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Se la nuova guerra fredda USA-Cina diventa una battaglia navale. Il caso AUKUS

di Alessandro
Scassellati

Come l’amministrazione Trump, anche l’amministrazione Biden considera la Cina il suo principale avversario strategico e alimenta una nuova “guerra fredda” globale. In questa impresa, rischiosa per la pace e il futuro del pianeta, cerca di coinvolgere soprattutto i Paesi della regione indo-pacifica (Australia, Corea del Sud, Giappone, India, etc.). L’Unione Europea è riluttante a seguire gli USA su questa strada di contenimento della Cina, Medita di sganciarsi dal suo storico alleato per perseguire una “autonomia strategica”, i cui contenuti in termini di proposta politica sono, però, ancora tutti da definire.

L’alleanza AUKUS

A un mese esatto dalla caduta di Kabul in mano ai taliban, un duro colpo alla credibilità degli Stati Uniti soprattutto in relazione alla loro capacità di garantire la sicurezza propria e dei loro alleati (tra l’altro non ascoltati e né coinvolti nelle decisioni), gli Stati Uniti sono passati al contrattacco (“America is back”). La risposta di Joe Biden è arrivata sottoforma di un aumento del confronto con la Cina, necessario a Washington per dimostrare che il ritiro dall’Afghanistan non implica un ripiego sugli affari interni, ma anzi segna la ripresa di un nuovo dispiegamento di forze di fronte a Pechino, abbandonando al contempo l’approccio “America go-it-alone” seguito da Trump.

Nessun ridimensionamento strategico, dato che Biden prova a radunare le democrazie del mondo contro autocrazie come la Cina, rilanciando il “pivot to Asia” (la strategia di riposizionamento militare in Asia avviata da Obama nel 2011) e la proiezione imperiale globale degli Stati Uniti[1], promuovendo un’ennesima alleanza in difesa di aree del mondo lontane dalle sue coste. Un nuovo patto di difesa nella regione dell’Indo-Pacifico serve come una potente confutazione dell’argomento secondo cui Washington è in ritirata e che avrebbe perso interesse a lavorare con i suoi alleati. “Si tratta di investire nella nostra più grande fonte di forza, le nostre alleanze, e aggiornarle per affrontare meglio le minacce di oggi e di domani. Si tratta di collegare gli alleati e i partner esistenti dell’America in modi nuovi“, ha detto Biden nel suo discorso di presentazione del nuovo patto.

Biden rimane legato ad una visione ideologica della leadership globale degli Stati Uniti che presuppone che gli USA possano ancora esercitare lo stesso livello di influenza globale che avevano quando costituivano oltre il 30% dell’economia mondiale e godevano di una positiva reputazione per competenza amministrativa, vitalità e trasparenza delle istituzioni democratiche e abilità diplomatica. Sebbene Biden riconosca che l’era unipolare è finita e che gli USA non possono risolvere da soli ogni problema globale, molte delle sue dichiarazioni suggeriscono che comunque ci vorrebbe ancora provare. La “dottrina Biden” per il mondo sembra essere un mix di messianismo democratico e antiautoritario e di volontà di potenza globale da parte di un’America rinvigorita che però non vuole necessariamente ricorrere alla forza militare. Per ora, sul piano concreto, la maggiore differenza rispetto a Trump sembra essere una maggiore attenzione alla ricerca di soluzioni diplomatiche nella difesa degli interessi degi Stati Uniti, senza escludere il ricorso all’iniziativa militare (ma “la missione deve essere chiara e realizzabile“), per cui l’esercito americano “non deve essere usato come risposta a tutti i problemi che vediamo nel mondo“.

Nella notte tra il 15 e il 16 settembre, Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia hanno annunciato a sorpresa una partnership militare tutta “anglosassone” – definita con l’acronimo AUKUS[2] – per la sicurezza per l’Indo-Pacifico (la vasta regione che va dalla costa orientale dell’Africa agli Stati insulari del Pacifico) che aiuterà l’Australia ad acquisire almeno 8 sottomarini a propulsione nucleare realizzati con tecnologie statunitensi ed inglesi, annullando solo poche ore prima dell’annuncio un precedente accordo contrattuale per la fornitura di 12 sottomarini convenzionali (diesel/elettrici, derivati dai futuri sottomarini nucleari Barracuda) di progettazione francese da oltre 50 miliardi di euro, per il quale erano già stati spesi 2,4 miliardi di dollari (ed è probabile che altre centinaia di milioni di dollari se ne andranno in compensazioni per l’interruzione del contratto).

In base all’accordo, l’Australia non avrà armi nucleari (è firmataria dei trattati di non proliferazione), ma utilizzerà sistemi di propulsione nucleare (settimo Paese al mondo, dopo USA, UK, Russia, Francia, India e Cina) per i sottomarini che saranno assemblati solo tra il 2030 e il 2040 nei cantieri navali australiani di Adelaide[3] e che consentiranno alla marina australiana di stare al passo con quella cinese, perché i sottomarini potranno operare su lunghe distanze, saranno in grado di rimanere in immersione anche per 5 mesi, non richiederanno rifornimento e avranno migliori capacità di invisibilità. Gli analisti della sicurezza ritengono che l’Australia probabilmente utilizzerà i sottomarini a propulsione nucleare per pattugliare le importanti rotte di navigazione del Mar Cinese Meridionale, in acque rivendicate anche da Vietnam, Filippine e Malesia.

Il patto “AUKUS” prevede anche una collaborazione tra i tre Paesi nel campo della difesa informatica, dell’intelligenza artificiale e delle tecnologie quantistiche. Inoltre, Australia e Stati Uniti hanno annunciato un’ampia cooperazione militare, compresi gli schieramenti a rotazione di tutti i tipi di aerei militari statunitensi in Australia.

Nei giorni successivi all’annuncio del patto, si è saputo che la partnership è stata il risultato di mesi di negoziati segreti da parte dei vertici militari e politici dei tre Paesi[4], durante i quali la Gran Bretagna – che recentemente ha inviato la portaerei Queen Elizabeth in Asia, dove ha tenuto la sua prima esercitazione congiunta con le forze di autodifesa giapponesi in agosto – aveva indicato di voler fare di più nella regione. Per quanto la Cina non sia mai stata menzionata nel corso della conferenza congiunta di Biden, Johnson e Morrison, è evidente che l’alleanza militare riguarda la Cina, presa direttamente di mira da questo nuovo accordo.

Da tempo, ormai, nella regione Indo-Pacifica si respira un’aria da guerra fredda. La strategia degli Stati Uniti per l’Indo-Pacifico, come d’altra parte quella per la sicurezza nazionale, definisce esplicitamente la Cina un “rivale strategico“. Gli ultimi 5 anni sono stati caratterizzati dalle crescenti contrapposizioni a tutto campo tra Cina e USA e tutti i Paesi dell’area sono ormai impegnati in una massiccia corsa agli armamenti. Secondo il ministero degli Esteri cinese l’AUKUS “danneggia gravemente la pace e la stabilità regionale, intensificando la corsa agli armamenti e danneggiando gli sforzi internazionali di non proliferazione nucleare[5]. Pechino ha accusato i tre Paesi firmatari di AUKUS di aver adottato una “mentalità obsoleta da guerra fredda a somma zero” e concetti geopolitici ristretti, invece di rispettare le aspirazioni dei popoli regionali e di contribuire alla pace, alla stabilità e allo sviluppo regionali.

Biden e Xi avevano parlato al telefono la settimana precedente per la prima volta dopo sette mesi da una telefonata post-inaugurazione e dopo che i recenti incontri bilaterali tra funzionari si erano conclusi in un’impasse o in recriminazioni. Secondo quanto fatto sapere dalla Casa Bianca, durante la telefonata di 90 minuti, avviata dal presidente degli Stati Uniti, i due leader hanno discusso della loro responsabilità condivisa per garantire che la competizione tra i due Paesi non “porti ad un conflitto“. Una competizione USA-Cina che si gioca su tre piani – economia, tecnologia e geopolitica – che è sempre più difficile separare.

L’AUKUS è il nucleo duro del sistema USA di alleanze per contenere la Cina

La nuova alleanza politico-militare riflette la necessità da parte degli Stati Uniti di puntellare un ordine mondiale che è stato lasciato appassire a seguito di 20 anni di indulgenza, arroganza e imperialismo e che la Brexit e l’elezione di Trump hanno rivelato quanto causato. La decisione di invitare Pechino nel sistema economico mondiale nel 2001 non ha portato a quella Cina più liberale o democratica che l’establishment occidentale aveva immaginato. Venti anni dopo, la Cina è diventato “un avversario strategico” più potente e più draconiano che è cresciuto mentre gli Stati Uniti e i loro alleati (compresi Regno Unito e Australia) si sono “distratti” in Medio Oriente e in Afghanistan.

Oggi, gli Stati Uniti devono adattarsi al nuovo mondo della potenza cinese per proteggere il vecchio mondo “libero e aperto” del commercio globale e della supremazia americana che Washington ha costruito dopo la seconda guerra mondiale. Gli shock di Trump e della Brexit nel 2016 – l’anno in cui l’Australia aveva firmato il suo accordo con la Francia per la fornitura di sottomarini – hanno portato, inavvertitamente e in modo tortuoso, al mondo di oggi, dove ora esiste un consenso politico negli Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia che il potere cinese deve essere contenuto con una forte dose di ostentata aggressività politica. Intervenendo all’Assemblea Generale dell’ONU, Biden ha affermato che “non stiamo cercando una nuova guerra fredda o un mondo diviso in blocchi rigidi”, ma gli Stati Uniti “competeranno e competeranno vigorosamente e guideranno con i nostri valori e la nostra forza… Saremo al fianco dei nostri alleati e dei nostri amici e ci opporremo ai tentativi dei Paesi più forti di dominare quelli più deboli attraverso cambiamenti di territorio con la forza, coercizione economica… sfruttamento o disinformazione”.

Nel 2016, Johnson aveva sostenuto che lasciare l’Unione Europea avrebbe permesso alla Gran Bretagna di impegnarsi in modo più indipendente con la Cina e allo stesso tempo rafforzare le sue relazioni con gli Stati Uniti. Questo era prima che Trump imponesse a Johnson l’inversione della decisione sul 5G (per escludere la cinese Huawei dal mercato britannico) e che Pechino arrivasse ad imporre uno stretto controllo sull’ex colonia britannica Hong Kong. Ora, la politica cinese della Gran Bretagna appare poco diversa da quella degli Stati Uniti. Johnson si è allineato agli USA, riconoscendo che non sarà in grado di rafforzare le relazioni economiche con la Cina. Preoccupato del destino della special relationship[6] con gli USA dopo la Brexit, Johnson pensa che l’entrata nell’accordo australiano rafforzi la sua idea della “Gran Bretagna globale[7], sostenendo l’inclinazione per il miglioramento del commercio con la regione dell’Indo-Pacifico[8]. In verità, la sua politica aumenta le vulnerabilità del Regno Unito in una regione in cui ha scarsa influenza e poco controllo, con scarsi guadagni tangibili. Come suggerisce l’ex primo ministro Theresa May, il Regno Unito potrebbe essere risucchiato in un conflitto Cina-Taiwan o Cina-Giappone per il quale è irrimediabilmente mal equipaggiato, militarmente ed economicamente.

Nell’Unione Europea, invece, al momento non esiste un consenso sul contenimento della Cina e pertanto l’amministrazione Biden (come prima quella di Trump) continua a considerare marginali gli alleati europei (con l’eccezione del Regno Unito), anche se così facendo rischia di rendere il “pivot to Asia” incompatibile con un rilancio del rapporto transatlantico (la NATO), se l’Europa non si adatterà rapidamente al riassetto strategico in atto, considerando che gli interessi strategici globali della UE rimangono in larga misura allineati con quelli americani.

Gli Stati Uniti e i loro alleati regionali stanno cercando modi per respingere il crescente potere e influenza della Cina, in particolare il suo rafforzamento militare, la pressione su Taiwan e le mosse nel conteso Mar Cinese Meridionale.

Negli Stati Uniti, la competizione con la Cina è diventata il principio organizzativo chiave per le istituzioni politiche, militari, scientifiche e commerciali che altrimenti sarebbero state divise e prive di scopo. Biden ha giustiificato l’accordo con “l’imperativo di garantire la pace e la stabilità nell’Indo-Pacifico a lungo termine. Dobbiamo essere in grado di affrontare sia l’attuale contesto strategico nella regione, sia come potrebbe evolversi perché il futuro di ciascuna delle nostre nazioni e in effetti del mondo dipende da un Indo-Pacifico libero e aperto, che sia stabile e fiorente nei decenni a venire.” Ossia, che sia libero dalla dominazione cinese.

Gli Stati Uniti ora stanno utilizzando lo stesso approccio impiegato per contenere la Russia in Europa dopo la Guerra Fredda, per contenere la Cina nella regione dell’Indo-Asia-Pacifico. Washington sta progressivamente costruendo un’alleanza simile alla NATO nella regione, con AUKUS al centro, e le alleanze bilaterali USA-Giappone, USA-Corea del Sud, USA-Thailandia e USA-Filippine che la circondano e, al livello più esterno, il Quadrilateral Security Dialogue (QUAD), nato nel 2007 con George W. Bush e Shinzo Abe e rilanciato dal 2017. Il QUAD dovrebbe fare leva, oltre che sugli USA (la cui presenza nell’Oceano Indiano è per ora limitata, in termini di basi, navi e uomini), sul Giappone (dove è stanziata la settima flotta della US Navy, comprendente 70-80 navi, 140 aerei e 40 mila militari), su Australia e India. Ma, nelle intenzioni degli Stati Uniti, la sua funzione non dovrebbe essere limitata alla cooperazione militare, per estendersi anche alla cooperazione economica[9].

Poi ci sono delle alleanze bilaterali tra coppie di Paesi della regione, come l’accordo difensivo – il Reciprocal Access Agreement (RAA) – raggiunto nel novembre 2020 da Australia e Giappone e che stabilisce un quadro giuridico per cooperazione, addestramento e operazioni militari congiunte. L’accordo consente la presenza di truppe australiane sul territorio giapponese, prerogativa finora consentita, in base al trattato del 1960, solo agli Stati Uniti.

Inoltre, il Giappone, insieme all’India, da qualche anno ha lanciato un piano infrastrutturale (la strategia “Free and Open Indo-Pacific” – FOIP) da 200 miliardi di dollari per sviluppare centrali elettriche, ferrovie e strutture portuali in Sri Lanka, Bangladesh, Myanmar e nelle isole dell’Oceano Indiano. In Bangladesh, la costruzione di un porto in acque profonde a Matarbari (nel Golfo del Bengala orientale) per un valore di 4,6 miliardi di dollari, prevede anche la realizzazione di 4 centrali a carbone, di una stazione di transito per il gas naturale liquefatto, e di un corridoio industriale completo di autostrade e ferrovie. Il FOIP è un piano teso a promuovere un “Corridoio della crescita Asia-Africa” e a contrastare l’espansionismo economico e politico della Cina.

Anche l’Australia, in funzione anti-cinese, ha deciso di offrire ai Paesi del Pacifico oltre 2 miliardi di dollari di sovvenzioni e prestiti a basso costo per costruire infrastrutture. Stati Uniti, Giappone, Australia e Nuova Zelanda hanno annunciato un piano da 1,7 miliardi di dollari per fornire elettricità e internet a gran parte della Papua Nuova Guinea entro il 2030, come primo passo di un piano che contrasterà la Belt and Road Initiative (BRI) cinese nella regione.

La scommessa americana che è questi diversi gruppi di alleanze ed iniziative possono rinforzarsi a vicenda per arrivare a formare una grande alleanza guidata dagli Stati Uniti per contenere la Cina.

Negli ultimi anni, si è discusso molto sulla possibilità di trasformare il QUAD in una sorta di “NATO Indo-Pacifica”. Una trasformazione che nel breve periodo appare difficile, se non addirittura improbabile. In Giappone c’è il vincolo costituzionale pacifista (articolo 9) che impedisce un riarmo, per cui il Paese ha solo delle “forze di autodifesa” (seppure dotate di sistemi militari tecnologicamente sofisticati, grazie ad un budget annuale di circa 50 miliardi di dollari). In Giappone, la battaglia per succedere a Yoshihide Suga come primo ministro è stata dominata in misura senza precedenti dai dibattiti su come resistere alla Cina. Nel caso del Giappone, due sono i maggiori punti critici: Taiwan, la sua ex colonia, con cui mantiene legami profondi, e le isole Senkaku/Diaoyu nel Mar Cinese Orientale, che Tokyo controlla, ma che Pechino rivendica come proprie (le isole sono rivendicate anche da Taiwan).

