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Le tre dimensioni del conflitto globale: appunti

di Franco
Ferrari

La sinistra di trasformazione si deve muovere necessariamente in un contesto globale che non è la semplice proiezione delle linee di conflitto a livello nazionale. Per poter intervenire adeguatamente nei processi in corso deve essere in grado di formulare una analisi sufficientemente condivisa della fase in cui ci troviamo e un programma d’azione che modifichi realmente i rapporti di forza.
Certamente il quadro complessivo è di mutamento di situazioni e di equilibri e questo può offrire delle opportunità che finora, a causa di sostanziali differenze ideologiche, politiche e programmatiche al suo interno, l’insieme delle forze della sinistra alternativa (antiliberista e/o anticapitalista) non sono riuscite a sfruttare.

Avevo provato già a delineare la mia visione di alcune tendenze fondamentali in atto in precedenti articoli pubblicati su Transform! Italia. In particolare con “Guardiano, a che punto è la notte?” (diviso in due parti, qui e qui), “L’Europa tra autonomia e nostalgia dell’Occidente”, “De-globalizzazione, guerra, post-democrazia: un’alternativa è sempre più necessaria”, “Crisi dell’ordine globale ed espansione dei Brics”, “La globalizzazione è in crisi. La guerra è la soluzione?”, “La fine del ciclo delle guerre periferiche”.

Nella sostanza la fase attuale è caratterizzata da alcune tendenze con le quali le forze di sinistra devono misurarsi.
A livello politico si possono segnalare due processi in corso tra loro correlati: la riduzione degli spazi di democrazia e di pluralismo in molti paesi (anche quelli che si considerano democratico-liberali) e l’emergere di una estrema destra nazionalista conservatrice, xenofoba che spesso usa anche la dimensione religiosa per affermarsi.
Il dibattito riguarda la pericolosità di questa offensiva che vede all’opera forze che a volte hanno le proprie radici nei movimenti fascisti emersi tra le due guerre e della risposta politica che si rende necessaria. Esiste una sostanziale differenza di opinioni.

Le tendenze “rosso-brune”

Si presentano, minoritarie ma non irrilevanti, tendenze che vengono chiamate “rosso-brune”. Una definizione che ha una dimensione polemica piuttosto che di reale comprensione del fenomeno.

Nell’ambito della storia del movimento comunista occorre risalire a quella corrente del comunismo tedesco che si definiva “nazional-bolscevica” e che venne avversata da Lenin. Nella Germania emerse, dalla sconfitta della prima guerra mondiale, un piccolo gruppo di comunisti che aveva il suo centro ad Amburgo (inizialmente nella KPD poi, dopo la scissione delle sue correnti estremiste, nella KAPD) riteneva che fosse possibile un’alleanza con le correnti nazionaliste anche di destra, in nome della comune opposizione al Trattato di Versailles e alle sue conseguenze. In termini più generali si trattava di combinare la rivoluzione sociale con la riscossa nazionale tedesca, individuando nelle grandi nazioni capitalistiche che avevano vinto la guerra il nemico comune. Questa corrente restò minoritaria e scomparve alla fine degli anni ’20. Alcuni dei suoi sostenitori furono vittime della repressione nazista.

