Per il settimanale britannico The Economist, siamo ormai certamente entrati nella fase della deglobalizzazione. Come segnale indicativo di questo processo, misurabile da altre statistiche come l’andamento degli investimenti esteri e il ritorno che questi producono in termini di profitto, viene indicato il blocco di fatto dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Non sono stavolta i movimenti definiti come “no-global” (o più correttamente “per la giustizia globale”) a contestare l’organizzazione, quanto invece la più grande potenza imperiale, ovvero gli Stati Uniti.
Impedendo la nomina dei componenti mancanti al comitato che deve intervenire nelle dispute tra i membri dell’organizzazione, Washington ottiene di fatto la messa in mora della principale funzione che il WTO dovrebbe avere: evitare l’adozione di politiche statali tese a ostacolare il libero commercio delle merci e dei servizi.
Per l’Economist, storico portavoce del liberismo globale, la tendenza in atto è vista come pericolosa e foriera di pericoli per tutta l’economia mondiale. Dal suo punto di vista, la globalizzazione ha prodotto grandi effetti positivi, in particolare l’uscita dalla povertà di centinaia di milione di persone. Per la verità queste sono conteggiate quasi tutte in Cina, paese che si è certamente inserito nel sistema capitalistico globale ma la cui politica economica, prevedendo una forte direzione dello Stato, non può essere ascritta ad una semplice adesione al liberismo globale.
Certamente gran parte dell’ideologia che è stata distribuita a piene mani per alcuni decenni dopo il crollo dell’Urss oggi viene giorno per giorno smantellata e abbandonata, mettendo in atto politiche dei dazi protettivi, in questi giorni Biden contro la Cina, ritorno a catene produttive più corte e al tentativo di far tornare la manifattura entro i confini nazionali. Anche se non viene messo realmente in discussione il paradigma liberista, ma solo la sua proiezione internazionale.
A fianco della deglobalizzazione, che per altro sembra produrre nuove contraddizioni in sostituzione delle vecchie come è nella natura propria del capitalismo (sistema dinamico e non stazionario, sia nel bene che nel male), emerge con forza la presenza della guerra.
Non si può dire che “è tornata la guerra”, né tanto meno che “è tornata la guerra nel cuore dell’Europa” come si legge nella propaganda. Si cerca di dimenticare la guerra in Jugoslavia ad esempio, ma si potrebbero anche ricordare i conflitti tra Grecia e Turchia, l’occupazione di Cipro e così via. Ma sappiamo anche che i decenni seguiti al crollo dell’Urss e alla fine della contrapposizione tra i due blocchi caratterizzati da differenze economiche, politiche ed ideologiche, sono stati contrassegnati da numerosi conflitti (Jugoslavia, Afghanistan, Libia, Iraq, due volte, ecc.).
Si trattava però di conflitti ai margini dell’impero unipolare, di cui gli Stati Uniti si consideravano il dominus incontrastato. Con l’abbandono dell’Afghanistan da parte di Biden, secondo una prospettiva ideologica preannunciata già in campagna elettorale, si chiudeva il tempo delle guerre periferiche, non per superare l’idea della guerra come strumento di regolazione del conflitto ma, al contrario per riportarla al centro dei rapporti globali.
La dimensione militare ha ritrovato un ruolo primario nella nuova dimensione del conflitto tra grandi potenze. Secondo il concetto gramsciano di “egemonia”, il potere si esercita sempre attraverso un equilibrio di forza e consenso. Nel caso degli Stati Uniti la diminuzione del peso economico è andata di pari passo con una crisi di consenso e quindi con la tendenza a spostare il confronto sul terreno che per gli USA resta, apparentemente, quello più favorevole: la potenza militare.
Biden ha cercato anche di riattivare una dimensione ideologica, ripercorrendo lo schema dei tempi nei quali si formato politicamente, costruendo un “fronte delle democrazie” contro un presunto “fronte degli autoritarismi”. Un’operazione che in un contesto profondamente diverso da quello degli anni ’50 e primi anni ’60 ha avuto scarso successo. Non solo per l’evidente ipocrisia implicita in quella costruzione narrativa ma anche per una ragione più strutturale.
Opera nel fondo la crescente involuzione della stessa democrazia capitalistica così come si è andata costruendo dopo la seconda guerra mondiale. D’altra parte il liberalismo non è nato democratico, tutt’altro. Esso intendeva la libertà soprattutto come difesa dell’individuo proprietario, anche se questo processo ha comunque introdotto degli elementi progressivi nel rapporto tra Stato e cittadino. Ma è stata l’azione e la presenza del movimento operaio ad aprire la strada all’accettazione liberale della democrazia.
Così come l’impronta del socialismo sovietico, pur con tutte le sue deformazioni, ha prodotto un ampliamento del contenuto della democrazia in quanto luogo del conflitto e dei compromessi tra classi sociali contrastanti.
Tutto il percorso del liberismo è stato finalizzato a “de-democratizzare” la democrazia, cioè a sottrarre all’azione politica campi sempre più ampi di esercizio del potere. Ovviamente e in primo luogo l’economia e in secondo luogo l’azione internazionale degli Stati. In quest’ultimo caso già era in corso una sottrazione delle sue decisioni al principio democratico, ad esempio la teorizzazione della sfera di sovranità “regale” in Francia, attribuita al Presidente della Repubblica, o la trasformazione negli Stati Uniti della Presidenza in “Presidenza imperiale”, grazie alla quale si è di fatto appropriata del potere di decidere la guerra.