Fino a che non disporrà dei nuovi sottomarini nucleari e di una nuova flotta, l’Australia può offrire solo uno scarso supporto in termini di cooperazione militare e comunque al momento è molto dipendente dalla Cina dal punto di vista economico (il 33% del suo export andava in Cina nel 2018-19, mentre solo il 5% negli USA). L’India è il vero anello debole[10], perché ha forze armate pletoriche inefficienti e compra armi da Paesi diversi, compresa la Russia. Gli stessi USA scontano l’ambiguità riguardo alla possibilità di un loro effettivo intervento militare nel caso, ad esempio, di una aggressione militare da parte di Pechino a Taiwan.

I Paesi QUAD condividono preoccupazioni comuni sulla Cina e sul suo comportamento assertivo. Tutti ritengono strategica la libertà di navigazione negli oceani Pacifico e Indiano che è finora stata garantita dagli Stati Uniti. Tutti vogliono evitare un futuro in cui la Cina diventi l’attore dominante nella regione indo-pacifica. Ma, non condividono una ricetta su cosa dovrebbe essere fatto per contenerla. Né India, né Giappone vogliono infastidire la Cina senza una buona ragione. Tutti si preoccupano dei rischi di eventuali risposte della diplomazia cinese. Giappone, in particolare, ha importanti legami economici da preservare che portano questo Paese a non considerare la Cina come un “concorrente strategico” come invece fanno gli USA. Importanti relazioni economiche con la Cina hanno anche Corea del Sud, Vietnam (Paese governato da un Partito Comunista), Filippine (con Duterte hche a deciso di avvicinarsi alla Cina) e Nuova Zelanda.

Competizione USA-Cina e alleanze economiche

Per provare a contenere la Cina, tenendola ingaggiata, l’amministrazione Obama aveva deciso di affrontare la “questione cinese” non attraverso uno scontro diretto di tipo politico-militare, ma con la Trans Pacific Partnership (TPP), il trattato commerciale neoliberista voluto come piattaforma economica della sua “pivot to Asia strategy” (il riorientamento strategico verso l’Asia), da realizzarsi insieme a Canada, Australia e Giappone. Il TPP era stato pensato come un contrappeso e un cordone di sicurezza per contenere l’espansionismo economico della Cina, che ne era stata esclusa. Il TPP, infatti, era stato firmato il 4 febbraio 2016 da 12 Paesi (sui 21 dell’area Asia-Pacifico): Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Vietnam e USA. Economie che coprono il 40% del PIL mondiale e che fanno parte di un corridoio marittimo da cui transita il 50% del flusso commerciale mondiale e il 60% dell’export USA, con oltre tre miliardi di abitanti (più del 40% della popolazione mondiale, ma nel 2025 sarà il 61%, in gran parte in Cina e India) e il 54% del PIL globale.

Ma, il trattato a 12 non è mai entrato in vigore: diversi Paesi non l’hanno ratificato. Il Congresso USA, controllato dai repubblicani, l’ha bloccato fin dall’inizio, e poi Trump lo ha definitivamente affossato. L’obiettivo del TPP era costruire un sistema “decinesizzato”, dettando gli standard sulla sicurezza delle produzioni, le regole sul lavoro, sulla compatibilità ambientale, sull’e-commerce.

Nel novembre 2017, il Giappone ha recuperato i resti del TPP, creando un accordo di libero scambio, il Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP), a 11 che comprende tutti gli Stati che avevano negoziato l’accordo TPP tranne gli USA (in vigore dal 30 dicembre 2018). Nel febbraio 2021, il Regno Unito ha fatto domanda per entrare nel blocco commerciale. Pochi giorni dopo l’annuncio dell’AUKUS, la Cina ha presentato la richiesta formale per aderire al CPTPP. Ma, per essere ammessi sarà necessario il sostegno unanime di tutti i membri del patto. Gli ostacoli maggiori potranno essere posti dall’Australia e dal Canada, entrambi stretti alleati degli Stati Uniti e fautori di una linea politica anti-cinese. Il ministro australiano del commercio, Dan Tehan, ha affermato che l’Australia si opporrà alla richiesta della Cina di aderire fino a quando non interromperà gli attacchi commerciali contro le esportazioni australiane e riprenderà i contatti da ministro a ministro con il governo Morrison. Tuttavia, nonostante gli ostacoli, la Cina conta sul fatto che i Paesi saranno attratti dal vasto mercato cinese non solo in termini di materie prime tradizionali, ma anche del settore dei servizi.

Trump ha posto il veto al TPP, ha abbandonato la “Asia-Pacific rebalancing strategy” adottata da Obama nel 2011 e in alternativa ha parlato di costruire una vaga (mancando un progetto di sviluppo economico multilaterale in grado contrastare quello cinese della BRI), “regione Indo-Pacifica libera e aperta”, come strumento (“operational construct“) per una politica di “contenimento” della Cina (considerando, ad esempio, che l’80% del petrolio importato dalla Cina passa attraverso l’Oceano Indiano e lo Stretto di Malacca prima di raggiungere il Mar Cinese Meridionale). Per questo è stato anche annunciato un piano ambizioso per espandere la Marina degli Stati Uniti con una gamma di navi, sottomarini e aerei senza pilota e autonomi entro il 2045.

Al tentativo di accerchiamento politico-militare orchestrato dagli USA, la Cina risponde con aperture di cooperazione economica verso l’India (con la quale però si sono aperte delle dispute confinarie nel Ladakh nel 2020, dopo quella del 1962 durata poco più di un mese con un bilancio di 2 mila morti e quella subito sedata del 2017 nel Doklam) e il Giappone (i giapponesi hanno nella Cina un quinto del loro export ed in quarto del loro import).

Il veto USA sul TPP ha consentito alla Cina di colmare una parte del vuoto economico rimasto aperto e di rilanciare il confronto tra i Paesi dell’Asia-Pacifico, arrivando alla firma, dopo 8 anni di trattative, della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), uno schema free trade (che non copre però il settore dei servizi) al quale partecipano 15 Paesi, i 10 dell’ASEAN (Singapore, Filippine, Thailandia, Vietnam, Myanmar, Laos, Cambogia, Indonesia, Brunei, Malaysia) oltre a Cina, Giappone, Corea del Sud, Nuova Zelanda e Australia, e forse in futuro anche l’India (che si è tirata indietro all’ultimo momento), escludendo gli USA (15 novembre 2020).

Il RCEP rappresenta il più grande blocco di libero scambio del mondo con il 30% dell’economia globale e il 30% della popolazione mondiale (2,2 miliardi di consumatori). La posizione di preminenza economico-politica degli USA nell’area è ormai apertamente minacciata dal “socialismo di mercato” cinese, soprattutto in Paesi asiatici come Singapore, Malaysia, Indonesia, Filippine, Cambogia e Vietnam (ma anche India), fortemente interessati ai crescenti flussi commerciali e di investimento finanziario ed industriale cinese. Se nel 2019 gli USA assorbivano circa il 18% dei beni cinesi, l’Eurozona il 15%, il Giappone meno del 6%, il 34% aveva come sbocco il bacino delle nazioni asiatiche di nuova industrializzazione. Il RCEP dovrebbe aiutare Pechino a ridurre la sua dipendenza da mercati, filiere produttive di fornitura e tecnologie occidentali. Si tratta di un accordo che consente di definire regole commerciali e standard tecnici, ma con regole molto lasche sull’origine dei componenti dei prodotti (incoraggiando la dispersione territoriale delle value chains) e senza clausole sui sussidi di Stato, protezione ambientale, proprietà intellettuale e diritti del lavoro, tutti vincoli del sistema multilaterale non graditi alla Cina.

All’inizio del 2021, con la firma del RCEP e del Comprehensive Agreement on Investment (CAI) con l’Unione Europea, i cosiddetti maggiori alleati degli Stati Uniti – Giappone, Germania, Corea del Sud, Australia, etc. – erano destinati ad avere la Cina come il loro principale partner commerciale. Dal maggio 2021 la ratifica del CAI è stata congelata dopo le sanzioni e contro-sanzioni derivanti dalla preoccupazione dell’UE per le violazioni dei diritti umani verso la minoranza uigura nello Xinjiang.

La Belt and Road Initiative (BRI): proiezione globale della Cina tra cooperazione e neocolonialismo

Il nazionalismo cinese è assertivo, ma apparentemente non aggressivo. Persegue fini fortemente nazionali. La Cina vuole apparentemente affermarsi come superpotenza economico-industriale innovativa regionale, ma attraverso l’accettazione di un gioco globale, con posizioni pro-globalizzazione, l’adesione alle regole del libero commercio e l’accettazione delle norme internazionali nel campo della tutela dell’ambiente. Il libro bianco “China’s National Defense in the New Era” (2019) sostiene che la caratteristica distintiva della difesa nazionale cinese nella nuova era debba essere quella di “non cercare mai l’egemonia, l’espansione o la sfera di influenza“, per cui la missione dell’esercito cinese (che ha un budget pari all’1,3% del PIL) deve limitarsi a salvaguardare la sovranità, la sicurezza e gli interessi di sviluppo del Paese.

Dal 2013, la Cina ha promesso massicci investimenti in Eurasia con l’iniziativa di sviluppo infrastrutturale One Belt, One Road (Yi Dai Yi Liu), diventata poi Belt and Road Initiative (BRI), la nuova Via della Seta (Sichou Zhi Lu), a cui hanno aderito oltre 100 Paesi (tra i quali Italia, UK e Germania, ma non gli USA).

Una strategia di sviluppo globale che al 2020 valeva quasi 4 mila miliardi di dollari e che sta all’interno del progetto governativo Made in China 2025 e che secondo i cinesi dovrebbe creare una serie di piattaforme logistiche e produttive per intensificare la cooperazione internazionale.

La BRI rappresenta una evoluzione delle go west, go out e go abroad strategies perseguite dalla Repubblica Popolare Cinese negli ultimi decenni che hanno cercato di incentivare le imprese nazionali a sviluppare attività all’estero, per cui sono state spinte ad investire e a cercare contratti all’estero per diventare più competitive a livello globale e alleviare anche alcune delle pressioni su un mercato interno che stava iniziando a saturarsi. Una politica piuttosto aggressiva, sostenuta da un credito facile ed economico da parte delle banche statali, che ha consentito alle imprese di assicurarsi nuovi mercati per le loro esportazioni, anche se non sempre i risultati economici conseguiti da queste strategie sono stati positivi.

Ora, la BRI potrebbe collocare la Cina “al centro della scena mondiale“, come grande potenza al centro di nuove catene di fornitura e di un nuovo ordine economico globale, rendendo l’Eurasia (dominata dalla Cina, insieme alla Russia, all’Iran e all’Unione Europea) un’area economica e commerciale in grado di competere con quella transatlantica ancora dominata dall’America.[11]

La Banca Mondiale ha stimato che saranno necessari 97 trilioni di dollari di investimenti infrastrutturali in tutto il mondo entro il 2040. Il bisogno è particolarmente acuto nei Paesi poveri, ma da anni i Paesi ricchi occidentali hanno generalmente abbandonato lo sviluppo di progetti infrastrutturali in questi Paesi, per cui la Cina sta semplicemente cercando di riempire questo vuoto.

Nel dopoguerra, gli americani usarono gli aiuti del “Piano Marshall” per stabilizzare politicamente e legare a sé i Paesi europei alleati, e al tempo stesso farne degli sbocchi per le proprie esportazioni. Mai prima nella storia un vincitore militare aveva trattato i conquistati con tale generosità: solo un quinto dell’aiuto si presentava sotto forma di prestiti, mentre il resto era in sovvenzioni a fondo perduto per ridurre al minimo il futuro onere finanziario per l’Europa. Un’Europa occidentale stabile e prospera serviva agli Stati Uniti come mercato per i suoi beni e come barriera per l’ulteriore espansione sovietica in Europa. “È logico che gli Stati Uniti debbano fare tutto ciò che sono in grado di fare per contribuire al ritorno della normale salute economica nel mondo, senza la quale non può esserci stabilità politica e pace garantita“, aveva detto George C. Marshall ricevendo una laurea ad honorem dalla Harvard University il 5 giugno 1947.

Ora, anche l’iniziativa cinese propone una strategia win-win (che i cinesi chiamano shuang ying), in cui tutti hanno da guadagnare, che si concentra sulla connettività e cooperazione tra la Cina e oltre 80 Paesi Euro-Asiatici e Africani (lasciando però fuori, almeno per ora, sia l’India, Paese con cui la Cina ha dei contenziosi aperti legati ai confini territoriali tibetani e al Nepal, sia l’Afghanistan, ancora non “stabilizzato” dal punto di vista politico-militare) e comprende due componenti principali:

  • una via terrestre, la Silk Road Economic Belt (SREB) composta da 4 corridoi: il nuovo ponte terrestre eurasiatico che collegherà orizzontalmente la provincia cinese dello Jiangsu con Rotterdam in Olanda, attraversando più di 30 Paesi; il corridoio economico Cina-Mongolia-Russia (dalla Cina settentrionale all’Estremo Oriente russo); il corridoio economico Cina-Asia centrale-Asia occidentale (dalla Cina occidentale alla Turchia passando per Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan); il corridoio economico Cina-Pakistan;
  • una via marittima, la Maritime Silk Road (MSR), che comprende due corridoi: il corridoio economico Cina-Penisola indocinese (dalla Cina a Singapore passando per Vietnam, Laos, Cambogia, Thailandia, Myanmar e Malesia) e il corridoio economico Cina-Bangladesh-India-Myanmar.

Questi sterminati corridoi economici mirano a facilitare il commercio, gli investimenti, il flusso di informazioni, il movimento di persone e la creazione di mercati e posti di lavoro in loco, interconnettendo l’Asia centrale ed occidentale (attraverso i porti di Guangzhou e Haikou, attraverso Malacca, Singapore, lo Sri Lanka), toccare il Medio Oriente e l’Africa e, attraverso Suez, sboccare in Europa. L’interscambio Cina-UE è quasi raddoppiato tra il 2010 e il 2017, superando i 550 miliardi di dollari, e la Cina è così divenuta il secondo partner commerciale europeo, mentre l’UE è il primo partner cinese.

La variante marittima, oltre a collegare il Mare Cinese e il Mediterraneo, dovrebbe estendersi anche al Sud Est asiatico e all’Oceania e alla rotta polare verso il Baltico (usando il passaggio a nord-est della Russia), che sfruttando l’opportunità del restringimento della calotta glaciale artica dovuto al riscaldamento climatico può permettere al traffico commerciale di accorciare i tempi di navigazione dall’Asia all’Europa (3 mila miglia nautiche e 20 giorni di navigazione in meno da Shanghai a Rotterdam e Amburgo). Con la via polare si accorcia di una settimana anche il passaggio che unisce Atlantico e Pacifico, costeggiando Groenlandia, Canada e Alaska, rispetto alla rotta attraverso il Canale di Panama.

Questa iniziativa rivela come la Cina sia l’unica potenza mondiale ad essersi dotata di una strategia di sviluppo globale coerente per il XXI secolo. Si tratta della proposta di un modello geo-economico e geo-politico alternativo a quello americano e che potrebbe essere integrato sia con l’iniziativa dell’Eurasian Economic Union lanciata dalla Russia nel 2011 sia con la strategia dell’Unione Europea sulla connettività euro-asiatica lanciata nell’ottobre 2018.

Con la BRI, la Cina si candida alla leadership della globalizzazione e cerca di rimodellarla in base alle sue necessità creando corridoi economici dinamici suscettibili di sostenerla.[12] Costruisce nuove infrastrutture e istituzioni finanziarie per supportarla e governarla. Un progetto di grande respiro capace di coinvolgere molti altri soggetti e costruire sinergie basate sulla ricerca di vantaggi comuni. D’altra parte, storicamente la Via della Seta (un termine creato dal geografo tedesco Ferdinand von Richtofen) era stata avviata nel II secolo d.C. dalla dinastia Han per collegare l’impero cinese con quello romano ed è rimasta la “spina dorsale dell’umanità[13] per la quale sono passate merci, idee, religioni e migrazioni per oltre duemila anni

Negli ultimi 40 anni, la Cina è diventata il più grande importatore di materie prime al mondo e il più grande esportatore di prodotti finiti, aumentando la sua esposizione alla cosiddetta “trappola della Malacca”, per cui il suo commercio dipende dal “collo di bottiglia” rappresentato dallo stretto della Malacca, tra Singapore e Indonesia, su cui la Cina non ha alcun controllo (è controllato dalla marina militare USA). Le sue manovre aggressive nel Mar Cinese Meridionale ed Orientale vanno interpretate come un tentativo di proteggere almeno le acque sul lato orientale dello stretto, dal momento che non può controllare l’Oceano Indiano.

