Finora l’amministrazione Biden non ha avuto successo nel reclutare paesi chiave nel Sud del mondo, in particolare India e Brasile, per sostenere l’Ucraina nella guerra con la Russia. I paesi del Sud del mondo non vogliono applicare sanzioni economiche contro la Russia (solo il 19% dei paesi del mondo ha seguito USA e UE su questa strada) e far parte della nuova Guerra Fredda tra l’Occidente e la Russia; non accettano la visione occidentale dell’invasione russa dell’Ucraina come “non provocata” (con la lunga fase di espansione ad est della NATO e, successivamente, con la costruzione di una situazione esplosiva in Ucraina); e accusano di ipocrisia gli Stati Uniti e i principali paesi europei che tentano di isolare i paesi autoritari (dal momento che molte dittature, “democrazie illiberali” e “post-democrazie” sono loro alleate).
Nonostante Biden abbia affermato in un importante discorso in Polonia il 26 marzo 2022 che l’Ucraina è ora “in prima linea” nella “lotta perenne per la democrazia e la libertà“, come ha osservato la rivista americana di politica internazionale Foreign Policy nel maggio 2022, questa narrazione retorica non ha funzionato come attrattore per allargare la coalizione sotto il controllo USA, mentre invece si è aperta una contrapposizione geopolitica caratterizzabile come “the West vs. the Rest”, il resto cui appartiene la maggior parte dell’umanità (7 miliardi su 8). Una situazione che è stata confermata anche da un recente rapporto del think-tank European Council for Foreign Relations sugli orientamenti delle opinioni pubbliche.
Se poi dalla questione russa allarghiamo il campo di osservazione per includere i rapporti competitivi tra USA e Cina, con il tentativo degli USA di mantenere il primato sulla Cina e di circondarla militarmente (facendo leva su Corea del Sud, Giappone, Filippine, Australia, Nuova Zelanda, altri paesi alleati, la NATO e basi militari navali nella regione dell’Indo-Pacifico), allo stesso modo, il Sud del mondo nel suo insieme è fortemente contrario alle provocazioni militari statunitensi volte a generare una crisi rispetto alla posizione di Taiwan come parte della Cina.
D’altra parte, anche un paese europeo come la Francia ha recentemente provato a prendere le distanze in modo clamoroso dagli Stati Uniti sulla questione di Taiwan, rivendicando per sé stessa e l’Unione Europea (che ha nella Cina il suo principale partner commerciale con un interscambio intorno ai 900 miliardi di dollari all’anno) la necessità di percorrere la strada dell’autonomia strategica (si veda il nostro articolo qui). Ma si tratta di un’opzione che, dopo la distruzione del gasdotto Nord Stream da parte degli statunitensi, appare ormai del tutto preclusa, anche perché ha mandato per aria il modello economico industriale tedesco (si veda il nostro articolo qui), ossia il vero motore dell’economia dell’Unione Europea, e ha inflitto costi significativi alla maggior parte della popolazione europea dato che la distruzione di industrie nazionali vitali, l’ondata inflazionistica, il rialzo dei tassi di interesse (con il conseguente rincaro di prestiti e mutui) e l’espansione dei bilanci militari seguono i decenni di sostanziale stazionarietà dei (bassi) salari, di precarizzazione del lavoro e di austerità inflitta allo stato sociale (e alle viste c’è ora anche il ritorno a politiche di austerità con la reintroduzione della disciplina del “patto di stabilità”). Tra l’altro, molti paesi della “nuova Europa”, baltici e centro-orientali, come la Polonia (si veda il nostro articolo qui), cercano disperatamente di tenere gli Stati Uniti dalla loro parte mentre infuria la guerra e ciò crea tensioni nelle relazioni tra Bruxelles e Pechino, anche perché Ursula Von der Leyen vuole perseguire una politica di de-sinizzazione in nome della “riduzione del rischio”. Il peggior incubo della “Nuova Europa” è che gli Stati Uniti, con un Donald Trump rieletto nel 2024, se ne tornino a casa.
