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Le regole degli Stati Uniti per la “globalizzazione selettiva”

di Alessandro
Scassellati

Nell’ambito della competizione con la Cina, l’amministrazione Biden sta cambiando l’approccio statunitense all’economia mondiale. La regolazione neoliberista post-1990 va abbandonata in favore di una “globalizzazione selettiva” regolata sulla base degli interessi della “sicurezza nazionale” e di “una politica estera per la classe media” capace di “integrare più profondamente politica interna e politica estera”. Di recente, due figure centrali dell’amministrazione – Janet Yellen e Jake Sullivan – hanno illustrato le nuove regole che gli Stati Uniti vogliono imporre al resto del mondo, provando a definire il legame tra politica economica internazionale e sicurezza nazionale statunitense. In questo articolo, analizziamo i principali contenuti e implicazioni delle loro proposte.

Dall’iper-globalizzazione alla “globalizzazione selettiva

È ormai sempre più evidente che il futuro dell’economia mondiale – e probabilmente anche della vita umana sul pianeta – dipende dal modo in cui sarà gestita la competizione sino-americana nei prossimi anni, ossia se si riuscirà ad evitare una drammatica escalation e uno scontro frontale economico, politico e militare tra Stati Uniti e Cina. In molti vedono il rapporto tra Stati Uniti e Cina attraverso la cornice di un conflitto tra grandi potenze: una competizione bilaterale a somma zero in cui uno deve cadere affinché l’altro possa crescere. Ma, per molti altri, il mondo è abbastanza grande per entrambi e Cina e Stati Uniti possono e devono trovare un modo per vivere insieme e condividere la prosperità globale, evitando che la competizione diventi qualcosa di simile a un conflitto aperto e “caldo”.

In questo quadro, è importante notare che negli ultimi due anni l’approccio dell’amministrazione Biden all’economia mondiale è profondamente mutato. Ora ritiene che il modello di globalizzazione neoliberista post-1990 (la cosiddetta iper-globalizzazione) – per decenni esaltato dai governanti statunitensi come il bene più alto di tutta l’umanitàdebba essere abbandonato perché è diventato disfunzionale per gli interessi economici e politici degli Stati Uniti.

La globalizzazione neoliberista post-1990 ha dato la priorità al libero scambio e al libero mercato, portando alla libera circolazione dei capitali, al crollo delle barriere tariffarie e alla crescita del commercio internazionale di beni e servizi nell’economia globale. Ma ora l’amministrazione Biden è giunta alla conclusione che l’enfasi sui flussi derivanti dal libero mercato rispetto a questioni come la sicurezza nazionale, il cambiamento climatico, la sicurezza economica della classe media e la crescita delle disuguaglianze sociali interne, abbia minato le basi socio-economiche della prosperità e delle democrazie occidentali (su questi temi si veda il mio libro Suprematismo bianco. Alle radici di economia, cultura e ideologia della società occidentale, DeriveApprodi, Roma 2023). Pertanto, una sempre maggiore interdipendenza globale senza condizioni non è più considerata auspicabile. Il globalismo neoliberale viene sostituito dal nazionalismo economico e dalla geopolitica.

Il nuovo modello di “globalizzazione selettiva” promosso dagli Stati Uniti si basa su una frammentazione dell’economia-mondo in blocchi geopolitici e geoeconomici in via di «disaccoppiamento» – un blocco euro-atlantico con i suoi satelliti in Asia orientale e Oceania e un blocco euro-asiatico in formazione – che esprimono diversi modelli di sviluppo capitalistico e di rapporti strutturali tra sistema tecnologico e finanziario e sistema sociale e politico, e sono in forte competizione tra loro per la supremazia economica (integrazione e controllo di risorse strategiche, supply chains e mercati), politico-militare (sfere di influenza) e culturale (egemonia ideologica e soft power).

La nuova narrativa dell’amministrazione Biden (come già era avvenuto con quella di Trump, fautrice di una politica America First!) si posiziona sul nazionalismo economico o su una variante di quello che una volta a sinistra si definiva come “socialimperialismo”, ed è condivisa in modo bipartisan sia da Democratici sia da Repubblicani, per cui è ormai possibile parlare di un nuovo Washington Consensus in formazione. In questo modo, gli Stati Uniti abbandonano consapevolmente e unilateralmente i precedenti precetti (fino a ieri tanto invocati e celebrati, al punto da scatenare guerre per imporli) del cosiddetto “ordine internazionale basato sulle regole” (“regole” che per i cinesi non sono quelle della Carta delle Nazioni Unite, che prevedono l’uguaglianza degli Stati e il rispetto della sovranità, dell’indipendenza, dell’integrità territoriale e della non interferenza negli affari interni di altri Stati, ma “regole occidentali” che tracciano linee ideologiche e “regole di una piccola cricca” che mettono gli Stati Uniti al primo posto insieme con i loro alleati del G7), per definirne di nuovi (sempre in modo unilaterale), più rispondenti ad una strategia di rilancio della posizione egemonica statunitense nei confronti sia dei propri alleati occidentali sia della Cina, individuata come il principale avversario, e dei paesi del Sud del mondo (sulle proposte cinesi per un nuovo ordine mondiale multipolare e multilaterale post-occidentale, si veda il nostro articolo qui, sul non allineamento dei paesi del Sud del mondo alle posizioni degli Stati Uniti, si veda il nostro articolo qui).

Un cambiamento di approccio all’economia mondiale che era già percepibile da anni non solo nel deterioramento dei rapporti commerciali con la Cina (Trump aveva iniziato ad imporre dazi di importazione sulle merci cinesi nel 2018), ma anche con i partner dell’Unione Europea (con le controversie sui sussidi di Boeing e Airbus o i dazi sull’acciaio europeo). Una vicenda rivelatrice del nuovo orientamento revisionista statunitense è quella relativa al funzionamento dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), un organismo multilaterale della globalizzazione neoliberista post-1990 fortemente voluto dalle amministrazioni USA, ma ormai paralizzato da anni per l’opposizione statunitense alla nomina di nuovi giudici dell’Appellate Body, l’organo giudicante che ha il compito di emettere sentenze sulle controversie commerciali tra Stati dovute a protezionismo, sussidi pubblici alle imprese e altri comportamenti di mercato scorretti rispetto agli accordi commerciali sottoscritti. Le amministrazioni Trump e Biden hanno volutamente boicottato il funzionamento dell’OMC, ossia dell’organizzazione che dovrebbe garantire il buon funzionamento delle regole del libero mercato nell’ambito dell’economia mondiale, in modo da evitare di essere colti in fallo per l’uso ripetutamente esagerato del concetto di sicurezza nazionale, per l’abuso del controllo di esportazioni/importazioni e l’adozione di misure discriminatorie nei confronti di società straniere (soprattutto cinesi) che hanno violato e violano i principi dell’economia di mercato e della concorrenza leale1.