Una tendenza nazional-bolscevica, definitasi come tale, è poi risorta a partire da una base diversa, una piccola formazione socialdemocratica che si era staccata dalla SPD. A partire da questa seconda formulazione del nazional-bolscevismo sono rimaste vive anche se marginali correnti ideologiche che tendevano a interpretare il bolscevismo come una variante ideologica del nazionalismo russo che, in quanto tale, poteva essere trapiantato in altre realtà. L’idea fondamentale era che la trasformazione in senso socialista del capitalismo avanzato rappresentasse la condizione necessaria, rimuovendo il conflitto di classe, per affermare la potenza della nazione. Questa visione poteva facilmente transitare verso una concezione di anticapitalismo reazionario presente in alcuni settori dell’estrema destra.
Il “rosso-brunismo” così definito raccoglie un insieme di tendenze che solo in minima parte possono essere fatte risalire ideologicamente al “nazional-bolscevismo”. Esso si basa su alcune teorizzazioni. La prima è che il fascismo come fenomeno storico sia ormai finito e pertanto non abbia più nemmeno ragione di esistere l’antifascismo. La seconda è che il nemico principale sia ormai il centro liberale (con le sue varianti un po’ più a destra o un po’ più a sinistra) e questo sia oggi il principale attore dei processi negativi in atto nelle società capitalistiche: arretramento delle classi popolari (anche per colpa delle immigrazioni), deindustrializzazione per effetto della globalizzazione e delle limitazioni alla sovranità nazionale, la guerra come strumento per la difesa delle élite liberali e “globaliste”. Una passerella ideologica che include la contrapposizione tra l’espansione dei diritti civili e la difesa dell’identità di maggioranze popolari prevalentemente bianche, eterosessuali e spaventate dalla “fluidità” delle identità.
Si può parlare concretamente di “rosso-brunismo”, a mio parere, quando si consideri praticabile, se non preferenziale, l’alleanza con movimenti e partiti di estrema destra. Si vedano ad esempio certe simpatie trumpiane presenti anche tra chi si dichiara di sinistra, mentre è del tutto evidente che Trump offre ai ceti popolari che lo sostengono delle narrazioni ideologiche, ma è alle classi dominanti e ai veri ricchi che realizza la difesa di interessi materiali concreti.

La politica delle alleanze

L’ascesa dell’estrema destra pone problemi complessi anche alla maggioranza delle forze di trasformazione sociali che non sono tentate da alleanze trasversali e “contro-natura”. E’ possibile la partecipazione di partiti della sinistra radicale ad alleanze più o meno ampie con la socialdemocrazia o con la sinistra liberale?
Questo dilemma si è posto a molti partiti soprattutto in Europa e in America Latina. Nel subcontinente americano la risposta è stata generalmente positiva. Le ondate di governi progressisti (più moderati o più radicali) sono state animate da schieramenti molto ampi. Un caso che è diventato in qualche misura un modello è quello uruguayano. Alle primarie interne che dovevano decidere il candidato del Fronte Ampio alle prossime elezioni presidenziali, hanno partecipato 68 raggruppamenti organizzati che vanno dai democristiani ai trotskisti, passando per i socialdemocratici, i comunisti e i tupamaros (il che non impedisce che vi sia anche un’aggregazione di estrema sinistra esterna al Fronte che comprende altri 5 partiti).

La realtà latinoamericana è stata caratterizzata da un’estrema fluidità delle forze organizzate e in generale da una presenza significativa di movimenti sociali organizzati che hanno avuto spesso rapporti conflittuali con i governi di sinistra. In qualche caso i partiti sono nati come espressione di questi movimenti, come il PT brasiliano, fondato dalle nascenti strutture sindacali della CUT e il MAS boliviano, rifondato come strumento politico del movimento dei cocaleros (le sue lontane origini risalivano a una tendenza sociale del falangismo ispirato al fascismo europeo). Si può ritenere che mentre la scelta di aderire a vaste alleanze politiche ha consentito di sconfiggere le destre sul piano elettorale e anche di produrre politiche sociali a favore delle classi popolari, le maggiori difficoltà sono emerse proprio sul terreno della costruzione delle alleanze sociali. In qualche caso si sono allargate fino a settori di quella che un tempo si chiamava “borghesia nazionale” come a settori di classi medie le cui condizioni materiali sono certamente lontane da quelle dei settori più diseredati.

In Europa il tema delle alleanze si è rivelato spesso spinoso e fonte di conflitti interni. Le esperienze in generale non sono state positive. Quando si sono ottenuti risultati socialmente utili e favorevoli alle classi popolari, spesso sono stati i partiti socialdemocratici a beneficiarne sul piano elettorale (ad esempio in Portogallo dopo le coalizioni della “Geringonça”). I partiti della sinistra radicale hanno non di rado pagato sia la partecipazione ai governi di coalizione, per gli scarsi risultati ottenuti, sia quando hanno deciso di rompere con i partiti socialdemocratici e social-liberali.