È sempre più evidente che il futuro dell’economia mondiale (e probabilmente anche della vita umana sul pianeta) dipende dal modo in cui sarà gestito il conflitto sino-americano nei prossimi anni, ossia se si eviterà una drammatica escalation con uno scontro frontale (anche militare). Negli ultimi due anni, l’approccio dell’amministrazione Biden all’economia mondiale è profondamente cambiato e ora ritiene che il modello di globalizzazione post-1990 – per decenni esaltato come il bene più alto di tutta l’umanità -, che ha dato la priorità al libero scambio e al libero mercato rispetto alla sicurezza nazionale, al cambiamento climatico, alla sicurezza economica della classe media e alle disuguaglianze sociali, abbia minato le basi socio-economiche delle democrazie occidentali. Una sempre maggiore interdipendenza globale non è più considerata auspicabile. Pertanto, la nuova narrativa ideologica dell’amministrazione Biden (come già era avvenuto con quella di Trump), condivisa in modo bipartisan sia da Democratici sia da Repubblicani (il nuovo Washington Consensus) si posiziona sul nazionalismo economico, abbandonando consapevolmente i precetti del vecchio “ordine internazionale basato sulle regole”, fino a ieri tanto invocato e celebrato (a questo proposito basta pensare alla triste fine che ha fatto l’Organizzazione Mondiale del Commercio, l’organismo multilaterale della globalizzazione, ormai paralizzato da anni per l’opposizione USA alla nomina di nuovi giudici dell’Appellate Body, l’organo giudicante che ha il compito di dirimere le controversie commerciali tra Stati dovute a protezionismo, sussidi pubblici alle imprese e altri comportamenti di mercato scorretti). Ora l’amministrazione Biden punta su protezionismo; politiche industriali per il re-shoring (con l’Inflation Reduction Act e il CHIPS and Science Act), ossia adottando uno degli strumenti chiave utilizzati dalla tanto deprecata Repubblica Popolare Cinese; near-shoring e friend-shoring delle catene di approvvigionamento e valore in paesi considerati fedeli alleati o comunque controllabili (come Canada, Messico, Giappone, Sud Corea, Taiwan e Unione Europea, ma anche India, Angola, Indonesia e Brasile); l’espansione ulteriore del military-industrial complex; dazi e controlli sull’export delle nuove tecnologie considerate strategiche.
Di recente (25 aprile), il Consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan ha delineato in un discorso alla Brookings Institution i cinque pilastri della nuova ambiziosa agenda economica internazionale dell’amministrazione Biden, che ha definito “una politica estera per la classe media“. Il primo pilastro è una “strategia industriale americana moderna” che mira a catalizzare gli investimenti privati in settori ritenuti critici per la prosperità e la sicurezza degli Stati Uniti. Il secondo prevede la collaborazione con altre democrazie sviluppate e paesi in via di sviluppo per garantire che gli alleati degli Stati Uniti adottino politiche simili per migliorare “capacità, resilienza e inclusività“. In terzo luogo, gli Stati Uniti si allontaneranno dai tradizionali accordi commerciali incentrati sull’accesso al mercato e abbracceranno “nuove partnership economiche internazionali” che affrontano sfide globali come il cambiamento climatico, la sicurezza digitale, la creazione di posti di lavoro e la concorrenza fiscale delle società. E gli Stati Uniti promettono che cercheranno di generare migliaia di miliardi di dollari in investimenti nelle economie emergenti e di fornire aiuti ai paesi che affrontano difficoltà debitorie attraverso una riforma dei modelli operativi della Banca Mondiale (a capo della quale gli USA hanno appena nominato l’indo-americano Ajay Banga) e delle banche per lo sviluppo regionale. Ma è il quinto pilastro di Sullivan, che si concentra sulla “protezione delle nostre tecnologie fondamentali“, a cominciare da semiconduttori, intelligenza artificiale e fusione nucleare, per “mantenere il maggior vantaggio possibile” e difendere “la sicurezza nazionale”, con blocchi dell’export e degli investimenti produttivi da parte di aziende americane all’estero e di aziende straniere in America, che potrebbe rallentare lo sviluppo tecnologico della Cina (che parla di un “blocco tecnologico“) e quindi avere il maggiore impatto negativo sul futuro dell’economia globale. Sebbene ciascuno di questi pilastri presenti delle sfide, alcuni sono particolarmente controversi, perché altri paesi – a cominciare da quelli dell’Unione Europea – considerano alcune politiche, come i requisiti “Buy American” dell’amministrazione, come protezionistiche (su questo si veda il nostro articolo qui).
