Le cifre contano. Ce lo ricorda ormai da tanti anni il Dossier Statistico sull’Immigrazione, realizzato dal Centro studi IDOS, in collaborazione con l’Istituto di Studi Politici S. Pio V e il Centro studi Confronti. Si tratta, per i pochi che non lo conoscono, dello strumento più prezioso di indagine annuale sull’immigrazione in Italia, in cui all’abbondanza di dati quantitativi si accomuna la capacità – realizzabile solo attraverso una collaborazione collettiva di esperti nei diversi campi – di toccare gran parte di quei temi che costituiscono una profonda, quanto spesso negata, mutazione sociale del Paese. Dalle anticipazioni emerse per il Dossier del 2023, che verrà presentato a Roma e in molte altre città italiane il 26 ottobre, due gli spunti che immettono direttamente nell’attualità. Una premessa: governi passati e governo presente non sembrano animati da grandi discontinuità nell’incapacità di rapportarsi ad un Paese che cambia offrendo prospettive di futuro. Anzi prevalgono i tentativi di tornare nel passato, di immaginare un Paese chiuso, in un continente che si fa sempre più fortezza e il cui unico scopo sembra essere divenuto quello di espellere gli indesiderati. E, a fronte di una crescita degli arrivi frutto di migrazioni forzate, dettate da guerre, dittature, persecuzioni, catastrofi ambientali, profonde crisi economiche e sociali, secondo le anticipazioni pochi o nulli sembrano essere i segnali di uno sguardo rivolto al futuro.
E, partendo proprio dall’attualità, è impossibile non notare come in Italia – accade anche in altri contesti europei – si stia disgregando un sistema che aveva dato anche risultati positivi come quello dell’accoglienza diffusa dei richiedenti asilo, volgendosi verso la detenzione di chi fugge per facilitare irrealizzabili rimpatri. Una scelta che sembra quasi sancire la fine del diritto d’asilo.
Da tempo il contrasto alla cosiddetta “immigrazione irregolare” (come se esistessero reali canali di ingresso) e le chiusure delle frontiere ai richiedenti asilo sono tornati al centro del discorso pubblico. Non è ancora quantificabile quanto l’azione degli imprenditori della paura del mondo politico e dell’informazione pesino in tale azione tesa a creare allarme. Fatto sta che il Dossier prova ad analizzare, dati alla mano, l’aderenza tra le intenzioni politiche e l’efficacia delle misure adottate, tra le quali spicca il trattenimento amministrativo, rafforzato ed esteso ai richiedenti asilo.
Emerge vistosamente l’inefficacia del modello detentivo, al di là delle violazioni che questo provoca, nelle stesse dichiarate intenzioni dei legislatori: i Cpr, che negli anni hanno cambiato nome ma non sostanza, esistono già da 25 anni, non funzionano (appena la metà dei trattenuti viene rimpatriata), ma costano enormemente in termini economici (56 milioni di euro solo per la gestione dell’ultimo triennio) e di rispetto dei diritti umani.
Secondo le anticipazioni contenute nel Dossier, “a dieci anni dal naufragio del 3 ottobre 2013 e a meno di un anno da quello di Cutro, il contrasto all’immigrazione irregolare si sta concentrando non sui trafficanti (da non confondere con gli scafisti alla guida delle imbarcazioni) ma sui migranti, accomunati e confusi nella categoria dell’irregolarità, anche quando sono persone in fuga da guerre, crisi climatiche e gravi violazioni dei diritti umani. I dati aiutano a orientarsi nel confuso dibattito in corso, anche in relazione all’efficacia e alla sostenibilità delle misure introdotte dal governo, a partire dalla detenzione amministrativa, ampiamente estesa – con modalità inedite – anche ai richiedenti asilo”.
