Nelle ultime settimane è cresciuta la rabbia a Bruxelles e nelle capitali dei grandi paesi europei per il pacchetto “massiccio” e “super aggressivo” di sussidi alle industrie “verdi” statunitensi da 369 miliardi di dollari che molti temono possa infliggere un duro colpo all’industria e all’economia europea. Ma il blocco europeo, come su tante altre questioni critiche (approvvigionamenti energetici, guerra in Ucraina, relazioni con la Cina), è profondamente diviso su come rispondere.
Firmato lo scorso agosto, l’Inflation Reduction Act (IRA) offre enormi sussidi e crediti d’imposta alle aziende americane che investono in veicoli elettrici e tecnologie delle energie rinnovabili, come batterie elettriche, pannelli solari e turbine eoliche, a condizione che i prodotti e le parti che fabbricano siano fatti in America1. Misure analoghe sono stata messe in atto da Giappone, India, Regno Unito, Canada e altri paesi2.
Senatori e deputati americani intervenuti al Forum Economico di Davos la scorsa settimana hanno sostenuto che l’Europa sbaglia: gli Stati Uniti stanno semplicemente investendo nella propria energia e sicurezza economica per mantenere lo status di superpotenza del mondo. Affermano che un’America indipendente dal punto di vista energetico e più forte significa un alleato dell’Europa più forte. Ritengono che l’Unione Europea sia “iper ipocrita” dopo decenni di protezionismo europeo, mentre gli americani devono abbracciare un nuovo patriottismo economico (Buy American) che richiede l’aumento della produzione industriale interna (Made in America), il reshoring, ossia il recupero di posti di lavoro dall’estero (solo l’8% della forza lavoro americana è attualmente occupata nei settori industriali) e la promozione delle esportazioni. L’investimento e il controllo delle nuove tecnologie è il terreno su cui si sviluppa il conflitto egemonico tra Stati Uniti e Cina. Per gli Stati Uniti, si tratta di mantenere il potere geostrategico e i mezzi per una prosperità duratura. Per la Cina l’innovazione tecnologica rappresenta la chiave per alimentare una superpotenza in ascesa. La guerra sulle tecnologie avanzate – utilizzabili per scopi militari e civili – attualmente in corso tra le due superpotenze è probabilmente la lotta decisiva del XXI secolo.
In prospettiva, l’Unione Europea, vaso di coccio tra due vasi di metallo, sembra avere solo il potere di decidere se vuole essere un “vassallo” degli USA o della Cina. Teme il predominio cinese (benché sia interessata ad avere una fetta del suo mercato interno), ma al momento considera le politiche industriali americane come una minaccia esistenziale, apparentemente in grado di mettere in discussione anche la cooperazione UE-USA emersa dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Ma una risposta del blocco europeo è stata finora ostacolata da profondi disaccordi tra gli Stati membri sull’allentamento delle rigide norme sugli aiuti di Stato dell’UE – che per lo più impediscono tali generose agevolazioni fiscali per le aziende – nonché sulla prospettiva di raccogliere maggiori prestiti congiunti finanziati con l’emissione di obbligazioni (nuovo debito comune).
La posta in gioco, avvertono gli analisti, potrebbe essere la sorte della base manifatturiera europea, schiacciata non solo dai prezzi record dell’energia e da una Cina considerata sempre più “aggressiva”, ma ora anche da un’amministrazione americana considerata decisamente protezionista. Alcuni hanno avvertito di una potenziale deindustrializzazione dell’Europa se non si riuscirà ad elaborare ed implementare un’azione interventista concertata. A Davos, il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha affermato che le politiche industriali degli Stati Uniti non devono discriminare le imprese europee (ponendo troppa enfasi sul contenuto locale dei prodotti). È arrivato al punto di accusare direttamente Washington di protezionismo con il suo IRA, affermando che ostacolare la concorrenza finirebbe per danneggiare la lotta contro il cambiamento climatico soffocando l’innovazione. Comunque, Scholz ha anche espresso ottimismo sul fatto che l’UE e gli Stati Uniti possano raggiungere una tregua (esenzioni per le imprese europee riguardo al “contenuto locale”) nei prossimi mesi per evitare discriminazioni nei confronti delle aziende europee a causa dei sussidi americani.