Gli Stati Uniti sono particolarmente critici nei confronti dei paesi africani per non aver preso una posizione forte contro la guerra della Russia in Ucraina e per aver ignorato il regime di sanzioni occidentali contro la Russia. Ma molti di questi paesi sono tra le principali vittime delle odierne crisi dell’energia, del debito, dell’inflazione e dell’insicurezza alimentare esplose a seguito della guerra russo-ucraina. Di fronte a questo scenario di insicurezza, l’Unione Europea, insieme alla FAO, sta cercando di impiegare la propria diplomazia alimentare in Nord Africa come parte degli sforzi occidentali per contrastare e isolare la Russia.
Gli Stati Uniti non riescono nemmeno a convincere partner storici come Israele, Turchia e Giordania a schierarsi con Washington contro Mosca. Poiché sia la Cina che la Russia aumentano i loro risultati economici e militari nel continente africano, è diventato più difficile per gli Stati Uniti raggiungere i propri obiettivi politico-diplomatici. Nel frattempo, quest’anno il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha visitato numerosi paesi africani per prepararsi al vertice di luglio a San Pietroburgo con i leader africani.
Anche le accuse statunitensi di violazioni dei diritti umani contro Russia e Cina cadono nel vuoto nel Sud del mondo a causa dell’aumento della violenza brutale e armata dei mass shooters suprematisti bianchi e della polizia negli Stati Uniti (un paese con 330 milioni di abitanti e 400 milioni di armi, molte delle quali da guerra, come i fucili automatici da 100 colpi al minuto); dell’aumento del divario di ricchezza tra ricchi e poveri; e, naturalmente, del razzismo sistemico nella società statunitense. L’insurrezione a Washington del 6 gennaio 2021, guidata dalle milizie di estrema destra e organizzata da Trump e dai suoi consiglieri, ha sollevato ulteriori domande su forza e futuro della democrazia e del governo degli Stati Uniti. La polarizzazione politica partigiana, la disunione politico-sociale-territoriale e la faziosità ideologica negli Stati Uniti (con i repubblicani trumpiani che stanno lavorando all’interno dei confini del sistema democratico per abbatterlo) smentiscono la sua auto-proclamata narrazione e immagine di laboratorio di democrazia (su questi temi si veda il mio libro Suprematismo bianco. Alle radici di economia, cultura e ideologia della società occidentale, DeriveApprodi, Roma 2023).
Gli sforzi fatti dagli Stati Uniti e dalla NATO nel perseguire costantemente la politica dei cambi di regime negli ultimi settant’anni e di trasformarsi in una forza aggressiva impegnata in grandi guerre in Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia, Siria e ora Ucraina, sostengono la scelta di non allineamento dei leader di oltre 120 paesi del Sud del mondo (sulla politica estera americana negli ultimi 20 anni, si veda il nostro articolo qui; sul non allineamento si veda il nostro articolo qui). Piuttosto che al cosiddetto “ordine internazionale basato sulle regole” dominato dagli Stati Uniti, questi leader sono decisamente più interessati all’applicazione dei principi contenuti nella Carta delle Nazioni Unite che prevedono l’uguaglianza degli Stati e il rispetto della sovranità, dell’indipendenza, dell’integrità territoriale e della non interferenza negli affari interni di altri Stati. Chiedono anche la riforma del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, aumentando la rappresentanza dei paesi di Asia, Africa e America Latina, in modo da ridurre l’attuale sovra-rappresentazione dei paesi dell’Occidente e assicurare un vero multilateralismo nella governance.
L’attuale cronaca dei media mainstream occidentali sugli scontri militari in Sudan attribuisce la colpa al ruolo dell’esercito russo e del gruppo paramilitare Wagner, ma volutamente ignora il ruolo del sostegno degli Stati Uniti (e dei loro tradizionali alleati del Golfo Persico – Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar – e di Israele) ai leader militari in Sudan, così come in tutto il Sud del mondo, in particolare in Africa e America Latina. I diplomatici statunitensi hanno coccolato i leader militari in Africa, in particolare in Sudan, piuttosto che lavorare con i leader civili. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea si sono appoggiati ai vertici militari sudanesi come unici mediatori di potere validi per organizzare un governo a Khartoum (su questo tema si veda il nostro articolo qui).
Questa situazione è simile a decenni di coinvolgimento degli Stati Uniti in America Centrale, dove hanno sostenuto i generali in Guatemala, Honduras ed El Salvador, nonostante il loro ruolo nel reprimere e terrorizzare la popolazione. Washington ha sostenuto accordi di condivisione del potere in questi paesi, anche se i funzionari civili erano tipicamente secondari rispetto alle loro controparti militari (si veda il nostro articolo qui).