Per questo in buona misura il conflitto tra liberali ed etno-nazionalisti in Europa è in parte fittizio. I secondi propongono una democrazia illiberale, ovvero il potere una volta conquistato secondo la procedura elettorale non deve però essere limitato dai contrappesi istituzionali. E questo riduce gli spazi di democrazia e porta al consolidamento del potere stesso. D’altra parte abbiamo un “liberalismo anti-democratico”, che oltre a restringere il terreno sul quale si può realmente attuare la sovranità popolare, a fronte di una crisi di egemonia, tende a tollerare sempre meno il conflitto sociale e a imporre restrizioni crescenti al dibattito democratico e nuove forme di maccartismo.
Le vicende recenti confermano che, come il capitalismo, anche la democrazia non è una realtà statica, né può essere isolata dalla struttura socio-economica in un astratto proceduralismo. Se non è “progressiva”, ovvero se non ingloba gli interessi delle classi subalterne e nuove forme di partecipazione, diventa inevitabilmente “regressiva” e si trasforma in una scatola vuota finalizzata solo a consentire alle classi dominanti di autolegittimarsi.
Gli etnonazionalisti puntano a non avere contrappesi istituzionali, i liberalimperialisti cercano di non avere contrappesi sociali.
Deglobalizzazione, ritorno della centralità della guerra come strumento di regolazione dei rapporti tra potenze, restrizione degli spazi democratici, sembrano i dati centrali della fase.
A tutto questo, l’insieme di forze che chiamiamo di “sinistra radicale” non è riuscita finora a costruire un progetto alternativo sufficientemente unitario e soprattutto a ridefinire una prospettiva strategica. Come si è potuto vedere dai miei due articoli precedenti che hanno sommariamente esaminato le diverse aggregazioni sovranazionali emerse in vista delle elezioni europee, oltre a diversi elementi di sostanziale differenziazione (ad esempio sulla guerra in Ucraina si riscontrano posizioni contrapposte) emergono anche difficoltà a costruire un’analisi coerente della situazione.
L’elaborazione fornita dal Partito della Sinistra Europea (il manifesto elettorale e il documento congressuale elaborato a Vienna nel 7° Congresso del dicembre 2012) restano i testi di maggiore complessità e che cercano di definire un quadro di riferimento comune. Altre iniziative risultano o troppo sbilanciate su una dimensione puramente ideologica o eccessivamente condizionate dalla ricerca di un’utilità spicciola nelle rispettive campagne elettorali nazionali.
Il quadro politico europeo vede in atto una tendenza dominante: la ricerca della convergenza tra le forze centriste e di destra tradizionale con gran parte della estrema destra etno-nazionalista, anche di derivazione neofascista. La natura della fase politica sopra delineata favorisce questo avvicinamento. Innanzitutto la priorità della guerra (contro la Russia ma come parte di un processo di militarizzazione globale) è il terreno comune sul quale si può sancire l’alleanza.
Il processo di deglobalizzazione rimuove uno degli elementi di differenziazione tra “globalisti” e “sovranisti” (comunque tutti più o meno liberisti). E quanto alle tendenze autoritarie, si può rilevare come, anche qui, la repressione in atto in paesi come la Francia o la Germania contro i movimenti di solidarietà verso i palestinesi, possa svolgere la funzione di laboratorio per la riduzione complessiva degli spazi di pluralismo politico.
La possibilità di costruire un fronte unitario alternativo è resa particolarmente difficile sia dalle posizioni prevalenti nella socialdemocrazia che nei verdi. La prima ha solo moderatamente spostato a sinistra il proprio asse nelle politiche economiche e sociali (e forse quando ormai quasi tutti i buoi erano già scappati) ma resta ottusamente atlantista e favorevole alla militarizzazione della politica europea. I verdi, dominati dalla componente tedesca, sono ancora più oltranzisti sulla guerra e si sono in gran parte trasformati in partiti liberali interessati ad un ecologismo consumabile dalle classi medie; da partito anti-sistema a partito ipersistemico.
Al di fuori del sistema politico i sindacati restano deboli e i movimenti sociali non hanno ancora dimostrato la capacità di ottenere risultati quando non accettano semplicemente (a livello di figure più o meno rappresentative) di farsi inglobare nel quadro politico esistente, contribuendo a legittimare, nei fatti, politiche opposte a quelle che proclamano di voler sostenere.
Nel processo di ricostruzione di una sinistra radicale con dimensioni di massa in Italia, partendo dalla corretta individuazione del tema pace-guerra come asse centrale anche se ovviamente non esclusivo, è indispensabile avere presente l’intreccio che questo deve necessariamente avere con la dimensione europea e sovranazionale. Per più di qualche anno è sembrato che le nostre vicende nazionali fossero frutto delle debolezze del carattere italico. Ora possiamo dire al resto della sinistra in Europa che in fin dei conti “de te fabula narratur”. E purtroppo non è ancora una “fabula” a lieto fine.
Franco Ferrari