Molti dei progetti infrastrutturali della BRI – in Myanmar, Bangladesh e Pakistan – sono pensati per consentire il trasporto via terra proprio per garantirsi un accesso all’Oceano Indiano, bypassando lo stretto della Malacca. Il commercio cinese si espande rapidamente con l’Unione Europea (con cui la Cina scambia merci per 500 miliardi di dollari in più all’anno rispetto agli Stati Uniti) e il mondo arabo (da cui importa petrolio e gas), per cui è logico che la Cina cerchi di creare dei corridoi terrestri verso l’Europa e la regione del Golfo.

La BRI è una strategia dal costo di migliaia miliardi di dollari per i prossimi anni e viene finanziata dalle grandi istituzioni finanziarie e bancarie statali cinesi (come la China Export and Credit Insurance Corporation) e dalla nuova Asian Infrastructure Investment Bank – AIIB (una banca per lo sviluppo multilaterale che dal 2015 ha raccolto 100 miliardi di dollari di capitali. Quasi un terzo dalla Cina (29,8%) e il resto da 102 Paesi, tra cui India, Russia, Germania, UK, Brasile, Corea del Sud, Canada, Australia, Francia, Italia e quasi tutti gli altri Stati europei). Gli europei hanno il 25% del capitale dell’AIIB, mentre USA e Giappone sono rimasti fuori.

La BRI prevede la realizzazione di zone di sviluppo economico in decine di Paesi (di cui almeno 14 nel Sud Est asiatico), e di sei corridoi infrastrutturali e logistici tra Cina, Asia, Europa e Africa. Una gigantesca rete di:

  • autostrade, ad esempio, in Kazakhstan, Iran, Uzbekistan, Turkmenistan o nell’altopiano del Doklam, rivendicato dal Bhutan e dalla Cina, per il quale si è rischiato un confronto militare tra Cina e India nell’estate del 2017;
  • linee ferroviarie ad alta velocità come quella da 3 mila km con 77 gallerie che collegherà la Cina con Singapore, attraversando Laos, Thailandia e Malaysia;
  • porti, come quelli di Gwadar sull’Oceano Indiano in Pakistan, terminale di uno strategico corridoio ferroviario, stradale ed energetico (in diretta competizione con il porto iraniano di Chabahar, sviluppato con capitali indiani ed essenziale ai fini della penetrazione commerciale indiana in Asia centrale, soprattutto verso l’Afghanistan); di Hambantota in Sri Lanka (voluto dalla locale potente famiglia Rajapaksa), ceduto ai cinesi per 99 anni in cambio di 1,1 miliardi di dollari con cui il governo locale ha rafforzato le riserve estere e ha estinto il debito che aveva contratto con finanziatori occidentali per realizzarlo; delle Maldive e di almeno una decina di Paesi in Africa, mentre in Europa, oltre al Pireo in Grecia, sotto il controllo cinese dal 2010, Genova-Vado Ligure in Italia;
  • aeroporti, canali, oleodotti, gasdotti (come il “Power of Siberia” tra Russia e Cina di 3 mila km, per un costo da 55 miliardi di dollari, operativo in un primo tratto dal 2019), elettrodotti, impianti per la produzione di energia tradizionale e rinnovabile, cavidotti terrestri e sottomarini per le telecomunicazioni digitali come le fibre ottiche per Internet.

Un sistema di nuove infrastrutture in grado di collegare e interconnettere la Cina con una ottantina di Paesi Euro-Asiatici e Africani e il resto del mondo. Anche in quasi tutti i Paesi del continente latinoamericano i cinesi hanno preso accordi per realizzare progetti in parte grandiosi: un canale in Nicaragua (abbandonato nel maggio 2018), che sulla carta avrebbe dovuto fare concorrenza a quello di Panama, e una linea ferroviaria dal Perù al Brasile. Nei prossimi tre anni, società cinesi investiranno fino a 10 miliardi di dollari in Perù in settori quali energia, miniere, telecomunicazioni, portualità (Cosco ha comprato il 60% del terminal Chancay), costruzioni e attività finanziarie.

La Cina è già il principale partner commerciale di Argentina, Brasile, Cile e Perù. Dal Perù importa la maggior parte dei minerali prodotti dal Paese. In Messico la Cina ha investito in una serie di progetti che promuovono l’energia pulita, divenendo un operatore importante. State Power Investment Corp (SPIC), una delle più grandi aziende energetiche in Cina, ha acquistato la Zuma Energia, azienda indipendente leader in Messico per le energie rinnovabili. La SPIC ha più di 170 miliardi di dollari in attività in 41 Paesi, tra cui progetti eolici, solari e idroelettrici in Brasile e Cile. Negli ultimi anni, in Brasile sono aumentati gli investimenti diretti di alcune delle più grandi aziende cinesi (Sinopec, China Three Gorges, State Grid Corporation of China, Cofco, TCL e Baidu). Secondo Dealogic, il valore delle fusioni e delle acquisizioni cinesi di aziende brasiliane sono state pari a 11,9 miliardi di dollari nel 2016 e a 10,8 miliardi nel 2017 (erano a quasi 5 miliardi nel 2015). Più di 200 aziende cinesi hanno aperto filiali in Brasile negli ultimi 10 anni. L’investimento della Cina in Brasile è cresciuto ad un tasso medio annuo del 29% per raggiungere un totale di 80 miliardi di dollari nel 2018. La Cina è diventata il principale importatore di petrolio brasiliano – acquistando il 35% delle sue esportazioni totali – dopo un accordo in base al quale la China Development Bank si è impegnata a fornire credito a Petrobras. Ma, è anche il principale importatore, di soia, carne, mais, bauxite, etc.. Il Cile è il primo esportatore di frutta in Cina nel mondo (uno su quattro frutti importati dalla Cina, in termini di prezzo, viene dal Cile).

Lungo le ferrovie, strade e rotte della BRI, le corporations cinesi hanno già costruito 75 “zone per la cooperazione economica e commerciale” in 24 Paesi con un investimento complessivo di 25,5 miliardi di dollari. Un impegno economico gigantesco che ha spinto anche le grandi imprese europee ed americane (General Electric, Honeywell, Caterpillar) a cercare di avviare una proficua collaborazione con le imprese cinesi. Di recente, ad esempio, il cinese Silk Road Fund ha firmato un accordo con la General Electric per lo sviluppo di una piattaforma d’investimenti congiunta in infrastrutture energetiche.

Investendo sia in istituzioni multilaterali – la AIIB, ma anche la Shanghai Cooperation Organization, un’organizzazione politica, economica e di sicurezza nata nel 2001 che ha l’ambizione di diventare un modello per la costruzione di un nuovo tipo di relazioni internazionali caratterizzato da “nessuna alleanza, nessun conflitto e nessuna mossa contro alcun Paese terzo” e di cui fanno parte, oltre alla Cina, Russia, India, Pakistan, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan, Uzbekistan e, da poche settimane, Iran, e la Free Trade Area of the Asia Pacific – sia in grandi infrastrutture, il governo cinese mira a sviluppare un ambiente economico-politico favorevole per l’ulteriore crescita dell’economia cinese e un sistema logistico per il trasporto delle materie prime, nonché dei prodotti industriali cinesi verso i principali mercati di consumo in Europa, Africa e Asia.

Da questo punto di vista, ad esempio, un ruolo chiave hanno sia l’Iran sia la Turchia per la loro posizione geografica tra Europa e Asia che permette l’incontro tra i corridoi Nord-Sud ed Est-Ovest. Inoltre, la rete ferroviaria di 2.300 km che collega Urumqi a Teheran è, per la Cina, una porta terrestre verso l’Europa. Gli investimenti cinesi in Iran hanno raggiunto i 6,8 miliardi di dollari e hanno toccato i settori energetico, chimico, minerario e dei trasporti. Il 27 marzo 2021, Cina e Iran hanno firmato un’intesa strategica venticinquennale (il cui testo per ora è rimasto segreto) che prevede investimenti cinesi, quantificati dai media americani in 400 miliardi di dollari, nelle telecomunicazioni, settore bancario, porti, ferrovie, sistema sanitario, in cambio di una fornitura vantaggiosa di petrolio. I due Paesi collaboreranno anche militarmente con esercitazioni congiunte. Un accordo che garantisce anche il sostegno politico della Cina al rilancio del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), l’accordo multilaterale sul nucleare iraniano firmato nel luglio 2015 oltre che da USA (riconosciuto da Obama con un atto esecutivo, ma mai ratificato dal Congresso, consentendo così a Trump di rinnegarlo unilateralmente nel 2018) e Iran, anche da Russia, Cina, Germania, Gran Bretagna, Francia e poi ratificato all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU con la risoluzione 2231, che aveva consentito la sospensione delle sanzioni multilateriali adottate dall’ONU con la risoluzione 1929 nel 2010 e di una parte di quelle secondarie degli USA.

Inoltre, attraverso la BRI, la Cina spera di trovare un’adeguata soluzione all’assillante problema dell’assorbimento del surplus di capitale (della sovraccumulazione cinese), trovando un impiego più redditizio per le vaste riserve valutarie cinesi, la maggior parte delle quali erano state impegnate in titoli di Stato americani a basso interesse. Da questo punto di vista, il rallentamento dell’economia cinese nel 2020, la crescita del debito totale non finanziario cinese (salito al 253% del PIL) e l’impatto della guerra commerciale sulla bilancia dei pagamenti con gli USA, fanno pensare che difficilmente la Cina potrà continuare a generare un surplus valutario in grado di finanziare la BRI nella stessa scala del recente passato. In realtà, anche nel 2020 la BRI ha continuato a operare, sebbene a un ritmo all’incirca dimezzato rispetto al 2019: 104 progetti di investimento per 46,5 miliardi di dollari, rispetto a 225 progetti per un totale di 103,5 miliardi nel 2019. Il grosso dei progetti (35 per quasi 20 miliardi di dollari) è stato concentrato sul settore dell’energia, sia tradizionale che alternativa.

Con la BRI la Cina cerca di salvaguardare l’accesso alle materie prime, di creare nuovi mercati per le grandi imprese statali cinesi, come quelle ferroviarie ad alta velocità, esportando una gran quantità della sovracapacità produttiva nel cemento, acciaio e altri metalli, ma anche di ristrutturare le catene del valore industriali regionali e globali attraverso la creazione di cluster industriali transfrontalieri e zone di libero scambio nei Paesi emergenti e poveri (che sono anche i mercati in più rapida espansione), in modo da difendersi dalla guerra commerciale combattuta dagli USA contro l’economia cinese. D’altra parte, attraverso la costruzione della BRI stanno crescendo anche le comunità cinesi all’estero: gli emigrati ed espatriati temporanei sono ormai quasi 100 milioni.

La realizzazione del corridoio economico sino-pakistano, 3.200 chilometri di distanza, 60 miliardi di investimenti previsti – una rete imponente di infrastrutture stradali e ferroviarie (che passano attraverso la parte pakistana del Kashmir), comprese quelle energetiche, imperniata sul porto pakistano di Gwadar sull’Oceano Indiano (dove la saudita Aramco ha investito 8 miliardi di dollari per realizzare una raffineria) e sulla città di Kashgar nello Xinjiang – può consentire alla Cina di aggirare via terra lo Stretto di Malacca, riducendo di oltre 10 mila chilometri e 26 giorni la distanza marittima dai pozzi petroliferi del Golfo.

Con questo progetto la Cina cerca di sottrarsi al controllo della flotta militare americana che oggi sarebbe velocemente in grado di bloccare i rifornimenti energetici cinesi. L’economia pakistana è in bancarotta (con un debito estero superiore al 45% del PIL) ed è sopravvissuta al default del debito con l’ultima infusione da 6 miliardi di dollari del FMI. Viene mantenuto in vita dal flusso di denaro cinese legato agli investimenti per la BRI. Oltre 60 miliardi di dollari di prestiti cinesi sono stati utilizzati per finanziare progetti di sviluppo infrastrutturale di grandi dimensioni.

Dalla Cina orientale e centrale i treni partono regolarmente, attraversano le steppe centro-asiatiche e macinano migliaia di chilometri per arrivare a Londra, Madrid, Duisburg, Amburgo, Lòdz, Mortara (Pavia) e Lione in 17 giorni. E’ un sistema di trasporto più di due volte più veloce e molto meno costoso di quello marittimo (attraverso il quale attualmente i commerci si svolgono al 95%), anche se un treno merci trasporta meno di 100 containers, mentre una nave cargo ne può trasportare fino a 20 mila. Ma questo è solo il primo stadio di una futura rete ferroviaria ad alta velocità, oltre che stradale, che collegherà in 14 giorni la Cina orientale all’Europa, passando per il Kazakhstan, dove Cosco sta costruendo da zero una città, chiamata Nurkent, in un deserto arido in prossimità dell’hub logistico Khorgos Gateway. Attualmente, la città ha meno di 2 mila abitanti (operai delle ferrovie, manovratori delle gru, funzionari doganali e altro personale dell’hub), ma secondo i piani dovrebbe arrivare a 100 mila in pochi anni.

L’iniziativa cinese avanza velocemente anche nell’Europa dell’est e balcanica, con investimenti per creare un corridoio tra l’Egeo e l’Europa centrale e, in particolare, trasformare la Grecia in “un centro logistico” per il trasbordo di merci cinesi dirette a ovest. Oltre al controllo del porto del Pireo da parte di Cosco, in Grecia ha investito State Grid, il gigante pubblico cinese dell’elettricità, che ha rilevato il 24% della rete elettrica ellenica, mentre la Ppc, la società elettrica greca, ha affidato a China Machinery la costruzione di una nuova centrale a carbone nel nord del Paese. Nel 2016 la China Everbright ha comprato l’aeroporto di Tirana, in Albania. La China Export/Import Bank sta finanziando la costruzione di un’autostrada tra la Repubblica di Macedonia del Nord e il Montenegro e dell’autostrada Bar-Belgrado. La China Road and Bridge Corporation ha costruito un ponte sul Danubio a Belgrado, finanziato il larga parte dalla China Export/Import Bank, e sta costruendo anche il ponte di Sabbioncello (Pelješac) che unirà Dubrovnik al resto della Croazia, un’opera da 400 milioni di euro finanziata all’85% dalla UE. Ci sono poi la ferrovia ad alta velocità tra Atene e Budapest che passa per la Repubblica di Macedonia del Nord e la Serbia, l’autostrada del corridoio Fruska Gora che collega Novi Sad a Ruma in Serbia, e la ferrovia ad alta velocità Belgrado-Budapest (corridoio paneuropeo X che unisce Salisburgo a Salonicco).

La BRI e la questione del debito

In Asia, la BRI cinese viene vista con grande interesse, ma anche con una crescente apprensione perché le infrastrutture e la altre opere realizzate dai cinesi non sono gratis (aiuti allo sviluppo), ma vengono finanziate da prestiti cinesi che in qualche modo in futuro dovranno essere ripagati. La Chinese Export-Import Bank e la China Development Bank sono le due banche che finora hanno dominato l’universo dei prestiti all’estero della Cina. Entrambe del Consiglio di Stato, rappresentano nell’insieme oltre il 75% di tutti i prestiti trans-frontalieri diretti tra il 2000 e il 2017, mentre gli enti governativi, come il ministero del Commercio, svolgono solo un ruolo minore.

In visita a Pechino ad agosto 2018, Mahathir Mohamed, rieletto primo ministro della Malaysia a 93 anni, ha definito la BRI una forma di “nuovo colonialismo”. Mahathir, ha in parte ripudiato gli accordi siglati dal suo predecessore Najib Razaik (travolto dallo scandalo per corruzione per il fondo sovrano Malaysia Development Berhad – 1MBD, insieme alla banca Goldman Sachs che ha pagato 2,9 miliardi di dollari per chiudere l’inchiesta criminale malese), dichiarando che in Malaysia la Cina “sta introducendo troppo denaro, una quantità che non possiamo permetterci di ricevere e non possiamo restituire”.

Il presidente cinese Xi Jinping ha sempre presentato la nuova Via della Seta come un progetto per creare una “comunità con un futuro condiviso”, ma la crescita dei debiti esteri e dei deficit commerciali di molti Paesi (ad esempio, Kirghizistan, Tagikistan, Laos, Mongolia, Myanmar, Sri Lanka, Pakistan, ma anche Gibuti, Zambia e Montenegro) con la Cina stanno alimentando il timore che questa stia conquistando troppo potere sul piano finanziario e nella loro politica interna.

