Ad oggi sono più di seicento i nomi accertati e pubblicati delle persone assassinate dalla brutale repressione poliziesca del regime della Repubblica Islamica iraniana. Oltre 16.000 le persone arrestate. Ciascun nome, ogni storia umana straziata, lascia un segno e un profondo senso di amarezza. Poi prende un senso di disgusto. Le singole crudeltà delle quali veniamo a conoscenza attraverso la stampa sono indicibili, così come la ferinità con la quale il regime si accanisce sulla popolazione in rivolta. Violenza che si connota anche di particolari declinazioni, striscianti e di più antica data. Essa è infatti più aspra nei confronti degli strati più poveri, verso lavoratori e operai, così come contro coloro che hanno cercato di far emergere le contraddizioni del regime attraverso le loro ricerche e il lavoro d’inchiesta, i giornalisti.
Tra loro, Amir-Abbas Azarmvand, giornalista economico e detenuto politico nel carcere di Rajayi Shahr. Un nome ed una storia che ci giungono in queste ultime settimane dall’Iran, attraverso le voci di persone a lui vicine e che fino ad ora hanno trovato a fatica spazio tra le notizie a causa del suo orientamento politico. Giornalista economico marxista per SMTnews1, il suo lavoro si rivolge principalmente ad analisi relative all’impatto delle politiche economiche sulle masse lavoratrici, e sulla classe operaia in particolare. Ha indagato in merito al divario di genere nell’occupazione e alle condizioni di vita delle lavoratrici in diversi settori, concentrandosi anche sulle baraccopoli urbane di Teheran.
Quando le sue indagini di giornalista si sono unite all’attivismo sindacale iraniano e ai movimenti di protesta operai, il regime lo ha però preso di mira. Amir-Abbas Azarmvand, focalizzando il suo lavoro sulle classi meno agiate, quelle che oggi sono maggiormente colpite dalla repressione, ha infatti pubblicato diversi articoli sui movimenti di protesta innescati dai lavoratori di vari settori. Quelli dell’acciaio di Ahvaz, e dell’agro-industriale, dello zuccherificio di Half-tapeh, della Haft Tapeh Sugarcane Company, iniziati nel 2018, e che portarono all’interruzione della lavorazione della canna da zucchero per protestare contro il mancato pagamento dei salari, rivendicando inoltre una tutela sindacale durante il passaggio del grande gruppo industriale al settore privato.
I lavoratori, come riporta un articolo dell’International Alliance in Support of Workers in Iran (IASWI),(( https://workers-iran.org/a-call-for-urgent-action-74-lashes-and-one-year-jail-for-42-azarab-industries-workers-in-iran/)) organizzazione sindacale con sede in Canada, che chiamava le unioni operaie sindacali internazionali ad un’azione urgente di solidarietà con gli operai iraniani, in un primo momento si opposero alla privatizzazione, e una volta avvenuta, subirono un progressivo deterioramento delle loro condizioni di lavoro, unitamente a frequenti ritardi nei pagamenti dei salari. Sempre secondo questa fonte, numerosi lavoratori subirono violenze durante le proteste e venti tra loro vennero arrestati dalle forze di sicurezza. Giunse poi una condanna collettiva in violazione degli elementari diritti umani. Settantaquattro frustate, reclusione per un anno e un mese di lavori forzati per quarantadue lavoratori, che come ricorda l’articolo, furono in tal modo condannati a tortura per aver difeso i loro mezzi di sussistenza.
