La posizione degli Stati Uniti nei confronti della WTO è quella in cui, avendo compreso di non poter più controllare l’organismo, hanno deciso di distruggerlo. La distruzione della principale organizzazione internazionale della globalizzazione dell’economia mondiale segna non solo il declino egemonico degli Stati Uniti nei confronti della Cina, ma è anche un sintomo delle contraddizioni, delle faglie e della crisi strutturale del capitalismo come sistema mondiale nel passaggio dal paradigma neoliberista globalista al nazionalismo economico e a uno scenario di “globalizzazione selettiva” che ripropone la frammentazione in blocchi geo-politici e geo-economici contrapposti.
Da diversi anni ormai l’economia globale è avvolta in una “policrisi” (il verificarsi simultaneo di più eventi catastrofici) che vede interconnessi una varietà di fenomeni, dalla pandemia di CoVid-19 alle guerre in Ucraina, in Israele-Palestina e altrove, dall’alta inflazione al rapido rialzo dei tassi di interesse che scatena la crisi del debito nel Sud del mondo, dal riscaldamento globale alla frammentazione dell’economia mondiale in blocchi geopolitici e geoeconomici contrapposti e in via di “disaccoppiamento” o in modalità “de-risking”, come sostengono Ursula von der Leyen e Jake Sullivan – un blocco euro-atlantico con i suoi satelliti in Asia orientale e Oceania e un blocco euro-asiatico a guida cinese in formazione1 – che esprimono diversi modelli di sviluppo capitalistico e di rapporti strutturali tra sistema tecnologico e finanziario e sistema sociale e politico, e sono in forte competizione tra loro per la supremazia economica (integrazione e controllo di risorse strategiche, supply chains e mercati), politico-militare (sfere di influenza) e culturale (egemonia ideologica e soft power).
Una policrisi che sta minando la fiducia nella globalizzazione, i tassi di crescita dell’economia globale, il ruolo egemonico del dollaro nel sistema monetario internazionale, e la credibilità, l’influenza, nonché il funzionamento efficiente ed efficace del sistema delle istituzioni multilaterali di Bretton Woods (Banca Mondiale – WB, Fondo Monetario Internazionale – FMI, e Organizzazione Mondiale del Commercio – WTO), creato per stabilizzare l’ordine mondiale post seconda guerra mondiale e sostenere i mercati liberi e il commercio aperto, caratterizzato da una governance che resta ancora fortemente a favore degli Stati Uniti e degli altri Paesi del Gruppo dei Sette (G7).
Niente illustra la crisi della globalizzazione economica neoliberista più dell’accumulo delle controversie irrisolte da parte della WTO, il custode multilaterale del commercio mondiale libero e basato su regole che almeno fino a 5 anni fa aveva portato alla libera circolazione dei capitali, al crollo delle barriere tariffarie e alla crescita del commercio internazionale di beni e servizi nell’economia globale2. Dal 2017 gli Stati Uniti – uno dei Paesi fondatori del sistema commerciale basato su delle regole – hanno bloccato la nomina di nuovi giudici in sostituzione di quelli andati in pensione nell’organo d’appello (Appellate Body) della WTO, l’organo giudicante dell’organizzazione che è la “Corte Suprema” del commercio mondiale la cui sentenza è come la “sentenza definitiva”. Per molti anni l’organo d’appello, che ha 7 giudici permanenti e per mantenerlo funzionante è necessario che almeno 3 siano in carica, è stato lodato come il fiore all’occhiello della WTO (seppure non esente da notevoli difetti). Senza giudici dal 30 novembre 2020, ha smesso di funzionare il 10 dicembre 2019 quando solo un giudice era rimasto in carica. Da allora ha smesso di emettere sentenze che debbono essere rispettate. Diverse decine di casi sono rimasti nel limbo, infliggendo un duro colpo al sistema di risoluzione delle controversie commerciali tra i Paesi3.
Strategie che riflettono un mondo molto diverso da quello ipotizzato dalle norme esistenti della WTO. Per cui per l’amministrazione statunitense l’unico buon organo d’appello della WTO è quello che non funziona perché garantisce che le azioni commerciali statunitensi (in particolare contro la Cina) non possano essere ostacolate da un gruppo di esperti commerciali che Washington ha accusato di attivismo giudiziario (“judicial overreach”) e di attentare alla sovranità degli Stati Uniti. Ritiene che le regole della WTO stiano limitando la sua “libertà” di perseguire le proprie politiche commerciali giustificate in base all’uso generalizzato del concetto di “sicurezza nazionale”4. Nonostante che i politici statunitensi parlino spesso di “rispetto delle regole”, boicottano la WTO perché produce e cerca di far rispettare regole che non sono più favorevoli agli Stati Uniti e che, secondo loro, avvantaggiano la Cina. Dalle parole d’ordine della globalizzazione e del “libero scambio” dei neoliberisti degli anni ’90 – per decenni esaltate dai governanti statunitensi come i beni più alti per tutta l’umanità, al punto da scatenare “guerre infinite” per imporli –, si sta tornando ai vecchi regimi dei blocchi politico-commerciali (seppure a “geometria variabile”, secondo il Segretario di Stato Anthony Blinken) seguiti dagli Stati Uniti e dai loro alleati durante la Guerra Fredda (sull’avanzare di una Nuova Guerra Fredda abbiamo parlato nei nostri articoli qui, qui, qui e qui). Pertanto, si applicano le politiche di “de-risking”: controlli e restrizioni sulle esportazioni, controlli e restrizioni sugli investimenti, cooperazione degli Stati Uniti con alleati e partner che la pensano allo stesso modo (G7 e iniziative bilaterali come l’Accordo sui minerali critici tra Stati Uniti e Giappone e il Consiglio per il commercio e la tecnologia tra USA e UE). “Lo scontro ideologico, la rivalità geopolitica e la politica dei blocchi non sono la nostra scelta, ma siamo contrari alle sanzioni economiche, alle coercizioni economiche, al disaccoppiamento e alle interruzioni delle catene di approvvigionamento”, ha affermato in proposito il presidente cinese Xi. Anche il “de-risking”, comunque, appare come un processo irto di potenziali conflitti, contraddizioni e resistenze dato che le economie degli Stati Uniti e dei loro alleati sono al momento strettamente intrecciate con quella cinese e l’intensificarsi di controlli, restrizioni e sanzioni commerciali rischia di causare gravi danni economici ad entrambe le parti. Inoltre, la cooperazione tra Washington, Bruxelles e Pechino è vitale per compiere progressi sulle minacce globali come il surriscaldamento climatico e la riduzione del debito per i Paesi più poveri.