Gli americani e gli altri oppositori della politica della Cina dicono che Pechino finanzia “elefanti bianchi“, ossia dei grandi progetti che offrono ritorni economici deboli, ma che fanno parte di quella che definiscono una “debt-trap diplomacy strategy” – in cui un Paese creditore presta intenzionalmente credito eccessivo a un Paese debitore più piccolo, con l’intenzione di ottenere concessioni economiche o politiche quando il Paese più piccolo non è in grado di servire il debito – tesa a “piegare i Paesi ai suoi obiettivi spesso illiberali” e a far avanzare il suo dominio economico, politico e militare globale. In effetti, i ricercatori dell’AidData del College of William & Mary, un istituto che studia gli aiuti internazionali allo sviluppo, hanno scoperto che circa l’80% della spesa estera cinese non ha effetti evidenti sulla crescita economica dei Paesi in cui viene realizzata. Anche se la Cina non ha perseguito una deliberata “diplomazia della trappola del debito” nel Pacifico, le crescenti dimensioni dei prestiti cinesi e la debolezza istituzionale all’interno degli Stati del Pacifico, comportano chiari rischi per i piccoli Stati che sono sopraffatti dal debito. Secondo il Lowy Institute, una corsa agli investimenti in grandi opere infrastrutturali tra la Cina e altri Paesi con interessi nella regione – a cominciare da Australia e Giappone – potrebbe aggravare il problema.

Nella maggioranza dei casi le crisi del debito estero di molti Paesi emergenti e poveri, più che essere legate ai prestiti cinesi per i mega progetti infrastrutturali della BRI, sono piuttosto il risultato di uno spericolato indebitamento denominato in dollari sui mercati internazionali da parte dei governi nel contesto del quantitative easing americano.[14] Inoltre, secondo il Rhodium Group, che ha esaminato 40 casi di rinegoziazioni del debito estero della Cina, emerge che più d’una fra le economie emergenti che hanno partecipato alla BRI soffriva già da tempo di un elevato indebitamento (come Gibuti, Mongolia, Kirghizistan, Laos, Maldive, Pakistan e Montenegro).

Comunque, con Trump, Washington si era preparata a rendere più severi e a porre il veto a eventuali futuri pacchetti di salvataggio finanziario del FMI per i Paesi in crisi da debiti legati alla BRI. Inoltre, ha deciso di attivare una nuova International Development Finance Corporation (IDFC), che ha iniziato a funzionare a fine 2019 con l’obiettivo di aiutare gli USA a respingere la BRI di Pechino. La nuova istituzione dovrebbe consentire agli Stati Uniti di allineare meglio i propri obiettivi commerciali e di sviluppo con la propria politica estera nei Paesi poveri. Ma, l’IDFC avrà uno svantaggio significativo: solo 60 miliardi di dollari di bilancio, mentre la BRI è un progetto da 1 trilione di dollari. Il solo Pakistan ha già ricevuto più risorse dalla Cina rispetto al valore dell’intero bilancio dell’IDFC.

Il rafforzamento militare cinese

Allo stesso tempo, la Cina sta velocemente modernizzando la propria struttura militare. Uno dei più rapidi sviluppi militari in tempo di pace nella storia recente, incentrato sull’espansione e la modernizzazione della marina e dell’aeronautica. La Cina ora ha una flotta navale più grande degli Stati Uniti, misurata in numero di navi – avendo costruito una flotta di circa 350 navi entro il 2019 (in maggioranza navi piccole e agili), tra cui una dozzina di sottomarini nucleari – in gran parte concentrata nei mari circostanti, mentre gli schieramenti di Washington si estendono in tutto il mondo. Nel 2016, la Cina ha commissionato 18 nuove navi; gli Stati Uniti solo cinque. In confronto, la marina militare degli Stati Uniti ha circa 293 navi che tendono ad essere più grandi (ma la Cina ha costruito 3 portaerei).

La linea ufficiale del governo cinese è che sta perseguendo una politica militare di “natura difensiva”. “Sviluppiamo la capacità militare per scopi di autodifesa. Non intendiamo rappresentare e non rappresenteremo una minaccia per nessun Paese“, ha affermato il portavoce Hua Chunying. C’è un elemento di verità in questo. Gli Stati Uniti sono stati il Paese più potente dell’Asia dal 1945. Per anni la Cina ha beneficiato della stabilità fornita dall’esercito statunitense, mentre sviluppava la sua economia. Ma, non c’era modo che un Paese delle dimensioni e della storia della Cina avrebbe mai accettato un ruolo secondario rispetto agli Stati Uniti in Asia una volta che fosse stato abbastanza potente da metterlo in discussione. Rispetto a 20, 10 o anche cinque anni fa, ora Pechino ha molti più strumenti militari: missili ipersonici, aerei da guerra, portaerei. E questo incute timore agli USA e alla maggior parte dei Paesi della regione.

Le capacità potenziate dell’aeronautica cinese sono in mostra più che mai, in particolare come parte degli sforzi di Pechino per fare pressione su Taiwan affinché accetti una qualche forma di unificazione (l’obiettivo finale del “sogno di ringiovanimento nazionale” di Xi Jinping). Negli ultimi mesi, aerei caccia e bombardieri cinesi hanno iniziato voli quasi regolari su Taiwan e le acque tra essa e la terraferma, sebbene gran parte di quello spazio aereo sia nominalmente sotto il controllo di Taipei. Pechino si è impegnata a prendere Taiwan – che rivendica come provincia cinese – con la forza, se necessario. Il governo di Taiwan afferma di non cercare conflitti. Il suo presidente, Tsai Ing-wen, ha dichiarato nel 2020 che “non abbiamo bisogno di dichiararci uno stato indipendente. Siamo già un paese indipendente.” Le circostanze e i tempi potenziali sono oggetto di accesi dibattiti, ma c’è un consenso generale sul fatto che il rischio di una mossa cinese su Taiwan sia il più alto da decenni. In preparazione, Taiwan ha aumentato i suoi acquisti di armi dagli Stati Uniti e ha fatto pressioni per alleanze internazionali. Conduce esercitazioni militari annuali per mettere in pratica le abilità che sarebbero necessarie in caso di attacco da parte della Cina.

La Cina si trova di fronte a una geografia straordinariamente impegnativa: confina con 14 Paesi, quattro dei quali dotati di armi nucleari (India, Russia, Pakistan e Corea del Nord) e cinque dei quali hanno controversie territoriali irrisolte con Pechino, mentre con altri della regione ha controversie sui confini marittimi (oltre che con Taiwan e India, con Indonesia, Filippine, Vietnam, Malaysia, Brunei e Giappone).

Negli ultimi anni, la Cina ha esteso il suo territorio alle isole di Paracelso (in cinese le isole Xisha, un arcipelago composto da 103 isolotti) e accelerato la militarizzazione del Mar Cinese Meridionale ed Orientale, acquistando più di 1.300 ettari di terra attraverso la cementificazione di barriere coralline e affioramenti su cui ha costruito piste di atterraggio, porti e hangar militari. Secondo il ministro della Difesa giapponese, Nobuo Kishi, la Cina è diventata sempre più potente politicamente, economicamente e militarmente e sta “tentando di usare il suo potere per cambiare unilateralmente lo status quo nei mari della Cina orientale e meridionale“, che sono cruciali per la navigazione globale e includono acque e isole rivendicate da diverse altre nazioni. In Cambogia – un Paese che ha accettato più di 600 milioni di dollari di prestiti nell’ambito della BRI e dove la Cina ha anche impegnato quasi 2 miliardi per costruire strade e ponti e fornito aiuti per altri 150 milioni – il governo ha concesso di recente alla Cina di utilizzare come base navale militare un porto costruito da imprese cinesi nel Golfo della Thailandia.

Le forze armate cinesi hanno aumentato le esercitazioni militari e le sortite intimidatorie nella zona di identificazione della difesa aerea di Taiwan, si sono scontrate con le truppe indiane nelle regioni di confine e hanno modificato la legge della guardia costiera per giustificare l’uso di armi contro altre navi. La Cina ha ignorato una sentenza del 2016 della Corte dell’Aia secondo cui non esiste una base legale per le sue rivendicazioni sul Mar Cinese Meridionale e ha continuato a costruire strutture geografiche artificiali, infiammando le tensioni con altri Paesi contendenti. Navi e aerei militari cinesi entrano frequentemente nelle acque intorno alle contese isole Senkakus – o Diaoyu islands in cinese – e nella zona di identificazione della difesa aerea del Giappone, provocando l’immediata reazione dei jet militari giapponesi. All’inizio del 2021 centinaia di pescherecci che trasportavano presunti miliziani sono stati inviati nelle isole rivendicate dalle Filippine. Atti che aumentno il rischio di incidenti che possono scatenare una vera guerra.

La Cina non sembra essere disposta a scendere a compromessi su nessuna questione territoriale. Come Xi ha detto in diversi discorsi negli ultimi anni, la Cina non rinuncerà ad “un centimetro di territorio lasciato dai nostri antenati“. Alcuni osservatori sostengono che il rafforzamento militare della Cina è solo una risposta all’essere circondata da alleati e basi statunitensi nella regione. In altre parole, che è puramente difensivo.

La paura dell’imperialismo cinese

I Paesi asiatici (compresa la Cina stessa) hanno in passato vissuto sulla loro pelle l’esperienza del dominio coloniale europeo durante il quale le economie del continente erano state organizzate per servire la richiesta europea di materie prime e di risorse naturali, mentre la manipolazione finanziaria del debito era stata utilizzata come uno strumento strutturale di intervento e dominio.

Inoltre, gli asiatici dell’est hanno sperimentato sulla loro pelle come gli interessi commerciali che puntano a un miglioramento generale possano rapidamente diventare dannosi. Il Giappone, costretto ad abbandonare il suo isolamento dalla flotta americana nel 1853, aveva intrapreso un originale rapido ed efficace processo di modernizzazione, facendo leva su un efficiente Stato burocratico, sulla formazione scientifica e tecnologica e sul capitalismo. All’inizio non voleva imporsi come potenza coloniale, ma era comunque desideroso di accumulare ricchezza e potenza militare attraverso l’accesso ai mercati e alle risorse dell’Asia. Proponeva la creazione di una “grande sfera di prosperità comune dell’Asia orientale”, ma presto il disegno si era trasformato nell’imposizione militare ed economica degli interessi giapponesi in Cina, Taiwan, Corea del Sud, Indonesia, Malaysia, etc..

Con l’estensione della Seconda Guerra Mondiale al Pacifico, dal 1942 al 1945, la violenza. Lo schiavismo (anche sessuale) e lo sfruttamento brutale erano divenuti la norma nei territori occupati dai giapponesi, da Singapore, alla Corea e alla Birmania (Myanmar). Ben prima di Pearl Harbor (dal 1937), la stessa Cina ha svolto un ruolo cruciale nella difesa dell’Asia e nel bloccare oltre mezzo milione di soldati giapponesi fino all’arrivo degli americani e degli inglesi, al costo di ben 14 milioni di vite cinesi.

Alcuni dei governanti dei Paesi asiatici, quindi, temono che la “comunità con un futuro condiviso” proposta dalla Cina possa fare la fine della “grande sfera di coprosperità” proposta a suo tempo dal Giappone.

In questo senso, una questione particolarmente delicata è quella di Taiwan, l’isola posta a 180 km dalla terraferma cinese. L’economia cinese e quella tawainese sono interdipendenti. 226 miliardi di dollari di interscambio commerciale con ampio surplus per Taipei, le cui esportazioni vanno per il 40% in Cina. Negli ultimi anni, la Cina ha aumentato la pressione per affermare la sua sovranità sull’isola, che considera una “provincia ribelle” di “una Cina” e del sacro territorio cinese.

Da 70 anni Taiwan è “l’altra Cina”, quella dei nazionalisti del Kuomintang di Chiang Kai-shek che qui ripararono nel 1949 sconfitti dai comunisti guidati da Mao Zedong, e dal 1971, quando perse il seggio alle Nazioni Unite assegnato alla Repubblica Popolare Cinese, si giostra nell’ambiguità di uno status indefinito. Con l’interruzione delle relazioni con Taiwan da parte degli USA nel 1979 (quando Taiwan era ancora governata da una dittatura), il Congresso americano approvò il Taiwan Relations Act (TRA), che chiarì che gli USA avrebbero mantenuto degli impegni speciali con Taiwan, impegnandosi a contrastare qualsiasi tentativo di “determinare il futuro di Taiwan con mezzi diversi da quelli pacifici, inclusi boicottaggi o embarghi”, considerandoli come “una minaccia per la pace e la sicurezza dell’area del Pacifico Occidentale e di grave preoccupazione per gli Stati Uniti“. Il TRA ha inoltre affermato che gli Stati Uniti si impegnano a mantenere la capacità di intervenire in difesa di Taiwan e a mettere a disposizione dell’isola le armi necessarie per la sua sicurezza. Ma, è importante sottolineare che il TRA non ha dichiarato che gli Stati Uniti sarebbero effettivamente venuti in difesa di Taiwan.

Oggi, Taiwan è la 22° economia al livello globale e una nazione di 24 milioni di persone governate da una democrazia piena, ma sulla carta esiste come tale solo per 15 Paesi, piccoli e poveri (tranne il Vaticano) come Palau, Nauru, Tuvalu, le Isole Marshall Islands, Haiti, Guatemala, Honduras e Nicaragua, e questo riconoscimento impedisce loro di avere relazioni diplomatiche con la Cina. Sette Paesi hanno disconosciuto Taiwan dal 2015 e in cambio hanno ricevuto finanziamenti e investimenti nelle infrastrutture da parte della Cina.

Gli Stati Uniti non hanno legami formali con Taiwan, ma sono tenuti per legge a contribuire a fornire all’isola i mezzi per difendersi, ma non hanno chiarito se interverrebbero militarmente in caso di attacco cinese, cosa che probabilmente porterebbe a un conflitto molto più ampio con Pechino. Per Taiwan gli USA sono la principale fonte di armi. Washington ha venduto a Taipei più di 15 miliardi di dollari di armi dal 2010 e l’amministrazione Trump ha approvato vendite di 66 aerei caccia F-16V e per la fornitura di un pacchetto di armi da 8 miliardi di dollari (tra cui sensori, artiglieria, missili Patriot e missili per la difesa costiera Harpoon prodotti dalla Boeing), la più grande vendita di sempre. Una decisione che ha acuito ulteriormente i rapporti tra USA e Cina.

La Cina ha ripetutamente inviato aerei militari e navi a fare il giro dell’isola nel corso di esercitazioni negli ultimi anni e ha lavorato per isolarla a livello internazionale, in modo da ridurre i pochi rimanenti alleati diplomatici (gli ultimi a disconoscerla sono stati El Salvador nell’agosto 2018 e le Isole Salomone nell’ottobre 2019).

Per Xi Jinping l’idea di una Cina unita fa parte del “sogno cinese” e auspica per Taiwan una soluzione hongkonghese: “Un paese, due sistemi”. Ma, questa non piace tanto ai taiwanesi del Partito Popolare Democratico (DPP) della presidente in carica Tsai-Ing-Wen, dato che l’erosione dell’autonomia e delle libertà a Hong Kong è evidente a tutti, anche alla luce del “movimento degli ombrelli” dell’autunno 2014 e delle proteste innescate prima dal tentativo di approvare una legge sull’estradizione verso la Repubblica Popolare e poi dall’imposizione di una legge “sulla sicurezza nazionale” che ha esteso all’isola i poteri di uno Stato di polizia che punisce atti di “sovversione, secessione, terrorismo e collusione con Paesi stranieri” anche con l’ergastolo.

Le elezioni presidenziali dell’11 gennaio 2020 si sono trasformate in una sorta di referendum sul futuro delle relazioni di Taiwan con Pechino. Il DPP ha fatto una campagna elettorale sullo slogan: “Resisti alla Cina, difendi Taiwan“. I nazionalisti del Kuomintang, invece, vogliono rapporti più stretti con Pechino e il loro candidato era il sindaco di Kaohsiung, Han Kuo-yu, che nelle primarie aveva sconfitto il miliardiario Terry Gou, il creatore della Foxconn, il più grande assemblatore di apparecchi elettronici al mondo e uno dei principali partner industriali di Apple nella Cina continentale. Tsai Ing-Wen è sta rieletta con il 57,1% dei voti.

A Taiwan la Cina offre una maggiore integrazione economica e politica con la provincia continentale del Fujian sul modello del progetto dell’Area della Grande Baia (70 milioni di abitanti) destinato ad integrare Hong Kong (tornata alla Cina nel 1997) e Macao (tornata alla Cina nel 1999) con la provincia del Guangdong, ed in particolare con la conurbazione di nove città (Guangzhou, Shenzhen, Zhuhai, Foshan, Huizhou, Dongguan, Zhongshan, Jiangmen e Zhaoqing), che produce il 37% del PIL cinese e il 12% delle esportazioni. Da sola, l’ Area della Grande Baia è già il quarto maggior esportatore al mondo e la quindicesima maggior economia nel mondo, più grande della Spagna.

