto tacere”. La politica italiana, l’opinione pubblica e il governo dovrebbero ben soppesare quest’appello, perché viene da persone che percepiscono bene i gangli della geopolitica, e conoscono quest’ultima non sulla base di analisi accademiche e circostanziali, ma per averla vissuta con i piedi sul terreno e lungo le evoluzioni di anni. Molti dei firmatari, come del resto chi scrive, hanno vissuto da diverse posizioni professionali gli sviluppi euro-atlantici che, comunque la si pensi, hanno fatto da incubazione negli scorsi decenni a ciò che succede ora in Ucraina. Si tratta di una realtà vissuta a partire dagli anni Novanta, e descritta già da qualche mese in termini obiettivi da ambo i lati dell’Atlantico (su questo, vedasi l’articolo Ucraina. Le guerre si potrebbero sempre evitare, anche se non sempre succede e quello in esso richiamato di Robert Hunter, in quegli anni Rappresentante Permanente degli Stati Uniti presso il Consiglio Atlantico e ora libero pubblicista).
Che cosa chiedono i diplomatici? Innanzitutto, un cessate il fuoco e il contemporaneo avvio di negoziati. È questo che si deve fare se davvero si vuol mettere fine alla guerra, con buona pace di coloro che vorrebbero aspettare oppure che operano per conseguire una “chiara definizione sul terreno” o qualcosa del genere; cioè qualcosa di indefinito che si verificherebbe chissà quando, chissà come e chissà con quali ulteriori devastazioni e rischi escalatori. Se così si dovesse fare, del resto, a che cosa servirebbe la diplomazia? Semplicemente a certificare lo status quo ottenuto con la forza delle armi? La diplomazia, se le potenze e gli stati vogliono utilizzarla, può fare molto di più, affrontando le questioni di fondo delle controversie e delle contrapposizioni internazionali. A dimostrazione di ciò, infatti, l’appello, chiede da un lato il simmetrico ritiro delle truppe e delle sanzioni, la definizione di una neutralità dell’Ucraina garantita e tutelata dalle Nazioni Unite e lo svolgimento di referendum gestiti da autorità internazionali nei territori contesi; ma dall’altro, invoca la convocazione di una conferenza sulla sicurezza in Europa che recuperi lo spirito che animò con grande successo la Conferenza di Helsinki per la Pace e la Cooperazione in Europa e che vide protagonisti soprattutto i Paesi europei.
Si tratta sostanzialmente dei punti proposti qualche tempo fa dall’iniziativa governativa italiana, mal gestita nei modi e nella tempistica, ma troppo presto affossata, malgrado l’equilibrio dell’approccio, come a suo tempo illustrato in Il piano di pace italiano per l’Ucraina; lo stesso equilibrio che ha ispirato l’appello dei diplomatici italiani. Ho in passato sostenuto in vari fori, come la proposta di una conferenza sulla sicurezza in Europa sia il vero nodo della questione. Per comprendere questo, dovremmo mettere da parte, almeno sul piano della riflessione, una serie di ovvietà sulle dinamiche puntuali di questa guerra, alcune fondate sul piano morale (aggredito-aggressore, democrazia-autocrazia, armi sì-armi no) ma viziate dall’evidente doppio standard con il quale giudichiamo noi stessi e gli altri; altre obiettivamente infondate (difesa della democrazia-rischio che la Russia attacchi i Paesi Baltici e la Polonia): la democrazia nei nostri Paesi non è in pericolo, e Putin non attaccherebbe mai un membro della Nato.
Attenzione, viene osservato talvolta: attaccherebbe Georgia e Moldavia! Ecco, una conferenza di pace servirebbe proprio a evitare questo, o azioni analoghe, come – è convinzione di chi scrive – una più saggia e meno autoreferenziale gestione della sicurezza europea da parte atlantica a partire da metà anni Novanta avrebbe molto probabilmente potuto prevenire questa guerra, oltre che altre crisi. In quegli anni, gli anni di Gorbacêv, la Russia chiese la creazione di una “casa comune europea”, cioè la formulazione di una nuova architettura condivisa e reciprocamente garantita per la stabilità e la sicurezza del continente. Un approccio del genere, ben costruito, reciprocamente accettato, supportato da strumenti già utilizzati in passato ed eventualmente migliorabili, avrebbe indotto anche la Russia a non tentare di modificare equilibri concordati nel mutuo rispetto e nel reciproco controllo. Riflessioni in corso alla NATO a metà anni Novanta furono bloccate dagli Stati Uniti, che preferirono puntare sugli allargamenti.
