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Rossoverde non è un ornamento, ovvero la centralità ambientale per una sinistra del 21° secolo

di Riccardo
Rifici

Lo scorso anno, come redazione di Transform, abbiamo sollecitato, attraverso alcuni articoli e un seminario una riflessione sui temi ambientali unitamente a quelli sociali, intitolando l’iniziativa “Rossoverde non è un ornamento”. Le vicende legate alla guerra e ad altre questioni hanno rallentato l’impegno a proseguire la riflessione. Tale riflessione non è più rimandabile!

Gli avvenimenti di questo ultimo anno legati alla questione ambientale (incendi, alluvioni, siccità), quelli legati alla guerra, e quelli legate alle questioni socio-economiche (inflazione, prezzi delle materie prime, aumento delle povertà) confermano che il modello economico e produttivo che oggi governa il mondo non è in grado di garantirne il futuro alla maggior parte dell’umanità.
Una sorta di “capitalismo illuminato”, potrebbe, forse, rimandare solo un poco nel tempo il crollo di questo sistema, ciò al prezzo di un ulteriore aggravamento della drammatica situazione di povertà e miseria in cui si trova già gran parte del pianeta e della società umana.

Ciò di cui si sente drammaticamente la mancanza è un modello, o di un’idea di mondo e di società in grado di consentire un degno futuro agli abitanti di questo pianeta. Questa mancanza si conferma anche sul piano politico dove emerge la necessità di una forza politica di sinistra che abbia come spina dorsale la questione ecologica legata in modo indissolubile alla giustizia sociale.
A questo proposito le proposte e le azioni di raggruppamenti e forze politiche che si richiamano all’ambientalismo, senza fare i conti con l’attuale modello economico, sono incoerenti e spesso hanno la sola funzione di “specchietto per le allodole”, col ruolo effettivo di immobilizzare forze per un cambiamento reale. Ciò vale anche per coloro che si accontentano di un ruolo critico ma collaterale ai primi.

Un altro elemento non secondario da considerare è l’atteggiamento nei confronti della guerra, anche perché strettamente legato alle questioni sociali e ambientali. Ritenere come ineluttabile l’uso della guerra come strumento di risoluzione dei conflitti politici, etnici e religiosi o, ancor peggio, come strumento di asservimento politico ed economico, è inaccettabile.

Ancora una volta, è necessario affermare che serve una nuova teoria socialista per il 21° secolo. Bisogna arricchire quel patrimonio culturale, di valori e di esperienza, con le riflessioni che riguardano le questioni cardine del nostro presente. Dobbiamo parlare di socialismo, nel senso più ampio che possiamo dare a quel termine, includendovi anche i valori portati avanti nell’ultimo secolo dalle esperienze femministe e cristiane che si sono impegnate sulla questione della giustizia sociale che, oggi più di ieri, condiziona pesantemente qualsiasi prospettiva di futuro accettabile per l’intera umanità.
Ma la vera novità, rispetto al 19° secolo e alla maggior parte del 20°, è proprio la questione ambientale che oltre ad attraversare tutte le altre, condizionandole pesantemente, rappresenta la questione centrale, non superabile con questo modello socio economico di produzione e di consumo.
La stessa frattura “nord-sud/ricchi-poveri” assume altre connotazioni ed altre gravità alla luce dei problemi ambientali. Ad esempio, la questione alimentare, intrecciandosi con quella ambientale diventa importante quanto e più di quella energetica.
Il nuovo socialismo per il 21° secolo ha, quindi, bisogno di una riflessione approfondita su questa centralità ambientale. Sono indispensabili sia il disegno di nuovi orizzonti culturali sia la costruzione di una nuova capacità di cimentarsi su questioni concrete che toccano gli interessi materiali delle collettività.

Per questo motivo queste brevi riflessioni provano ad entrare nel merito, di alcune questioni concettuali e su alcune problematiche concrete che riguardano la questione ambientale e la sua relazione con questione del territorio e delle attività produttive.
Su questi temi è insufficiente tanto il livello di elaborazione teorica quanto il livello dell’iniziativa politica messo in atto dalla sinistra italiana.
Anche nei documenti e nelle iniziative programmatiche più recenti dell’alleanza Verdi-Sinistra non sembra emergere come centrale la necessità di superare il modello capitalista.