Il globalismo economico neoliberale viene sostituito dal nazionalismo economico e dalla geopolitica5. Così, ad esempio, ad inizio 2022 Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada e Australia hanno stabilito una partnership globale per garantire l’accesso ai minerali critici. Lo strumento per ottenerli a basso prezzo è quello del Protocollo d’intesa sulle materie prime siglato con i Paesi produttori.
A seguito di questo nuovo corso della politica statunitense, la WTO vacilla sull’abisso dell’irrilevanza. Governi e imprese non si sentono più in alcun modo vincolati agli obblighi nei confronti della WTO quando si tratta di politiche commerciali ed industriali.
L’inversione a U degli Stati Uniti sulla globalizzazione: intrappolare l’elefante cinese nella stanza
Gli Stati Uniti sono stati la forza trainante dietro la creazione del sistema commerciale basato su regole garantito dalla WTO, ma adesso questo non è più il loro obiettivo ed interesse. L’amministrazione Biden, in continuità con quella Trump fautrice della “America first”, non crede che un’ulteriore liberalizzazione del commercio sia nell’interesse degli Stati Uniti, preferendo il nazionalismo economico. L’apertura del mercato statunitense alle importazioni da altri Paesi ha sconvolto le industrie nazionali ed ora è tempo di ripristinare politiche che proteggano imprese e lavoratori dalla concorrenza delle importazioni e dall’outsourcing. Il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, ha pronunciato il 26 aprile alla Brookings Institution un discorso economico con forti critiche alla WTO e ha messo in discussione le ipotesi di base sul ruolo dei mercati nell’economia globale. “In nome di un’efficienza di mercato eccessivamente semplificata, intere catene di approvvigionamento di beni strategici, insieme alle industrie e ai posti di lavoro che li producono, si sono spostate all’estero”, ha affermato Sullivan. “E il postulato secondo cui una profonda liberalizzazione del commercio avrebbe aiutato l’America a esportare beni – non posti di lavoro e capacità – era una promessa fatta, ma non mantenuta”, ha detto Sullivan.
Dall’8 marzo 2018 in avanti le amministrazioni statunitensi hanno perseguito in modo via via sempre più esplicito politiche di intervento statale di tipo protezionistico (tariffe e controlli all’import e all’export in settori ad alta tecnologia, ossia in tutti quelli potenzialmente “dual use” che possono avere un uso sia civile sia militare, controlli e divieti all’investimento, sussidi alle imprese, etc.), hanno inserito un numero sempre maggiore di società straniere (soprattutto cinesi) nella propria Entity List (la lista nera) per escluderle dal proprio mercato, hanno imposto la loro giurisdizione e sanzioni economiche unilaterali, con il sequestro di miliardi di dollari delle riserve valutarie6, e commerciali7. Senza dirlo o ammetterlo hanno violato e violano un sacco di regole commerciali nella loro torsione verso un nazionalismo economico che mira a rinnovare la propria base industriale (a cominciare dal military-industrial complex8) e a invertire un progressivo declino economico-politico nell’economia globale. Ora, l’ex presidente Trump si è impegnato a imporre una tariffa globale del 10% su tutte le importazioni estere se sarà eletto presidente nel 2024. Gli economisti avvertono che tale mossa e la certa reazione degli altri Paesi costerebbero caro ai consumatori americani ($ 300 miliardi all’anno) – riducendo il PIL della nazione dell’1,1% e minacciando più di 825.000 posti di lavoro.
Stati Uniti e UE sostengono che la leadership della Cina nei veicoli elettrici (60% del mercato mondiale), nei pannelli solari (70%) e in altre tecnologie a basse emissioni di carbonio è stata costruita in parte inondando i produttori locali di sussidi statali veicolati in gran parte attraverso l’ampio settore delle aziende controllate dallo Stato9. Sullivan ha indicato la Cina e la stretta relazione tra le istituzioni governative e commerciali della sua economia – la sua versione di successo di capitalismo di Stato (di “economia mista” pubblico-privata “sviluppista”) “con caratteristiche cinesi” – come motivo per cui gli Stati Uniti dovrebbero continuare a disimpegnarsi dalla WTO. “Non ci stiamo allontanando dalla WTO, ma la WTO ha bisogno di riforme fondamentali per tenere conto… della presenza di questa massiccia economia non di mercato che ha semplicemente una struttura diversa”, ha detto Sullivan. Auspica non un “protezionismo” generico, ma tanto mirato quanto rigido. È questo il senso dell’espressione “small yard, high fences” (“cortile piccolo, steccati alti”) con cui Sullivan ha definito la politica di controlli sulle esportazioni hitech che Washington sta imponendo e intende imporre alla Cina.