Il problema di fondo è che da decenni l’UE ha adottato il dogma del modo di regolazione neoliberista che prevede la primazia del “mercato” sulle politiche pubbliche (statali), per cui non ha mai avuto una politica industriale degna di questo nome (ha attuato solo politiche regolatorie tese a promuovere e proteggere la competitività del mercato interno). Ora, di fronte a Cina e Stati Uniti che esercitano sempre più il loro potere attraverso l’intervento proattivo del settore pubblico nell’economia con politiche industriali ben finanziate (con sussidi, protezioni e altre misure)3, anche l’UE si sta orientando su questa strada, ma riuscire a farlo bene non sarà davvero semplice4.
La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, in un discorso tenuto il 17 gennaio scorso a Davos ha promesso un allentamento mirato e temporaneo delle norme sugli aiuti di Stato5 e un fondo comune per proteggere i settori industriali delle tecnologie “verdi” dalla distruzione. I leader nazionali dovrebbero discutere dell’IRA e della risposta europea in un vertice a febbraio.
Von der Leyen ha affermato che Bruxelles proporrà l’istituzione di un fondo sovrano per aumentare le risorse a medio termine per l’innovazione, la ricerca e i progetti industriali “verdi”, con una soluzione ponte – fondi più immediati – per fornire “sostegno rapido e mirato”. Nel suo discorso, Von der Leyen ha sostenuto che “non è un segreto che alcuni elementi della progettazione dell’Inflation Reduction Act abbiano sollevato una serie di preoccupazioni in termini di alcuni degli incentivi mirati per le aziende. Questo è il motivo per cui abbiamo lavorato con gli Stati Uniti per trovare soluzioni, ad esempio in modo che oltre alle aziende statunitensi anche le auto elettriche prodotte nell’UE possano beneficiare dell’IRA. Il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di evitare interruzioni nel commercio e negli investimenti transatlantici. Dovremmo lavorare per garantire che i nostri rispettivi programmi di incentivi siano equi e si rafforzino a vicenda. E dovremmo stabilire come possiamo beneficiare congiuntamente di questo massiccio investimento, ad esempio creando economie di scala attraverso l’Atlantico o fissando standard comuni. Al centro della visione comune c’è la nostra convinzione che la concorrenza e il commercio siano la chiave per accelerare la tecnologia pulita e la neutralità climatica. Ciò significa che anche noi europei dobbiamo migliorare nel coltivare la nostra industria delle tecnologie pulite. … Abbiamo un piano, un Piano Industriale Green Deal, il nostro piano per rendere l’Europa la patria della tecnologia pulita e dell’innovazione industriale sulla strada dello zero netto. Il nostro Piano Industriale Green Deal coprirà quattro pilastri chiave: il contesto normativo, il finanziamento, le competenze e il commercio.”
Al Parlamento europeo la maggioranza dei deputati si dichiara favorevole all’istituzione di un Fondo sovrano europeo. Tuttavia, è da vedere se e quanto presto gli Stati membri saranno in grado di concordare su un Piano Industriale Green Deal. Trovare la giusta risposta all’IRA sarà una questione politica chiave per l’UE quest’anno. Riformare le rigide regole sugli aiuti di Stato non sarà facile, come non sarà facile avere un dibattito condiviso su un Fondo sovrano UE per mantenere condizioni di parità nel mercato unico.