Nel 2022, su oltre 500.000 stranieri stimati – per difetto – in condizione di soggiorno irregolare in Italia (un decimo rispetto ai poco più di 5 milioni regolarmente residenti), soltanto a 36.770 è stata intimata l’espulsione, circa 1 ogni 14 (inclusi 2.804 afghani e 2.221 siriani, che pure fuggono da Paesi in guerra e da gravi pericoli per la propria persona) e che per tali ragioni non potranno neanche essere rimandati nel proprio Paese. Di questi, solo 4.304 (11,7%) sono stati poi rimpatriati: una quota estremamente bassa e inferiore a quelle registrate perfino negli anni dell’emergenza sanitaria (15,1% nel 2021 e 13,7% nel 2020), caratterizzati da forti restrizioni nella mobilità internazionale.
Uno dei problemi che da sempre ha tenuto banco è quello dell’identificazione della persona da rimandare a casa e della definizione della nazionalità di provenienza. Per l’identificazione e l’effettivo rimpatrio dei migranti irregolari, come dicevamo, l’Italia, ormai dal 1998, ha istituito la detenzione amministrativa in appositi centri, oggi denominati Cpr (Centri permanenti per i rimpatri). Si tratta di luoghi di diritti negati, come da anni illustrano i rapporti del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, numerose associazioni umanitarie anche internazionali, parlamentari che sono riusciti a rompere il muro di gomma che ottenebra i centri, tessuto della società civile attiva che ne contesta l’esistenza. Nel 2022 vi sono transitati 6.383 migranti, il 68,7% in più rispetto al 2021 (4.387), ma solo la metà dei trattenuti (49,4%) ne è uscita per rientrare nel Paese d’origine (3.154), un’incidenza in linea con quella degli anni precedenti (50,9% nel 2022 e 49,0% nel 2021), ad evidenziare che la scarsa efficacia non è contingente ma intrinseca al sistema. È anche dimostrato che il tasso di efficacia non migliora prolungando i tempi del trattenimento, periodicamente oscillati, dal 1998 ad oggi, tra i 30 giorni e i 18 mesi. Tra il 2019 (48,5%) e il 2020 (50,8%), per esempio, quando il tetto era di 6 mesi (a fronte degli attuali 3, che il governo ha prolungato a 18), i livelli restano analoghi. Lo stesso vale per la moltiplicazione delle strutture: nel 2016-2017 si era arrivati ad averne 14 (1.400 posti), senza per questo ridurre le sacche di irregolarità. Il prolungamento del trattenimento e l’aumento dei Cpr (o di strutture analoghe) comportano, invece, maggiori costi economici, oltreché umani.
La finanziaria di fine 2022 ha previsto una spesa, per il triennio 2023-2025, di 42,5 milioni di euro per rafforzare il sistema dei Cpr con 206 nuovi posti. E ulteriori risorse dovranno essere stanziate per averne uno per regione. Tra il 2021 e il 2023 sono stati spesi, come dicevamo all’inizio, 56 milioni di euro per affidare a soggetti privati la gestione dei Cpr, cifra che non include i costi del personale di polizia e di manutenzione delle strutture.
L’attuale modifica, la quindicesima in 25 anni, si prospetta come una politica di reclusione generalizzata: nuovi Cpr, tempi di trattenimento più lunghi e, soprattutto, un allargamento delle casistiche e dei luoghi in cui mettere in atto la detenzione amministrativa, estesa su vasta scala perfino ai richiedenti asilo. Il cd Decreto Cutro (legge 50/2023), infatti, amplia la platea di quelli sottoposti alla procedura accelerata di rimpatrio in frontiera, e quindi al trattenimento, a coloro che richiedono protezione dopo aver eluso (o tentato di eludere) i controlli o che provengono da un Paese designato come “sicuro”, qualora non abbiano passaporto o non versino “idonea” garanzia finanziaria, fissata in 4.938 euro. Il trattenimento, oltre che negli hotspot, potrà avvenire, in caso di arrivi consistenti, in “strutture analoghe” sul territorio nazionale o nei Cpr. Si introduce, inoltre, la possibilità di trattenere nei Cpr i richiedenti asilo “dublinati”, in attesa del trasferimento verso il Paese UE competente.