Il ponte Hong Kong-Zhuhai-Macao, inaugurato da Xi nell’ottobre 2018, è l’infrastruttura che incarna questo disegno di integrazione. Un disegno che è stato messo in discussione dal movimento popolare di protesta di Hong Kong che ha rappresentato la più grande sfida al regime comunista cinese dopo le proteste di piazza Tiananmen di 30 anni fa. Gli attivisti e gli studenti hanno chiesto maggiore democrazia (il suffragio universale), la difesa dello Stato di diritto, uno Stato sociale più generoso e più alloggi a basso costo (il mercato immobiliare è controllato da una piccola oligarchia di famiglie miliardarie come i Kwok che continuano ad arricchirsi), mentre un numero molto elevato di cittadini ha segnalato di non avere fiducia nei loro governanti filo-Pechino.

La repressione del movimento è stata forte (oltre 10 mila arresti, centinaia di feriti e alcuni morti) e dopo 5 mesi di dimostrazioni, la Cina ha cominciato a mandare l’esercito per rimuovere i blocchi stradali. I rischi di una violenta repressione militare cinese non erano solo per i manifestanti, ma anche per le imprese e tutti i cittadini di Hong Kong, e per le relazioni della Cina con Taiwan, gli USA (che appoggiano apertamente il movimento democratico) e il resto del mondo. L’approvazione della legge “sulla sicurezza nazionale”, che ha esteso all’isola i poteri di uno Stato autoritario che punisce atti di “sovversione, secessione, terrorismo e collusione con Paesi stranieri” anche con l’ergastolo, ha segnato la dura sconfitta (almeno momentanea) del movimento popolare pro-democrazia e ha spinto molti ad intraprendere la via dell’esilio.

Mentre la Cina ha imposto la sua legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong nel 2020 dopo le massicce proteste, i residenti della città hanno spostato decine di miliardi di dollari in Canada, dove migliaia sperano di forgiare un nuovo futuro. I flussi di capitale dalle banche di Hong Kong verso il Canada sono saliti ai livelli più alti mai registrati nel 2020, con circa 34,8 miliardi di dollari in trasferimenti elettronici di fondi. Il Canada è una seconda casa per molti residenti di Hong Kong dopo che le loro famiglie si sono trasferite nelle aree di Vancouver e Toronto prima del passaggio della ex colonia britannica alla Cina nel 1997. Dopo aver ottenuto la cittadinanza canadese, molti sono tornati a Hong Kong, che ora ospita circa 300 mila canadesi, una delle più grandi comunità canadesi all’estero. Ma, dopo l’applicazione della legge sulla sicurezza del 2020, più residenti di Hong Kong hanno deciso di fare la loro casa in Canada, che ha preso provvedimenti alla fine del 2020 per rendere più facile per loro ottenere permessi di lavoro e residenza permanente.

Il governo britannico si aspetta che fino a 321.600 residenti di Hong Kong migreranno in UK nei prossimi cinque anni, di cui quasi la metà nel 2021. Sulla base di ciò, la Bank of America ha dichiarato che si aspetta che i deflussi legati all’emigrazione raggiungano 36,1 miliardi di dollari nel 2021.

Umiliazione e ira della Francia

La Francia ha accusato il presidente degli Stati Uniti Joe Biden di averla pugnalata alle spalle e di aver agito come il suo predecessore Donald Trump dopo che Parigi è stata tagliata fuori dal redditizio accordo di difesa firmato con l’Australia per i sottomarini. “Questa decisione brutale, unilaterale e imprevedibile mi ricorda molto quello che faceva il signor Trump“, ha detto il ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian. “Sono arrabbiato e amareggiato. Questo non viene fatto tra alleati.” “È una pugnalata alle spalle. Abbiamo creato un rapporto di fiducia con l’Australia e quella fiducia è stata infranta“, ha detto Le Drian e ha anche accusato USA e Australia di “menzogne e doppiezza“. Il Senato francese ha defintito la cancellazione del contratto militare “una decisione seria con pesanti conseguenze” e ha chiesto di mettere in discussione “l’esatta natura” del rapporto tra Parigi e Washington. “Gli Stati Uniti e il Regno Unito [stanno] cambiando le regole del gioco.

Per l’establishment francese si è trattato di vivere un “‘momento Trafalgar“, una sconfitta assimilabile a quella subita dalla marina francese nel 1805 che instaurò la supremazia navale britannica mondiale per oltre un secolo. Nei giorni seguenti, Macron è rimasto silenzioso, ma la Francia ha richiamato i suoi ambasciatori negli Stati Uniti e in Australia per consultazioni. Alla domanda sul perché la Francia non avesse richiamato il suo ambasciatore nel Regno Unito, Le Drian ha detto che il ruolo della Gran Bretagna era “opportunistico” e ha descritto il Paese come “la quinta ruota del carro“. Comunque, la Francia ha annullato un incontro tra il ministro delle Forze Armate Florence Parly e il suo omologo britannico, Ben Wallace, previsto per la settimana successiva.

Boris Johnson ha assicurato che l’accordo “non deve essere visto in opposizione a nessun’altra potenza“, assicurando che le “relazioni militari” del Regno Unito con la Francia erano “estremamente forti“, collaborando in particolare nella lotta al terrorismo nel Sahel o in un’operazione NATO in Estonia. Il ministro della Difesa britannico Ben Wallace ha spiegato in precedenza che l’intenzione di Londra non era quella di “sconvolgere” Parigi, che il Paese era “tra i [suoi] più stretti alleati militari in Europa”.

Nel 2016, l’Australia aveva selezionato il costruttore navale francese Naval Group (controllato dallo Stato) per costruire una nuova flotta di sottomarini convenzionali del valore iniziale di 34,5 miliardi di euro per sostituire i suoi sottomarini Collins vecchi di oltre due decenni. Naval Group aveva battuto la concorrenza del produttore tedesco ThyssenKrupp e di un consorzio giapponese, e il contratto era stato negoziato e firmato da Le Drian, allora ministro della Difesa, con l’allora primo ministro australiano, Malcolm Turnbull. Il 30 agosto 2021, i ministri della Difesa e degli Esteri australiani avevano riconfermato l’accordo alla Francia e il presidente francese Emmanuel Macron aveva previsto decenni di cooperazione futura quando aveva ospitato il primo ministro australiano Scott Morrison a giugno.

In realtà, dal 2016 i rapporti fra Canberra e Naval Group erano peggiorati per una serie di disaccordi relativi ai costi sempre maggiori (saliti da 34,5 a 56 miliardi di euro), alle modifiche di progettazione (dovuti in larga parte alla difficoltà di riconvertire i sottomarini francesi da nucleari a convenzionali), ai ritardi nel calendario e al coinvolgimento dei cantieri locali. A quanto pare, già a febbraio 2021, il premier Morrison aveva chiesto alle autorità militari di esaminare opzioni per un “piano B” del programma di sviluppo dei sottomarini. Anche l’opposizione laburista aveva denunciato i costi sempre maggiori dell’accordo con Naval Group, chiedendo al governo di rivedere il contratto.

Biden ha detto che la Francia rimane un “partner chiave nella zona indo-pacifica“. Morrison ha dichiarato che l’Australia non vede l’ora di continuare a lavorare “a stretto contatto e positivamente” con la Francia, aggiungendo: “La Francia è un amico e un partner chiave per l’Australia e l’Indo-Pacifico“.

Per la Francia, che è stato il primo Paese dell’UE ad adottare una strategia indo-pacifica nel 2018 (poi rivista nel 2021) e ha continuato a persuadere la Germania, l’Olanda e l’intera UE a seguire l’esempio, gli ultimi sviluppi potrebbero portare a un ripensamento del suo posizionamento strategico. L’AUKUS rappresenta un duro colpo per Macron e per la posizione della Francia di essere un importante partner indo-pacifico.
La Francia ha cercato di coinvolgere l’Unione Europea nella reazione politica al colpo ricevuto a seguito dell’AUKUS, ma, le ricadute negative sarebbero per lo più limitate alla Francia, considerando sia che nell’avventura australiana la Francia si era mossa in autonomia senza coinvolgere i suoi partner della UE, forte del proprio status di potenza nucleare, sia che la strategia indo-pacifica dell’UE è andata ben oltre la dimensione militare, provando a delineare una strategia che favorisce un “ingaggio poliedrico” basato su una diversificazione commerciale rispetto alla Cina (con Paesi come Giappone, Corea del Sud, India, Indonesia, Australia), impegnandosi a cercare un accordo commerciale richiesto da Taiwan[15] e ad impiegare più navi per mantenere aperte le rotte marittime. Cercando anche di tenere aperto il dialogo con la Cina, in particolare in aree come il cambiamento climatico e il controllo della proliferazione degli armamenti. L’UE ha stabilito sette aree in cui aumenterebbe l’influenza nell’Indo-Pacifico: in materia di salute, sicurezza, dati, infrastrutture, ambiente, commercio e oceani.

L’UE ha l’ambizione di avere una strategia indo-pacifica assertiva, ma si rende conto di non essere al momento un rilevante attore politico del Pacifico, ma solo un importante player economico. La UE appare disponibile a fare i conti con la realtà e di cercare di dimensionare correttamente le proprie ambizioni geopolitiche, dato che gli Stati Uniti e Paesi come l’Australia non considerano l’Unione Europea un partner credibile nel campo della sicurezza.

La Francia, in virtù dei suoi territori coloniali d’oltremare nella regione, in Oceania – Wallis-et-Futuma, Nuova Caledonia, Polinesia francese – e nell’Oceano Indiano – la Réunion e Mayotte -, è l’unico Paese europeo che si considera una “potenza residente” nell’Indo-Pacifico. E’ l’unica Stato europeo presente nell’Indo-Pacifico con 1,6 milioni di suoi cittadini, quasi 8 mila soldati, una portaerei a propulsione nucleare e decine di altre navi, compresi sottomarini nucleari, posizionate in diverse basi navali.

A parte la Francia, non è realistico aspettarsi che l’UE utilizzi risorse militari limitate per bilanciare il potere della Cina nella regione, e l’invio di navi e aerei e la partecipazione alle esercitazioni può solo contribuire a “mettere un punto“. Altri sforzi collettivi, come le dichiarazioni congiunte, possono solo dimostrare che c’è un’ampia coalizione di Stati geograficamente distanti con interessi attivi nella stabilità regionale e nella conservazione del diritto internazionale del mare.

Borrell ha insistito sul fatto che “l’UE è il principale investitore, il principale fornitore di cooperazione allo sviluppo e uno dei maggiori partner commerciali nella regione indo-pacifica“, ma ha anche dovuto aggiungere che “dobbiamo sopravvivere da soli, come fanno gli altri“, parlando di quella “autonomia strategica” tanto invocata da Macron. Un punto condiviso da Charles Michel che ha affermato: “Sono più che mai convinto dell’autonomia strategica. L’annuncio fatto da Stati Uniti, Australia e Regno Unito di questa nuova alleanza militare nell’Indo-Pacifico, non fa che rafforzare la mia opinione personale che noi abbiamo bisogno di sviluppare la nostra capacità di agire[16].

E’ assai probabile che ora la Francia proverà a puntare sull’India, Paese con cui ha già buoni rapporti in materia di sicurezza e al quale, quindi, cercare di vendere sottomarini nucleari e altri armamenti[17]. Macron è disponibile ad assicurare a Modi il continuo “impegno per il rafforzamento dell’autonomia strategica dell’India, compresa la sua industria e la sua base tecnologica, come parte di una stretta relazione basata sulla fiducia e sul rispetto reciproco“. Mantenendo aperta una interlocuzione con il governo di Narendra Modi, la Francia potrebbe svolgere un ruolo costruttivo nel garantire che l’UE non sia del tutto bloccata sul piano politico nella regione.

L’Unione Europea, gli USA e il futuro della NATO

Le azioni di Washington e Londra in Australia rischiano di mettere a dura prova i legami transatlantici. L’annuncio dell’AUKUS è avvenuto all’indomani del discorso di Ursula Von der Leyen sullo stato dell’Unione che illustrava le ambizioni militari della UE, dicendo che l’Europa deve acquisire la volontà politica di costruire e dispiegare le proprie forze militari, e il giorno prima che Joseph Borrell rendesse pubblica la strategia indo-pacifica del blocco[18], mente Parigi si prepara ad assumere la presidenza dell’UE nel primo semestre del 2022 e a convocare un “Vertice sulla difesa europea“. Con la cancelliera tedesca Angela Merkel in procinto di andare in pensione, l’UE sta perdendo la sua figura politica più autorevole, e molte delle altre 26 capitali dell’UE guardano con urgenza a Macron, leader del secondo maggiore Paese membro dell’UE, per aiutare a colmare parte del vuoto politico.

L’Unione Europea “non è stata informata” (come del resto la Francia) preventivamente del patto di sicurezza concluso tra Stati Uniti, Australia e Regno Unito per la regione indo-pacifica, ha affermato Peter Stano, portavoce del ministro degli Esteri europeo, Josep Borrell. Si farà un’analisi della situazione e delle ripercussioni di questa alleanza nel corso di una riunione straordinaria dei ministri degli Esteri dell’UE convocata a margine dell’Assemblea Generale dell’ONU a New York e poi nel corso della prossima riunione dei ministri degli Esteri UE, prevista per il 18 ottobre a Lussemburgo. I 27 capi di Stato e di governo dell’UE, invece, discuteranno della frattura con gli Stati Uniti nella cena del 5 ottobre in Slovenia, in vista di un vertice incentrato sui Balcani occidentali. Ma, non sorprende che la Francia abbia immediatamente rafforzato le richieste all’Europa di forgiare un corso di “autonomia strategica” con un minor affidamento sulla tecnologia degli Stati Uniti e sull’esercito americano.

D’altra parte, il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan è chiaramente diventato un catalizzatore per l’UE per fare grandi passi avanti nel rafforzamento della sua difesa. L’Europa si è opposta non solo al ritiro, ma anche al modo in cui è stato fatto. Ancora più importante, molti segmenti dell’establishment europeo credono che il ritiro afghano sia stato un segno che gli Stati Uniti stanno tornando all’isolazionismo o che comunque stanno diventando sempre più inaffidabili. Quindi vogliono ridurre la dipendenza della UE da Washington.

Anche la promessa di una cooperazione trilaterale tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia sulle tecnologie anti-Cina come l’intelligenza artificiale ha colpito negativamente Bruxelles. Alla fine di questo settembre, l’UE e gli Stati Uniti si dovrebbero incontrare per colloqui a Pittsburgh proprio su questo tema: l’allineamento degli standard tecnologici (US-EU Trade and Technology Council), in un evento pensato per mostrare il rinnovato partenariato politico tra Bruxelles e Washington.

Il problema principale è che l’America ha mostrato crescenti segnali di frustrazione con l’approccio più morbido dell’UE nei confronti della Cina[19] e con la sua crescente aspirazione a puntare alla “autonomia strategica”, ossia ad acquisire una capacità di proiezione politico/militare e tecnologica indipendente dagli Stati Uniti. Indipendentemente dalle richieste del presidente eletto Biden (allora non ancora insediato), Merkel e Macron si erano affrettati a finalizzare un accordo di investimento storico con la Cina alla fine del 2020. Attualmente, l’accordo è stato sostanzialmente congelato (da maggio 2021 il Parlamento Europeo ha sospeso la ratifica) dopo le sanzioni e contro-sanzioni derivanti dalla preoccupazione dell’UE per le violazioni dei diritti umani verso la minoranza uigura nello Xinjiang. Mentre i diplomatici americani vogliono che i prossimi colloqui di Pittsburgh si concentrino sulla creazione di ecosistemi tecnologici che escludano la Cina, i funzionari europei si sforzano di minimizzare qualsiasi dimensione anti-Pechino della cooperazione tecnologica.

Le divergenze tra UE e Stati Uniti, in particolare sulla strategia cinese, stanno crescendo. Gli Stati Uniti mirano a mantenere la propria egemonia e sul piano economico hanno promosso un “disaccoppiamento” con la Cina[20], ma la maggior parte dei Paesi europei è contraria a seguire questa strada, poiché dovrebbero sacrificare le proprie opportunità di sviluppo e i propri interessi pratici. Per Paesi chiave come la Germania e la Francia, la Cina non è solo una minaccia, ma anche una opportunità e, quindi, sono riluttanti a intraprendere una sorta di guerra fredda con il gigante asiatico. La strategia dell’UE per gestire la Cina differisce da quella degli Stati Uniti in un modo importante: l’UE cerca attivamente la cooperazione con la Cina e la vede come un partner economico e strategico. Bruxelles crede che commerciando e lavorando con la Cina, non solo sia possibile stimolare Pechino a riformare i suoi diritti umani e le politiche energetiche, ma anche usare un buon rapporto con la Cina per fungere da cuscinetto tra Pechino e Washington, dando così all’UE un ruolo geopolitico chiaro e importante. Pertanto, la dura retorica dell’UE sulla Cina potrebbe aumentare, ma non oserà andare agli estremi come hanno fatto gli Stati Uniti.