Sia i funzionari dell’UE che i politici nazionali si sono scagliati contro l’IRA, affermando che discrimina le aziende europee che vendono negli Stati Uniti e – con i costi energetici statunitensi fino a quattro volte inferiori rispetto all’Europa – potrebbe rivelarsi catastrofico per gli investimenti industriali europei. Per gli Stati Uniti l’IRA è di importanza vitale per mantenere il vantaggio competitivo in settori economici strategici per l’accumulazione, ma da parte dell’Unione Europea si tratta di una politica industriale considerata molto controversa perché incentiva le aziende europee a localizzare i loro investimenti produttivi negli Stati Uniti. Alexander De Croo, il primo ministro belga ha accusato gli Stati Uniti di invitare attivamente le aziende europee a muoversi: “Stanno chiamando le aziende, in modo molto aggressivo, per dire ‘non investite in Europa, abbiamo qualcosa di meglio’”. Il ministro del commercio estero olandese, Liesje Schreinemacher, ha descritto l’IRA come “molto preoccupante“, e il ministro delle finanze tedesco, Christian Lindner, l’ha definita “enormemente protezionista“. Il suo omologo francese, Bruno Le Maire, ha affermato che i sussidi da quattro a dieci volte superiori a quelli consentiti dalle norme dell’UE sconvolgerebbero “la parità di condizioni che è il fulcro delle relazioni commerciali transatlantiche“.
La Commissione Europea ha formalmente espresso “serie preoccupazioni” e ha avvertito che potrebbe attivare “misure di ritorsione” – che potenzialmente includono una denuncia all’Organizzazione Mondiale del Commercio sulla base del fatto che le disposizioni dell’IRA sui contenuti prodotti localmente violano le regole dell’OMC.
Sebbene Washington abbia promesso di esaminare possibili aggiustamenti, i funzionari europei non si aspettano grandi cambiamenti e considerano gli unici ritocchi finora – crediti d’imposta per furgoni e camion elettrici prodotti nell’UE – come del tutto inadeguati6.
Il Commissario per il mercato interno dell’UE, Thierry Breton, ha visitato le capitali dell’UE per lanciare una “direttiva europea sulla tecnologia pulita” (Clean Tech Act o Net-Zero Industry Act) come un modo per incanalare denaro verso le industrie delle tecnologie “verdi” del blocco, osservando che tutti erano consapevoli della necessità di “un’azione rapida, coordinata”.
Ma il piano di Breton è nelle sue fasi iniziali e, a causa del continuo disaccordo tra gli Stati membri, non è chiaro su come pagare qualsiasi risposta combinata da parte dell’UE27 all’IRA che il presidente francese, Emmanuel Macron, ha definito una misura “super aggressiva” che ha già spinto la Francia ad annunciare un piano nazionale per l’industria “verde”.
Margrethe Vestager, Commissaria alla concorrenza e vicepresidente dell’UE, ha annunciato una revisione delle norme sugli aiuti di Stato, affermando che l’industria europea ha dovuto affrontare una serie di sfide, tra cui il rischio molto reale che l’IRA “attiri alcune… imprese dell’UE a spostare gli investimenti negli Stati Uniti“.
I sussidi statali sono, tuttavia, un argomento notoriamente delicato all’interno del blocco, con i paesi più piccoli e più indebitati (come l’Italia) in particolare che temono che regole permissive consentirebbero ai grandi paesi con maggiore potenza finanziaria – come Francia e Germania (che insieme rappresentano il 47% del PIL dell’UE27, 17% la prima e 24% la seconda, con oltre 150 milioni di abitanti, 34%, su 447, rispettivamente 67,4 e 83,2) – di offrire un grande sostegno alle loro imprese, fatalmente distorcendo e frammentando il mercato unico.
Parigi e Berlino – un asse sancito dal Trattato dell’Eliseo (siglato il 22 gennaio 1963) che si è apparentemente di nuovo rinsaldato dopo l’incontro tra Macron e Scholz di domenica, anche se sta emergendo un asse contrario basato sulla dorsale Est-Baltici cementato dall’atteggiamento fortemente ostile verso la Russia – hanno chiesto di allentare rapidamente le norme sugli aiuti7. Ma la Francia vuole un rimodellamento totale del sostegno all’industria dell’UE, chiedendo uno “shock di modernizzazione e semplificazione” che includa risorse economiche dedicate e soglie di notifica più elevate per i progetti nei settori chiave delle tecnologie “verdi”8. Di fatto, quindi, Parigi e Berlino non concordano sulle modalità della risposta europea.