La narrazione dell’amministrazione Biden è ora cambiata. Per garantire gli “interessi della classe media” – ossia di quella classe che lo storico newdealista americano Arthur Schlesinger Jr. aveva definito nel 1949 il «centro vitale» del sistema politico democratico di massa e che nella cultura politica statunitense include anche un ampio segmento delle classi lavoratrici – bisogna puntare su un protezionismo selettivo e su politiche industriali – come l’Inflation Reduction Act e il CHIPS and Science Act – che devono avere l’obiettivo di favorire il re-shoring di attività produttive industriali da parte di global corporations statunitensi e gli investimenti diretti esteri di imprese di paesi considerati alleati. Si premiano con soldi pubblici gli imprenditori che riportano le proprie catene del valore nel paese, mentre di fatto viene punita l’efficienza dell’esternalizzazione dei costi, e sul fronte ambientale questi programmi sembrano essere concepiti quasi esclusivamente come sussidi per rendere più “verdi” le istituzioni e le merci esistenti, piuttosto che riconvertire l’economia sulla base della sostenibilità2. Più in generale, si cerca di adottare una propria versione delle politiche economiche pubbliche “sviluppiste” utilizzate dalla tanto deprecata Repubblica Popolare Cinese per promuovere e pianificare il proprio sviluppo economico industriale e sostenere la crescita dei propri “campioni nazionali3. Molto dipenderà da professionalità, competenze e poteri nel campo della pianificazione presenti nelle amministrazioni pubbliche a livello federale, statale e locale, molte delle quali ne sono state svuotate negli ultimi decenni, con il rischio concreto che le tecno-burocrazie esistenti siano molto deboli e quindi vengano semplicemente “catturate” dalle corporations più forti e più connesse con la politica.

Il nuovo modello di “globalizzazione selettiva” promosso dagli Stati Uniti auspica anche una riorganizzazione delle catene globali di approvvigionamento e valore in una logica di near-shoring e friend-shoring in paesi considerati fedeli alleati o comunque controllabili (come Canada, Messico, Giappone, Sud Corea, Taiwan e Unione Europea, ma anche India, Angola, Indonesia e Brasile). L’amministrazione Biden ritiene che pratiche economiche sleali della Cina abbiano intaccato la resilienza delle proprie catene di approvvigionamento critiche. Per questo, oltre al re-shoring, gli Stati Uniti stanno anche perseguendo una strategia di “friend-shoring” che mira a mitigare le vulnerabilità che possono portare a interruzioni delle forniture attraverso la creazione di ridondanze nelle loro supply chains critiche con i partner commerciali su cui possono contare.

Al centro del nuovo modello c’è il rilancio dell’egemonia sia economica sia politica degli Stati Uniti (definita come interesse della sicurezza nazionale) e per questo un focus fondamentale delle politiche industriali prevede l’espansione del military-industrial complex, che viene sostenuto finanziariamente (attraverso il budget militare e il sostegno a nuovi programmi di ricerca e sviluppo in tecnologie considerate critiche con un ruolo chiave della Defense Advanced Research Projects Agency) e protetto, prevedendo dazi e controlli sull’export (soprattutto verso la Cina) di nuove tecnologie considerate strategiche, ossia di tutte quelle potenzialmente “dual use”, che possono avere un uso sia civile sia militare. Una evoluzione molto preoccupante dato che gli Stati Uniti e i loro alleati sono ora impegnati non solo nella fornitura di armi all’Ucraina in guerra, ma anche nella più grande espansione del riarmo militare, misurata in termini di puro potere distruttivo e portata globale, che il mondo abbia mai visto.

Nelle ultime settimane, mentre l’amministrazione Biden sta cercando di trovare un difficile compromesso con i Repubblicani che controllano la Camera dei Rappresentanti sull’innalzamento del tetto del debito pubblico (che ha superato la soglia dei 31,4 trilioni di dollari) ed evitare una dichiarazione di default già all’inizio di giugno che destabilizzerebbe gravemente il sistema finanziario globale, distruggendo il credito politico-istituzionale-finanziario degli Stati Uniti e assestando un duro colpo alla loro posizione di leadership nell’economia globale4, sono stati fatti degli sforzi apprezzabili per articolare una narrazione coerente sulle regole della “globalizzazione selettiva” da parte di due figure chiave dell’amministrazione statunitense. Janet Yellen, la Segretaria del Tesoro, e Jake Sullivan, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale hanno cercato di illustrare queste nuove regole, definendo il legame tra politica economica internazionale e sicurezza nazionale degli Stati Uniti nel contesto del rapporto complesso e competitivo tra USA e Cina. Di seguito, proviamo ad analizzare i principali contenuti delle loro proposte e le loro possibili implicazioni.

Le regole delle relazioni economiche tra Stati Uniti e Cina secondo Janet Yellen

Il 20 aprile Janet Yellen ha tenuto un discorso di alto profilo alla John Hopkins University di Washington in cui ha provato a definire modalità e limiti delle relazioni economiche tra Stati Uniti e Cina, al fine di evitare di innescare una escalation. “La crescita economica della Cina non deve essere incompatibile con la leadership economica degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti rimangono l’economia più dinamica e prospera del mondo. Non abbiamo motivo di temere una sana competizione economica con alcun paese”.

Secondo Yellen, negli ultimi anni, la Cina ha deciso “di allontanarsi dalle riforme del mercato verso un approccio più guidato dallo Stato” e questo ha colpito negativamente i suoi vicini e paesi in tutto il mondo5. Questa decisione è avvenuta mentre “la Cina sta assumendo un atteggiamento più conflittuale nei confronti degli Stati Uniti e dei nostri alleati e partner, non solo nell’Indo-Pacifico, ma anche in Europa e in altre regioni”. Secondo Yellen, oggi “siamo in un momento critico” e il progresso su questioni critiche – la guerra in Europa, la ripresa post-pandemica, la questione del debito dei paesi poveri, l’ondata inflazionistica, il riscaldamento globale – richiede un impegno costruttivo tra le due maggiori economie del mondo, “eppure la nostra relazione è chiaramente in un momento di tensione”.

Gli Stati Uniti procedono con fiducia nella loro forza economica a lungo termine. Rimaniamo l’economia più grande e dinamica del mondo. Rimaniamo inoltre fermi nella nostra convinzione di difendere i nostri valori e la sicurezza nazionale. In tale contesto, cerchiamo un rapporto economico costruttivo ed equo con la Cina. Entrambi i paesi devono essere in grado di discutere francamente questioni difficili. E dovremmo lavorare insieme, quando possibile, per il bene dei nostri paesi e del mondo”.