Ci sono state diverse votazioni significative alle Nazioni Unite dall’invasione russa dell’Ucraina del 4 febbraio 2022, con un numero crescente di Stati africani – Sud Africa, Senegal, Repubblica Centrafricana e Mali, tra gli altri – che non sono stati disposti a sostenere le posizioni degli Stati Uniti sulla sospensione della Russia dal Consiglio dei diritti umani o sulla richiesta di risarcimenti russi per l’Ucraina. La Russia è ancora molto apprezzata per decenni di sostegno ai movimenti di liberazione dell’Africa e di opposizione agli interessi coloniali europei.
Gli Stati Uniti per la maggior parte hanno ignorato gli interessi africani (su questo tema si veda il nostro articolo qui) e solo di recente la vicepresidente Kamala Harris si è recata in visita in Africa per annunciare l’imminente varo di misure di assistenza economica. Questa assistenza promessa impallidisce rispetto al sostegno cinese a numerosi progetti infrastrutturali in tutto il continente.
Il Segretario di Stato Antony Blinken si è recato in Sud Africa l’anno scorso; poco dopo Sud Africa e Russia hanno tenuto le loro prime esercitazioni militari congiunte. A marzo, Mathu Joyini, l’ambasciatore sudafricano presso le Nazioni Unite, ha suggerito che gli Stati Uniti e i loro alleati hanno commesso le proprie violazioni della Carta delle Nazioni Unite nel recente passato e ora stanno semplicemente perseguendo i propri piani geopolitici in Ucraina invocando la situazione umanitaria e difendendo all’ONU risoluzioni contro Mosca. Di recente, il Sud Africa ha consentito a un aereo cargo russo di atterrare in una base aerea vicino a Pretoria, sebbene fosse soggetto a sanzioni da parte degli Stati Uniti per la spedizione di armi alle forze militari russe. Putin dovrebbe recarsi in Sud Africa entro la fine dell’anno per un vertice regionale, ed è altamente improbabile che il governo sudafricano sosterrà le richieste della Corte penale internazionale per l’arresto del leader russo se dovesse comparire.
L’amministrazione Biden e gli altri governanti dei paesi occidentali devono prendere atto dell’accusa di ipocrisia da parte dei leader di India, Brasile e altri Stati del Sud del mondo. Mentre i diplomatici statunitensi esortano questi paesi a evitare contratti di forniture energetiche con la Russia, gli Stati Uniti stanno cercando modi per migliorare le proprie relazioni con il Venezuela (paese ridotto alla fame da oltre un decennio di embargo da parte degli USA e dei loro alleati) al fine di importare più petrolio da Caracas. Il presidente Biden prima ha condotto una campagna per cercare di trasformare l’Arabia Saudita in un “paria” in conseguenza del terribile omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi (2 ottobre 2018), ma poi si è recato a Riyadh per cercare (invano) di convincere il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman di aumentare la produzione di petrolio (4 luglio 2022). Numerosi paesi europei hanno firmato contratti energetici significativi con regimi arabi autoritari e repressivi al fine di rafforzare le proprie importazioni di energia (sul rapporto tra Italia e Algeria, si veda il nostro articolo qui).