Inoltre, i paesi più indebitati e quelli più piccoli, meno interventisti, come Paesi Bassi, Belgio, Irlanda, Danimarca, Svezia, Finlandia, Polonia e Repubblica Ceca, sono tutt’altro che rassicurati dai recenti dati che mostrano, forse non sorprendentemente, che le aziende tedesche e francesi hanno monopolizzato quasi l’80% degli aiuti di Stato nell’UE (complessivamente pari a 672 miliardi di euro) lo scorso anno. Secondo i dati della Commissione, il 53% di tutti gli aiuti di Stato consentiti nel 2022 nell’ambito di un temporaneo allentamento delle norme per far fronte alla crisi energetica è andato ad aziende tedesche e il 24% è andato ad aziende francesi, nonostante gli altri 25 Stati membri rappresentino almeno il 50% del PIL totale dell’UE (solo il 7% è andato alle imprese italiane). Anche l’Italia, tradizionalmente sostenitrice delle sovvenzioni, ora con il governo Meloni mette in guardia contro norme sugli aiuti di Stato più flessibili che potrebbero minare il mercato unico.
Allentare le norme sugli aiuti di Stato per aiutare l’industria europea a competere a livello mondiale è un approccio “pericoloso“, ha avvertito l’ex primo ministro italiano e ex capo antitrust dell’UE Mario Monti. “È importante che le regole tornino. Più a lungo può durare una fase di tossicodipendenza, più difficile sarà poi privarne il soggetto. Non ha senso mantenere il mercato unico libero da distorsioni anticoncorrenziali da parte delle imprese – come cartelli, abusi di posizione dominante, fusioni anticoncorrenziali – se i paesi possono poi distorcere quel mercato unico“.
Anche Vestager ha riconosciuto questo pericolo, definendo anche le capacità estremamente diverse dei membri di concedere grandi sussidi statali “un rischio per l’integrità dell’Europa“, e ha proposto che qualsiasi allentamento delle regole sugli aiuti di Stato per contrastare l’IRA dovrebbe essere accompagnato da un “fondo europeo collettivo“, probabilmente finanziato con debito comune dell’UE.
Questa idea è sostenuta dalla Francia. Anche il primo ministro italiano, Giorgia Meloni, ha dichiarato che sosterrà un Fondo sovrano europeo (di un European Sovereignty Fund ha parlato per la prima volta Ursula von der Leyen nel suo discorso sullo stato dell’unione a settembre). Ma la Germania e altri Stati membri influenti, compresi i Paesi Bassi, sono tutt’altro che entusiasti dell’idea se ciò implica ulteriori prestiti comuni dell’UE.
Il tedesco Lindner è stato particolarmente irremovibile in una riunione dei ministri delle finanze dell’UE lo scorso dicembre. “Un fondo sovrano non deve essere un nuovo tentativo di prestito europeo congiunto“, ha affermato. “Non vediamo alcun motivo per un ulteriore debito europeo“. Non bisogna iniettare denaro fresco nell’Unione Europea (quindi niente Fondo sovrano), basta riformare le politiche nazionali, ha affermato il primo ministro olandese Mark Rutte, considerato il leader del cosiddetto gruppo “frugale” di paesi europei, composto da nazioni fiscalmente conservatrici che la pensano allo stesso modo (Danimarca, Svezia e altri paesi del nord e del baltico). Rutte, che è stato di recente a Washington in visita da Biden, ha dichiarato: “Ci sono una serie di conseguenze per questo IRA, ma non intenzionali“. L’IRA “ci costringe a pensare a come organizzarci” per rimanere competitivi. Ma i sussidi dell’UE dovrebbero rimanere invariati, sostiene Rutte. Per quanto riguarda gli appelli ad adattarsi all’IRA modificando le regole sugli aiuti dell’UE, ha ammesso: “Posso accettare alcuni cambiamenti purché siano limitati“.