L’amministrazione Biden vede ogni interazione con la Cina come un gioco a somma zero e rimane imprigionata all’interno di una spirale competitiva di azione-reazione, sentendo il bisogno di misure sempre più severe per segnalare la propria disperazione e percezione della gravità della situazione, e scongiurare il declino degli Stati Uniti10. Solo dieci anni fa, questa visione era limitata a un ristretto numero di commentatori e analisti di destra (anche se l’amministrazione Obama aveva avviato già una torsione annunciando nel 2011 un “pivot” dal Medio Oriente all’Asia), ma, in uno dei dietrofront più drammatici della politica estera statunitense, ora è il modo dominante di vedere la relazione con la Cina11. Un’opposizione sempre più veemente alla Cina è forse l’unica cosa su cui democratici e repubblicani riescono ad essere d’accordo (nessuna delle due parti vuole essere vista come debole o tenera nei confronti della Cina), al punto che è ormai possibile parlare di un nuovo Washington Consensus (anche se a Washington non tutti si uniscono al coro protezionista). Nel dicembre scorso il Dipartimento di Stato ha lanciato la sua unità “China House”, pianificata da tempo, una riorganizzazione interna per aiutare ad espandere e affinare la sua politica nei confronti del suo principale rivale geopolitico, riunendo in un coordinamento tutti i funzionari ed esperti “in sicurezza internazionale, economia, tecnologia, diplomazia multilaterale e comunicazioni strategiche“.
Washington sta cercando di recuperare il ritardo produttivo e tecnologico dalla Cina e di ristrutturare unilateralmente a proprio favore le catene di fornitura dell’industria globale sconvolgendo il commercio internazionale e mobilitando $ 370 miliardi in crediti d’imposta (Inflation Reduction Act) e altri incentivi legati ai requisiti di contenuto locale degli Stati Uniti (Build America, Buy American Act, parte del bipartisan del Infrastructure Investment and Jobs Act del 2021) per promuovere le proprie ambizioni nel campo delle tecnologie verdi12. Queste mosse di politica industriale sono state combinate con un programma da $ 52 miliardi per sostenere la produzione statunitense di semiconduttori (CHIPS and Science Act). Una “strategia industriale americana moderna” realizzata attraverso il ritorno a politiche industriali pubbliche (approvate in modo bipartisan a Washington) che si accompagnano alla proibizione di ogni collaborazione con la Cina sul fronte dei semiconduttori13, dell’intelligenza artificiale, dell’informatica quantistica, delle vetture elettriche e delle relative batterie, nonché delle energie rinnovabili, delle biotecnologie e degli scambi culturali, mentre si fanno forti pressioni sugli alleati (UE, Giappone, Canada, Australia, Corea del Sud) perché seguano la linea di Washington, contrastando la Cina a tutti i costi. L’amministrazione Biden punta, con la cosiddetta “Bidenomics”, su un’idea centrale: che “gli investimenti pubblici strategici sono essenziali per raggiungere il pieno potenziale dell’economia della nostra nazione”. Veicolando $ 805 miliardi in sussidi per promuovere il “capitalismo verde” in funzione anti-cinese, gli Stati Uniti stanno ora adottando la propria versione delle politiche economiche pubbliche “sviluppiste” utilizzate dalla tanto deprecata Repubblica Popolare Cinese per promuovere e pianificare il proprio sviluppo economico industriale e sostenere la crescita dei propri “campioni nazionali”14.
D’altra parte, l’Unione Europea, che ancora predica il rispetto delle regole della WTO, prevede anch’essa sussidi, aiuti di Stato e obiettivi per aumentare l’offerta interna di minerali critici, semiconduttori e la produzione verde (batterie elettriche). La torsione protezionista statunitense ha indispettito Bruxelles e l’ha costretta (come ha costretto Canada, Giappone e Corea del Sud) a corrispondere generosi incentivi o a perdere un punto d’appoggio in queste industrie in rapida crescita (si veda il nostro articolo qui). Ma il passaggio globale da un’economia laissez-faire a una politica industriale guidata dallo Stato è irto di rischi per tutti quei Paesi che non hanno le risorse per vincere una guerra totale dei sussidi. Inoltre, come sottolineato da un rapporto di Jennifer A. Hillman e Inu Manak per il Council on Foreign Relations, una competizione economica basata sui sussidi pubblici (“una corsa globale ai sussidi” come negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso) potrebbe “soffocare l’innovazione, creare sostanziali inefficienze, esacerbare la concentrazione del potere aziendale, sprecare preziosi fondi dei contribuenti e alimentare il capitalismo clientelare. Né l’immediatezza dell’azione diminuisce le preoccupazioni che maggiori aumenti nell’utilizzo dei sussidi possano danneggiare i Paesi più piccoli che non possono competere con la generosità dei governi di Stati Uniti, Cina o Unione Europea (UE), e aumenteranno le tensioni commerciali se i sussidi discriminano o violano le regole fondamentali della WTO”. Per affrontare questi rischi e problemi, i due autori chiedono uno sforzo concertato per riformare le norme internazionali sui sussidi pubblici per consentire usi benigni – come la lotta al surriscaldamento climatico – riducendo al contempo la concorrenza predatoria.