In sostanza, la detenzione viene estesa a una gamma estremamente ampia di richiedenti, in contrasto con la normativa europea che ammette il trattenimento solo in casi eccezionali e residuali, escludendo automatismi e generalizzazioni. Preoccupa il passaggio da un modello di accoglienza basato sulla protezione e l’inclusione dei richiedenti asilo a un sistema che ne produce l’isolamento, li considera irregolari e li tratta collettivamente come un pericolo sociale. Invece di incentivare canali sicuri di ingresso per scongiurare ulteriori tragedie in mare e lungo le rotte terrestri, si sta realizzando uno smantellamento del diritto d’asilo e del relativo sistema di accoglienza. Un’opzione che si scontra con la realtà globale di un mondo in cui i migranti forzati già superano i 108 milioni di persone (per il 40% minori) e continueranno ad aumentare nel medio-lungo periodo.
Le anticipazioni del Dossier inducono ad alcune riflessioni. Intanto assistiamo – in Italia come nel resto d’Europa – ad un pericoloso salto di qualità. La detenzione amministrativa doveva costituire, 25 anni fa, l’ extrema ratio per trattenere solo quelle persone considerate socialmente pericolose. Non venne mai scritto in atti legislativi ma la prassi portava a far sì che ad essere rinchiuse erano quelle persone uscite dal sistema carcerario dopo aver scontato una pena ma che non si riusciva a rimpatriare, le persone che vivevano “border line” e, solo in alcuni casi, richiedenti asilo, persone che non avevano più un contratto di lavoro ecc… E si convinse la pubblica opinione della “necessità” per la sicurezza, della realizzazione di dette strutture, vere e proprie carceri in cui non valgono i regolamenti carcerari, in cui la gestione è privatizzata, in cui suicidi, atti di autolesionismo, rivolte, sono all’ordine del giorno mentre neanche le condizioni basilari di salute erano garantite. Strutture irreformabili che, invece di essere cancellate e sostituite da percorsi di regolarizzazione in grado di costruire inserimento sociale, stanno per essere incrementate non solo in base a quanto denunciato nel Dossier 2023. La dichiarazione, passata quasi in sordina, dello “stato di emergenza” per questioni legate all’immigrazione, con la nomina di un Commissario straordinario, potrebbe permettere di ampliare il numero delle strutture atte al trattenimento che serviranno a dare l’idea nelle singole città, che lo Stato affronta i problemi, ma si dimostrerà in tempi brevissimi quanto questo non sia e non possa essere vero. A meno che non si ritenga opportuno realizzare maxi strutture carcerarie per almeno 500 mila persone.
Abbiamo dubbi che questo accada e una dimostrazione in tal senso ci viene offerta da un’altra anticipazione del Dossier. Si sta tornando, dicono da IDOS, alle “regolarizzazioni mascherate”. Il governo che dichiara ad ogni minuto che gli irregolari vanno cacciati non può certo smentirsi e ricorre quindi, come già accaduto in passato, a sotterfugi.
E si parte da un dato che spaventa soprattutto gli imprenditori. L’Italia affronta problemi legati all’invecchiamento della popolazione, con la previsione di un deficit di 7,8 milioni di lavoratori entro il 2050, amplificato dalle politiche restrittive sull’immigrazione degli ultimi 12 anni, che hanno causato carenze di manodopera in settori cruciali. Il nuovo governo ha approvato un piano triennale per l’ingresso di 452.000 lavoratori stranieri, ma questo rimane insufficiente. Normative obsolete mettono a rischio i diritti dei lavoratori immigrati, richiedendo urgentemente una nuova visione delle migrazioni per lavoro. Chi scrive non condivide gli approcci funzionalisti che poi privano i continenti vicini di giovane manodopera ma sappiamo con certezza che sarebbero necessari ogni anno almeno 280 mila nuovi ingressi dall’estero fino al 2050. Eppure, le pervicaci politiche di chiusura verso i migranti ne hanno di fatto bloccato i canali di ingresso per lavoro da 12 anni, alimentando la crisi di manodopera in comparti vitali dell’economia nazionale e svilendone il contributo alla tenuta demografica del Paese. E, si badi bene, se nel Dossier si parla di deficit prodotti in 12 anni, significa che nessuna maggioranza di governo, per quanto di diverso orientamento politico, ha mai avuto il coraggio di affrontare tali tematiche sfidando l’impopolarità.