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha cercato di sanare le ferite nelle relazioni transatlantiche, ma finora ha ottenuto ben poco. Esistono ancora controversie che vanno dal rapporto con la Russia alla politica iraniana.

L’establishment europeo aveva celebrato l’elezione di Biden come un’opportunità per rinvigorire i rapporti dopo i quattro anni di belligeranza e combattività di Donald J. Trump. Ora, vive una sensazione di spaesamento e nella prospettiva di una grave e prolungata frattura tra UE e USA.

Il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel ha detto ai giornalisti a New York che, alla luce dell’operazione AUKUS, non ha capito il vero significato del messaggio di Biden che l’”America è tornata” (America is back). “Questo è stato il messaggio storico inviato da questa nuova amministrazione e ora abbiamo delle domande. Cosa significa che l’America è tornata? L’America è tornata in America o da qualche altra parte? Noi non lo sappiamo“. Michel ha affermato che Biden non ha onorato un accordo raggiunto dai leader dopo molte ore di colloqui al vertice del G7 in Gran Bretagna a giugno che prevedeva l’impegno di rimanere uniti nel confronto con i regimi autoritari, in particolare con la Cina. “Durante il G7 abbiamo trascorso tre giorni, abbiamo discusso molto delle sfide geopolitiche e in particolare della regione indo-pacifica e della Cina. Ne abbiamo discusso molto e la conclusione principale è stata: dobbiamo essere uniti“. Ma, secondo Michel, “è difficile vedere questo annuncio [del nuovo accordo AUKUS] come un segno di unità“.

Michel ha insistito che la questione AUKUS non dovrebbe essere vista in senso stretto come una questione di interessi economici francesi, ma piuttosto come parte di un modello di disprezzo per gli alleati europei e i loro interessi da parte di quattro presidenti degli Stati Uniti, a partire da quando George W. Bush decise di dichiarare guerra in Iraq e Afghanistan. “Obama con carisma, molto lucido, ha preso decisioni importanti in Siria con conseguenze negative per l’Europa, e abbiamo potuto osservare anche una mancanza di coordinamento, di consultazione tra i governi degli Stati Uniti e dell’Europa“, ha detto Michel. “Almeno con Donald Trump era molto, molto chiaro che non era favorevole all’integrazione europea, che per lui l’Europa non conta, ma era chiaro“. Biden, d’altra parte, ha parlato di un rinnovo dei legami transatlantici, secondo Michel, ma poi ha fermato gli alleati europei con la sua decisione di seguire il piano di Trump di ritirarsi dall’Afghanistan, “e pochi giorni fa con questo strano annuncio”. “Quando l’alleanza transatlantica è meno robusta e meno solida, questo non va bene per la sicurezza in Europa e ovunque nel mondo“, ha affermato Michel, aggiungendo: “Questo è più di un argomento commerciale o industriale bilaterale. È più di questo.

L’establishment europeo si interroga sull’impatto che la nuova alleanza AUKUS avrà sulla NATO e su un’alleanza transatlantica che gli alleati europei percepiscono come sempre meno al centro delle attenzioni di Washington. A giugno, su pressione degli USA, la NATO aveva dichiarato per la prima volta che la Cina rappresenta una sfida sistemica, chiedendo a Pechino di rispettare l’ordine internazionale “nello spazio, nel cyberspazio e nei territori marittimi”, ma poi sono venute le decisioni unilaterali USA di abbandonare in tutta fretta l’Afghanistan e di costituire l’AUKUS. I tempi e le modalità dell’annuncio di questa alleanza hanno suscitato ulteriori interrogativi sulla coesione, lo scopo e la leadership della NATO tra i governanti europei, un’organizzazione che non troppo tempo fa Macron aveva affermato che fosse in una condizione di “morte cerebrale”. Per i governanti europei il problema principale è se sia ancora davvero possibile avere con l’America un rapporto di fiducia e orientato alla partnership.

Il conflitto tra Australia e Cina

Negli ultimi anni, il sostanziale declino del dominio dell’America in Asia e nel Pacifico occidentale, a fronte della crescita economica, politica e militare della Cina, ha imposto all’Australia la necessità di decidere se cercare di rimanere parte dell’Occidente o entrare a far parte del mondo asiatico. Non si tratta solo di stabilire un’identità culturale, ma di capire da quale potenza – USA o Cina – dipenderà il futuro del Paese. Per la prima volta il principale partner economico (la Cina) non coincide con il principale alleato militare (gli USA), al fianco del quale ha combattuto la Prima e la Seconda Guerra Mondiale e le guerre di Corea, Vietnam, Afghanistan ed Iraq (dal 2001 al 2020 ha speso circa 15 miliardi di dollari in operazioni militari nel Medio Oriente). Ora, alla vigilia delle elezioni federali, il governo nazional-conservatore di Scott Morrison (in grave difficoltà nei sondaggi a causa della cattiva gestione di pandemia da CoVid-19, quarantena e vaccini) ha fatto una scelta, sottoscrivendo l’AUKUS, l’alleanza politico-militare con USA e UK, dopo aver lavorato per anni per creare le condizioni per un forte deterioramento delle relazioni con Pechino.

Come sottolinea un articolo del New York Times, con la decisione di acquisire armi pesanti e tecnologia top-secret, il governo australiano ha unito il destino dell’Australia con gli Stati Uniti per le generazioni a venire: una “partnership per sempre“, nelle parole di Morrison, mentre Biden ha detto che “gli Stati Uniti non hanno un alleato più stretto o più affidabile dell’Australia“. L’accordo aprirà la strada a legami militari più profondi e maggiori aspettative che l’Australia si unisca a qualsiasi conflitto militare contro Pechino. L’accordo è stato criticato dell’ex primo ministro australiano Paul Keating che ha affermato che lega l’Australia a qualsiasi impegno degli Stati Uniti contro la Cina. “Questo accordo testimonierebbe un’ulteriore drammatica perdita della sovranità australiana, poiché la dipendenza materiale dagli Stati Uniti priverebbe l’Australia di qualsiasi libertà o scelta in qualsiasi impegno ritenga opportuno“, ha affermato. Kevin Rudd, ex primo ministro e ministro degli esteri australiano, ha criticato il modo in cui Morrison ha trattato la Francia.

Se gli Stati Uniti permettono all’Australia di avere accesso alla sua tecnologia nucleare è perché si aspettano che l’Australia dispieghi le sue forze in una potenziale guerra con la Cina. Si tratta di una grande scommessa strategica sul fatto che l’America prevarrà nella sua competizione per lo status di grande potenza con la Cina e che continuerà ad essere la forza dominante e stabilizzatrice nel Pacifico anche se i costi aumentano.

A Pechino non è piaciuto l’annuncio dell’alleanza AUKUS e ha deriso Canberra come lacchè di Washington. Tre bellicosi editoriali in lingua inglese del giornale ufficiale Global Times hanno affermato che l’Australia si è ormai “trasformata in un avversario della Cina“, diventando “una pedina degli Stati Uniti” e per questo “potrebbe affrontare le conseguenze più pericolose di diventare carne da cannone in caso di resa dei conti militare nella regione.” “La mossa della guerra fredda degli Stati Uniti è una trappola che priverà i suoi alleati abbastanza ingenui da cadere nell’illusione di ricevere dividendi economici dagli Stati Uniti, sperando anche di riqualificare i benefici che derivano dallo sviluppo della Cina quando si tratta di cooperazione economica e commerciale. Non c’è modo per la Cina di sviluppare legami economici con un Paese che la tratta come un nemico. Non esiste un percorso verso la prosperità futura per un’Australia che sceglie di isolarsi dalla più grande economia della regione.

Nel 2014 il presidente cinese Xi Jinping aveva dichiarato al Parlamento australiano l’impegno a rafforzare i rapporti tra i due Paesi, arrivando a firmare un accordo bilaterale di libero scambio. Nel 2016 le esportazioni australiane verso la Cina ammontavano a 93 miliardi di dollari australiani, mentre quelle verso gli Stati Uniti solo 21 miliardi. Nello stesso anno, gli investimenti cinesi nel Paese superavano i 10 miliardi di dollari, per poi ridursi drasticamente negli anni successivi, ma nel 2019 il commercio bilaterale valeva circa 240 miliardi di dollari australiani (171 miliardi di dollari americani), con la Cina che è diventato il primo partner commerciale e nel 2020 ha acquistato circa il 41% delle esportazioni di merci australiane.

Con l’Unione Europea, l’Australia sta negoziando un accordo commerciale free-trade. La UE è già il secondo partner commerciale dell’Australia e la terza destinazione delle esportazioni, con un commercio bidirezionale di beni e servizi del valore di 109 miliardi di dollari nel 2018. Ora, la Francia sta cercando di ottenere il sostegno dell’Unione Europea per ritardare il negoziato per l’accordo commerciale, come parte di un piano per punire l’Australia dopo l’annullamento del contratto per la fornitura dei sottomarini francesi. La Commissione Europea ha chiesto risposte – e scuse dall’Australia – sul trattamento riservato alla Francia. Le speranze dell’Australia di entrare in un accordo di libero scambio con l’Unione Europea sono state messe in discussione, con la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, che ha chiesto all’Australia di spiegare prima la sua condotta, in difesa dello Stato membro dell’UE, la Francia. Minime sono le prospettive ora che Parigi accetti le richieste degli agricoltori australiani di avere un maggiore accesso al mercato europeo, anche considerato il sostegno storico della Francia alla politica agricola comune (PAC).

Ex-colonia britannica con una popolazione di circa 25 milioni di persone a maggioranza bianca (al 90% concentrati nei grandi centri urbani), l’Australia si è considerata per secoli un Paese della sfera anglosassone (un australiano su quattro è discendente dei detenuti deportati durante l’impero britannico, ma il 28% della popolazione è nata all’estero e circa la metà ha un genitore nato fuori dell’Australia), nonostante la sua vicinanza a potenze asiatiche in ascesa come l’Indonesia e la Cina. I politici conservatori australiani al potere dal 2013 credono ancora che solo i bianchi, specialmente quelli provenienti dall’Europa, dal Regno Unito o dal Sud Africa, siano autentici australiani (fino al 1973 l’immigrazione era limitata ai soli bianchi). Anche l’Australia Day, la festa nazionale del Paese che commemora l’arrivo della “prima flotta” di navi britanniche nel porto di Sydney il 26 gennaio 1788 (trasportando principalmente detenuti e truppe dalla Gran Bretagna), segnando l’inizio dell’immigrazione europea in Australia, trascura una cosa: per gli aborigeni il giorno segna anche l’inizio di una “invasione” e della cancellazione di 50-65 mila anni della loro storia (i popoli indigeni australiani sono la più antica civiltà ininterrotta al mondo). Da questo punto di vista, un passo avanti è stato la nomina dell’aborigeno Kenneth Wyatt a ministro degli Affari Indigeni da parte del premier Scott Morrison nel Giorno delle Scuse (ossia nel giorno in cui ogni anno l’Australia chiede scusa al popolo aborigeno per il genocidio che ha dovuto subire). La madre di Wyatt, Mona Abdullah, faceva parte della cosiddetta “generazione rubata” che si riferisce ai bambini aborigeni sottratti alle proprie famiglie tra il 1910 e il 1970 da parte del governo e delle missioni religiose. Per cercare di riflettere la storia aborigena, a fine 2020 è stata cambiata la formulazione dell’inno nazionale. E’ stato rimosso il riferimento al Paese come “giovane e libero” e sostituito con il passaggio “perché siamo uno e libero” (“Australians all let us rejoice / For we are one and free”).

L’Australia è da decenni un alleato militare fedele degli Stati Uniti e ospita molte basi USA, come quella di Darwin, nel nord, dove operano più di un migliaio di marines arrivati nell’ambito del “pivot to Asia”, la strategia avviata dall’amministrazione Obama nel 2011, che aveva cercato di spostare in Asia il baricentro della politica estera USA, contando su circa 60 mila militari e sulle basi di Guam e Pearl Harbor nel Pacifico.

L’Australia ha cominciato a pensare al suo ruolo in Asia all’inizio degli anni ’90, mentre in piena recessione osservava con apprensione la rapida crescita delle economie asiatiche. Poi, nel 1992, il primo ministro Paul Keating dichiarò che l’Australia non avrebbe più dovuto farsi rallentare dal “torpore e dall’anglofilia”. L’apice dell’avvicinamento culturale alla Cina è stato raggiunto durante l’amministrazione di Kevin Rudd (2007-2010), un politico che tra l’altro parla fluentemente il mandarino. Inoltre, nell’ultimo decennio l’Australia è diventata un Paese sempre più multiculturale, e oggi il cinese è la lingua più parlata nelle case australiane dopo l’inglese. Circa 1,2 milioni di australiani, circa il 5% della popolazione complessiva, hanno antenati cinesi. Le persone nate in Cina sono ora il più grande gruppo di migranti, rappresentando il 15,8% degli arrivi totali in Australia nel 2018.

Per decenni il benessere australiano ha continuato ad aumentare grazie alle esportazioni in Cina, che a loro volta hanno alimentato la ricchezza cinese. I rapporti commerciali tra i due Paesi sono regolati dall’accordo del 2014 che ha ridotto le tariffe doganali. La Cina vuole tutto ciò che l’Australia produce, dai minerali – dal ferro al carbone e al gas naturale, dal nickel (con l’Indonesia ha le maggiori riserve al mondo) al litio (terzo produttore al mondo) al coltan, di cui il Paese è l’unico produttore al mondo insieme alla Repubblica Democratica del Congo – alle bistecche, dal latte alle pelli, da lana e cotone al vino (circa il 37% delle esportazioni, per un valore di oltre 800 milioni di dollari nel 2019), dallo zucchero alle aragoste (oltre il 94% dei 752 milioni di dollari di esportazioni di aragoste è andato alla Cina nel 2018-19), dal legname all’orzo e agli integratori alimentari, passando per l’istruzione (il 38% degli studenti stranieri erano cinesi, circa 165 mila, nel 2018). Oggi, la Cina è il primo partner commerciale del Paese in termini sia di importazioni sia di esportazioni. Un terzo delle esportazioni australiane erano vendute alla Cina nel 2018 (il doppio rispetto al suo secondo partner commerciale). La Cina acquista due terzi delle spedizioni di orzo australiane, per un valore di circa 1 miliardo di dollari all’anno. Acquista anche il 24% della carne bovina australiana, per un valore di quasi 2 miliardi di dollari. Nel 2016 gli investimenti cinesi in Australia hanno raggiunto cifre senza precedenti, soprattutto nell’agricoltura e nelle infrastrutture.

Molti australiani, però, pensano che l’afflusso di denaro cinese sia stato all’origine dell’impennata dei prezzi del mercato immobiliare che ha reso proibitivo per gran parte di loro l’acquisto di una casa nelle grandi città. Il timore diffuso, anche a seguito dei primi scandali legati a donazioni ai partiti fatte da cittadini cinesi, è che la Cina possa trasformare il suo potere economico in influenza ed interferenza politica sull’Australia[21].

Pertanto, a partire dal 2017 i governi conservatori – pungolati e sostenuti dal think-tankindipendenteAustralian Strategic Policy Institute (ASPI), fortemente anti-cinese e decisamente filo-americano -, hanno imposto delle restrizioni agli investimenti e alle operazioni commerciali delle compagnie cinesi nel Paese, come il divieto per la compagnia di telecomunicazioni cinese Huawei di partecipare allo sviluppo dell’infrastruttura 5G del Paese nel 2018 (primo Paese “occidentale” ad imporre tale divieto[22]).

Inoltre, nel luglio 2020 il premier Morrison ha annunciato che le forze di difesa acquisiranno aerei, droni e missili a lungo raggio anti-navi americani (AGM-158C Long Range Anti-Ship Missile), investiranno nel rafforzamento della cybersicurezza e della rete satellitare, e condurranno ricerche sui sistemi di armi ipersoniche – arrivando a spendere 270 miliardi di dollari in 10 anni – in modo da prepararsi per un mondo più pericoloso e per una regione indo-pacifica sempre più conflittuale. Secondo Morrison, le forze militari australiane hanno bisogno di “capacità di deterrenza più forti“, poiché l’Indo-Pacifico sta diventando “l’epicentro del conflitto globale della nostra epoca” tra USA e Cina. L’Australia, quindi, si sta preparando militarmente per affrontare la Cina, a contenerla piuttosto che a tenerla ingaggiata.