Il risultato di tutte queste decisioni è un crescente disprezzo per le regole del commercio globale tra i membri della WTO, sebbene il 75% del commercio di beni sia ancora basato sulle condizioni tariffarie della WTO che i membri applicano nelle transazioni tra di loro. Un’ondata di misure unilaterali, senza controllo, stanno frammentando l’economia mondiale, spingendo il sistema verso il caos, sempre più basato sul potere – i rapporti di forza tra i Paesi o i blocchi di Paesi (come l’UE) – piuttosto che sulle regole. Gli Stati Uniti, ad esempio, cercano di usare la propria forza politico-militare per risolvere le controversie commerciali, costringendo altri Paesi a fare concessioni. In questo modo non solo non rispettano le regole del libero scambio, ma minano anche le regole del multilateralismo cercando di far pagare le loro pratiche al resto del mondo.
L’ex capo della WTO, Roberto Azevedo, aveva avvertito nel 2018 che se i Paesi avessero continuato a ignorare le regole internazionali sul commercio, l’economia globale sarebbe tornata alla “legge della giungla”, all’approccio al commercio degli anni ’30 del secolo scorso15. Cinque anni dopo, l’economia globale si sta avvicinando sempre di più alla modalità darwiniana della “sopravvivenza del più adatto”, mentre le principali economie aggirano il sistema di regole commerciali del secondo dopoguerra in favore di un approccio più restrittivo e transazionale al commercio transfrontaliero che ha portato a ritorsioni tariffarie “occhio per occhio”.
Il numero di controversie commerciali avviate in seno alla WTO è diminuito vertiginosamente da quando l’organo d’appello è stato congelato16. Quindi, invece di fare affidamento sul lungo processo di controversia della WTO per risolvere i propri disaccordi, gli Stati Uniti, la Cina e altri Paesi hanno dato priorità alle sanzioni commerciali unilaterali come modo più efficiente per proteggere i loro mercati.
Secondo i dati compilati dal Global Trade Alert dell’Università di San Gallo, non solo il 37,6% del commercio mondiale di beni subisce distorsioni competitive dovute ai sussidi concessi da Stati Uniti, Cina e UE alle proprie imprese concorrenti nelle importazioni, ma dal 2020 i governi hanno più che raddoppiato la quantità media di politiche commerciali restrittive rispetto alla media dei 10 anni precedenti. Le restrizioni alle importazioni si sono moltiplicate dal 2018, quando l’allora presidente Trump ha imposto tariffe discriminatorie sulle merci provenienti dalla Cina e da altri Paesi, giustificandole sulla base della “sicurezza nazionale”. Il presidente Biden ha mantenuto le tariffe illegali (secondo le regole e le sentenze della WTO) imposte dal suo predecessore su acciaio, alluminio e importazioni cinesi per un valore di circa $ 200 miliardi. Le tariffe medie sulle esportazioni cinesi sono attualmente al 19,3%, sei volte più alte di quelle prima che Washington iniziasse la guerra commerciale nel 2018. Ciò riguarda due terzi delle importazioni statunitensi dalla Cina, ovvero circa $ 335 miliardi di scambi commerciali. Le tariffe cinesi sulle esportazioni statunitensi sono attualmente in media del 21,1%, incidendo su circa $ 90 miliardi di scambi commerciali.
Si sono moltiplicate anche le restrizioni e i divieti alle esportazioni, passando da una media di 21 all’anno tra il 2016 e il 2019 a centinaia all’anno tra il 2020 e il 2023. Le amministrazioni di Trump e di Biden hanno cercato anche di impedire l’accesso cinese alla tecnologia statunitense per mettere in ginocchio la Cina, rallentare la sua crescita economica e mantenere il dominio globale, facendo prevalere la sicurezza nazionale sulle regole del commercio globale. In risposta, Pechino ha avviato cause presso la WTO contro le misure discriminatorie degli Stati Uniti (ad esempio, su quelle relative ai semiconduttori) e ha deciso di limitare le esportazioni di minerali critici per le produzioni di alta tecnologia verso Washington.
La lotta per riformare la WTO e cambiare le regole della globalizzazione
I 164 Stati membri concordano ampiamente sul fatto che la WTO necessita di riforme delle sue tre funzioni principali – negoziazione, monitoraggio e deliberazione, e risoluzione delle controversie – per far sì che sia all’altezza delle sfide del XXI secolo, anche se per apportare qualsiasi cambiamento è necessario il pieno consenso di tutte le parti.
Per la maggior parte degli Stati, innanzitutto la riforma dovrebbe concentrarsi sul ripristino dell’organo d’appello, ma gli Stati Uniti non accettano questa strada che considerano insoddisfacente. Esercitano il loro “potere di veto” per respingere (lo hanno fatto per oltre 60 volte dagli anni dell’amministrazione Trump in avanti17 la proposta di avvio del processo di selezione di nuovi giudici per l’organo d’appello avanzata da 127 Paesi. Per questo, pur essendo impegnato a trovare una soluzione alla crisi dell’organo d’appello, ma avendo abbandonato ogni speranza di farlo in tempi brevi, un gruppo di Paesi, su iniziativa dell’Unione Europea, ha raggiunto nel marzo 2020 un accordo sull’arbitrato d’appello ad interim multipartitico (Multi-Party Interim Appeal Arrangement), comunemente denominato “MPIA”. Il MPIA, entrato in vigore il 30 aprile 2020 tra 19 Paesi (ora 36, tra cui Australia, Brasile, Canada, Cina, UE, Giappone e Messico), prevede una procedura alternativa temporanea di riesame d’appello con una procedura di risoluzione delle controversie in più fasi.