Secondo Yellen, l’approccio economico alla Cina degli Stati Uniti deve avere tre obiettivi principali:

  1. garantire gli interessi di sicurezza nazionale statunitensi e quelli dei loro alleati e partner e proteggere i diritti umani. “Queste sono aree in cui non scenderemo a compromessi”. Per questo “comunicheremo chiaramente alla RPC le nostre preoccupazioni circa il suo comportamento” e “non esiteremo a difendere i nostri interessi vitali”. Anche se le azioni statunitensi possono avere un impatto economico, “sono motivate esclusivamente dalle nostre preoccupazioni riguardo alla nostra sicurezza e ai nostri valori”. Ad esempio, “la salvaguardia di determinate tecnologie dall’apparato militare e di sicurezza della RPC è di vitale interesse nazionale”. Per raggiungere questo obiettivo saranno utilizzati in modo “mirato”, “chiaramente definito“ e “limitato” diversi strumenti: i controlli sulle esportazioni; la messa in una lista nera delle entità che forniscono supporto all’Esercito popolare di liberazione; le sanzioni contro le minacce legate alla sicurezza informatica e alla “fusione civile-militare” della Cina tesa a modernizzare le forze armate e trasformare il PLA in un esercito di livello mondiale (Yellen ha fatto anche un esplicito riferimento ad eventuali forniture militari cinesi alla Russia); la proibizione di investimenti esteri negli Stati Uniti per i rischi per la sicurezza nazionale; un programma per limitare alcuni investimenti in uscita dagli Stati Uniti in specifiche tecnologie sensibili con significative implicazioni per la sicurezza nazionale. In ogni caso, l’obiettivo statunitense “non è utilizzare questi strumenti per ottenere un vantaggio economico competitivo”, quanto proteggere “la sicurezza nazionale nella sfera economica”, oltre che i diritti umani, per cui ha assicurato che rimarranno “ristretti e mirati“;
  2. gli Stati Uniti cercano “un sano rapporto economico con la Cina”, che promuova crescita economica e modernizzazione tecnologica in entrambi i paesi. “Una Cina in crescita che rispetta le regole internazionali fa bene agli Stati Uniti e al mondo”. “Gli Stati Uniti si faranno valere quando sono in gioco i loro interessi vitali”, ma non cercheranno di “separare” (decouple) la loro economia da quella cinese. “Una completa separazione delle nostre economie sarebbe disastrosa per entrambi i paesi” e “destabilizzante per il resto del mondo”. “Gli Stati Uniti non cercano una competizione in cui il vincitore prende tutto”. Entrambi i paesi possono beneficiare di una sana interdipendenza e concorrenza nella sfera economica. Ma una sana concorrenza economica, di cui entrambe le parti traggono vantaggio, “è sostenibile solo se tale concorrenza è leale”, ossia se la Cina consente “ai mercati di svolgere un “ruolo decisivo” nell’allocazione delle risorse”. Una Cina in crescita che rispetta le regole può essere vantaggiosa per gli Stati Uniti perché “può significare una crescente domanda di prodotti e servizi e industrie statunitensi più dinamiche”. Per questo gli Stati Uniti continueranno a collaborare con i loro alleati “per rispondere alle pratiche economiche sleali della Cina”. E continueranno a fare investimenti critici a casa (con un’agenda economica che Yellen definisce “moderna politica economica dal lato dell’offerta”) per espandere la capacità produttiva dell’economia americana, mentre si impegnano con il mondo “per far avanzare la nostra visione di un ordine economico globale aperto, equo e basato su regole”;
  3. gli Stati Uniti cercano la cooperazione sulle sfide urgenti globali. Dall’incontro dello scorso anno tra i presidenti Biden e Xi, entrambi i paesi hanno concordato di migliorare la comunicazione sulla macroeconomia e la cooperazione su questioni come il clima e l’eccesso di debito, “ma occorre fare di più” per affrontare questi problemi insieme. “La questione del debito globale non è una questione bilaterale tra Cina e Stati Uniti. Si tratta di esercitare una leadership globale responsabile. Lo status della Cina come il più grande creditore bilaterale ufficiale del mondo le impone la stessa serie ineluttabile di responsabilità di altri creditori bilaterali ufficiali quando il debito non può essere completamente rimborsato”. Per quanto riguarda il cambiamento climatico, Yellen ha sottolineato che la storia mostra cosa possono fare insieme i due paesi: “i momenti di cooperazione climatica tra Stati Uniti e Cina hanno reso possibili passi avanti globali, compreso l’accordo di Parigi”.

I cinque pilastri della “globalizzazione selettiva” secondo Jake Sullivan

Il 27 aprile, il Consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan ha delineato in un discorso alla Brookings Institution i cinque pilastri della nuova ambiziosa agenda economica internazionale dell’amministrazione Biden, che ha definito “una politica estera per la classe media” capace di “integrare più profondamente politica interna e politica estera6.

Secondo Sullivan, agli Stati Uniti occorre quello che potremmo definire come un nuovo “globalismo selettivo”, una globalizzazione adattata alle sfide del XXI secolo e capace di delineare un diverso paradigma nella politica estera ed economica di Washington. «Il progetto del 2020 e 2030 è diverso rispetto a quello del 1990» ha affermato Sullivan, e il momento è giunto per «costruire un ordine economico globale più equo e duraturo, a beneficio nostro e dei cittadini di tutto il mondo»7. I 5 pilastri di questo “globalismo selettivo” sono i seguenti:

  1. una “strategia industriale americana moderna” che mira a catalizzare attraverso il ritorno a politiche industriali pubbliche gli investimenti privati in settori ritenuti critici per la prosperità e la sicurezza degli Stati Uniti. I riferimenti sono la legge bipartisan sulle infrastrutture, l’Inflation Reduction Act e il CHIPS and Science Act che, oltre a sussidi per le imprese, prevedono misure protezionistiche e impegni per favorire la sindacalizzazione dei lavoratori, la creazione di servizi di welfare aziendale e alti salari (questa è la parte “socialimperialista”), anche se i sindacalisti in Arizona, dove è prevista la costruzione di impianti di fabbricazione di semiconduttori abilitati dai crediti d’imposta previsti dal CHIPS Act, affermano di essere stati respinti e di aver ricevuto critiche da parte dei gestori degli impianti fin dall’inizio. La deregolamentazione, i tagli alle tasse, la privatizzazione rispetto all’azione pubblica, la propensione a trattare il lavoro come costo e non come risorsa, e la liberalizzazione del commercio fine a sé stessa vanno abbandonati o drasticamente ripensati al fine di recuperare la sovranità economica perduta a causa di un’integrazione globale che ha reso gli USA dipendenti da beni prodotti altrove ovvero da catene di produzione transnazionali, facilmente destabilizzabili e che aumentano il potere di condizionalità di altri, la Cina su tutti. Secondo Sullivan, gli effetti delle politiche neoliberiste seguite negli ultimi decenni hanno dimostrato che fosse falso il presupposto “che i mercati allocano sempre il capitale in modo produttivo ed efficiente, indipendentemente da ciò che facevano i nostri concorrenti, indipendentemente da quanto crescessero le nostre sfide condivise e da quanti guardrail abbattessimo. […] in nome di un’efficienza di mercato ipersemplificata, intere catene di approvvigionamento di beni strategici, insieme alle industrie e ai posti di lavoro che li producevano, si sono spostati all’estero”;
  2. gli Stati Uniti vogliono rafforzare la loro base industriale, ma non puntano all’autarchia; l’obiettivo è assicurare “la resilienza e la sicurezza nelle nostre catene di approvvigionamento”. Per questo vogliono puntare sulla collaborazione con altre democrazie sviluppate e paesi in via di sviluppo in modo da garantire che gli alleati degli Stati Uniti adottino politiche simili per migliorare “capacità, resilienza e inclusività” e “per garantire che le catene di approvvigionamento del futuro siano resilienti, sicure e riflettano i nostri valori, anche in materia di lavoro”. Vogliono lanciare un programma di partenariato per diversificare le catene di approvvigionamento già da quest’anno e così ridurre la dipendenza dalla Cina, oltre che dalla Russia. “Vogliamo che si uniscano a noi. In effetti, abbiamo bisogno che si uniscano a noi”. “In definitiva, il nostro obiettivo è una base tecno-industriale forte, resiliente e all’avanguardia in cui gli Stati Uniti e i loro partner affini [come Unione Europea, Canada, Giappone, Corea del Sud, India, Taiwan, ma anche Indonesia, Brasile, Angola], con sede nelle economie emergenti, possano investire e su cui fare affidamento insieme”. Questo, secondo Sullivan, “significa fornire spazio ai partner di tutto il mondo per ripristinare i patti tra i governi e i loro elettori e lavoratori”;
  3. gli Stati Uniti si allontaneranno dai tradizionali accordi commerciali incentrati sull’accesso al mercato (abbassamento delle tariffe doganali) e abbracceranno “nuove partnership economiche internazionali” che affrontano sfide globali come il cambiamento climatico, la sicurezza digitale, la creazione di posti di lavoro e il contrasto alla corsa al ribasso della tassazione delle società “che fa male alla classe media e ai lavoratori”. Solo di recente gli Stati Uniti hanno cominciato a creare l’Indo-Pacific Economic Framework, l’Africa Initiative, l’Americas Partnership for Economic Prosperity e la Partnership for Global Infrastructure and Investment (PGII), tutte però con risorse economiche dedicate piuttosto modeste rispetto alle ambiziose dichiarazioni. Provano a creare “nuove partnership economiche internazionali” alternative a quelle messe in piedi negli ultimi decenni dalla Cina: BRICS e BRICS+, Shanghai Cooperation Organization (SCO), Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) e, soprattutto, Belt and Road Initiative (BRI) che nell’ultimo decennio ha elargito circa 1 trilione di dollari in prestiti e altri fondi per progetti di sviluppo in 150 paesi in tutto il Sud del mondo, rendendo la Cina il più grande creditore ufficiale;
  4. gli Stati Uniti promettono che cercheranno di “mobilitare trilioni di dollari di investimenti nelle economie emergenti con soluzioni che quei paesi stanno modellando da soli, ma con capitali abilitati da un diverso tipo di diplomazia statunitense”. L’obiettivo è anche quello di fornire aiuti ai paesi che si trovano a dover affrontare difficoltà debitorie. Sullivan sostiene che per portare avanti questi obiettivi gli Stati Uniti sono impegnati nel promuovere una riforma dei modelli operativi della Banca Mondiale (a capo della quale gli USA hanno appena nominato l’indo-americano Ajay Banga) e delle banche per lo sviluppo regionale;
  5. la “protezione delle nostre tecnologie fondamentali“, a cominciare da semiconduttori e, intelligenza artificiale per “mantenere il maggior vantaggio possibile” e difendere “la sicurezza nazionale”, con blocchi dell’export e degli investimenti produttivi da parte di aziende americane all’estero e di aziende straniere in America. Queste misure “protettive”, secondo Sullivan, “si concentrano su una ristretta fetta di tecnologia e su un piccolo numero di paesi intenti a sfidarci militarmente”. Sullivan ha paragonato questa politica a “un piccolo cortile e un’alta recinzione“, sostenendo che le misure dell’amministrazione prevedono “restrizioni accuratamente personalizzate” motivate da preoccupazioni di sicurezza nazionale e mirate solo a “una fetta ristretta” di tecnologie avanzate. Sullivan ha anche parlato di diversificazione e di riduzione del rischio (derisking, termine utilizzato anche da Ursula von der Leyen per cercare di “ricalibrare” la politica dell’Unione Europea verso la Cina8) e non di decoupling in relazione alla necessità di ridurre la dipendenza statunitense dalle supply chains cinesi e bloccare il trasferimento tecnologico per non consentirne l’adeguamento ai nuovi requisiti dell’accumulazione.

È soprattutto quest’ultimo pilastro, che lascerebbe agli Stati Uniti una totale discrezionalità unilaterale nel decidere quale sia la “fetta ristretta” di tecnologia (tutta quella dual use?, per cui la “fetta” non sarebbe poi così tanto ristretta) e quali paesi siano “intenti a sfidarci militarmente” su cui imporre restrizioni e controlli sull’export e su investimenti interni ed esterni (per cui, in pratica, il confine tra derisking e decoupling potrebbe diventare assai labile, al punto che l’ex premier britannico, Liz Truss, ha auspicato la costituzione di una “NATO economica” per sfidare la Cina), che potrebbe rallentare lo sviluppo tecnologico della Cina – che infatti parla di un “blocco tecnologico“, dal momento che gli USA hanno tagliato alcuni dei loro legami tecnologici con la Cina imponendo divieti di esportazione di microchip alle aziende cinesi con il pretesto della sicurezza nazionale – e quindi avere il maggiore impatto negativo sul futuro dell’economia globale.

Sebbene ciascuno di questi pilastri presenti delle sfide, alcuni sono particolarmente controversi, perché altri paesi – a cominciare da quelli dell’Unione Europea – considerano alcune politiche, come il blocco delle esportazioni/importazioni e degli investimenti in Cina come delle minacce ai loro settori industriali o come i requisiti “Buy American” imposti dall’amministrazione Biden come protezionistiche, ossia in violazione delle regole del commercio internazionale (su questo si veda il nostro articolo qui).