In ogni caso, mentre i governi UE discutono su una risposta europea alle politiche industriali e al protezionismo degli Stati Uniti, la vera minaccia competitiva per entrambi è la Cina. Circa il 40% del valore di un veicolo elettrico risiede nella batteria. La competizione nel mercato dei veicoli elettrici si giocherà quindi proprio sui costi delle batterie, la cui domanda complessiva dovrebbe passare da quella attuale di 290 gigawattora a 3,4 terawattora all’anno entro il 2030. La Cina sembra in netto vantaggio nel soddisfare questa futura domanda e acquisire così il predominio del mercato dell’elettrico.
La Cina è leader nella raffinazione della maggior parte dei materiali necessari lungo tutta la catena di produzione delle batterie elettriche: rappresenta il 35% di tutto il nichel raffinato nel mondo, il 58% per il litio e il 65% per il cobalto. Percentuali che si traducono in un primato anche nell’imballaggio e nell’assemblaggio delle celle delle batterie. Dei primi 10 produttori di batterie per veicoli elettrici sei sono cinesi, con una quota di mercato pari al 56% del totale, ben più alta di quella dei restanti principali produttori, coreani (26%) o giapponesi (10%). Inoltre, la Cina ha prodotto circa il 70% delle auto elettriche e ibride a livello mondiale nel 20229. Oggi la metà delle celle delle batterie agli ioni di litio utilizzate nell’UE viene già prodotta sul continente, ma attualmente non ci sono raffinerie di litio in Europa e circa il 90% della lavorazione mondiale avviene nell’Asia orientale. Si prevede che i progetti di raffinazione in corso in Germania e Francia (sostenuti da fondi nazionali ed europei) aumenteranno le prospettive dell’Europa, e la prevista legislazione dell’UE sulle materie prime critiche è concepita per garantire che soddisfino elevati standard ambientali. Tuttavia, le aziende potrebbero ancora spostare i progetti pianificati per l’Europa negli Stati Uniti, tentate dai benefici fiscali e da altri sussidi forniti dall’IRA per localizzare le catene di fornitura di batterie negli Stati Uniti. L’IRA ha cambiato le regole del gioco e l’Europa deve mettere più soldi sul tavolo o rischiare di perdere le fabbriche di batterie e i posti di lavoro pianificati a favore dell’America.
Trent’anni di applicazione di politiche neoliberiste hanno reso l’Unione Europea non competitiva sul piano tecnologico a livello mondiale. Ha ancora un rilevante sistema industriale (in Germania, Italia, Francia e paesi centro-orientali in settori come costruzione aeronautica, robotica, moda, agroindustria, automotive/meccanica, chimica e alcuni comparti degli armamenti) ma ha un ruolo complessivo ormai marginale nella gran parte delle nuove tecnologie rispetto ai due attori dominanti, USA e Cina. Per questo quello attuale è un momento di passaggio fondamentale in cui l’Unione Europea vive una situazione simile a quella del 2020, ai tempi del dibattito sul piano di ripresa post-pandemica. In quell’occasione si era arrivati a un accordo solo quando Francia e Germania avevano trovato un’intesa su un prestito comune garantito dai 27. Anche ora appare assolutamente necessario un accordo tra francesi e tedeschi per vincere le resistenze esistenti all’interno del blocco e provare ad opporre una risposta efficace di politica industriale al protezionismo americano.