Il verdetto fece però un grande clamore per la sua disumanità e ingiustizia, prese a rimbalzare sui social media in Iran e spinse i gruppi sindacali a denunciarlo con forza, costringendo la magistratura a rivedere le proprie posizioni e a ritirare nel 2019 le sentenze di condanna, tra le quali compariva anche quella di ‘propaganda contro il sistema’. La testimonianza molto vicina ad Amir-Abbas Azarmvand che ci consegna le informazioni sulla sua storia, rivela però che gli attivisti sindacali e chiunque tenti di organizzare manifestazioni in sostegno dei lavoratori in Iran sia stato invece poi pesantemente criminalizzato. In seguito alla pubblicazione degli articoli sulle lotte operaie iraniane e alle sue analisi economiche, Amir-Abbas Azarmvand è stato infatti arrestato a Teheran e accusato di propaganda contro il regime islamico il primo settembre 2021. Posto in totale isolamento per oltre tre settimane, è stato torturato psicologicamente e condannato a quattro anni di prigione in un processo avvenuto a porte chiuse. Presenti solo il giornalista, i pubblici ministeri e il giudice Iman Afshari.
Senza avvocato e senza aver potuto rivendicare il suo diritto ad un giusto processo, viene rilasciato su cauzione e resta in attesa della citazione scritta a presentarsi al temuto carcere di Evin, a Teheran. L’8 marzo 2022, arrestato una seconda volta durante una celebrazione della Giornata Internazionale della donna, viene portato nuovamente in carcere e in questo momento viene eseguita la sua condanna a quattro anni.
Sette mesi dopo, il 15 ottobre, il giornalista è quindi nel carcere di Evin con i diversi prigionieri politici detenuti nel ‘reparto 8’ che si sono visti coinvolti insieme al ‘reparto 7’, destinato ai carcerati ‘comuni’, in un conflitto interno seguito ad un incendio scoppiato durante la notte. Nonostante la narrazione ufficiale affermi che sia stato causato dai carcerati, che avrebbero cercato deliberatamente di distruggere le mura che circondano la prigione, molte storie raccontate dai familiari dei prigionieri indicano invece quegli eventi quale ulteriore crimine della Repubblica Islamica.
Nel corso della notte infatti, i detenuti del reparto 8, dopo aver sentito rumori di combattimento e colpi d’arma da fuoco provenienti dal reparto 7, si precipitarono per osservare quanto stava accadendo al suo interno attraverso una piccola finestra. Un prigioniero, testimone della scena, sostiene che “i prigionieri venivano colpiti dalla guardia della prigione e che cadevano sul pavimento come foglie davanti ai nostri occhi”.
I racconti di alcuni detenuti indicano che furono sparati colpi d’arma da fuoco attraverso le finestre della sezione 8. Oltre alla sparatoria, le forze speciali hanno iniziato a colpire i prigionieri che protestavano nel cortile e li hanno attaccati con bastoni, spranghe e oggetti contundenti. Sostengono che il colonnello Mahmoudi, capo del reparto della sezione n. 8, e Karbalaie, ufficiale di guardia, abbiano attaccato personalmente i prigionieri.
Circa duemila detenuti della sezione n.7 e n.8 sono stati forzatamente condotti in quelle ore nella palestra della prigione dove sono stati tenuti ammassati e costretti accanto ai cadaveri che giacevano sul pavimento fino al mattino.
Quaranta prigionieri politici del reparto n. 8, tra cui Amir-Abbas Azarmvand, insieme ad Arash Johari, Yashar Daroshafa, Abolfazl Nejadfathollah e altri che erano detenuti nella palestra, sono stati infine inviati alla prigione di Rajayi-Shahr, mentre molti dei detenuti del reparto n. 7 sono stati trasferiti nella prigione di Tehran-Bozorg.
Il giornalista, esiliato quella stessa notte e per l’ennesima volta senza alcun procedimento giudiziario, rischia ora insieme ad altri cinque prigionieri politici, Yashar Tohidi, Maysam Golshani, Mohammad Khani, Reza Salmanzadeh e Seyed Javad Seyedi, di dover far fronte a nuove accuse basate sull’incidente di Evin, ma che rappresentano in realtà una macchinazione volta ed estendere le loro condanne in ragione delle proteste che nel frattempo si sono estese in tutto l’Iran. I familiari ci consegnano la loro testimonianza, che a sua volta raccoglie la voce dei diversi prigionieri, per chiedere solidarietà internazionale e che questa storia venga raccontata e diffusa.
Elena Coniglio