Il 10 e 11 maggio, Sullivan ha tenuto colloqui con Wang Yi, direttore dell’Ufficio della Commissione Affari Esteri del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese, a Vienna. I due hanno tenuto più round di discussioni per più di 10 ore su questioni importanti, tra cui le relazioni Cina-USA, la questione di Taiwan9, la situazione in Asia-Pacifico e la crisi ucraina. I colloqui sono stati franchi, approfonditi, sostanziali e costruttivi. È interessante notare che il tono e la formulazione del briefing della Casa Bianca sono stati simili a quelli della parte cinese, indicando che la valutazione ufficiale del significato dei colloqui da parte di entrambe le parti è relativamente vicina, dando ulteriore forza ai segnali positivi dei colloqui. Anche secondo la stampa nazionalista cinese, l’incontro ha aperto una finestra per rimuovere gli ostacoli e allentare le tensioni tra i due paesi in mezzo a una situazione di stallo diplomatico dopo l’incidente del pallone meteorologico e l’incontro del presidente della Camera Kevin McCarthy con la presidente regionale di Taiwan Tsai Ing-wen a Los Angeles ad aprile che avevano creato un clima da nuova Guerra Fredda.

Globalizzazione selettiva” vs. “globalizzazione intelligente

La relazione complessiva Cina-USA non può essere semplicemente definita dalla “concorrenza” come non è preordinata e non è destinata ad essere per forza conflittuale se le scelte di chi governa queste due grandi potenze terranno presente che si può competere e si può cooperare, e che anche quando si compete si può riconoscere che si ha un interesse condiviso per la pace e la prosperità globale. La nostra speranza è che nei prossimi anni prevalgano dialogo costruttivo e relazioni politiche ed economiche responsabili tra Stati Uniti e Cina. È nell’interesse dei popoli di questi due grandi paesi, ma anche dei popoli di tutto il mondo.

Le nuove regole proposte da Yellen e Sullivan per un modello di “globalizzazione selettiva” hanno l’obiettivo di definire il legame tra politica economica internazionale e sicurezza nazionale degli Stati Uniti (che per entrambi deve contemplare anche il buon funzionamento del sistema democratico) nel contesto del complesso competitivo rapporto tra USA e Cina. Yellen e Sullivan riprendono molte delle considerazioni espresse dall’economista Dani Rodrik nel suo libro La globalizzazione intelligente (Laterza, Roma-Bari 2015). Rodrik ha sostenuto che oggi l’umanità è alle prese con un «trilemma della globalizzazione», secondo il quale la democrazia, la sovranità nazionale (la sicurezza nazionale che Sullivan vuole proteggere) e l’integrazione economica globale sono reciprocamente incompatibili tra loro: si possono combinare due di questi tre elementi, ma non è possibile disporre di tutti e tre contemporaneamente e per intero. Se si vuole una maggiore globalizzazione, si deve rinunciare alla democrazia o alla sovranità nazionale. Se si vuole difendere ed estendere la democrazia, si deve scegliere fra lo Stato-nazione e l’integrazione economica internazionale. Se si vuole conservare la sovranità dello Stato-nazione si deve scegliere fra potenziare la democrazia e potenziare la globalizzazione.

Fino alla fine degli anni ’60, il compromesso di Bretton Woods permetteva di conciliare la politica democratica e lo Stato nazionale pur in un regime di progressiva internazionalizzazione dei mercati, poiché essi erano soggetti a regolamentazione e la loro apertura non inficiava in modo determinante le leve del potere sovrano e democraticamente eletto dei governi nazionali. Oggi, nell’era della globalizzazione neoliberista dispiegata, secondo Rodrik, pensare di poter avere contemporaneamente tutte e tre le cose ci lascia in una instabile terra di nessuno. La globalizzazione neoliberista, infatti, è per sua stessa natura «disruptive», e in quanto tale crea vincitori e vinti. Ogni tipo di società, ma in particolare quelle di tipo democratico, può tollerare questo processo di «distruzione creativa» solo se in grado di garantire benefici condivisi. La democrazia e la determinazione nazionale, pertanto, devono prevalere sull’iper-globalizzazione. Le democrazie hanno il diritto di proteggere i loro sistemi sociali, e quando questo diritto entra in conflitto con le esigenze dell’economia globale, è quest’ultima che deve cedere, per diventare «intelligente», meno estrema, e avanzare verso un sistema politico che si articoli in una forma di governance globale. Restituire potere alle democrazie nazionali garantirebbe basi più solide per l’economia mondiale, e qui starebbe il paradosso estremo della globalizzazione.

Secondo Rodrik, occorre sviluppare uno strato sottile di regole internazionali che consentano l’esercizio di una governance globale e, allo stesso tempo, lascino ampio spazio di manovra ai governi nazionali. Questa sarebbe una globalizzazione migliore, più «intelligente», un sistema che può risolvere i mali della globalizzazione senza intaccarne i grandi benefici economici. Il problema con cui il mondo attuale deve confrontarsi e produrre una risposta adeguata, dunque, consiste nel trovare un modo in cui la tendenza verso la creazione di una economia globale possa essere riconciliata con una stabilità e coesione nelle società nazionali, oltre che con la preservazione della natura.

I chiarimenti offerti da Yellen e Sullivan indicano che l’amministrazione Biden comprende i rischi di imporre restrizioni al commercio e agli investimenti eccessivamente ampie in nome della sicurezza nazionale. Tali misure danneggerebbero l’economia globale e probabilmente si ritorcerebbero contro provocando la rappresaglia della Cina.

Un ordine globale stabile dovrebbe essere basato su norme e pratiche che riconoscono il diritto di ogni paese a proteggere i propri interessi nazionali. Richiede anche che vengano condivise delle regole per garantire che la difesa di questi interessi sia ben calibrata e non danneggi altri paesi. Raggiungere questo obiettivo può essere impegnativo, ma non impossibile. Quando i governi perseguono obiettivi di sicurezza nazionale attraverso politiche unilaterali che influiscono negativamente su altri paesi, i responsabili politici dovrebbero articolare chiaramente i propri obiettivi, mantenere linee di comunicazione aperte e proporre rimedi strettamente mirati destinati a mitigare gli effetti negativi di tali politiche. Le politiche non dovrebbero essere perseguite con il preciso scopo di punire l’altra parte o indebolirla a lungo termine, e il mancato raggiungimento di un compromesso accettabile in un’area non dovrebbe diventare un pretesto per ritorsioni in un dominio non correlato. Tali limiti autoimposti potrebbero aiutare a prevenire l’escalation e persino suscitare un’accettazione riluttante dall’altra parte (su questi temi hanno riflettuto con un “approccio realista” Dani Rodrik e Stephen M. Walt).