La proposta politica ambientale, che ha caratterizzato la scorsa campagna elettorale alle europee e quella che caratterizza l’attuale proposta del centro-sinistra, è quella di una sorta di new deal ambientale, che si concretizza, al suo incontro con le tematiche produttive, nel costruire una sorta di supporto alle imprese che si dichiarano più ambientaliste, dimenticando che il vero salto in avanti avverrà solo quando si presterà attenzione al tema dei consumi e del modello produttivo, incentivando i consumi di beni e servizi più utili ed ecologicamente migliori, e mettendo in atto azioni che favoriscono la transizione verso diversi modelli socio-economici, che pongano al centro la sostenibilità nella sua accezione più vera (ambientale, economica e sociale).

L’attuale impegno che, ad esempio, da sempre ha caratterizzato la Federazione dei Verdi, ripropone tutti i difetti e la debolezza culturale e politica che non fa i conti con la radice dei problemi. Un’azione  che quando va bene, mette insieme questioni come la difesa della delle aree protette, la denuncia contro gli inquinamenti, a cui si aggiunge un po’ di energia solare e un po’ di efficienza energetica, senza però dire nulla o quasi sulle relazioni sociali del nostro paese, sui suoi modelli produttivi e sugli obiettivi che deve darsi una nuova politica ambientale per una reale transizione ambientale.
Peraltro, le forze che provengono dalla sinistra storica, mantengono ancora una arretratezza politico culturale sulla questione ambientale, ciò nonostante fu proprio nel loro seno, che negli anni ’70, nacquero le prime serie riflessioni sul legame tra modelli produttivi, salute ed ambiente (vedi l’esperienza di Maccacaro, Laura Conti, Francesco Baracca ed altri). In sostanza si può affermare che le acquisizioni culturali della sinistra su temi ambientali (vedi l’importante tema della transizione energetica) si collocano più o meno allo stesso livello delle iniziative e degli obiettivi che anche i settori più illuminati di Confindustria stanno portando avanti.
La stessa ricerca, spesso acritica, di scoprire e cercare di cavalcare vertenze territoriali su temi vari, si rivela infruttuosa sul piano politico e a volte controproducente sul piano dell’elaborazione politico culturale.

Per riassumere: i punti a cui si fa riferimento sino ad oggi come strategia politico ambientale (lotta contro fossili e nucleare e per le energie alternative, singole lotte locali contro speculazioni edilizie o costruzione di impianti di varia natura, o lotte per la salvaguardia di alcune realtà locali ambientali), non sono adeguati a quanto ci è richiesto dalla realtà politico, ambientale ed economica del nostro paese e dell’intero pianeta. È, invece indispensabile entrare nel merito, proponendo e cercando di costruire azioni che riguardano tanto a livello locale che a livello globale, il modello agricolo e il sistema produttivo, il modello di mobilità di persone e merci, e il modello delle relazioni economiche e sociali che vanno ricostruite per cominciare ad operare un cambiamento.

Ad esempio, è necessario organizzare un serio lavoro di confronto e approfondimento sul tema agricoltura, iniziando a lavorare per la transizione verso un modello di agricolo completamente diverso da quello attuale. Non dimentichiamoci, infatti, che oggi il settore dell’agricoltura è quello che pur avendo il minor tasso di occupati ha i maggiori impatti ambientali.

Due riflessioni preliminari

Vi sono due riflessioni preliminari che vanno fatte senza indugio. Queste riflessioni riguardano sostanzialmente due concetti: quello di beni comuni, quello di sostenibilità.
Questi concetti, sono sino ad oggi, stati affrontati dalla sinistra in maniera superficiale, e spesso demagogica.