Il tema delle alleanze si è fatto più stringente con la crescita dell’estrema destra. Lo si è visto con le elezioni francesi dove i quattro partiti principali che costituiscono la gauche prima si sono uniti nel Nuovo fronte popolare, superando polemiche e scontri anche recenti, e poi hanno percorso la strada della desistenza con l’impopolare centro macroniano e persino con la destra repubblicana. Non un’alleanza ma una sorta di disarmo unilaterale per fermare l’estrema destra, per nulla corrisposto da Macron come si vede dagli ostacoli posti alla nomina di un primo ministro espressione del fronte. Una scelta, quella della sinistra radicale francese, che ha trovato estimatori anche tra coloro che in Italia sostengono il rifiuto di qualsiasi alleanza. L’erba del vicino è sempre un po’ più rossa.
Anche al di fuori dell’Europa diverse formazioni comuniste hanno scelto di partecipare a schieramenti unitari molto ampi per bloccare governi autoritari e sempre più repressivi. È il caso dell’India dove tutte i 5 partiti comunisti con un seguito significativo sono entrati in una coalizione molto ampia guidata dal Partito del Congresso. Lo stesso si può dire in un contesto diverso per il Partito Comunista Giapponese o per quello sudafricano. Questa scelta è stata spesso condizionata dalla presenza di un sistema elettorale di tipo maggioritario.

Altre tendenze vedono invece la presenza di una élite omogenea che controlla il potere e interpretano la contrapposizione politica tra i due poli (conservatore e progressista) come del tutto fittizia. Questa élite otterrebbe il consenso grazie alla manipolazione dei cervelli. Questo approccio porta ad escludere qualsiasi forma di alleanza. In realtà una lettura così semplicistica tende a rendere superflua la formulazione qualsiasi strategia politica di una qualche rilevanza. Infatti si traduce spesso in proposizione di obbiettivi sulla carta molto radicali, ma per i quali non è indicato alcun percorso di effettiva realizzazione.

La divaricazione tra la dimensione sociale e politica estera

La sinistra di trasformazione si batte per un cambiamento di politiche sociali ed economiche che rimetta in discussione i paradigmi fondamentali del neoliberismo. Questo consiste essenzialmente nella privatizzazione delle attività industriali, bancarie e progressivamente anche dei servizi pubblici (sanità, educazione, ecc.) o nella subordinazione dell’azione dello Stato, che resta comunque fortemente presente come regolatore e anche come strumento di repressione, al servizio diretto del capitale privato in nome della prevalenza assoluta del “mercato”.
Il neoliberismo ha subito negli ultimi anni diversi colpi e soffre di una indubbia crisi di egemonia e credibilità. Le promesse legate alla globalizzazione hanno prodotto una forte differenziazione di stato tra vincitori e perdenti, e i primi si sono andati riducendo a favore dei secondi. Ma oltre a questi effetti, che sono numericamente misurabili dalla crescita della povertà, hanno anche determinato una forte insicurezza in vasti strati di ceto medio che vedono traballare le proprie certezze sul mantenimento delle condizioni di vita acquisite per sé e per i propri figli.
Questa insicurezza, collegata dalla destra alla paura degli effetti dell’immigrazione nei paesi capitalistici più ricchi, paura volutamente alimentata per acquisire consenso, ha favorito la crescita della destra. L’estrema destra si è fortemente rafforzata in tutti i paesi capitalistici dell’Europa e negli Stati Uniti, ma anche in molti paesi del cosiddetto Sud globale (la già citata India di Modi, l’Argentina di Milei ma anche in Brasile dove la vittoria di Lula su Bolsonaro è stata di misura).