Le recenti dichiarazioni di Yellen e Sullivan suggeriscono che le politiche economiche estere dell’amministrazione Biden cercheranno di allinearsi a questi principi. Ma alcune domande importanti rimangono senza risposta. Ad esempio, i controlli sulle esportazioni di microchip avanzati erano e sono ben calibrati o si sono spinti troppo oltre nel sabotare la capacità tecnologica cinese senza creare un sufficiente beneficio per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti? E, dato che le restrizioni si stanno estendendo ad altri settori critici, come l’intelligenza artificiale, il 5G e la fusione nucleare, possiamo ancora descriverle come rivolte solo a una “fetta ristretta” di tecnologia10? Riusciranno Yellen e Sullivan a mantenere la barra sull’allineamento ai principi da loro enunciati nel corso della lunga campagna per le elezioni presidenziali del 2024, ossia nel momento in cui presumibilmente si intensificherà la competizione tra Democratici e Repubblicani per dimostrare agli elettori americani chi è più “duro” nei confronti della Cina11?

Soprattutto, non è chiaro se le cosiddette preoccupazioni di sicurezza nazionale citate da Yellen e Sullivan siano autentiche o semplicemente un pretesto per un’azione unilaterale contro la Cina. Gli Stati Uniti sono pronti ad accettare un ordine mondiale multipolare in cui la Cina abbia il potere di plasmare il processo decisionale regionale e globale? O l’amministrazione è ancora impegnata a mantenere il primato degli Stati Uniti, come suggerisce la strategia per la sicurezza nazionale di Biden resa pubblica nell’ottobre 2022?

Le azioni parlano più delle parole e riveleranno presto le risposte a queste domande. Ma le narrazioni di Yellen e Sullivan forniscono una qualche rassicurazione a coloro che credono che gli Stati Uniti possano affrontare le loro legittime preoccupazioni di sicurezza nazionale senza minare l’economia globale.