Le relazioni politico-diplomatiche tra Australia e Cina si sono ulteriormente inasprite nel 2020 dopo i commenti negativi del governo australiano su Hong Kong, Xinjiang e Taiwan, l’embargo di Huawei dalla rete 5G, la richiesta di un’indagine internazionale indipendente e “trasparente” sulle origini e sulla gestione della pandemia da coronavirus CoVid-19 in Cina, la partecipazione alle esercitazioni navali del Malabar (con USA, Giappone e India) e la firma di un accordo di alleanza quasi militare con il Giappone. La Cina ha imposto restrizioni commerciali sull’importazione di prodotti australiani, tra cui orzo e vino, spingendo l’Australia a rafforzare i test di sicurezza nazionale per gli investimenti esteri. Il governo cinese ha affermato di aver imposto dazi sull’orzo per il dumping e sussidi governativi e sul vino australiano per gli stessi motivi, mentre sono stati trovati parassiti nel legname australiano che minacciano l’ecologia della Cina e si è scoperto che le aragoste australiane hanno alti livelli di cadmio. In ogni caso, l’ambasciatore cinese a Canberra, Cheng Jingye, ha dichiarato che “se l’umore va di male in peggio“, i turisti cinesi potrebbero ripensare a viaggiare in Australia, i genitori potrebbero riconsiderare a mandare i propri figli a studiare in Australia e i consumatori potrebbero ripensare a bere vino australiano o mangiare carne di manzo australiana. Nel novembre 2020, Cheng Jingye ha presentato una lista di ben 14 rimostranze contro l’Australia.

Successivamente, le relazioni con la Cina dono ulteriormente peggiorate a seguito della cancellazione definitiva (aprile 2021), da parte del governo federale, dell’inserimento nella Belt and Road Initiative di un massiccio programma infrastrutturale nello Stato di Victoria,e la revisione, da parte del governo australiano, della concessione data nel 2015 alla società cinese Shandong Landbridge Group per la gestione del porto di Darwin (infrastruttura considerata strategica anche per la sua vicinanza ad una base militare USA).

La reazione della Cina ha avuto effetti concreti poche settimane dopo la proposta australiana di indagine sul CoVid-19. Nel maggio 2020 le autorità di Pechino hanno imposto tariffe su orzo, carne e vino proveniente dall’Australia. Nei mesi successivi, tra i prodotti colpiti sono stati inclusi anche cotone, carbone, zucchero, aragoste, rame e legname. Oltre a dazi anti-dumping, si sono aggiunte barriere di natura non tariffaria e inviti a boicottare prodotti australiani[23].

Il governo cinese ha affermato che una normalizzazione delle relazioni commerciali tra i due Paesi si sarebbe avuta solo se Canberra avesse smesso di trattare Pechino come una minaccia strategica, abbandonando “la vecchia mentalità da Guerra Fredda”. La Cina ha sollecitato il governo Morrison a prendere una chiara decisione – se vede Pechino come una “minaccia” o “un’opportunità” -, ponendola come una condizione essenziale per la ripresa di colloqui bilaterali. La Cina ha chiesto al governo australiano di mettere la sordina su questioni come i diritti umani, Hong Kong, Taiwan, Xinjiang, la richiesta di un’inchiesta sul CoVid-19, le limitazioni agli investimenti cinesi e l’embargo dalla rete 5G nei confronti di Huawei.

Ma, l’Australia ha accusato la Cina di “coercizione economica” e ha deciso di alimentare la disputa commerciale con la Cina con un’istanza al WTO (un processo che può richiedere anni per essere completato) contro l’imposizione di tariffe su vino, orzo e altri prodotti australiani da parte della Cina[24]. Poi, è arrivato l’annuncio dell’AUKUS che chiarisce che per il governo conservatore australiano la Cina è una minaccia.

Un rischio evidente è che il dibattito australiano sulla “influenza della Cina” diventi anche apertamente razzista. La paranoia australiana sulla Cina può essere attribuita ad una consolidata pratica di discriminazione razziale. Durante le corse all’oro australiane, i minatori australiani bianchi iniziarono a mostrare il loro risentimento nei confronti dei lavoratori cinesi che lavoravano duramente. Durante la rivolta anti-cinese di Buckland (4 luglio 1857), circa 100 minatori bianchi nei giacimenti auriferi della Buckland Valley attaccarono gli insediamenti cinesi e questi ultimi furono picchiati, derubati e condotti dall’altra parte del fiume Buckland. Storicamente la sinofobia australiana si è evidenziata con l’introduzione della legislazione anti-cinese che ha limitato l’immigrazione nelle allora colonie del Victoria e del Nuovo Galles del Sud nel 1855, 1861 e 1888. La legge sull’immigrazione del 1901, spesso vista come il punto di partenza della famigerata White Australia Policy, fu introdotta nel tentativo di impedire che immigrati cinesi e non europei ottenessero posti di lavoro e rilevassero attività commerciali.

I cinesi sono solo un gruppo in una lista di vittime della discriminazione in Australia. Dal 1860, un gran numero di abitanti delle isole del Pacifico sono stati trasferiti in Australia come lavoratori a basso salario, solo per essere poi espulsi con la forza da pratiche come la White Australia Policy in base alla quale le persone di discendenza non europea sono state escluse dal diritto di immigrazione nel Paese. La White Australia Policy è stata abolita tra il 1966 e il 1972, ma difficilmente ad oggi può essere trovata una vera uguaglianza nel Paese. La politica è stata conservata in maniera segreta e influenza ancora la società australiana. Il dibattito sulla “minaccia cinese” segnala che gli australiani hanno grandi difficoltà ad accettare di trattare i cinesi da pari a pari, specialmente quando questi ultimi, con crescente influenza, stanno entrando nel Paese.

Negli ultimi anni, il governo conservatore guidato dal Partito Liberale, appoggiato dal gruppo mediatico controllato da Rupert Murduch (News Corp Australia) che esercita un sostanziale monopolio dell’informazione operando come il braccio di propaganda del governo, ha cercato di guadagnare consenso rendendo più difficile per gli stranieri comprare terra e aziende energetiche e stabilirsi nel Paese sia per il diritto d’asilo (le “gang africane” di rifugiati somali e sudanesi di Melbourne sono diventate un tema di dibattito nazionale, mentre migliaia di rifugiati arrivati via mare hanno vissuto e vivono imprigionati in remoti centri di detenzione gestiti da società private a Manus Island in Papua Nuova Guinea e nella repubblica dell’isola di Nauru nel Pacifico, costati circa 8,5 miliardi di dollari dal 2012) sia per lavoro (sono state abolite 457 tipologie di visti di lavoro temporaneo, cancellando oltre 200 occupazioni dalla lista delle qualificazioni) perché “i lavoratori australiani devono avere la precedenza”, e preme sui “valori australiani”. Questo anche se un settore chiave dell’economia australiana come l’agricoltura, che secondo il ministro David Littleproud produce cibo in grado di sfamare 75 milioni di persone, dipende da migliaia di giovani stranieri con visti temporanei per vacanza-lavoro e lavoratori stagionali delle isole del Pacifico che lavorano nell’ambito del Seasonal Worker Program (SWP) soprattutto nell’orticoltura e frutticoltura.

Il governo di centro-destra sembra voler seguire la ricetta di Trump con la retorica dell’Australia first: “Stiamo mettendo il lavoro prima di tutto, gli australiani prima di tutto”, anche attraverso la promozione di un piano teso ad aumentare in modo significativo l’esportazione di sistemi militari. Durante la pandemia da CoVid-19, però, il governo Morrison ha proposto (Industrial Relations Omnibus Bill) radicali modifiche alle leggi sul lavoro con l’intento di tagliare i salari, ampliare l’area del lavoro precario e limitare l’azione dei sindacati. I cambiamenti proposti spazzerebbero via la contrattazione collettiva, cedendo potere ai datori di lavoro. Allo stesso tempo, da anni l’Australia è la destinazione migratoria preferita al mondo da parte dei milionari: secondo il “2018 Global Wealth Migration Review” della AfrAsia Bank, circa 10 mila individui con una ricchezza personale pari o superiore a 1 milione di dollari USA sono emigrati in Australia nel 2017, principalmente da Cina, India e Regno Unito, attratti dalla relativa sicurezza, dalla stabilità politica e, soprattutto, dall’assenza di tasse di successione.

Inoltre, come Trump, i governanti conservatori australiani sono dei negazionisti riguardo alle emergenza ambientale, mentre l’Australia è uno degli epicentri della catastrofe climatica. Siccità, inondazioni e incendi devastanti (bruciati circa 10 milioni di ettari nel 2019-20) colpiscono il Paese, la sua magnifica grande barriera corallina sta morendo, le sue foreste pluviali patrimonio dell’umanità bruciano, le sue foreste di mangrovie e alghe sono in gran parte svanite, molte delle sue città sono rimaste senz’acqua o si trovano sul punto di farlo, mentre il governo, sostenuto dall’industria mineraria e dall’impero mediatico di Murdoch, minimizza il cambiamento climatico e rimane fautore di nuovi progetti di estrazione di carbone, petrolio e gas. Il Paese è il terzo esportatore di combustibili fossili al mondo (dopo Russia e Arabia Saudita) che rappresentano un quarto delle entrate del Paese, ed è uno dei due soli Paesi del G20 a non aver applicato alcuna politica sul prezzo degli idrocarburi; uno dei quattro che non si spende a livello nazionale per aumentare l’energia rinnovabile e ultimo nel taglio delle emissioni di gas a effetto serra derivanti dai trasporti. Il governo Morrison sembra intenzionalmente disposto a mettere da parte gli interessi a lungo termine dell’Australia a favore della protezione delle preoccupazioni a breve termine dell’industria dei combustibili fossili, anche attaccando direttamente le organizzazioni ambientaliste. Continua a trasferire enormi somme di denaro dei contribuenti per sostenere l’industria dei combustibili fossili e le attività ad alta intensità di carbonio in generale (spendendo, ad esempio, fino a 600 milioni di dollari per una nuova centrale elettrica a gas nel Nuovo Galles del Sud), a scapito della transizione verso l’energia pulita. Politiche che vengono apertamente criticate da organizzazioni internazionali, come la International Energy Agency (IEA), ma anche da investitori internazionali.

[1] E’ bene ricordare che, anche dopo l’umiliante debacle subita in Afghanistan, ci sono ancora centinaia di basi militari americane (514 quelle ufficiali) fuori dagli USA, in più di 70 Paesi e territori, con circa 50 mila soldati americani che continuano a stazionare nel Golfo (di cui 13 mila in Kuwait e altrettanti in Qatar), circa 80 mila nel Pacifico e nordest asiatico (55 mila in Giappone), circa 62 mila in Europa (dei quali circa 35 mila in Germania). Dal 1945 gli Stati Uniti sono stati impegnati in 211 interventi militari in 67 Paesi. Gli USA e le forze armate statunitensi – 1,35 milioni di soldati in servizio e 850 mila nella riserva, con un budget di 716 miliardi di dollari nel 2019 (ossia pari a quelli degli 8 Paesi che seguono messi insieme – Cina, Arabia Saudita, India, Francia, Russia, Gran Bretagna, Germania, e Giappone), con un aumento a circa 740 miliardi nel 2020 e nel 2021 (che diventano 900 includendo altre voci di spesa indiretta), un’enorme quantità di denaro sottratta alle spese per cibo, istruzione, assistenza sanitaria, ambiente, energie pulite, infrastrutture e alloggi per i cittadini americani – “guerre ibride” (guerre economiche, embarghi e blocchi) e azioni contro il terrorismo in 76 Paesi, ovvero il 40% dei Paesi del pianeta. Negli ultimi 20 anni, aerei e droni americani sono stati impiegati per oltre 100 mila bombardamenti. Gli USA hanno più di 6 mila testate nucleari (come i russi), con 1.600 sempre pronte per l’uso, montate anche su sommergibili che solcano gli oceani. La comunità dell’intelligence americana può contare su 17 agenzie con circa 890 mila dipendenti con autorizzazioni top-secret o superiori. La Strategia della sicurezza nazionale (2017) e la Strategia di difesa nazionale (2018) definiscono la sicurezza nazionale americana quasi esclusivamente in termini di competizione tra grandi potenze e attori statali, sottolineando in particolare la minaccia proveniente dalla Cina. L’approccio al mondo di entrambe le strategie è basato su una visione delle relazioni internazionali alimentate da una competizione a somma zero, in cui il mantenimento di un vantaggio è molto più importante della cooperazione per ottenere benefici comuni. Questo significa che la strategia americana interpreta il mutevole contesto geopolitico quasi esclusivamente attraverso la percezione della minaccia militare e non innanzitutto in termini di relazioni, iniziative e soluzioni diplomatiche. Questi documenti hanno identificato Venezuela, Iran, Russia e Cina (ma anche l’Unione Europea, almeno sul piano economico) come avversari dell’America. La Cina è ormai la maggiore economia mondiale, il maggiore esportatore e il secondo importatore del mondo, nonché il principale partner commerciale di 130 Paesi, a cominciare da tutti gli altri principali Paesi dell’Asia orientale, compresi gli alleati degli USA. Se sul piano economico gli Stati Uniti non riescono più a mantenere il proprio potere imperiale, possono provare a farlo sul piano militare, investendo massicciamente nell’intelligenza artificiale, biometria, tecnologie e “forze” spaziali che controllano satelliti, droni, automi, veicoli telecomandati, e velivoli ad alta tecnologia.

[2] L’acronimo AUKUS è assai simile UKUSA, l’acronimo utilizzato per l’accordo di condivisione dell’intelligence firmato 75 anni fa, in piena Guerra Fredda, comprendente Stati Uniti, UK, Australia, Nuova Zelanda e Canada, che oggi è più comunemente noto come partnership Five Eyes.

[3] Biden ha affermato che i tre governi avvieranno un periodo di consultazione di 18 mesi “per determinare ogni elemento di questo programma, dalla forza lavoro, ai requisiti di formazione, alle tempistiche di produzione” e per garantire il pieno rispetto degli impegni di non proliferazione nucleare. Il patto dovrebbe essere un affare per il complesso militare industriale americano e tra le aziende che potrebbero beneficiarne ci sono General Dynamics Corp e Huntington Ingalls Industries. L’attività Electric Boat di General Dynamics svolge gran parte del lavoro di progettazione per i sottomarini statunitensi, ma i sottosistemi critici come l’elettronica e le centrali nucleari sono realizzati da BWX Technologies. Washington ha condiviso la tecnologia di propulsione nucleare solo una volta in passato – con la Gran Bretagna nel 1958. I motori a propulsione nucleare, che si basano su uranio altamente arricchito per armi, saranno prodotti negli Stati Uniti o nel Regno Unito (dove sono realizzati dalla Rolls-Royce). Biden ha detto che la cessione della tecnologia nucleare all’Australia rappresenta “un’eccezione alla nostra politica sotto molti aspetti e non prevedo che sarà intrapresa in altre circostanze… la consideriamo una eccezione“. Questo è il segno del fatto che gli Stati Uniti hanno fatto una scelta: che considerano la necessità di una solida alleanza per contrastare Pechino così urgente da accantonare le vecchie riserve sulla condivisione di tecnologie nucleari sensibili. Al momento solo i Paesi dotati di armi nucleari hanno sottomarini nucleari e teoricamente un sottomarino nucleare ha il compito di lanciare un secondo attacco nucleare in una guerra nucleare. In ogni caso, sta aumentando il rischio che i sottomarini con equipaggio si stiano avvicinando all’obsolescenza, che stiano diventando quasi inutili in un’era di oceani “trasparenti” e droni sottomarini. Come i carri armati, sono connessi a costi fuori controllo, inefficienza e desiderio di combattere guerre obsolete, ma i contratti di difesa hanno un’esistenza politica e aziendale che trascende l’utilità.

[4] Scott Morrison aveva incontrato Joe Biden a margine del vertice del G7 in Cornovaglia a giugno (dove era stato invitato come osservatore) e aveva accettato di lavorare a stretto contatto sulle sfide nella sempre più contestata regione indo-pacifica, inclusa la Cina. Le questioni regionali avevano dominato il primo incontro faccia a faccia del primo ministro australiano con il presidente degli Stati Uniti. All’incontro aveva partecipato anche Boris Johnson e nel comunicato stampa si era parlato di una intensificazione della cooperazione tra i tre governi. In realtà, nel corso dell’incontro i tre hanno discusso il patto in linea di principio, anche se quello che era iniziato come un accordo tecnologico si è ampliato in un’alleanza a tre più ampia con piani per condividere altre tecnologie militari tra cui l’intelligenza artificiale. Poi, Morrison si era recato a Londra per due giorni di ulteriori incontri con Johnson e insieme avevano annunciato la firma di un accordo commerciale quadro free trade.

[5] I reattori utilizzati nei sottomarini nucleari statunitensi richiedono uranio altamente arricchito e l’Australia avrà accesso a questa tecnologia man mano che la sua flotta si espande. Dal punto di vista della proliferazione, questo è un passo nella direzione di infrastrutture nucleari più estese. È anche un’indicazione della maggiore disponibilità degli Stati Uniti (e, in una certa misura, degli inglesi) a trasferire tecnologie altamente sensibili agli alleati stretti. Si potrebbe quindi vedere questo come un segno che gli Stati Uniti potrebbero gradualmente allentare la loro tradizionale opposizione alla proliferazione nucleare, se e quando le circostanze lo richiederanno. Resta da vedere come vedranno questa decisione altri Stati, come la Corea del Sud e il Giappone, e come sarà interpretata da Pechino.