Alessandro Scassellati
- L’agenda dell’amministrazione Biden è particolarmente audace: dare vita ad una «economia post-neoliberista» centrata sul rilancio delle classi medie lavoratrici. Nella primavera del 2021 aveva presentato una serie di piani da 3,5 trilioni di dollari (Build Back Better) – su infrastrutture, clima e welfare – volti a garantire un futuro più verde. Era la versione democratica della promessa di Trump di «Rendere l’America di nuovo grande» e incarnava una teoria del cambiamento politico. Come con il New Deal negli anni ’30, la triplice spinta di Biden su lavoro, clima e welfare avrebbe dovuto creare il sostegno elettorale per consolidare a lungo termine l’egemonia del Partito democratico. Ma solo frammenti di quell’agenda sono stati realizzati. Quello che avrebbe dovuto essere un audace programma di trasformazione sociale e politica è diventato un imbarazzante caso di studio sul fallimento legislativo. Biden era entrato in carica facendo appello alla sinistra (sostenitrice di un ambizioso Green New Deal da 4,5 trilioni di dollari) come presidente del clima. Rifiutando un approccio basato sulla tassazione e monetizzazione del biossido di carbonio, la sua amministrazione si era concentrata su incentivi positivi per la transizione energetica attraverso sussidi, investimenti e normative più severe. Con la sua agenda legislativa in stallo, l’aumento dei prezzi dei carburanti ha costretto Biden a rinunciare a buona parte di queste idee. Inoltre, una decisione della Corte Suprema del giugno 2022 ha reso più difficile per l’Agenzia per la Protezione Ambientale (EPA) regolamentare le emissioni di biossido di carbonio delle centrali elettriche, minando ulteriormente l’agenda di Biden sui cambiamenti climatici. Comunque Biden ha ottenuto alcune vittorie legislative, tra cui un’importante legge (US Chips and Science Act – Chips) per sovvenzionare con 53 miliardi di dollari la costruzione di nuovi impianti industriali per la produzione di chip per semiconduttori negli Stati Uniti (anche Unione Europea, Corea del Sud, Giappone, Singapore e Cina hanno stanziato risorse per supportare la produzione nazionale di semiconduttori), ponendo come condizione che le aziende tecnologiche statunitensi che ricevono finanziamenti dal governo sono bandite dalla costruzione di «strutture tecnologiche avanzate» in Cina per un decennio in base ad una motivazione aggressiva della sicurezza nazionale (un obiettivo tecnico-militare perseguito con un approccio da guerra economica). Inoltre, nel tentativo di rallentare gli avanzamenti tecnologici e militari cinesi, l’amministrazione Biden ha unilateralmente imposto (7 ottobre 2022) un’ampia serie di controlli e blocchi sulle esportazioni, inclusa una misura per escludere la Cina da alcuni chip/semiconduttori prodotti in qualsiasi parte del mondo con hardware e software statunitensi. Una decisione che potrebbe togliere alle multinazionali (americane, coreane, europee e taiwanesi) il 30% del fatturato, rallentare R&D, mettere a rischio la supply chain globale, spingendo ad un disaccoppiamento tecnologico tra USA e Cina (che riguarderebbe anche Taiwan, l’isola che è il maggiore produttore di chip/semiconduttori al mondo, con una quota del 64% dei ricavi, e che per Pechino è una provincia ribelle). Nell’agosto 2022 è stato raggiunto un compromesso tra i senatori democratici ed è stato approvato l’Inflation Reduction Act (IRA) che prevede nuova spesa per 430 miliardi di dollari con misure energetiche ed ambientali (di cui 369 miliardi destinati alla riduzione delle emissioni di gas serra e all’investimento in fonti di energia rinnovabile), per la riduzione di parte dei costi sanitari (consente a Medicare di negoziare i prezzi di una parte dei farmaci da prescrizione direttamente con le aziende farmaceutiche e limita i prezzi di una parte dei farmaci da prescrizione per i destinatari di Medicare a 2 mila dollari all’anno; prevede sussidi federali per il pagamento della copertura assicurativa sanitaria prevista dall’Affordable Care Act fino al 2025) e fiscali (tassa minima del 15% sulle società con profitti superiori a 1 miliardo di dollari, controlli più rigorosi da parte dell’Internal Revenue Service e una nuova accise dell’1% sui riacquisti di