I beni comuni

Il concetto di beni comuni è quello che segna la frattura tra un ecologismo perbenista e liberista (un ecologismo per i ricchi a discapito dei poveri) ed un ecologismo di rottura, che comporta il cambiamento dei modelli sociali e dei modelli produttivi. Ma su tale questione c’è anche una grande approssimazione ed una semplificazione errata. C’è, infatti, l’idea che tale tema riguardi solo l’aspetto economico per gli usi civili e ricada, semplicemente, nella sfera dei diritti individuali delle persone, mentre il tema dell’acqua va molto oltre, ricadendo, non solo nella sfera ben più ampia dei diritti dell’intera collettività umana (presente e futura), ma quella, ancora più ampia, dei diritti dell’ecosistema (vale la pena ricordare che anche gli uomini fanno parte dell’ecosistema).
In secondo luogo, occorre precisare che alcuni questi beni comuni, come ad esempio l’acqua (che è forse il più importante), ricade anche sotto un altro insieme che è quello delle risorse naturali, che in quanto tale ha anche la caratteristica di essere limitate.
Ciò comporta due conseguenze importanti: la prima, implicita in quanto ricordato prima, che il “diritto all’accesso” non deve essere concepito in maniera limitata ai singoli individui presenti in questo momento sulla terra, ma deve essere esteso anche alle comunità future (e non solo a quelle umane). La seconda direttamente legata alla prima, riguarda la necessità di “governare” questo diritto all’accesso, sia per renderlo effettivamente possibile nell’immediato a tutti popoli (le acque anche quando sono disponibili devono essere portate nelle case).
Da questo punto di vista, è necessaria una discussione più approfondita sull’aspetto economico legato ai diversi usi dell’acqua.
Va sottolineato come il portare sino in fondo il concetto di beni comuni, comporta, oltre alla lotta  alla mercificazione di questi beni, anche ad una profonda rivoluzione del rapporto nord/sud che  oggi, tra le altre cose, vive proprio sull’espropriazione e sulla privatizzazione di beni comuni. Va ricordato, ad esempio, che uno dei modi in cui si “ruba” l’acqua al sud del mondo è quello di costringere quei paesi ad impiantare produzioni e modelli produttivi idro-esigenti per rispondere ad esigenze dei cosiddetti paesi occidentali. La logica conseguenza della comprensione di questi fatti richiede una responsabilizzazione dei lavoratori e dei consumatori del primo mondo che non possono più fare a meno di assumere un ruolo attivo rispetto questo modello di produzione e consumo. Insomma, spesso, qualcuno, dalle nostre parti, fa l’ecologista a spese di altri!

Sostenibilità, sviluppo e decrescita

La questione della sostenibilità deve diventare l’elemento fondante di una nuova cultura politica.
Prima d’entravi nel merito è opportuno fare una breve inciso.
Nella discussione per slogan, che spesso contraddistingue la sinistra, non è stato fatto un sufficiente approfondimento. Anzi, l’eccessiva semplificazione e schematismo, ci ha portato a rifiutare alcuni termini e a sceglierne altri senza che ciò portasse una effettiva comprensione della questione e ad una capacità di articolare azioni ed obiettivi concreti. Ad esempio la sterile contrapposizione tra il termine “sviluppo” e il termine “decrescita”, ha portato a due conseguenze: da un lato abbiamo rinunciato e lasciato in mano al “nemico” i significati positivi del concetto di sviluppo, accettandone l’accezione quantitativa. D’altra parte, accettando senza sufficiente riflessione il termine “decrescita”, siamo diventati superficiali su come articolarlo nel concreto (nelle proposte per i modelli produttivi, e per i modelli di consumo). Ad esempio, e di come la parola d’ordine della “decrescita” di leghi al concetto di “benessere” e si coniughi con il concetto di sostenibilità. Siamo anche diventati deboli su cosa dire a quella parte di mondo che forse avrebbe ancora bisogno anche di “un poco di crescita”, certamente non seguendo il nostro attuale modello socio economico.

Andrebbe ricordato che con il termine “sviluppo” dovrebbe intendersi un concetto qualitativo, un cambiamento di caratteristiche. Un ecosistema in salute (ad esempio una foresta nel suo stato di climax), è tale perché si è sviluppato positivamente, è arrivato ad un “stato stazionario”, complesso, ricco di relazioni tra le sue componenti, che ne aumentano la qualità e la stabilità.
Nello stesso modo una società dovrebbe svilupparsi arrivando ad un livello di relazioni sociali, di opportunità per gli individui che rende migliore la qualità della vita, e la società stessa più sicura.  Ciò non è una questione quantitativa, ma qualitativa; ad esempio, noi tutti abbiamo bisogno di consumare di più alcune cose e meno di altre: abbiamo bisogno di consumare più cultura, più istruzione, più servizi e più relazioni sociali.
Ciò deve tendenzialmente e mediamente (nel mondo) comportare la riduzione del consumo di molti dei prodotti oggi venduti e conseguentemente la riduzione del consumo di risorse (energia e materia). Ciò, naturalmente comporta la sostituzione di alcuni indicatori (come il PIL) con altri indicatori. Tutto ciò in una logica di solidarietà internazionale.