Gli Stati Uniti ritengono che prima della riattivazione dell’organo d’appello debba passare una riforma della WTO che affronti quelle che definiscono “attività discriminatorie da parte delle imprese statali”, in particolare quelle cinesi, che distorcono la concorrenza18. In ogni caso, anche in vista delle elezioni del 2024, l’amministrazione Biden non sembra avere intenzione di spendere capitale politico per riparare un sistema che dal punto di vista americano non è riuscito a mitigare gli abusi commerciali della Cina.
Nel frattempo, la “legge della giungla” rimarrà una pericolosa forza guida per un’economia globale che si sta frammentando in sfere di influenza tra Stati Uniti e Cina. Se il sistema commerciale globale si spostasse completamente in due blocchi concorrenti, gli economisti della WTO prevedono che si perderebbero $ 4,4 trilioni della produzione globale, che equivalgono al 5% del PIL mondiale. Il protezionismo unilaterale americano rischia di innescare una guerra commerciale sempre più ampia. Purtroppo, gli Stati Uniti sono diventati il principale sabotatore del sistema commerciale multilaterale, un manipolatore di doppi standard nelle politiche industriali (che includono sussidi, tariffe, regolamentazioni, incentivi fiscali, norme sugli appalti pubblici e accesso preferenziale al credito), un disgregatore delle catene industriali e di fornitura globali e un campione del bullismo unilaterale. A seguito di questa torsione, a passi veloci, transitando di crisi in crisi, il mondo si sta dirigendo verso una catastrofe economico-politica ed ecologica che probabilmente devasterà l’economia globale.
A questo scenario catastrofico si accompagna la possibilità di una guerra simultanea degli USA con Cina e Russia, un incubo strategico che sobri strateghi americani come Henry Kissinger hanno consigliato gli Stati Uniti di evitare a tutti i costi. Un argomento di cui alcuni media statunitensi sono diventati sempre più affezionati a parlarne negli ultimi anni. Almeno dalle informazioni pubblicamente disponibili, Washington non l’ha mai affrontato come un’agenda politica formale, presumibilmente consapevole della sua gravità e dei terribili rischi che comporta. Ma la pubblicazione di un rapporto da parte di un comitato bipartisan nominato dal Congresso intitolato America’s Strategic Posture ha superato questa “linea rossa” il 12 ottobre. Il punto centrale del rapporto di 145 pagine è che gli Stati Uniti devono espandere la propria potenza militare, in particolare il “programma di modernizzazione delle armi nucleari”19, per prepararsi a possibili guerre simultanee con Cina e Russia. In particolare, il rapporto diverge completamente dall’attuale strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti che consiste nel vincere un conflitto scoraggiandone un altro, e dall’attuale politica nucleare dell’amministrazione Biden. Non si tratta di una fantasia del pubblico americano, ma di una seria valutazione strategica e di una raccomandazione al servizio del processo decisionale20.
È ormai sempre più evidente che il futuro dell’economia mondiale – e probabilmente anche della vita umana sul pianeta – dipende dal modo in cui sarà gestita la competizione sino-americana nei prossimi anni, ossia se si riuscirà ad evitare una drammatica escalation e uno scontro frontale economico, politico e militare tra Stati Uniti e Cina. In molti vedono il rapporto tra Stati Uniti e Cina attraverso la cornice di un conflitto tra grandi potenze: una competizione bilaterale a somma zero in cui uno deve cadere affinché l’altro possa crescere. Ma, per molti altri (tra i quali anche la Segretaria al Tesoro Janet Yellen), il mondo è abbastanza grande per entrambi e Cina e Stati Uniti possono e devono trovare un modo per vivere insieme e condividere la prosperità globale, evitando che la competizione diventi qualcosa di simile a un conflitto aperto “caldo”.
Alessandro Scassellati Sforzolini
- La Cina che è diventato il principale partner commerciale di molti Paesi e negli ultimi dieci anni la Belt and Road Initiative (BRI), con investimenti per mille miliardi di dollari rivolti a 150 Paesi, i blocchi formati dai BRICS (si vedano i nostri articoli qui e qui), dalla Shangai Cooperation Organization (SCO) e dalla Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), e nuove istituzioni bancarie (come la New Development Bank e la Asian Infrastructure Investment Bank) hanno fatto breccia geopolitica nel Sud del mondo dove l’Occidente fa fatica a tenere le sue tradizionali posizioni di dominio. Sulle proposte cinesi per un nuovo ordine mondiale multipolare e multilaterale post-occidentale, si vedano i nostri articoli qui e qui; sul non allineamento dei Paesi del Sud del mondo alle posizioni degli Stati Uniti, si vedano i nostri articoli qui e qui.[↩]
- L’obiettivo generale della WTO è rimuovere le barriere al commercio a livello mondiale, che significa ridurre tariffe e limitare quote, sussidi e altre barriere. Ciò deve essere raggiunto attraverso norme vincolanti e non discriminatorie. Pertanto, la negoziazione di nuove regole per l’accesso al mercato è considerata il primo pilastro della WTO. L’organizzazione ricerca inoltre trasparenza e prevedibilità nelle normative relative al commercio e promuove standard internazionali per garantire stabilità a cittadini, aziende e investitori. Inoltre, la WTO si impegna, in linea di principio, a dare ai Paesi meno sviluppati maggiore flessibilità e facilitazioni per aiutarli ad adattarsi alle nuove regole. Negli ultimi anni, i negoziati su un’agenda di sviluppo globale sono falliti a causa dei disaccordi sui sussidi agricoli e sui diritti di proprietà intellettuale, mentre i membri si sono sempre più rivolti ad accordi separati di libero scambio bilaterali e regionali per promuovere i loro interessi commerciali.[↩]
- Dal 1995, i membri hanno presentato più di 500 controversie alla WTO. La maggior parte di queste vengono risolte tramite consultazioni o tramite accordo prima di passare al contenzioso.). Mentre i Paesi possono ancora presentare esposti relativi a controversie commerciali alla WTO, nel vuoto istituzionale (“into the void”) una parte soccombente in un contenzioso può facilmente porre il veto alle decisioni di prima istanza della WTO presentando appello, lasciando quindi irrisolta la controversia. Gli Stati Uniti hanno creato uno stallo della WTO, e poi utilizzano questo stallo per sfuggire all’applicazione delle sentenze che condannano i loro comportamenti giudicati illegali. Come ha spiegato James Bacchus del libertario Cato Institute nel dicembre 2022: “Ciò che gli Stati Uniti stanno veramente cercando è il diritto di impugnare la WTO come una spada legale quando vincono, di proteggersi dalle decisioni della WTO ignorandole quando perdono e, se ottengono il loro desiderio più ardente, di minare l’indipendenza dell’organo d’appello e l’imparzialità delle sue sentenze acquisendo il diritto di modificare o altrimenti porre il veto sulle decisioni dell’organo d’appello prima che vengano emesse ai membri della WTO e poi al pubblico”.