azioni che dovrebbero raccogliere oltre 739 miliardi di dollari di nuove entrate, con 300 miliardi destinati alla riduzione del debito federale). Una legge firmata da Biden il 16 agosto che è diventata la principale misura su clima, sanità ed economia di Partito democratico e amministrazione Biden prima delle elezioni di midterm dell’8 novembre. Ma, l’IRA dà il via libera anche ai contratti di locazione offshore di petrolio e gas in Alaska e nel Golfo del Messico per i prossimi dieci anni e sostiene l’aspramente contestato gasdotto Mountain Valley, anche se mira soprattutto ad abbattere il rischio per gli investimenti di capitale privato nella transizione verde (compresi i controversi impianti di biogas), in linea con ciò che Daniela Gabor chiama il «Wall Street Consensus». Il suo principale strumento politico è il suo programma di credito d’imposta, disponibile per la maggior parte dei proprietari di case della classe media che desiderano acquistare veicoli elettrici o nuovi elettrodomestici e società private che sviluppano e producono auto elettriche, turbine eoliche, pannelli solari e batterie.[↩]
- I piani di trasformazione verde del Giappone mirano ad investire fino a 20 trilioni di yen – circa 140 miliardi di euro – attraverso obbligazioni per la “transizione verde“. L’India ha presentato il Production Linked Incentive Scheme per migliorare la propria competitività in settori come il solare fotovoltaico e le batterie. Anche il Regno Unito, il Canada e molti altri hanno presentato i loro piani di investimento nella tecnologia pulita[↩]
- Si pensi che dalla primavera del 2020, a fronte dei 100 miliardi di euro del programma SURE e dei 750 del Next GenerationUE, gli USA hanno immesso nell’economia solo per interventi di ristoro dal CoVid-19 oltre 5 mila miliardi di dollari: 1.800 destinati agli individui e alle famiglie con assegni di varia entità recapitati a casa; 1.700 per le aziende; 745 destinati ai 50 Stati dell’unione (a cui si sono aggiunti altri 1.000); 450 per la sanità; 288 per altre voci.[↩]
- L’attuale approccio dell’UE, esemplificato dall’iniziativa Fit for 55, aderisce a un paradigma basato sul mercato che si basa sul prezzo del carbonio per garantire l’autoregolamentazione da parte degli emettitori. L’IRA, al contrario, presuppone che il governo possa accelerare la transizione verso un’economia verde attraverso sussidi mirati agli investimenti a persone e aziende. Inoltre, l’IRA ha una chiara inclinazione a favore dei lavoratori, concentrandosi sull’occupazione domestica e tentando di aumentare i salari subordinando alcuni crediti d’imposta all’impegno delle aziende a pagare i salari prevalenti.[↩]
- La Commissione europea ha allentato le regole sugli aiuti di Stato durante la pandemia per consentire ai governi di aiutare le aziende che soffrivano per l’improvviso calo dell’attività economica. Nel marzo 2022, ha nuovamente sospeso le regole con lo State Aid Temporary Crisis Framework per aiutare a coprire i maggiori costi energetici a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina.[↩]
- Grazie all’IRA, la costruzione di una nuova fabbrica di batterie elettriche negli Stati Uniti viene sussidiata con fino a 800 milioni di dollari. La stessa fabbrica in Europa riceverebbe “solo” 155 milioni di dollari. Per far fronte a questo squilibrio competitivo, il 25 ottobre 2022, l’UE ha istituito una task force congiunta con gli USA per discutere l’IRA, con l’obiettivo di spingere la controparte a modificarne alcuni degli aspetti più distorsivi. Il 29 dicembre scorso, dopo mesi di trattative diplomatiche, l’Unione europea è riuscita a strappare una prima apertura. Nel white paper pubblicato dal Dipartimento del Tesoro americano, tra i Paesi beneficiari degli sgravi per i veicoli commerciali puliti (Commercial Clean Vehicle Credit scheme) sono indicati tutti quelli che hanno un accordo di libero scambio con gli USA. Non esistendo una definizione ufficiale univoca di tali accordi la si può espandere fino a comprendere anche i Paesi UE e quindi le case automobilistiche europee. Che tuttavia resterebbero ancora escluse dal principale credito d’imposta sui veicoli elettrici per i consumatori privati valido solo se l’assemblaggio finale dell’auto avviene in Nord America.[↩]