La dimensione internazionale del neoliberismo è oggi messa in discussione dalle stesse classi dominanti. Negli Stati Uniti l’amministrazione Biden ha unito il mantenimento e l’estensione di forme di protezionismo già introdotte da Trump con misure socialmente progressiste, nella convinzione che il mantenimento del primato globale degli Stati Uniti si dovesse fondare su un blocco sociale interno interclassista. Una società profondamente divisa come quella interpretata e alimentata dal suo predecessore indeboliva inevitabilmente anche la capacità egemonica degli Stati Uniti a livello internazionale. Biden è consapevole che gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo globale dominante unendo la forza economica, la potenza militare e la capacità di fare del proprio sistema un modello di società attraente. Credo sia riduttivo ritenere che gli Stati Uniti (almeno nella visione rappresentata dall’attuale presidente) pensino di salvaguardare il proprio ruolo solo grazie alla dimensione militare che pure è importante.

Il caso statunitense è interessante perché ha visto la sinistra rappresentata da Sanders e da altri esponenti della nuova sinistra come la Ocasio-Cortez difendere la presidenza Biden, nonostante i dissensi sulla politica estera (su Gaza molto più che sull’Ucraina). Una serie di misure di rafforzamento dell’apparato produttivo, di miglioramento delle condizioni vita di alcuni settori delle classi popolari (ad esempio abbuonando parte del debito universitario) e di difesa della presenza sindacale tra i lavoratori, sottoposta ad un feroce attacco da parte della destra repubblicana in molti Stati, hanno condotto la sinistra a cercare di evitare le dimissioni di Biden nel timore che al suo posto arrivasse qualcuno (compresa Kamala Harris) con un politica socio-economica decisamente spostata al centro e a favore degli interessi dell’establishment economico-finanziario.

La divaricazione tra valutazione della politica interna e scelte di politica internazionale emerge anche in altre realtà, come ad esempio quella spagnola, dove la sinistra è riuscita ad ottenere qualche risultato positivo nella tutela dei lavoratori e di settori popolari sul piano economico e dei diritti, ma ha inciso molto poco sull’allineamento atlantista del PSOE.

Anche nel programma del Nuovo Fronte Popolare francese si è visto come a fianco di una serie di misure significative sul piano sociale, la parte dedicata alla politica estera sia fortemente continuista con quelle dei tradizionali governi socialdemocratici. Melenchon ha poi rivendicato, in interviste giornalistiche, l’uscita dalla NATO. Un obbiettivo che riporterebbe la Francia alla situazione nella quale si trovava con De Gaulle, quando cercava di giocare un ruolo autonomo nel confronto tra i blocchi. L’effettiva possibilità di raggiungere questo obbiettivo richiede un mutamento dei rapporti di forza anche all’interno della coalizione delle sinistre. Vedremo nell’evoluzione della situazione politica francese se potrà essere qualcosa di più che un tema di agitazione propagandistica.

Queste ed altre esperienze sollevano un tema al quale non è facile dare una risposta definitiva e che è in gran parte affidato all’effettiva capacità di iniziativa delle forze della sinistra di alternativa: quali sono i margini per conquistare obbiettivi intermedi di rottura con le politiche neoliberiste e un più complessivo progetto di trasformazione sociale?

Anche le esperienze dell’America latina, dove la sinistra è riuscita a conquistare il potere governativo, hanno certamente prodotto dei risultati che hanno attenuato alcune delle punte più aspre e antipopolari del neoliberismo, ma non si può dire che si sia effettivamente riusciti a delineare un modello di sviluppo economico, sociale e ambientale alternativo.

Non siamo più al punto di arretramento della prospettiva socialista determinato dal crollo del blocco guidato dall’Unione Sovietica, ma non siamo ancora arrivati alla definizione di una nuova strategia in grado di basarsi su un ampio consenso popolare e di una articolazione di alleanze tra classi, movimenti e Stati.

Questa difficoltà oggettiva ha favorito l’emergere di teorizzazioni che ritengono ormai impossibile produrre cambiamenti sociali a partire da ruoli di governo con il ripiegamento su strategie settarie e ultraminoritarie.