[6] Un termine coniato da Winston Churchill durante la Seconda Guerra Mondiale e rilanciato dal duo Reagan-Thatcher, poi nella chiave della Terza Via riformista da Clinton-Blair e infine della “guerra globale al terrorismo” da Bush jr-Blair.

[7] Durante la campagna referendaria, Johnson e gli altri leader pro-Brexit avevano sostenuto che l’obiettivo era quello di trasformare il Regno Unito in una “global Britain” attraverso accordi commerciali bilaterali con altri Stati e un rapporto privilegiato con il Commonwealth. Con i 53 Paesi che costituivano l’ex impero britannico (solo Birmania, Aden e Repubblica d’Irlanda non ne fanno parte), con un terzo della popolazione mondiale, circa il 15% della ricchezza mondiale (a seconda della misura utilizzata), e un quinto del commercio globale, si sognava di costruire una sorta di “Impero 2.0” (anche se ora, ad esempio, l’Australia assorbe solo l’1,6% delle esportazioni del Regno Unito e il Commonwealth nel suo complesso soltanto il 9,5%). Nel 2010, il manifesto di Ukip aveva promesso una Zona di libero scambio del Commonwealth, che rappresenterebbe “oltre il 20% di tutti gli scambi e gli investimenti internazionali” e consentirebbe alla Gran Bretagna di prosperare al di fuori dell’UE, nella cosiddetta “Anglosphere”. Il manifesto dei Conservatori per le elezioni generali del 2015 si era impegnato a “rafforzare ulteriormente i nostri legami con i nostri stretti alleati del Commonwealth, Australia, Canada e Nuova Zelanda“. E quando arrivò il referendum, molti dei personaggi di spicco, tra cui Boris Johnson e l’eurodeputato Tory Daniel Hannan, furono felici di dire che il Regno Unito aveva “tradito” il Commonwealth quando era entrato a far parte della CEE nel 1973 e proposero una zona per la mobilità libera del lavoro con l’Australia. Era tempo, come affermava un titolo del Daily Telegraph, di “abbracciare il Commonwealth“, in particolare la parte bianca del Commonwealth britannico (“the white dominions”: Canada, Nuova Zelanda, Australia).

[8] Il primo ministro Boris Johnson, nelle sue dichiarazioni del 15 settembre su AUKUS, ha evidenziato due volte, a beneficio del pubblico nazionale, che sono coinvolti interessi commerciali. Come ha detto, “le altre opportunità di AUKUS [saranno] la creazione di centinaia di posti di lavoro altamente qualificati in tutto il Regno Unito, tra cui in Scozia, nel nord dell’Inghilterra e nelle Midlands, portando avanti lo scopo trainante di questo governo di salire di livello in tutto il Paese. …Avremo una nuova opportunità per rafforzare il posto della Gran Bretagna all’avanguardia della scienza e della tecnologia, rafforzando la nostra competenza nazionale… Ora, il Regno Unito intraprenderà questo progetto insieme ai nostri alleati, rendendo il mondo più sicuro e generando posti di lavoro in tutto il nostro Regno Unito”.

[9] Il primo summit mondiale presieduto da Joe Biden (in videoconferenza) è stata una riunione del QUAD (12 marzo 2021) che aveva deciso di utilizzare l’industria farmaceutica indiana per controbilanciare l’offensiva cinese nella “geopolitica dei vaccini” verso i Paesi della regione sud-est asiatica. Nel corso dell’incontro in presenza del 24 settembre a Washington, i 4 partner accetteranno di adottare misure per costruire catene di approvvigionamento (supply chains) per i semiconduttori sicure (ossia off-limits per le aziende cinesi).

[10] L’India non è considerato un alleato pienamente affidabile dagli Stati Uniti. L’India è stato in passato un Paese “non allineato”, ma dal 2013 è divenuto il maggiore acquirente di armi americane e ha comprato anche i caccia francesi Rafale, oltra al sistema antiaereo S-400 per 5 miliardi di dollari e a 1.770 tank T-14 per 4,5 miliardi dalla Russia. L’India è ora il quinto Paese al mondo per spesa militare (circa 64 miliardi di dollari nel 2017). Un accordo militare firmato a fine ottobre 2020 ha dato l’accesso all’India a dati avanzati di mappe e satelliti americani per una migliore precisione dei suoi missili e droni.

[11] Ferrari A. e Tafuro Ambrosetti E., a cura di, Russia e Cina, anatomia di una partnership, ISPI, Milano, 2019, https://www.ispionline.it/sites/default/files/media/foto/report_russia-china_anatomy-of-a-partnership_1.pdf

[12] Kashmeri S.A., China’s grand strategy. Weaving a new silk road to global primacy, Praeger, New York, NY, 2019.

[13] Frankopan P., Le vie della seta, Mondadori, Milano, 2017.

[14] Jones L., China’s Belt and Road Initiative is a mess, not a master plan for world dominance, Foreign Policy, 2020, https://foreignpolicy.com/2020/10/09/china-belt-and-road-initiative-mess-not-master-plan/

[15] Il 16 settembre, il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione che include raccomandazioni per l’Unione Europea di negoziare “urgentemente” un accordo commerciale con Taiwan. La risoluzione ha anche chiesto un’azione concreta per facilitare l’inclusione di Taiwan nelle Nazioni Unite come osservatore ed ha espresso “grave preoccupazione per le politiche assertive ed espansionistiche della Cina nel Mar Cinese Meridionale, nel Mar Cinese Orientale e nello Stretto di Taiwan, in particolare la continua provocazione militare della Cina contro Taiwan.” È probabile che i negoziati commerciali con Taiwan irritino ulteriormente la Cina, il secondo partner commerciale dell’UE, dopo che la Lituania ha rafforzato i legami con l’isola. La Cina considera Taiwan parte di “Una Cina“, da unire prima o poi alla terraferma, ed è regolarmente risentita per qualsiasi mossa che suggerisca che l’isola sia un Paese separato.

[16] Comunque, è bene ricordare che sulla questione della cosiddetta “autonomia strategica”, i 27 sono ancora profondamente divisi. I Paesi dell’Europa orientale, in particolare, hanno considerato a lungo l’idea di autonomia strategica come pericolosa e irrealistica, sostenendo che potrebbe minare la NATO e che l’Europa non potrebbe mai difendersi dalle minacce, specialmente dalla Russia, senza gli Stati Uniti.

[17] Naval Group ha già lavorato con i cantieri navali statali indiani Mazagon Dock per consegnare sei sottomarini Kalvari per un valore complessivo di 3,13 miliardi di dollari. Due di questi sono già stati varati, due sono in fase di sperimentazione in mare e due sono in costruzione. Ora, Naval Group ha fatto un’offerta per un contratto da 7 miliardi di dollari per costruire sei sottomarini a propulsione nucleare. I progetti includono trasferimenti di tecnologia dall’azienda francese ai suoi partner indiani. Delhi vuole i sottomarini perché è preoccupata per l’ascesa della Cina, le cui navi militari stanno aumentando le esercitazioni congiunte con la marina pakistana nell’Oceano Indiano.

[18] Nell’aprile 2021 erano state pubblicate le conclusioni del Consiglio Europeo sulla “Strategia dell’UE per la cooperazione nell’Indo-Pacifico“, che hanno aperto la strada all’adozione da parte dell’Unione di una strategia ufficiale che può ora avviare un nuovo approccio alla regione.

[19] A questo proposito, ad esempio, si veda la recente risoluzione del Parlamento Europeo su una nuova strategia UE-Cina.

[20] Molti opinion makers americani (ma anche politici come Trump) vedono la Cina come una potenza emergente che cerca di indebolire in modo sleale la prosperità economica dell’America, minacciando la sua sicurezza e sfidando i suoi valori, mentre le loro controparti cinesi vedono gli Stati Uniti come una potenza in declino che cerca di prolungare il proprio dominio contenendo in modo sleale l’ascesa della Cina. La paura americana è ciò che gli studiosi di relazioni internazionali (Allison, 2017) definiscono la “trappola di Tucidide” – il conflitto tra le potenze in ascesa e quelle dominanti. Il potere crescente (Atene per Tucidide, Cina oggi) richiede inevitabilmente una maggiore influenza quando il potere dominante (Sparta, gli Stati Uniti) diminuisce. Si tratta di una ricetta per il conflitto, per una “coesistenza pacifica” simile a quella tra USA e URSS durante la Guerra Fredda, in cui scaramucce minori (proxy wars) possono sfuggire al controllo (ad esempio, nel Mar Cinese Meridionale o Orientale, innescate via Giappone, Taiwan o le Coree).

Inoltre, mentre l’URSS era un Paese sostanzialmente isolato sul piano economico, la Cina è ormai un pilastro dell’economia globale, un dei principali partner commerciali degli Stati Uniti – tanto che Niall Ferguson e Moritz Schularick hanno definito questa simbiosi “Chimerica” (circa il 40% del PIL globale) – e di molti altri Paesi. Le catene di approvvigionamento globali possono essere riplasmate per aggirare la Cina, ma solo con costi enormi. Il 29% dell’export sudcoreano va in Cina; il 23% di quello giapponese; il 37% di quello australiano e il 7% di quello tedesco. Nel 2017, gli scambi commerciali di 144 Paesi erano maggiori con la Cina che con gli Stati Uniti, compresi 50 paesi in Africa e tutti i paesi dell’Asia, tranne Afghanistan e Bhutan. Questi legami rendono irrealistico o quanto meno disastroso per tutti un eventuale decoupling delle relazioni economiche tra Cina e Paesi ricchi. Se gli USA isolassero la Cina, probabilmente i loro partners non li seguirebbero e correrebbero il rischio di essere isolati a loro volta. D’altra parte, la Cina non è la Corea del Sud, Paese che dipende dalla protezione militare americana, e tanto meno il Messico, Paese che esporta all’80% negli USA. La Cina indirizza negli USA meno del 20% del suo export, per cui potrebbe reggere a lungo (intensificando i suoi scambi con Unione Europea, Russia, Paesi latinoamericani e Paesi che fanno parte del circuito della Belt and Road Initiative) e infliggere a sua volta danni economici rilevanti agli USA.

Infine, per quanto suggestiva, l’analogia con Sparta e Atene del racconto di Tucidide della Guerra del Peloponneso non regge a uno sguardo più approfondito perché gli Stati impegnati nella contesa sono più di due: le mosse di Russia, Unione Europea, Giappone e di altre potenze non sono trascurabili nel determinare cosa accadrà o non accadrà in futuro. In ogni caso, è ormai evidente che i rapporti tra USA e Cina sono di coesistenza e contenimento reciproco, per cui oscilleranno, in modo anche drammatico e pericoloso per i due Paesi e per il resto del mondo, tra competizione e cooperazione. USA e Cina dovranno lavorare insieme per ridurre il rischio che una collisione accidentale si intensifichi verso la guerra nucleare; istituire hot line militari e altri canali di comunicazione, stabilire codici di condotta e firmare accordi per il controllo degli armamenti. Strumenti per gestire le crisi momentanee che ora mancano, in una fase storica in cui nuove aree di potenziale conflitto, come lo spazio e il cyber-spazio, hanno aumentato il rischio di escalation istantanee.

[21] Pochi mesi dopo l’entrata in vigore dell’accordo di libero scambio in Australia montava la preoccupazione per l’interferenza cinese nella politica e nelle università. Un membro del Parlamento australiano, Sam Dastyari, viene accusato di corruzione da aziende cinesi per ammorbidire la posizione del suo partito nei confronti delle operazioni militari di Pechino nel Mar Cinese Meridionale. Tale scandalo ha portato alle dimissioni del parlamentare e all’approvazione di un divieto a donazioni a soggetti politici da parte di entità estere. Inoltre, in breve tempo, si sono moltiplicate le segnalazioni circa sospette attività di spionaggio da parte di studenti cinesi nelle università australiane e attività di propaganda del Partito Comunista Cinese per voce degli Istituti Confucio. Alcune università, quali quella di Melbourne e quella del Queensland, hanno rivisto gli accordi con tali istituti per “salvaguardare la loro autonomia di insegnamento“.

[22] Anche USA, Canada, Nuova Zelanda e Gran Bretagna – tutti Paesi anglosassoni che, insieme all’Australia, fanno parte della Five eyes, un’alleanza di servizi di intelligence nata nel 1941 che in futuro potrebbe accogliere il Giappone ed evolvere in un blocco commerciale in funzione anti-cinese – hanno posto o stanno valutando se porre analoghi divieti. Giappone ed India dovrebbero collaborare allo sviluppo della tecnologia 5G, con l’assistenza di Stati Uniti, Australia e Israele. Londra aveva dato un via libera parziale all’uso di componenti fornite da Huawei alla costruzione del nuovo network 5G: aveva posto un limite del 35% alla quota di mercato nell’infrastruttura e aveva escluso le componenti cinesi dalle parti più sensibili. Una decisione che è stata ribaltata dal governo di Londra per motivi “geopolitici” a seguito dell’enorme pressione del presidente Trump. Huawei è stata esclusa dal mercato inglese dal 2021 e il governo di Londra ha deciso anche la rimozione di tutti gli apparati Huawei dalle reti telefoniche del Paese entro il 2027. La Commissione Europea, invece, ha lasciato libertà di decisione ai singoli governi, anche se ha caldeggiato l’adozione di una strategia di indipendenza tecnologica nell’ambito dell’Unione Europea.

[23] Alle ritorsioni commerciali da parte cinese, si aggiungevano alcuni giornalisti australiani espulsi dalla Cina, una giornalista agli arresti domiciliari con accuse di spionaggio, e il caso del tweet del portavoce del ministro degli esteri cinese con una foto falsificata di un soldato australiano con un coltello puntato alla gola di un bambino afghano.

[24] A risentire maggiormente della guerra commerciale sono state le esportazioni australiane di vino dati i dazi imposti dalla Cina, tra il 171% e il 212%, mentre la maggior parte degli altri prodotti interessati hanno trovato mercati di sbocco alternativi riducendo così l’impatto negativo complessivo per il Paese. Nell’ultimo anno, si stima che il deterioramento delle relazioni commerciali tra Canberra e Pechino sia costato all’Australia circa 47,7 miliardi di dollari. Ciononostante l’Australia ha preferito non incrinare oltremodo i rapporti con la Cina, evitando di uniformarsi a Stati Uniti, Canada, Regno Unito (e Unione Europea) nel definire “genocidio” le discriminazioni contro gli uiguri nella regione dello Xinjiang. Anche la Nuova Zelanda si è guardata bene da utilizzare la parola “genocidio” nei suoi documenti ufficiali con riferimento agli uiguri in Cina. Il 5 maggio 2021 il parlamento di Wellington ha infatti approvato una mozioneriguardante le gravi violazioni dei diritti umani in atto contro gli uiguri e altre minoranze etniche e religiose nella regione autonoma dello Xinjiang”. Durante il dibattito in aula, la ministra degli esteri Nanaia Mahuta ha precisato che “il genocidio è il più grave dei crimini internazionali” ma deve essere provato di fronte ai tribunali internazionali “solo dopo una valutazione rigorosa”. L’ambiguità di questa posizione, analogamente a quella australiana, ha indispettito gli altri tre partner del “Five eyes”. Ma la stessa ministra ha spiegato che, fermo restando l’importanza del Five eyes per la cooperazione in materia di intelligence, la Nuova Zelanda non è disposta a rinunciare ad una politica estera autonoma. Anche se la Cina non ha accolto con favore la mozione neozelandese, rigettando le accuse in quanto infondate, tuttavia, per la Nuova Zelanda le sanzioni sono state soltanto minacciate, e non adottate, da Pechino. Come per l’Australia, la Nuova Zelanda ha un export significativo in Cina anche grazie ad un accordo di libero scambio firmato nel 2008. Da allora, l’export è quadruplicato fino a raggiungere il 28% nel 2020 e, come dichiarato dall’ex Primo ministro John Key “ci sono decine di migliaia di neozelandesi, i cui posti di lavoro e imprese dipendono dal fatto che la Cina è il primo partner commerciale”. Ma non è soltanto l’export che conta. Pechino, infatti, è molto presente in Nuova Zelanda anche con investimenti e con una nutrita comunità che, per esempio, garantisce risorse essenziali per molte università. Da notare che il primo ministro neozelandese, Jacinda Ardern, ha accolto con favore l’attenzione sull’Indo-Pacifico, ma ha affermato che i sottomarini a propulsione nucleare australiani non saranno ammessi nelle sue acque territoriali in base a una politica antinucleare approvata nel 1985.

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