Il 27 settembre 2023 il governo ha approvato la “Programmazione dei flussi d’ingresso legale in Italia dei lavoratori stranieri per il triennio 2023-2025”, dopo 18 anni dall’ultima pianificazione triennale, che per il 2004-2006, però, pianificava anche le politiche di integrazione, questa volta non contemplate. I 452 mila lavoratori stranieri in 3 anni (136.000 nel 2023, 151.000 nel 2024 e 165.000 nel 2025), sono ampiamente insufficienti, senza calcolare che sono sempre più numerosi i giovani che, italiani o stranieri, decidono di lasciare il nostro Paese attratti da prospettive di vita, di crescita professionale e di salari, incomparabilmente migliori.
Il provvedimento, varato su forte pressione dei datori di lavoro (in grave carenza di manodopera sin dalla crisi pandemica), segna una discontinuità rispetto a 12 anni di paralisi, tuttavia è ancora molto lontano dal coprire l’effettivo fabbisogno (stimato dal governo in 833.000 lavoratori nello stesso triennio (274.800 per il 2023, 277.600 per il 2024 e in 280.600 per il 2025) e – in mancanza di una riforma del meccanismo a cui soggiacciono, da oltre 20 anni, gli ingressi e le permanenze per lavoro dall’estero – è soggetto alle stesse gravi distorsioni osservate lungo questo intero periodo.
Il cosiddetto “Decreto Cutro” di inizio 2023, infatti, pur avendo previsto alcune aperture e migliorie procedurali (semplificazioni per il rilascio del nulla osta al lavoro, asseverazioni non necessarie se la domanda è presentata tramite organizzazioni datoriali, possibili quote riservate a singole categorie di lavoratori, marginali ingressi “fuori quota” di cittadini di Paesi con cui l’Italia abbia sottoscritto accordi di rimpatrio o di stranieri che completino riconosciute attività di formazione all’estero, ingressi riservati al settore domestico e dell’assistenza ecc.), non ha toccato l’impianto che da ormai 25 anni (ovvero dal Testo Unico sull’Immigrazione del 1998, passando attraverso i rigidi inasprimenti della legge Bossi-Fini del 2002) regola, in maniera del tutto irrealistica, l’incontro tra domanda e offerta di lavoro per i migranti. Non solo, infatti, l’ingresso di un lavoratore straniero dall’estero è soggetto a previa chiamata nominativa “al buio” da parte del datore di lavoro che sta in Italia (il quale deve formalizzare un’opzione individuale senza mai aver conosciuto di persona il suo futuro dipendente), il che è tanto più assurdo se si pensa che 3 lavoratori stranieri ogni 4 in Italia sono impiegati in aziende medio-piccole, per lo più a conduzione familiare, o presso le famiglie, come collaboratori domestici e badanti (ovvero in contesti in cui è importante un rapporto di fiducia instaurato previamente); ma il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno sono rigidamente vincolati, rispettivamente, alla sottoscrizione e alla vigenza di un contratto di lavoro: una saldatura quanto più anacronistica, tanto più che il mercato del lavoro è divenuto, in questo quarto di secolo, più flessibile e precario per tutti.