Alessandro Scassellati

  1. Anche il Fondo Monetario Internazionale si interroga sul futuro dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Tra il 2000 e il 2021, le sanzioni statunitensi contro altri paesi sono aumentate del 933%. Durante i quattro anni di presidenza di Trump, gli Stati Uniti hanno lanciato più di 3.900 sanzioni, una media di tre al giorno. Gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni unilaterali contro quasi 40 paesi, colpendo quasi la metà della popolazione mondiale.[]
  2. Da questo punto di vista, l’industria dell’auto è un esempio calzante. Idealmente, le politiche “verdi” dovrebbero sviluppare soluzioni di trasporto multimodale con un ruolo limitato per piccoli veicoli elettrici. Ma questo implicherebbe un drastico ridimensionamento del settore industriale dell’auto, qualcosa di impensabile per le case automobilistiche orientate al profitto, che stanno invece spingendo per produrre SUV completamente elettrici ad alto margine.[]
  3. Ma, in Cina, il capitale statale è dominante grazie alla proprietà pubblica in settori strategici a monte dell’economia. Oltre a godere dei diritti formali di proprietà sui beni chiave, una forma altamente specifica di organizzazione di classe-Stato consente al Partito Comunista Cinese (PCC) di esercitare un certo controllo sul percorso di sviluppo generale del paese. La sua cultura della disciplina interna è cruciale nell’assegnare ai politici la doppia identità di padroni/controllori del capitale e servitori del partito-Stato. Ciò fornisce una solida base per la pianificazione pubblica, consentendo all’accumulazione privata di coesistere con le forze che modellano il mercato attraverso le politiche del credito e di approvvigionamento. Anche la rete pubblico-privata del PCC è altamente adattabile, consentendo al governo di attuare importanti cambiamenti politici in tempi relativamente brevi. Dopo la crisi finanziaria del 2008 e la crisi pandemica del 2020, le istruzioni politiche sono state immediatamente trasmesse ai membri del partito in previsione di enormi pacchetti di stimoli statali, che si sono tradotti in risposte fiscali molto più rapide ed efficaci che negli Stati Uniti o nell’UE.[]
  4. I Repubblicani vogliono che vengano fissati nuovi limiti alla spesa futura prima di dare il via libera a maggiori pagamenti per coprire i prestiti su spese precedentemente emanate. Il loro disegno di legge approvato alla Camera taglierebbe un’ampia fascia della spesa pubblica ai livelli dello scorso anno, con una diminuzione di circa il 9%. I massimali ridurrebbero la spesa in termini reali poiché non terrebbero il passo con l’inflazione prevista e la crescita della popolazione. Non si applicherebbero a programmi come Social Security e Medicare, che dovrebbero crescere drasticamente con l’invecchiamento della popolazione statunitense. La legislazione annullerebbe l’assistenza sanitaria, le infrastrutture, gli aiuti per l’affitto e altri fondi che rimangono non spesi dei 5,2 trilioni di dollari approvati dal Congresso tra il 2020 e il 2022 per combattere la pandemia di CoVid-19. Ciò farebbe risparmiare 30 miliardi di dollari. Annullerebbe anche lo sforzo di Biden di cancellare fino a $ 10.000 di debito studentesco per alcuni mutuatari e bloccherebbe un altro piano che legherebbe il rimborso del debito ai redditi dei mutuatari. Ciò farebbe risparmiare 460 miliardi di dollari. I repubblicani hanno descritto questi programmi come ingiusti nei confronti di coloro che non sono andati al college o hanno saldato i propri debiti. La Corte Suprema dovrebbe pronunciarsi prima di luglio sulla legalità del piano di Biden. Inoltre, la legislazione revocherebbe un aumento del budget per l’Internal Revenue Service che l’agenzia di riscossione delle imposte utilizzerebbe per assumere più dipendenti e implementare nuove tecnologie. Ciò peggiorerebbe i problemi di bilancio del governo di $ 120 miliardi, poiché sacrificherebbe l’aumento delle entrate che l’IRS genererebbe attraverso una migliore applicazione delle tasse. Ancora, il disegno di legge abrogherebbe gli incentivi per le energie rinnovabili, i veicoli elettrici e altre tecnologie rispettose del clima che i Democratici hanno approvato lo scorso anno come parte di una misura chiamata Inflation Reduction Act. Non prende di mira gli aumenti dell’imposta sulle società, le restrizioni sui prezzi dei farmaci o altri aspetti di tale legge. Ciò farebbe risparmiare 540 miliardi di dollari. Infine, la legislazione rafforzerebbe i requisiti di lavoro per i partecipanti ad alcuni programmi contro la povertà. Gli adulti senza figli fino a 56 anni che ricevono un’assicurazione sanitaria attraverso il programma Medicaid, che copre le persone a basso reddito, dovrebbero lavorare almeno 80 ore al mese o partecipare a corsi di formazione professionale o servizi alla comunità. Allo stesso modo, gli adulti senza figli fino a 56 anni che ricevono assistenza alimentare attraverso il programma SNAP perderebbero i benefici dopo tre mesi se non potessero dimostrare di lavorare almeno 20 ore alla settimana o di partecipare a un programma di formazione professionale. Tali requisiti di lavoro attualmente si applicano a coloro che hanno meno di 50 anni. Anche i requisiti di lavoro sarebbero inaspriti nel programma di assistenza in denaro per l’Assistenza temporanea alle famiglie bisognose. Nel complesso, ciò ridurrebbe la spesa di $ 120 miliardi.[]
  5. Le accuse della Yellen riprendono temi su cui si discute polemicamente da anni: “La Cina ha utilizzato a lungo il sostegno del governo per aiutare le sue aziende a guadagnare quote di mercato a spese dei concorrenti stranieri. Ma negli ultimi anni la sua politica industriale è diventata più ambiziosa e complessa. La Cina ha ampliato il sostegno alle sue imprese statali e alle imprese private nazionali per dominare i concorrenti stranieri. Lo ha fatto nei settori industriali tradizionali così come nelle tecnologie emergenti. Questa strategia è stata accompagnata da sforzi aggressivi per acquisire nuovo know-how tecnologico e proprietà intellettuale, anche attraverso il furto di proprietà intellettuale e altri mezzi illeciti. L’intervento del governo può essere giustificato in determinate circostanze, ad esempio per correggere specifici fallimenti del mercato. Ma il governo cinese impiega strumenti non di mercato su scala e ampiezza molto più vaste rispetto ad altre grandi economie. La Cina impone inoltre numerose barriere all’accesso al mercato per le aziende americane che non esistono per le imprese cinesi negli Stati Uniti. Ad esempio, Pechino ha spesso richiesto alle aziende straniere di trasferire la tecnologia proprietaria a quelle nazionali, semplicemente per poter fare affari in Cina. Questi limiti all’accesso al mercato cinese inclinano il campo di gioco a favore delle imprese cinesi. Inoltre, siamo preoccupati per un recente aumento delle azioni coercitive contro le aziende statunitensi, che arriva nello stesso momento in cui la Cina dichiara di riaprire agli investimenti stranieri. Le azioni del governo cinese hanno avuto implicazioni drammatiche per l’ubicazione dell’attività manifatturiera globale. E hanno danneggiato lavoratori e aziende negli Stati Uniti e in tutto il mondo. In alcuni casi, la Cina ha anche sfruttato il proprio potere economico per vendicarsi e imporsi contro partner commerciali vulnerabili. Ad esempio, ha utilizzato il boicottaggio di beni specifici come punizione in risposta ad azioni diplomatiche di altri paesi. Il pretesto della Cina per queste azioni è spesso commerciale. Ma il suo vero obiettivo è imporre conseguenze su scelte che non gli piacciono e costringere i governi sovrani a capitolare alle sue richieste politiche”. Nell’ambito dell’ultimo G7 dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali in Giappone, Yellen ha parlato di “coercizione economica” da parte della Cina verso paesi come Australia e Lituania che andrebbe contrastata e sanzionata.[]
  6. Sullivan ha sostenuto che oggi dobbiamo affrontare “la sfida della disuguaglianza e il suo danno alla democrazia. Qui, l’ipotesi prevalente era che la crescita abilitata dal commercio sarebbe stata una crescita inclusiva. Che i guadagni del commercio sarebbero finiti per essere ampiamente condivisi all’interno delle nazioni. Ma il fatto è che quei guadagni non sono riusciti a raggiungere molti lavoratori. La classe media americana ha perso terreno mentre i ricchi hanno fatto meglio che mai, e le comunità manifatturiere americane sono state svuotate mentre le industrie competitive e all’avanguardia si sono trasferite nelle aree metropolitane. Ora i driver della disuguaglianza economica […] sono complessi e includono realtà strutturali come la rivoluzione digitale. Ma un ruolo chiave tra questi driver hanno avuto decenni di politiche economiche dello “sgocciolamento”. Politiche come tagli fiscali regressivi, profondi tagli agli investimenti pubblici, concentrazione aziendale incontrollata e misure attive per minare il movimento operaio che inizialmente ha costruito la classe media americana. Gli sforzi per adottare un approccio diverso nell’amministrazione Obama, compresi gli sforzi per approvare politiche per affrontare il cambiamento climatico, investire in infrastrutture, espandere la rete di sicurezza sociale e proteggere i diritti dei lavoratori di organizzarsi, sono stati ostacolati dall’opposizione repubblicana. E francamente, anche le nostre politiche economiche interne non sono riuscite a tenere pienamente conto delle conseguenze delle nostre politiche economiche internazionali. Ad esempio, il cosiddetto shock cinese che ha colpito in modo particolarmente duro le tasche della nostra industria manifatturiera nazionale con impatti ampi e di lunga durata non è stato adeguatamente previsto e non è stato adeguatamente affrontato nel momento in cui si è svolto. E collettivamente, queste forze hanno logorato le basi socioeconomiche su cui poggia qualsiasi democrazia forte e resiliente”.[]