È nel contesto di politiche tese a promuovere nuove regole per una “globalizzazione selettiva” (si veda il nostro articolo qui) regolata sulla base degli interessi della “sicurezza nazionale” e di “una politica estera per la classe media” che sia capace di “integrare più profondamente politica interna e politica estera” che l’amministrazione Biden pensa di ridurre la dipendenza strategica dalle supply chains della Cina e di tenere sotto controllo l’ascesa delle economie emergenti attraverso strategie di “sovvenzionamento”, “reshoring”, “friendshoring”, “nuove partnership economiche internazionali“, “decoupling” e “de-risking”((Il modello di “globalizzazione selettiva” promosso dagli Stati Uniti auspica una riorganizzazione delle catene globali di approvvigionamento e valore in una logica di near-shoring e friend-shoring in Paesi considerati fedeli alleati o comunque controllabili (come Canada, Messico, Giappone, Sud Corea, Taiwan e Unione Europea, ma anche India, Angola, Indonesia e Brasile). Le imprese cinesi reagiscono alla politica statunitense di riconfigurazione delle catene di approvvigionamento con l’outsourcing e la triangolazione di produzioni, per cui invece di esportare le loro merci direttamente negli USA, lo fanno attraverso Paesi terzi. La dipendenza degli Stati Uniti dalla Cina rimane così intatta ed anzi le politiche di Biden spingono a più stretti legami tra Cina e altri Paesi esportatori (Vietnam, Thailandia, Cambogia, etc.), ottenendo così l’effetto opposto a quello desiderato. Mentre gli Stati Uniti non possono fare a meno di alcuni tipi di prodotti cinesi, ora la lotta al cambiamento climatico ha comunque bisogno del sostegno delle tecnologie e delle produzioni del paese asiatico.[↩] - È da lungo tempo opinione degli Stati Uniti, attraverso varie amministrazioni (almeno dall’approvazione della Sezione 232 del Trade Expansion Act del 1962), che l’eccezione della sicurezza nazionale di cui all’articolo XXI dell’Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio (GATT), consentita solo nei casi che coinvolgono materiale per costruire armi nucleari, per traffico di armi allo scopo di rifornire un istituzione militare e “in tempo di guerra o di altra emergenza nelle relazioni internazionali”, sia effettivamente “autogiudicante” o del tutto non necessaria di giustificazione. Secondo gli USA, la WTO “non ha il diritto” di esaminare le questioni di sicurezza nazionale e le sentenze che li condannano per l’(ab)uso generalizzato della “clausola di eccezione per la sicurezza nazionale” sottolineano la necessità di una “riforma fondamentale della WTO“. La sicurezza nazionale è una questione di sovranità e nessun governo americano – sia repubblicano che democratico – permetterebbe mai a un gruppo di burocrati a Ginevra di determinare cosa è o non è nell’interesse della sicurezza nazionale americana. D’altra parte, anche la Cina ha da tempo bloccato Internet e altri settori economici per motivi di sicurezza nazionale e attraverso misure in gran parte esterne ai meccanismi di supervisione e applicazione della WTO. Nel 2021, il Partito Comunista Cinese ha abbracciato una strategia di “indipendenza e fiducia in sé stessi” che mira sia a stabilire una leadership globale nelle tecnologie chiave sia a garantire l’accesso alle materie prime necessarie per raggiungere questo obiettivo. Nell’ambito di questa strategia, la Cina ha sviluppato partenariati con i Paesi del Sud del mondo e sta rafforzando la propria forza militare, sfidando il dominio navale statunitense nel Pacifico occidentale e altrove.[↩]
- L’amministrazione Biden è giunta alla conclusione che l’enfasi sui flussi derivanti dal libero mercato rispetto a questioni come la sicurezza nazionale, il cambiamento climatico, la sicurezza economica della classe media e la crescita delle disuguaglianze sociali interne, abbia minato le basi socio-economiche della prosperità e delle democrazie occidentali. Su questi temi si veda il mio libro Suprematismo bianco. Alle radici di economia, cultura e ideologia della società occidentale, DeriveApprodi, Roma 2023. La nuova “politica estera per la classe media” dell’amministrazione Biden è in effetti un tentativo di creare un blocco sociale solido all’interno delle classi medie e lavoratrici degli Stati Uniti per una strategia economica che colleghi la crescita interna e gli investimenti dal lato dell’offerta in aziende chiave per la Nuova Guerra Fredda con la Cina, presentata come una minaccia all’ordine egemonico basato sulle regole degli Stati Uniti, e quindi a tutti gli americani.[↩]
- Washington ha intensificato l’uso delle sanzioni basate sul dollaro contro la Cina, così come altri Paesi come Russia, Bielorussia, Venezuela, Iran, Nicaragua, Cuba, Siria, Yemen, Mali, Zimbabwe, Myanmar e Corea del Nord. Miliardi di dollari in attività estere dei Paesi presi di mira sono stati congelati o sequestrati; nel caso della Russia, centinaia di miliardi.[↩]