La guerra e la dimensione globale

Abbiamo visto come aspetti importanti dell’attuale situazione politica e sociale siano la crisi della globalizzazione capitalista e della capacità egemonica del neoliberismo, inteso non come un insieme di politiche economiche quanto come vera e propria fase specifica del capitalismo. Questa crisi ha determinato sul piano politico un incremento delle forme di autoritarismo e una riduzione degli spazi di reale pluralismo politico e sul piano economico elementi di stagnazione del meccanismo capitalistico pur in un contesto di consistente innovazione tecnologica.

L’altra ricaduta importante riguarda il mutamento degli equilibri globali e un diverso ruolo che assume la guerra in questo contesto.

A sinistra negli ultimi tempi è diventato usuale fare riferimento alla “geopolitica”. Concetto abbastanza vago che serve ad indicare il livello delle relazioni tra Stati. Occorre tenere presente che la “geopolitica”, più che uno strumento scientifico di analisi della realtà è fondamentalmente una ideologia i cui fondamenti sono difficilmente compatibili con una visione marxista delle società capitalistica (anche se vi è chi ha cercato di elaborare una “geopolitica marxista”). La “geopolitica” analizza la realtà mondiale a partire dall’individuazione degli Stati come attori principali delle scelte e dei conflitti. Viene invece rimossa l’esistenza di conflitti sociali e contrasti di classe esistenti all’interno degli Stati e a livello internazionale. La “geopolitica” tende ad assumere gli Stati come soggetti determinati dalla posizione geografica, il che ha un fondamento di verità (la Russia, nazione terrestre fatta di pianure aperte, non è la Gran Bretagna, isola nel mare o la Svizzera chiusa tra le montagne), ma che spesso viene trasformata in una natura che resta immutabili al di là della storia e dell’evoluzione dei sistemi sociali e politici.

L’adozione dell’approccio “geopolitico” tende a trasformarsi in un’altra forma di “campismo”, nel quale i rapporti e i conflitti tra le grandi potenze tendono ad assumere un ruolo centrale nell’analisi. Il “campismo” storicamente si presenta come una interpretazione binaria della realtà globale. Di contrapposizione tra due “campi” si parlò nella riunione costitutiva del Cominform in Polonia. Fu questo il principale elemento ideologico apportato da Zdanov, allora numero due del partito sovietico. Il punto di partenza dell’analisi era la formazione di un “campo” antimperialista formato principalmente dall’Unione Sovietica e dai paesi in via di trasformazione dell’Europa orientale.

La lettura zdanoviana tendeva a spostare il conflitto sociale al livello del confronto tra Stati. E questo aveva tendenzialmente come effetto di subordinare ad esso l’azione dei partiti comunisti e dei movimenti sociali. In quella fase storica (con tutte le deformazioni introdotte dallo stalinismo) la contrapposizione avveniva tra ideologie che si consideravano “universaliste” ovvero portatrici di un progetto applicabile all’intera umanità, al di là delle distinzioni nazionali.

La caduta del blocco sovietico non ha portato ad una completa eliminazione della visione “campista” quanto a varie riproposizioni. La prima è quella di chi attribuisce alla Cina il ruolo di riferimento per la prosecuzione del progetto socialista e tende a riproporre una lettura piuttosto acritica della realtà e della politica cinese.

Più consistente è la visione che interpreta la realtà come frattura binaria tra imperialismo e antimperialismo. Il primo fronte è quello guidato dagli Stati Uniti, il secondo vede tutti i paesi che vi si oppongono, in qualche modo, a prescindere dall’ideologia, dalla situazione politica interna e dalle caratteristiche sociali e di classe.