Se a ciò si aggiunge che la stessa legge del 2002 ha abolito il permesso di ingresso per ricerca lavoro, grazie al quale un immigrato poteva soggiornare in Italia per un anno, a spese di una struttura “sponsor”, per cercare direttamente un’occupazione nel Paese, non stupisce che l’impraticabilità di un simile meccanismo abbia alimentato un utilizzo improprio delle quote d’ingresso stabilite dai decreti flussi: fingendo la chiamata dall’estero del lavoratore già alle proprie dipendenze, sono state sistematicamente usate come una “regolarizzazione mascherata”, paradossalmente più rapida e semplice della stessa procedura di regolarizzazione del 2020, peraltro riservata solo a pochissime categorie. Quest’ultima è oltremodo lenta e macchinosa negli esiti, se si considera che, a ben 3 anni dalla presentazione delle domande, ne ha portate ad esito definitivo meno della metà: il 31% (circa 65.200 su un totale di 207.500) con il rilascio di un permesso per lavoro e il 15% con un rigetto. Si tratta, evidentemente, di meccanismi e procedure funzionali alla creazione e al mantenimento di un sistema che rende strutturalmente fragile e ricattabile la posizione dei lavoratori immigrati, esponendoli al rischio di sfruttamento.
Anche quando è regolarmente impiegata, la manodopera straniera in Italia è spesso relegata a lavori precari, faticosi, sottopagati e rischiosi per la salute. Quasi due occupati stranieri su tre svolgono mansioni operaie o di bassa qualifica, una quota doppia rispetto agli italiani. Il prevalente impiego in attività di questo tipo si riflette in retribuzioni inferiori di ben un quarto rispetto alla media. Questa compressione salariale ha peraltro ridotto la capacità di risparmio, scesa dal 38% del reddito nel 2017 al 27% nel 2022, tanto più che circa un lavoratore straniero su cinque è impiegato in part-time involontario, contro solo uno su dieci tra gli italiani (condizione che spesso nasconde ore complementari lavorate in nero).
“In uno scenario – rileva Luca Di Sciullo, presidente del Centro Studi e Ricerche IDOS – in cui il rapido e strutturale invecchiamento della popolazione autoctona, insieme alla fuga delle leve più giovani e qualificate dall’Italia, contrae sempre più la base occupazionale, mettendo a repentaglio produttività e competitività del Paese, è fondamentale, per il bene comune oltre che degli immigrati, accantonare un impianto normativo sorpassato e vizioso, puntando su una riforma dei meccanismi regolari di ingresso dei lavoratori stranieri e di incontro con la domanda di lavoro interna più realistico e aderente all’effettivo funzionamento del mercato, basato, in via complementare, anche su meccanismi di regolarizzazione permanente su base individuale e sulla reintroduzione dell’ingresso per un anno per ricerca di lavoro mediante uno sponsor”.
In un quadro come quello che attraversa negli ultimi anni il Paese, questa proposta rappresenta una sorta di “minimo sindacale”, sotto cui nessuna rivendicazione possa andare. La proposta di Di Sciullo è puro buon senso che porterebbe benefici alla società, all’economia e alla coesistenza, ne guadagnerebbe persino il gettito fiscale – si potrebbero scoraggiare le tante forme di economia sommersa che producono sfruttamento – e avvicinerebbero l’Italia al XXI secolo. Sarebbe poi utile che accanto a riforme legislative strutturali, come quelle avanzate anche da vasti settori sociali e produttivi, riuscisse ad avere maggiore slancio una svolta culturale e politica più profonda. Quella che dovrebbe portare a considerare chi arriva e chi vive in Italia da tanti anni, cittadina/o a tutti gli effetti, cominciando finalmente a garantire la pienezza dei diritti politici. Puntare non solo sulla necessità innegabile dell’economia e del mercato ma sulla costruzione di una società aperta e capace di garantire pari opportunità.
Una sfida che dovrebbe vedere impegnato il mondo dell’informazione, della cultura e che si ponga l’obiettivo ambizioso di rovesciare il senso comune che si è formato in questi decenni, eliminando il ruolo dominante di parole come “invasione”, “clandestini”, “sostituzione etnica” e tante altre, facendo divenire prevalente il termine di persona. Strumenti come il Dossier Statistico e il lavoro prezioso di chi contribuisce a realizzarlo sono fondamentali anche per questo. Che si diffonda.
Stefano Galieni