Documenti secretati trapelati di recente dimostrano che l’India ha resistito agli sforzi degli Stati Uniti per sostenere le risoluzioni occidentali alle Nazioni Unite riguardanti l’invasione russa. L’India ha anche resistito alle pressioni degli Stati Uniti per organizzare una discussione sulla guerra al recente vertice del G-20 a New Dehli. I documenti trapelati rivelano anche che il consigliere per la sicurezza nazionale dell’India, Ajit Kumar Doval, ha assicurato al suo omologo russo, Nikolay Petrushev, che l’India non si sarebbe schierata nell’attuale confronto tra Russia e Stati Uniti. Altri importanti Stati regionali come il Brasile, l’Egitto e il Pakistan hanno dato assicurazioni simili alle loro controparti russe e cinesi (sui rapporti del Brasile di Lula con la Cina e la Russia, si veda il nostro articolo qui). Tutti questi Stati hanno pagato prezzi più alti per importanti materie prime e beni di consumo a causa delle sanzioni unilaterali e delle imposizioni di controlli sulle esportazioni e sugli investimenti nelle tecnologie statunitensi ed europee contro Cina e Russia (che comunque non hanno causato il crollo dell’economia russa, si veda il nostro articolo qui). In Egitto, un’inflazione che supera il 33%, l’austerità imposta dal FMI (a cui deve 13,5 miliardi di dollari), insieme a dispendiosi mega-piani infrastrutturali e immobiliari gestiti dai militari (come la costruzione di una nuova grandiosa capitale a 30 miglia dal Cairo), hanno spinto sempre più egiziani nell’insicurezza alimentare e povertà (almeno il 30% degli oltre 109 milioni di abitanti, secondo le più recenti statistiche del governo, anche se la cifra reale dovrebbe essere più alta). Nel frattempo, Exxon Mobil, Chevron, Royal Dutch Shell, Total Energies, ENI e le altre grandi compagnie petrolifere euro-americane, hanno ottenuto profitti record a causa delle interruzioni nelle forniture di energia russa. Stati Uniti e Unione Europea vorrebbero imporre sanzioni contro paesi e aziende che commerciano con la Russia, ad esempio comprando e vendendo tecnologie “dual use” (che possono avere un uso sia civile sia militare) e petrolio. Ma se da un giorno all’altro sparissero i barili di greggio russo, si rischierebbe di entrare rapidamente in un periodo di recessione globale.
L’influenza della Cina sta prendendo il sopravvento su quella degli Stati Uniti sia in Medio Oriente sia in Africa sia in Sud America. C’è un crescente numero di paesi che chiedono di aderire al BRICS+ e alla Shanghai Cooperation Organization (SCO)1. La Cina ha promosso la costituzione della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) nel 2020, un accordo di libero scambio tra 15 paesi dell’Asia-Pacifico – Cina, Australia, Brunei, Cambogia, Indonesia, Giappone, Corea del Sud, Laos, Malesia, Myanmar, Nuova Zelanda, Filippine, Singapore, Tailandia e Vietnam – che rappresentano circa il 30% della popolazione mondiale (2,2 miliardi di persone) e il 30% del PIL globale ($ 29,7 trilioni), rendendolo il più grande blocco commerciale della storia2. E mentre Sullivan ribadisce nel suo discorso che si deve “tornare alla convinzione fondamentale che abbiamo sostenuto per la prima volta 80 anni fa: che l’America dovrebbe essere al centro di un vivace sistema finanziario internazionale che consenta ai partner di tutto il mondo di ridurre la povertà e migliorare la prosperità condivisa”, c’è una sempre più marcata tendenza delle banche centrali dei paesi del Sud del mondo a creare accordi commerciali per transazioni bilaterali in valute nazionali o, comunque, diverse dal dollaro (con una crescita dello yuan cinese).
Oltre a firmare accordi energetici a lungo termine sia con l’Iran che con l’Arabia Saudita (due paesi che si sono recentemente riappacificati grazie alla mediazione cinese), Pechino è pronta a dominare lo sfruttamento dei minerali più importanti per la produzione di batterie per veicoli elettrici (attualmente in Cina si producono 6 batterie elettriche su 10 e 7 pannelli solari su 10). Si prevede che la domanda di cobalto aumenterà in modo significativo nel breve termine e la Repubblica Democratica del Congo domina l’estrazione di cobalto dove le aziende cinesi sono dei player fondamentali. Il litio consente ai veicoli elettrici di generare la stessa energia e velocità dei veicoli a benzina/diesel/gas e Zimbabwe, Bolivia e Cile sono tre dei principali produttori di litio al mondo. La Cina ha eccellenti relazioni da Stato a Stato con questi paesi africani e sudamericani, nonché una maggiore presenza in Afghanistan, che ha enormi riserve di litio. Gli Stati Uniti e i loro alleati hanno riserve sufficienti di litio e rame, ma sarebbero necessari investimenti significativi e cooperazione tecnologica per costruire adeguate industrie minerarie. Oggi gli Stati Uniti producono solo il 4% del litio, il 13% del cobalto, lo 0% del nichel e lo 0% della grafite necessari per soddisfare l’attuale domanda di veicoli elettrici. Nel frattempo, oltre l’80% dei minerali critici viene lavorato da un solo paese, la Cina.
