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Crisi dell’ordine globale ed espansione dei Brics

di Franco
Ferrari

La riunione dei Brics avvenuta a Johannesburg (e sulla quale ha ampiamente informato su questo sito Alessandro Scassellati) ha acquisito particolare importanze perché avvenuta in un contesto di crisi dell’ordine globale internazionale così come si era andato definendo dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica e del blocco socialista.

Un assetto che vedeva sul piano economico uno sviluppo della globalizzazione basata sul cosiddetto “consenso di Washington” che sintetizzava i caratteri fondamentali del paradigma liberista, garantita dal predominio finanziario, tecnologico e militare degli Stati Uniti.

Le promesse che avevano determinato, a livello globale, un ampio consenso a questa direzione di marcia, sono risultate in buona misura deluse. Quest’ordine a guida statunitense, che doveva sancire una nuova era di capitalismo democratico, fondato su una crescita del ceto medio, si è dimostrato in buona parte illusorio. Si è incagliato nelle proprie contraddizioni interne che hanno prodotto una crisi degli assetti democratici (la “post-democrazia” di cui ha parlato Colin Crouch) e un ritorno di forme crescenti di autoritarismo anche in paesi che sembravano approdati ad una forma seppur contraddittoria di liberal-democrazia (India, Turchia, Russia, ecc.). Gli stessi Stati Uniti sono tutt’altro che estranei a questa crisi degli equilibri istituzionali affermatisi in larga parte dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Contemporaneamente la globalizzazione capitalista, che avrebbe dovuto garantire il primato dell’Occidente (Usa, Europa, Giappone, ecc.) sul sud del mondo, ha determinato una modifica delle gerarchie, soprattutto, ma non solo, per la crescita cinese, che si è dimostrata in grado di entrare da protagonista sul terreno dell’innovazione tecnologica.

Gli Stati Uniti, che mantengono la leadership globale considerata la lunga stagnazione giapponese e il fallimento dei modesti tentativi di autonomia europea, hanno reagito in modi diversi a questa crisi che mette in pericolo il loro primato economico, finanziario, tecnologico, se non ancora militare e ideologico. Nel caso di Trump con un maggiore isolazionismo e rifiuto di costruzione di un vero e proprio blocco per agire singolarmente a seconda delle proprie convenienze sulla scena internazionale, affermando brutalmente il primato assoluto dei propri interessi. Con Biden si è invece introdotta una logica di contrapposizione di schieramenti in cui gli interessi propri degli Stati Uniti vengono ricoperti di retorica democratica e di affermazione di un ordine internazionale “basato sulle regole”, pur essendo pronti in qualsiasi momento a violare quelle stesse regole sulla base della propria convenienze. O consentire di farlo a quegli Stati considerati alleati sicuri (ad esempio Israele).

In questo contesto si inserisce la guerra in Ucraina che è piuttosto uno degli effetti della crisi dell’assetto globale, piuttosto che la causa. Biden ha colto l’opportunità fornita dall’invasione russa (si può poi discutere se questa opportunità sia stata favorita da una serie di scelte tese a provocarla) per avviare un’iniziativa tesa a ricreare una polarizzazione a livello mondiale analoga a quella della guerra fredda con l’Unione Sovietica. D’altra parte è evidente che Biden per età e formazione politica è pienamente espressione di quella tendenza “liberal-imperiale” radicata nell’establishment americano che unisce politiche sociali relativamente progressiste all’interno con una forte dose di aggressività esterna. Il Presidente degli Stati Uniti non si è dimostrato certo in grado finora di pensare un assetto globale che non sia strutturato gerarchicamente e rigidamente attorno agli interessi del proprio paese. L’obiettivo “America first” è condiviso tanto da Trump che da Biden, con la differenza che il secondo ritiene utile perseguirlo arruolando un fronte più vasto e ben disciplinato attorno ai propri propositi.

Riproporre una nuova guerra fredda in un contesto fortemente mutato e nel quale i rapporti di forza economici non sono più quelli di un tempo crea una serie di reazioni che potrebbero in realtà accelerare la crisi del dominio statunitense, anziché arginarlo.

Molti Stati e classi dominanti in giro per il mondo, per motivi diversi e non sempre nobili, non ritengono che la guida americana possa garantire loro un ruolo adeguato a partecipare alla spartizione della ricchezza mondiale. Altri, dal versante più progressista, valutano che l’assetto globale non danneggia solo gli interessi di sviluppo economico del loro Paese, ma impone anche politiche economiche che accentuano le diseguaglianze interne, favorendo processi di degrado sociale e di rafforzamento delle tendenze autoritarie.

Il rilancio dei Brics, avvenuto a Johannesburg con la decisione di accogliere altri paesi, è una delle forme di reazione alla crisi dell’egemonia statunitense. Gli effetti pratici sono ancora modesti e sembrano concentrarsi su due aspetti: il rafforzamento di una Banca di sviluppo comune con sede a Shangai e guidata dalla brasiliana Dilma Roussef; lo sviluppo di relazioni commerciali parzialmente o totalmente sottratte alla mediazione del dollaro.

La Banca dovrebbe consentire a Paesi del Sud globale di accedere a prestiti disponendo di un canale alternativo al Fondo Monetario Internazionale, accusato di indebitare i paesi richiedenti solo al fine di garantire il loro pagamento dei debiti pregressi e di accompagnare tali prestiti con draconiane politiche anti-sociali. Non a caso spesso quando arrivano i tecnici del Fondo Monetario Internazionale scoppiano rivolte popolari.