- Anche il FMI si interroga sul futuro della WTO e sui i costi della frammentazione dell’economia globale. Tra il 2000 e il 2021, le sanzioni statunitensi contro altri Paesi sono aumentate del 933%. Durante i quattro anni di presidenza di Trump, gli Stati Uniti hanno lanciato più di 3.900 sanzioni, una media di tre al giorno. Gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni unilaterali contro quasi 40 Paesi, colpendo quasi la metà della popolazione mondiale.[↩]
- La potente politica militare-industriale dell’amministrazione statunitense si concentra sulla ricostruzione della leadership tecnologica in aree strategiche attraverso investimenti pubblici. Questo è esplicitamente modellato su (1) la Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA) del Pentagono; (2) la National Aeronautics and Space Administration (NASA) di settore militare; (3) Internet, essa stessa inizialmente un prodotto del Pentagono attraverso la DARPA; e (4) i satelliti commerciali e militari dell’economia spaziale. Secondo questo piano, gli investimenti pubblici, in gran parte guidati dalle esigenze del potere geopolitico e militare, dovrebbero essere incanalati in settori quali i semiconduttori, i chip avanzati, l’intelligenza artificiale, l’informatica quantistica, la biotecnologia e i materiali critici per garantire il dominio tecnologico globale degli Stati Uniti in tutti i settori di queste aree.[↩]
- Una ricerca australiana, sponsorizzata anche dal Dipartimento di Stato statunitense, indica che su 44 settori tecnologici esaminati nello studio la Cina ha oggi il primato su tutti gli altri Paesi, compresi gli Stati Uniti, in ben 37 di essi, mentre questi ultimi continuano a guidare il resto del mondo soltanto nelle restanti 7 tecnologie. Nessuno degli altri Paesi ha quindi il primo posto in qualche settore.[↩]
- Secondo i calcoli di FMI e Banca Mondiale, nel 2022 il PIL cinese, calcolato con il criterio della parità dei poteri di acquisto, risultava ormai grosso modo pari al 19% di quello mondiale, mentre quello degli Stati Uniti era al 15%. L’industria cinese rappresenta oggi intorno al 30% di quella mondiale, mentre l’industria mondiale si concentra sempre più nell’Asia del Sud-Est.[↩]
- Funzionari e legislatori statunitensi ora sostengono che i vantaggi derivanti dall’ingresso della Cina nella WTO l’11 dicembre 2001, fortemente voluto dall’amministrazione Clinton, hanno comportato un costo ingiusto per l’economia statunitense. La maggior parte dei legislatori statunitensi che hanno aperto la strada all’adesione della Cina alla WTO accettando di normalizzare le relazioni commerciali con la Cina attraverso l’approvazione delle Relazioni commerciali normali permanenti nel maggio 2000, preferiscono ora non parlare del proprio voto favorevole. I politici statunitensi hanno ipotizzato implicitamente – e spesso esplicitamente – che l’ingresso della Cina nel sistema commerciale globale avrebbe dato potere ai riformatori impegnati nell’economia di mercato e nei cambiamenti fondamentali nell’autoritario Stato socialista monopartitico cinese verso una qualche forma di liberal-democrazia.[↩]
- Oltre ad affrontare il cambiamento climatico, l’IRA offre generosi sussidi che inclinano il campo di gioco a favore dei produttori statunitensi in settori tecnologici chiave, e crea posti di lavoro negli Stati Uniti incanalando enormi quantità di denaro pubblico nelle regioni industriali degli Stati oscillanti, avvantaggiando potenzialmente la candidatura per la rielezione del presidente Biden nel 2024. È non solo una “dichiarazione di guerra” nei confronti della Cina, ma anche degli alleati degli USA. I politici in Europa, Giappone e Corea del Sud temono che ciò possa mettere le loro aziende in una posizione di svantaggio e attirare investimenti negli Stati Uniti che altrimenti affluirebbero nei loro Paesi. Descrivendo gli incentivi offerti come simili a una “corsa all’oro”, la casa automobilistica Volkswagen, ad esempio, ha deciso a marzo di costruire una fabbrica di veicoli elettrici da 2 miliardi di dollari nella Carolina del Sud. A maggio, il governo canadese ha dovuto aumentare in modo massiccio un pacchetto di aiuti da $ 759 milioni per un nuovo impianto di batterie per veicoli elettrici per garantire che il progetto non fosse trasferito a sud del confine. Nel recente passato, l’organo d’appello della WTO si è pronunciato sul sostegno statale all’industria nazionale, come nelle controversie Airbus e Boeing tra UE e USA. Ipoteticamente, si potrebbe immaginare che la legalità dei sussidi verdi degli Stati Uniti per le aziende nazionali (l’IRA e il CHIPS Act) e il Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM) dell’UE sui beni importati a cui non sono state addebitate le relative emissioni di carbonio, sono questioni che potrebbero essere portate davanti all’organo d’appello della WTO. Sia l’IRA che il CHIPS Act sono apertamente protezionistici e discriminatori, violando gli accordi che gli Stati Uniti hanno stipulato attraverso cicli successivi di negoziati multilaterali sulla riduzione delle tariffe. Ad esempio, l’IRA fornisce un sussidio di $ 7.500 agli acquirenti statunitensi di veicoli elettrici, a condizione che siano fabbricati in America e composti prevalentemente da parti americane (e questi componenti devono includere le batterie, che costituiscono il 40% del costo dei veicoli elettrici). Allo stesso modo, il CHIPS Act stanzia 52 miliardi di dollari per finanziare investimenti nelle “fab” (fabbriche per la produzione di chip) costruite da società private negli Stati Uniti.[↩]