L’identificazione con un “blocco di Stati”, un tempo il campo socialista guidato dall’Urss ora i Brics o il Sud globale, può presentare il vantaggio di sentirsi parte di uno schieramento dotato di un potere reale, al quale delegare il mutamento dei rapporti di forza. Se questo, ai tempi dell’Urss, poteva portare ad una identificazione di una prospettiva comune di cambiamento in senso socialista oggi, in un contesto profondamento modificato, prescinde da qualsiasi reale orientamento trasformatore. In questo modo ci si mette alla coda di realtà che hanno progetti ideologici, politici e sociali totalmente contrari ad una prospettiva di trasformazione sociale progressiva.

Tra le formazioni comuniste di impianto più tradizionale è emersa una spaccatura tra chi legge gli attuali conflitti tra Stati come varianti delle contraddizioni interimperialistiche, rispetto alle quali non può che affermarsi una visione di totale alterità politica. È il caso ad esempio del Partito Comunista Greco che, interpretando la guerra in Ucraina come mero scontro tra potenze imperialistiche è entrato in collisione con altri partiti comunisti che invece collocano la Russia di Putin nel campo, piuttosto variegato, dell’antimperialismo.

Sulla guerra in Ucraina sono emersi punti di vista molto diversi, soprattutto nella sinistra alternativa europea. Alcuni partiti e correnti (anche dell’estrema sinistra, ad esempio una parte del movimento trotskista e anarchico) interpretano il conflitto come espressione dell’imperialismo espansionista russo, il che legittima non solo la difesa militare dell’Ucraina, ma una rivalutazione del ruolo della Nato e un’espansione del ruolo militare dell’Unione Europea.

Il conflitto in Ucraina viene totalmente isolato dal contesto globale nel quale la guerra è tornata ad assumere un ruolo rilevante. Non perché i decenni seguiti al crollo dell’Unione Sovietica siano stati pacifici, tutt’altro. Ma nella fase precedente si è trattato di guerre periferiche, fra Stati considerati ai margini del contesto globale e rispetto ai quali esisteva, sulla carta, una schiacciante superiorità militare del blocco occidentale. In qualche modo il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan ha sancito, per il momento, una rinuncia alle “guerre periferiche” considerate non cruciali alla difesa dell’egemonia statunitense. Invece si è tornati a militarizzare il conflitto tra grandi potenze, in particolare con Russia e Cina.

In questo contesto l’Unione Europea è sembrata in un primo momento recalcitrante a percorrere fino in fondo la strada dello scontro con la Russia e mantiene qualche ritrosia (soprattutto per le ricadute negative che questo sta già avendo sull’economia tedesca) ad alzare l’asticella del conflitto commerciale con la Cina. Ma dopo la fase iniziale non c’è dubbio che sia prevalsa la volontà di diventare protagonista diretto dello scontro militare con la Russia.

L’establishment europeo è semplicemente subalterno alla direzione impressa dagli Stati Uniti? Su questa lettura si può avere qualche dubbio. La guerra e la militarizzazione della politica che ne consegue è interpretata come un’opportunità sotto due aspetti. Il primo, di rinsaldare un progetto europeo in crisi utilizzando un incentivo che dovrebbe consolidarne il consenso: la presenza del nemico alle porte. Il secondo di favorire un processo di reindustrializzazione, utilizzando l’espansione della spesa militare, aggirando il dogma liberista della prevalenza del libero mercato senza doverlo mettere in discussione.

Conclusione

Come si vede il quadro globale non è facilmente riducibile ad una lettura binaria e questo richiede, da parte della sinistra alternativa, la ricostruzione di un progetto strategico autonomo. Altrimenti il rischio più evidente è di diventare sostenitori subalterni di altre forze operanti sulla scena globale. O nella direzione opposta di trasformarsi in semplici commentatori. Una strategia politica non può fermarsi alla definizione della fase né a produrre vaghi decaloghi, ma deve saper individuare le forze politiche e sociali in grado di cambiare i rapporti di forza, costruire alleanze e indicare obbiettivi intermedi e contemporaneamente alimentare una visione del mondo che si traduca in intervento sulla realtà. Insomma, parafrasando una battuta di un vecchio film: “è la politica, bellezza”.

Franco Ferrari

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