L’altro processo, quello della “de-dollarizzazione” dell’economia mondiale, appare assai complesso e certamente non di immediata soluzione. Si potranno favorire relazione commerciali tra i vari paesi utilizzando le rispettive monete. Ma questa non è sempre una soluzione facilmente percorribile come si è visto nel caso dei rapporti tra Russia e India. I rapporti commerciali tra i due paesi sono fortemente squilibrati a favore della Russia che ad un certo punto non sa più che farsene delle rupie incassate potendole utilizzare solo per acquistare beni e servizi indiani di cui però non ha particolare bisogno.

Certamente sarà possibile incrementare l’uso di soluzioni alternative al dollaro e conseguentemente ridurre il possesso di dollari da parte delle rispettive banche centrali, ma molto più complicato sarebbe costruire uno strumento di pagamento alternativo che potrebbe configurarsi in una moneta virtuale composta da un paniere delle monete nazionali interessate. Qualcosa di simile all’Ecu europeo, introdotto prima della realizzazione della moneta unica.

Più difficile valutare l’impatto indiretto dell’espansione dei Brics ai fini della costruzione di un assetto globale definito come “multipolare”, ovvero non basato sul predominio di una sola nazione. La Cina, potenza emergente ma non priva di contraddizioni interne, sembra per ora cercare di evitare di proporsi come la guida di un blocco alternativo a quello dominato dagli Stati Uniti. Piuttosto tenta di evitare, utilizzando le possibilità offerte ad altre economie nazionali dalla propria crescita economica ed anche astenendosi dall’intervenire sugli assetti politici interni agli altri Paesi, di alimentare una netta contrapposizione a livello globale, che costringa i vari Stati a schierarsi su un fronte o sull’altro.

I Brics non sono lo strumento per la costruzione di un blocco alternativo a quello occidentale. Mentre questo ha anche una forte dimensione militare (la NATO globale), i paesi che ne fanno parte mantengono la loro collaborazione nell’ambito della costruzione di strumenti finanziari e intensificazione delle relazioni economiche e commerciali a vari livelli. Non sono nemmeno un insieme di paesi che perseguano una visione coerentemente antiliberista degli assetti economici.

Questo ha portato, all’interno della sinistra internazionale, all’emergere di posizioni fortemente critiche che hanno circolato soprattutto nei siti di lingua inglese. In particolare se ne è fatto portavoce l’intellettuale e accademico sudafricano Patrick Bond, per il quale non bisogna aspettarsi nulla di particolarmente positivo, da un punto di vista di sinistra radicale, dalla crescita dei Brics. Le critiche si appuntano sul fatto che finora i risultati ottenuti dalla Banca comune, proposta come alternativa al FMI, sono stati più che modesti. Si ritiene inoltre che paesi come il Brasile o il Sud Africa, pur articolando discorsi “di sinistra”, siano di fatto solo potenze sub-imperialiste. Non quindi realmente alternative al paradigma dominante ma semplicemente in cerca di un maggiore spazio dentro ad un contesto immutato. Si sottolinea poi negativamente la presenza di regimi assolutamente reazionari, antidemocratici e la cui ricchezza si basa interamente sul fossile in contrasto con le esigenze di invertire la tendenza al cambiamento climatico. Per Patrick Bond, come per altri sulla stessa lunghezza d’onda, non ci può essere nessuna prospettiva antiliberista o anticapitalista che non si basi sullo sviluppo di movimenti di opposizione dal basso.

Altri partecipanti al dibattito internazionale come l’indiano Vijay Prashad danno un giudizio più articolato (e per quanto mi riguarda più condivisibile) del possibile ruolo dei Brics. La cooperazione del “sud globale” è vista come un passaggio utile, anche se non sufficiente, alla rimessa in discussione di un ordine globale ingiusto. Non bisogna certo nasconderne le contraddizioni, né cadere in una riedizione delle tesi “campiste” (che fanno discendere automaticamente dal giudizio sul ruolo internazionale di uno Stato il comportamento nei confronti degli assetti interni di quello stesso Stato), ma cogliere le opportunità e gli spazi di iniziativa che l’emergere di una dialettica a livello globale offrono alle forze progressiste. Sia quelle che operano dal basso che quelle che si ritrovano, in un contesto sicuramente difficile, a dover reggere la prova del governo.

Anche Hugo Albuquerque, redattore di Jacobin Brasile, ha definito l’espansione dei Brics una ottima notizia al di là delle contraddizioni interne ai sei Paesi ammessi alla riunione di Johannesburg. Senza doversi nascondere la presenza di governi che al loro interno applicano politiche autoritarie e antidemocratiche.

Un giudizio sintetico nella stessa direzione è stato espresso dal quotidiano socialista britannico “Morning Star”, il quale sottolinea che la diversità ideologica dei Brics è insieme un elemento di forza e di debolezza. “Essa consente ad ogni paese che intenda sfidare un ‘ordine internazionale basato sulle regole’ nel quale gli Stati Uniti fanno e disfanno quelle stesse regole, di vedere un vantaggio nel farne parte. Questo interesse comune può unire vecchi nemici e riunire governi progressisti con alcuni dei più reazionari. Ma non si oppone sistematicamente all’imperialismo”. La crescita dei Brics è quindi un fatto positivo ma non rappresenta di per sé una sfida coerente all’assetto globale liberista. Sfida che non può affermarsi senza la crescita di movimenti popolari (e di governi) che si facciano interpreti di una coerente alternativa e si oppongano alla possibile deriva verso una nuova e più catastrofica guerra mondiale.

Franco Ferrari

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