  7. In nome dell’idea che «qualsiasi crescita fosse buona crescita», ha affermato Sullivan, si è promossa una politica neoliberista fatta di deregulation, tagli alle tasse, delocalizzazioni che ha colpito duramente pezzi importanti degli Stati Uniti, della loro classe media e dei loro lavoratori dell’industria, alimentando in ultimo rabbie, tensioni e polarizzazioni politiche che hanno indebolito la stessa democrazia americana. Al contempo, l’assenza di meccanismi regolativi o di standard mondiali ha reso intrinsecamente volatile un sistema esposto a frequenti turbolenze, fossero esse quelle provocate da una finanza opaca o da supply chains facilmente perturbabili e alla mercé di chi ne gestisce tanti stadi iniziali e intermedi. Infine, dato per molti aspetti più importante, una certa narrazione benevola e ottimista della globalizzazione ha indotto a sottovalutare la persistenza di conflitti e competizioni di potenza ovvero, ha detto Sullivan, a ritenere erroneamente «che l’integrazione economica avrebbe reso le nazioni più responsabili e aperte, e che l’ordine globale sarebbe stato più pacifico e cooperativo».[]
  8. L’Unione Europea ha definito la Cina nel 2019 un “partner“, un “concorrente economico” e un “rivale sistemico“. Da allora “l’aspetto della rivalità” è diventato più importante per la Commissione, ma la Cina rimane il principale partner commerciale con un interscambio intorno ai 900 miliardi di dollari all’anno, particolarmente importante per le economie industriali tedesca (298,6 miliardi di euro di interscambio nel 2022), italiana e francese. La Cina rappresenta il 20% delle importazioni dell’UE e riceve il 9% delle esportazioni dell’UE. Inoltre, la Cina detiene una posizione dominante in diversi settori cruciali per le economie europee. Produce il 95% dei wafer solari e il 90% delle celle fotovoltaiche, mentre la quota UE si assesta rispettivamente su meno dell’1% e 2%. Secondo la Commissione Europea, inoltre, negli ultimi cinque anni Pechino ha effettuato il 90% degli investimenti mondiali in “impianti manufatturieri net-zero”, cioè in settori ritenuti cruciali per combattere il cambiamento climatico. Non solo: in media Pechino estrae il 45% delle materie prime critiche che si ricavano nel mondo, con punte che superano l’80% per gallio, magnesio, tungsteno e bismuto. Tutti minerali fondamentali per le tecnologie delle “transizioni gemelle”, verde e digitale. Attualmente, in Cina si producono 6 batterie elettriche su 10 e 7 pannelli solari su 10. Si prevede che la domanda di cobalto aumenterà in modo significativo nel breve termine e la Repubblica Democratica del Congo domina l’estrazione di cobalto dove le aziende cinesi sono dei player fondamentali. Il litio consente ai veicoli elettrici di generare la stessa energia e velocità dei veicoli a benzina/diesel/gas e Zimbabwe, Bolivia e Cile sono tre dei principali produttori di litio al mondo. La Cina ha eccellenti relazioni da Stato a Stato con questi paesi africani e sudamericani, nonché una maggiore presenza in Afghanistan, che ha enormi riserve di litio. Unione Europea, Stati Uniti e i loro alleati hanno riserve sufficienti di litio e rame, ma sarebbero necessari investimenti significativi in tempi stretti e cooperazione tecnologica per costruire adeguate industrie minerarie. Oggi gli Stati Uniti producono solo il 4% del litio, il 13% del cobalto, lo 0% del nichel e lo 0% della grafite necessari per soddisfare l’attuale domanda di veicoli elettrici. Nel frattempo, oltre l’80% dei minerali critici viene lavorato da un solo paese, la Cina.[]
  9. La questione di Taiwan è al centro degli interessi fondamentali della Cina, la prima linea rossa che non deve essere oltrepassata nelle relazioni Cina-USA. In varie occasioni, Biden e molti altri alti funzionari della sua amministrazione si sono impegnati pubblicamente a rimanere fedeli alla politica della Cina unica e a non sostenere “l’indipendenza di Taiwan“. Ma Washington tende comunque a fomentare le tensioni attraverso lo Stretto di Taiwan, inviando navi da guerra e aerei da combattimento nell’area, aumentando le vendite di armi all’isola cinese e sostenendo che la Cina è pronta a prendere l’isola con le armi nel 2027. Alle riunioni parlamentari annuali della Cina a marzo, Xi ha affermato che trasformerà l’esercito cinese in un “grande muro d’acciaio” (la Cina ora produce oltre il 90% delle sue armi a livello nazionale, secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, ha già le più grandi forze armate del mondo, con circa 2 milioni di personale attivo e la sua marina è anche la più grande del mondo, con circa 355 navi attive rispetto alle 296 degli Stati Uniti), ma ha sottolineato la necessità di uno “sviluppo pacifico delle relazioni attraverso lo Stretto“. Sulla questione Taiwan occorre registrare il tentativo di smarcamento dagli USA di Macron che ha tentato di rilanciare la “autonomia strategica” di Francia e Unione Europea: “La cosa peggiore sarebbe credere che noi europei dovremmo essere dei seguaci su questo tema e doverci adattare al ritmo americano e a una reazione eccessiva cinese. […] Se ci sarà una acutizzazione accelerata del duopolio [Cina-USA], non avremo né il tempo né i mezzi per finanziare la nostra autonomia strategica e diventeremo vassalli, anche se possiamo essere il terzo polo se abbiamo alcuni anni per costruirlo. […] Non vogliamo entrare in una logica di blocco contro blocco”. Su questo tema si veda il nostro articolo qui.[]
  10. È bene riflettere sul fatto che mentre alcune aziende statunitensi hanno molto da perdere da uno scontro con la Cina, altre potrebbero trarne vantaggio. Insieme al complesso industriale-militare, le società della Silicon Valley stanno deliberatamente alimentando i timori sulle capacità cinesi nell’intelligenza artificiale, nella speranza di ottenere il sostegno pubblico per le loro attività e bloccare l’accesso cinese ai mercati di paesi alleati. Ciò crea una relazione che si rafforza a vicenda tra la ricerca del profitto privato e il potere statale, nel tradizionale stile imperialista.[]
  11. Le forze politiche che animano la gigantesca macchina-Stato USA sono diventate sempre più faziose, incoerenti e disfunzionali all’interno di una battaglia tra il pluralismo della liberal-democrazia e il fascismo autoritario proposto dal Partito repubblicano dominato da Trump. Potrebbe essere solo questione di tempo prima che quell’incoerenza politica cominci a colpire le maggiori leve del potere economico e militare (da questo punto di vista, lo scontro politico sulla fissazione del tetto del debito pubblico rappresenta una evidente crisi rivelatrice). Ora che gli Stati Uniti sono entrati nel lungo ciclo elettorale verso il 2024 dovremmo aspettarci che le disfunzioni diventino ancora più evidenti. L’enigma che devono affrontare gli alleati dell’America – a cominciare dagli europei – è come far fronte al declino (e alla possibile implosione) di una grande potenza imperiale che è ancora il garante dell’ordine mondiale, ma che è anche la più grande fonte potenziale del suo disordine. Cfr. T. McTagu, What America’s great unwinding would mean for the world, «The Atlantic», 8 August 2022, https://www.theatlantic.com/international/archive/2022/08/europe-america-military-empire-decline/670960/; C. McGreal, US political violence is surging, but talk of a civil war is exaggerated – isn’t it?, «The Guardian», 20 August 2022, https://www.theguardian.com/us-news/2022/aug/20/us-political-violence-civil-war; B. Tannehill, Preparing for the Worst, «The New Republic», 12 December 2022, https://newrepublic.com/article/168784/democrats-preparing-worst-republican-minoritarian-rule.[]
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3 Commenti. Nuovo commento

  • Ottimo 👍 molto approfondito grazie

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  • […] Uniti e Cina (l’avanzare di una Nuova Guerra Fredda, di cui abbiamo parlato nei nostri articoli qui, qui, qui e qui) hanno fatto da sfondo al vertice, l’incontro dei BRICS ha messo in primo piano […]

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  • […] Il Gruppo dei 20 (G20) ha incluso i 19 paesi con le maggiori economie del mondo e l’Unione Europea1. Un meccanismo multilaterale per la governance globale che si autodefinisce “il principale forum per la cooperazione economica internazionale”, anche se negli ultimi anni non si è più dimostrato molto efficace nella gestione delle crisi (come la pandemia, i cambiamenti climatici, la guerra Russia-Ucraina e le sue destabilizzanti conseguenze) e nel fungere da comitato direttivo dell’economia globale (peraltro in forte rallentamento, se non proprio in stagnazione e, almeno in Europa, in recessione) nell’era della “globalizzazione selettiva” (sul tema della “globalizzazione selettiva” si veda il nostro articolo qui). […]

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