- Nel documento finale dell’incontro si afferma: “Basandoci sui punti di forza del mercato unico, che continueremo ad approfondire, rafforzeremo la sovranità strategica dell’Europa e renderemo la base economica, industriale e tecnologica dell’Europa più resiliente, competitiva ed efficiente, in linea con l’agenda di Versailles. Ciò è necessario per una transizione verde e digitale di successo, senza lasciare indietro nessuno. Dopo il Consiglio europeo del dicembre 2022, attendiamo con impazienza le proposte della Commissione europea per una strategia a livello dell’UE per aumentare la competitività e la produttività. Sosterremo un’azione europea rapida e ambiziosa per garantire la competitività e la resilienza dell’economia e dell’industria europea, mantenendo condizioni di parità tra gli Stati membri dell’UE. Lavoreremo per garantire la resilienza e la competitività della produzione dell’UE mediante un’ambiziosa strategia europea attraverso legislazioni e obiettivi settoriali adeguati, nonché procedure semplificate e razionalizzate per gli aiuti di Stato e finanziamenti sufficienti, facendo pieno uso dei fondi e degli strumenti finanziari disponibili, misure di competitività e di solidarietà. Inoltre, il gruppo BEI dovrebbe essere pienamente mobilitato e aumentare il finanziamento del rischio per l’imprenditorialità e l’innovazione.” La dichiarazione congiunta ha sottolineato la necessità di creare “finanziamenti sufficienti“, ma in una vittoria per Berlino, che è riluttante a parlare di nuovo debito dell’UE, il testo afferma che il blocco dovrebbe prima fare “pieno uso dei fondi e degli strumenti finanziari disponibili“. La dichiarazione include anche un riferimento non specifico alla necessità di creare “misure di solidarietà“.[↩]
- Secondo la Francia, molto concretamente, l’Unione dovrebbe porsi obiettivi di produzione da raggiungere entro il 2030, sulla base del modello del progetto previsto dal Chips Act del blocco. Il Chips Act fa parte del più ampio sforzo dell’UE per garantire che l’Europa non debba fare affidamento su paesi come la Cina per la tecnologia che alimenta l’industria. Su Chips Act si veda il nostro articolo qui. Come reazione al Chips Act europeo, gli Stati Uniti hanno approvato il Chips and Science Act che vale 280 miliardi di dollari per promuovere investimenti nella produzione di semiconduttori e macchinari per la loro produzione.[↩]
- Due aziende cinesi in particolare rappresentano metà delle vendite globali del mercato delle batterie elettriche per auto: CATL e BYD. La prima è fornitrice di Tesla e Volkswagen e, ad agosto ha stretto un nuovo accordo da 8 miliardi di euro con Mercedes. Le cui future auto elettriche assemblate in Europa monteranno batterie fabbricate nello stabilimento di CATL a Erfurt (Germania), il primo al di fuori della Cina, a cui si affiancherà un nuovo impianto di produzione in Ungheria. BYD ha invece un accordo di fornitura con Stellantis, e starebbe ponderando l’apertura di nuove fabbriche in Francia e Spagna. Se l’attuale trend dovesse continuare, entro il 2031 la Cina avrà più capacità produttiva di batterie elettriche in Europa (il secondo mercato più grande per i veicoli elettrici) di qualsiasi altro Paese. Negli Stati Uniti, l’Inflation Reduction Act prevede una clausola specifica per contrastare il rischio di una eccessiva dipendenza dalla Cina nel mercato delle batterie elettriche: impedisce alle auto che contengono tecnologia proveniente da una “entità straniera di interesse” di ricevere incentivi al consumo, rendendole così più costose. Parallelamente, lo scorso ottobre l’amministrazione Biden ha assegnato 2,8 miliardi di dollari in fondi a 20 società per progetti minerari nazionali critici. Invece, bisognerà aspettare i primi di febbraio per conoscere i dettagli del Net-Zero Industry Act europeo. Un ulteriore mese sarà necessario per conoscere i contenuti del Critical Raw Materials Act annunciato dalla Commissione per l’8 marzo. Su questi due pacchetti di misure si giocherà gran parte dell’indipendenza strategica dell’UE. Un’indipendenza che, al di là della competizione con gli USA sui sussidi passa soprattutto da una risposta alla leadership cinese sul fronte del mercato delle batterie elettriche.[↩]