- Huawei, con il nuovo telefono Mate 60 Pro, ha dimostrato di saper schivare l’embargo americano sul chip per il 5G che viene prodotto dall’azienda statale SMIC in Cina, nonostante fosse ritenuto impossibile senza l’accesso alla proibita tecnologia di miniaturizzazione occidentale.[↩]
- Bisogna però ricordare che gli Stati Uniti sono anche il Paese di Alexander Hamilton, l’inventore del protezionismo moderno, che scrisse il suo Rapporto sui produttori nel 1791, in cui argomentava in favore del sostegno temporaneo alle industrie nascenti che fornivano “gli elementi essenziali dell’approvvigionamento nazionale”, compresi “i mezzi di sussistenza, abitazione, abbigliamento e difesa”. Hamilton comprendeva gli aspetti economici di tale politica, nonché le conseguenze indesiderate che potrebbero derivarne, motivo per cui non era favorevole alle tariffe come strumento di politica industriale; invece, era favorevole ad un uso limitato dei “bonus” (sussidi) perché, rispetto alle tariffe, erano “un tipo di incoraggiamento più diretto e positivo” e “non creavano scarsità e non aumentavano i prezzi interni”. Nel corso della loro storia gli Stati Uniti più che “hamiltoniani” sono stati dei protezionisti “madisoniani” (James Madison, presidente dal 1809 al 1817), utilizzando un mix variabile di sussidi e tariffe doganali fino alla fine della seconda guerra mondiale, ossia fino a quando l’economia americana non è diventata quella dominante.[↩]
- Le guerre commerciali sono immensamente dannose perché i Paesi coinvolti tendono a reagire erigendo barriere commerciali sempre più alte. Questo circolo vizioso fu accusato di aver prolungato notevolmente la Grande Depressione degli anni ’30, motivo per cui gli Stati Uniti guidarono lo sforzo di sviluppare un nuovo sistema commerciale mondiale dopo il 1945, ponendo le basi per il periodo di maggior successo di crescita economica globale della storia. Per 70 anni, il commercio globale è stato sostenuto dallo Stato di diritto, con un’organizzazione internazionale – l’Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio (GATT), a cui è succeduta la WTO nel 1995 – che ha il compito di garantire una risoluzione imparziale delle controversie.[↩]
- Tra il 1996 e il 2019, i membri della WTO hanno presentato in media 23,7 richieste di procedure di risoluzione delle controversie all’anno. Negli ultimi tre anni, il tasso medio di nuove controversie è sceso a 7,3 all’anno, un calo del 69% rispetto al periodo in cui l’organo d’appello era pienamente operativo.[↩]
- Il malcontento statunitense con l’organo d’appello era già diventato evidente durante l’amministrazione Obama, allorché decise di non rinominare il membro dell’organo d’appello americano per un secondo mandato e di presentare invece un candidato diverso. In seguito, nel maggio 2016, si era opposta alla riconferma di un membro dell’organo d’appello coreano rispetto al quale nutriva preoccupazioni e aveva insistito per la sua sostituzione.[↩]
- L’UE e altri partner ritengono che le riforme dovrebbero anche affrontare questioni non prese in considerazione al momento della creazione della WTO, come il cambiamento climatico, i flussi di dati, il commercio digitale (e-commerce), l’intelligenza artificiale, la facilitazione degli investimenti, commercio e genere, nonché le piccole e medie imprese.[↩]
- Il rapporto raccomanda agli Stati Uniti di schierare più testate e produrre più bombardieri, missili da crociera, sottomarini con missili balistici, armi nucleari non strategiche e così via. Invita inoltre gli Stati Uniti a schierare testate sui missili balistici intercontinentali terrestri (ICBM) in Asia e Europa e a prendere in considerazione l’aggiunta di missili balistici intercontinentali mobili al proprio arsenale, la creazione di un terzo cantiere navale in grado di costruire navi a propulsione nucleare. La spesa militare degli Stati Uniti rappresenta quasi il 40% della spesa totale militare mondiale e da diversi anni è in forte crescita, con la spesa militare che nel 2023 ha raggiunto gli 813,3 miliardi di dollari, più del PIL della maggior parte dei Paesi, ma anche questo non è sufficiente per questi politici.[↩]
- Il gruppo di 12 membri che ha scritto il rapporto è stato selezionato dal Congresso degli Stati Uniti tra i principali think-tank, funzionari della difesa, della sicurezza ed ex legislatori in pensione. Questo rapporto fa capire che un “incubo strategico” si sta insinuando nell’agenda politica degli Stati Uniti, senza che abbia suscitato la dovuta preoccupazione e vigilanza a Washington, e in larga misura, il gruppo d’élite rappresentato dal comitato sta lavorando attivamente per far diventare questo incubo realtà.[↩]