Nel complesso, gli investimenti degli Stati Uniti e dei paesi europei impallidiscono rispetto alle iniziative cinesi della Belt and Road Initiative (BRI) in tutto il Sud del mondo, in particolare gli enormi prestiti per vasti progetti infrastrutturali. Nell’ultimo decennio, la BRI ha elargito circa 1 trilione di dollari in prestiti e altri fondi per progetti di sviluppo in quasi 150 paesi, rendendo la Cina il più grande creditore ufficiale del mondo (per questo viene accusata falsamente da opinionisti occidentali di aver deliberatamente creato delle “trappole del debito” per rendere dipendenti e ricattabili molti paesi del Sud globale). La Cina ha una sola base militare all’estero (a Djibouti), ma ha una rete globale di oltre 90 porti commerciali che sono parzialmente o totalmente di proprietà o gestiti da aziende cinesi.
Le richieste degli Stati Uniti in materia di governance democratica si confrontano sfavorevolmente con la riluttanza russa e cinese a porre condizioni politiche come prerequisiti per rapporti commerciali e a costringere i paesi del Sud del mondo a schierarsi in modo aperto (sulle caratteristiche delle proposte cinesi per un nuovo ordine mondiale multipolare e multilaterale post-occidentale, si veda il nostro articolo qui). Molti paesi preferiscono non scegliere da che parte stare cercando di trarre vantaggio nel provare a giocare le grandi potenze l’una contro l’altra. C’è anche un’intensa competizione di grande potere per l’influenza in Medio Oriente e Nord Africa poiché sia Mosca sia Pechino approfittano del mancato riconoscimento dell’Iran da parte degli Stati Uniti; del sostegno incondizionato illimitato degli Stati Uniti a Israele; e dell’ipocrisia degli Stati Uniti sul loro ruolo nel cosiddetto processo di pace in Medio Oriente.
Nello scenario della nuova guerra fredda, gli Stati Uniti e i loro alleati globali della NATO cercano disperatamente di contrastare il cambiamento geopolitico rappresentato dal declino dell’egemonia degli Stati Uniti sull’economia globale e il riemergere di Cina e Russia come potenze leader sulla scena mondiale (insieme all’ascesa dei BRICS, più in generale) – tutti elementi che indicano il passaggio, seppure contrastato, a un ordine mondiale multipolare. Nel tentativo di resistere, e persino di invertire, questa tendenza geopolitica epocale, gli Stati Uniti e i loro alleati sono ora impegnati nella più grande espansione del riarmo militare, misurata in termini di puro potere distruttivo e portata globale, che il mondo abbia mai visto. All’interno di questo allarmante e pericoloso contesto geopolitico globale, considerata l’attuale debolezza politica del movimento popolare pacifista sia nel Nord sia nel Sud globale, la “rinascita” del movimento antimperialista dei paesi non allineati nel Sud del mondo può essere vista come una base indispensabile per la pace, la stabilità, la libertà e la sopravvivenza umana.
Alessandro Scassellati
- L’organizzazione è nata nel 2001 e da allora è cresciuta rapidamente. I membri attuali sono Cina, India, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Pakistan, Tagikistan e Uzbekistan. I partner del dialogo sono Arabia Saudita, Armenia, Azerbaigian, Cambogia, Egitto, Nepal, Qatar, Sri Lanka e Turchia. Gli osservatori sono Afghanistan, Bielorussia, Iran e Mongolia. Il vertice SCO di Samarcanda, in Uzbekistan, lo scorso anno ha avviato il processo per includere Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Kuwait, Maldive e Myanmar come nuovi partner del dialogo.[↩]
- Solo di recente gli Stati Uniti stanno cercando di accompagnare la loro proiezione geopolitica e militare nella regione dell’Indo-Pacifico con una iniziativa economica, l’Indo-Pacific Economic Framework. Stanno negoziando capitoli con 13 paesi indo-pacifici per fornire risorse per accelerare la transizione verso l’energia pulita, l’implementazione di un’equità fiscale e di una lotta contro la corruzione, standard elevati per la tecnologia e catene di approvvigionamento più resilienti per beni e input critici. Ancora una volta, però, come anche nei casi della cooperazione economica con l’Africa, della nuova Americas Partnership for Economic Prosperity e della Partnership for Global Infrastructure and Investment (PGII), le ambizioni espresse sul piano retorico sono molto elevate, ma le risorse economiche destinate appaiono risibili rispetto a quelle impegnate dalla Cina e dal suo sistema di imprese.[↩]