Nell’opinione dello scrivente, è proprio quello che la conferenza proposta dall’appello dei diplomatici dovrebbe fare ora, seppur con le mille sopravvenute difficoltà. La cosa, se vi sarà volontà da parte dei Paesi coinvolti, Stati Uniti in testa, non è velleitaria, né basata su un puro afflato spirituale o teorico. Naturalmente vi sarebbero da negoziare dettagli e posizioni condivise, nonché mostrarsi onesti, credibili e disposti a qualche costruttivo compromesso; ma l’offerta di rivedere in modo sensato e reciproco la situazione della sicurezza e stabilità in Europa, che è la vera esigenza della Russia, indurrebbe molto probabilmente quest’ultima a essere più flessibile sugli altri punti riguardanti l’Ucraina, la quale andrebbe naturalmente coinvolta in un disegno che ne assicuri l’indipendenza, seppur sul piano di una neutralità garantita internazionalmente. Putin potrebbe presentare la Conferenza ai propri referenti come una grande vittoria strategica che varrebbe bene l’allentamento delle pretese tattiche sull’Ucraina, e avere così una soddisfacente via d’uscita. Sarebbe forse questo un “cedimento all’invasore”? No. Sarebbe un’iniziativa di grande saggezza nel bene comune di tutti i Paesi europei, “da Lisbona a Vladivostok” come si diceva una volta, e anche nel bene degli Stati Uniti, se saranno disposti a condividere in modo più inclusivo le ragioni della sicurezza dei propri alleati e dell’intero continente europeo.
Alcuni, Zelensky in testa, trovano che non si dovrebbe negoziare con Putin. Eppure, finché è lui il Capo dello Stato della Russia, dovremo farlo (a meno che non si voglia perseguire più o meno surrettiziamente una sua caduta con conseguente “esportazione della democrazia” e correlati seguiti, come per esempio in Libia); la liberazione o meno da un regime compete del resto al popolo interessato, nel nome dell’autodeterminazione, principio evocato anche per l’Ucraina dall’appello che stiamo commentando. Dovremmo anche tener presente, pur senza concessioni troppo “pragmatiche”, le esigenze di sicurezza della Russia. La Russia non può e non deve essere ridotta a Putin, come l’Italia e la Germania non devono essere ridotte a Mussolini e a Hitler. La Russia è un grande Paese, una grande cultura e un grande popolo che merita rispetto e con il quale dovremo ancora avere a che fare, benché giustamente condanniamo le azioni dell’attuale regime dittatoriale e dispotico. Una conferenza di pace che guardi avanti, come quella suggerita, farebbe giustizia di ogni contrapposizione e aprirebbe la strada, nello spirito di Helsinki, come è stato precisato, alla stabilità e alla collaborazione in Europa, non solo promuovendo la pace, ma anche preparando un futuro più sereno.
Insomma, l’appello suggerisce una visione alta e strategica, che abbia prospettive più ampie e più lunghe delle circostanze in corso, le quali beneficerebbero anche direttamente da tale visione. Esso è rivolto, e non poteva essere altrimenti, al governo italiano “affinché si faccia promotore in sede europea di una forte iniziativa diplomatica mirante all’immediato cessate il fuoco e all’avvio di negoziati fra le parti”, augurandosi che all’auspicata iniziativa si uniscano Francia e Germania, ed eventualmente altri paesi e le stesse Istituzioni europee, per “influire… sulla strategia della NATO con una postura di fermezza, nell’ambito della solidarietà atlantica…”. Il messaggio mi sembra chiaro, e lo interpreto nel senso che le politiche dell’Alleanza dovrebbero tenere equamente conto degli interessi e della situazione di entrambi i lati dell’oceano che ci unisce, e che dobbiamo far sì che non abbia a dividerci.
Il percorso indicato dall’appello non è facile, ma ogni alternativa è inquietante, si tratti di escalation nucleare o di prosieguo indeterminato della guerra e delle sue conseguenze. Il conflitto è scoppiato ed è in corso, e se si vuole la pace bisogna negoziare, chiedendo il cessate il fuoco e offrendo allo stesso tempo la conferenza di pace, ora e subito, incoraggiando e alimentando qualche timido segnale che emerge, pur con incrociate cautele, in vista di Bali. Farsi promotori di quest’iniziativa darebbe credibilità e prestigio all’Italia, soprattutto in chiave prospettica e non limitata alle pur importanti contingenze attuali.
Mario Boffo