Ricordiamoci infatti che  la necessità di migliorare la qualità della vita di miliardi di persone nel  mondo non può che comportare la crescita delle economie locali che, dovrebbero essere supportate per essere in grado di produrre  autonomamente, senza per forza essere  ingoiate nell’economia globalizzata, quei beni e servizi necessari alla vita dei loro cittadini (servizi sanitari, scolastici,  elettricità, servizi idrici ecc.) (più di un miliardo e mezzo di persone non ha elettricità, telefoni, e,  addirittura non ha acqua).
In sostanza appare insufficiente agitare la parola d’ordine della decrescita senza, nello stesso momento, essere in grado di spiegarla ed articolarla delle diverse situazioni concrete, avendo cura di tener conto della necessità di una politica economica pianificata da parte delle istituzioni.
Forse varrebbe la pena di rileggersi e commentare alcuni testi, come ad esempio Oltre la crescita di Herman Daly!

Insomma una forza politica che si rifà ad un socialismo del 21° secolo deve mirare ad una società più sobria, che consuma meno risorse materiali, che consuma meno e meglio. Una società ed un’economia che come un ecosistema sano si sviluppa verso un punto d’equilibrio verso uno stato stazionario (non immobile).

Il concetto di sostenibilità oltre a non essere rinviabile, va compreso nel suo carattere trasversale. Qualsiasi “politica” che non si occupi della sostenibilità è inadeguata alla realtà di questo secolo, ricordando però che il concetto di sostenibilità deve contemplare, in modo integrato, tre aspetti: quello ambientale, quello sociale e quello economico.

Lavorare sul tema della sostenibilità ci obbliga a percorrere, nello stesso tempo, due strade. Per quanto riguarda gli aspetti ambientali:

  • quella dell’aumento radicale dell’efficienza delle tecnologie tale da permettere un livello estremamente più basso di consumo di risorse naturali senza compromettere la qualità della vita delle persone. Gli obiettivi in proposito sono a) Ridurre l’uso delle risorse naturali; b) Prevenire e ridurre la produzione di rifiuti; c) Ridurre l’uso e l’emissione delle sostanze pericolose. I settori prioritari di intervento sono: l’energia e l’edilizia, i trasporti, gli alimenti (questi tre settori rappresentano a livello europeo  il 70/80% di tutti impatti inquinanti);
  • quella di un radicale mutamento del modello dei consumi che permetta, al contempo, di consumare molto meno risorse naturali e di mutare le relazioni economiche che caratterizzano il modello produttivo attuale.  In sostanza bisogna riprendere uno slogan che già caratterizzò le lotte operaie di qualche decennio fa: cosa, come, per chi produrre, ed arricchirlo con alcune ulteriori consapevolezze alla luce della realtà odierna e dei cambiamenti avvenuti a livello mondiale, sia per quanto riguarda le questioni politico sociali (ruolo e caratterizzazione dei produttori) che ambientali.

Per quanto riguarda la seconda strada, un tema di carattere politico culturale su cui lavorare è quello relativo al modo con cui viene concepito il concetto di benessere.
Il concetto di benessere dominante è il derivato dalla pressione del sistema industriale mediato dalla forza dei “mass media” che ha portato da un lato alla accettazione di un concetto di benessere legato alla possibilità di scegliere, possedere, esibire e consumare una vasta gamma di prodotti (spesso inutili), e dall’altro ad una sorta di materializzazione usa e getta, sotto forma di prodotti, di  qualsiasi tipo di bisogno (anche di natura non materiale).
A causa di ciò, anche se nel corso degli anni vi è stato un miglioramento della qualità ambientale di molti prodotti. Infatti, i prodotti tecnologici sono diventati più efficienti e consumano meno risorse (ad esempio i frigoriferi, le lavatrici, le automobili ecc.), ma  la spinta ad acquistare nuovi prodotti, e la loro rapida obsolescenza (non solo effettiva ma anche virtuale), ha reso vani quei miglioramenti delle tecnologie.
Peraltro anche la diffusione, di per sé positiva, di un modello di economia dei servizi e della conoscenza, grazie anche alle maggiori possibilità di accesso all’informazione, non ha sostituito i vecchi bisogni e i tradizionali consumi materiali; ma si è sommata ad essi, con ulteriori nuovi consumi materiali.
Anzi è possibile affermare che: la diffusione indiscriminata di beni materiali, non solo ha deteriorato l’ambiente e i beni comuni, ma ha anche indotto una perdita di coesione sociale, di senso civico, di senso di sicurezza: elementi propri del contesto umano e della percezione della qualità della vita.

Questo è il terreno principe del lavoro culturale che abbiamo di fronte: favorire un contesto di apprendimento che proponga una nuova idea di  benessere meno legato all’acquisizione materiale e più attento ad apprezzare e tutelare l’ambiente  fisico e sociale, anzi, mirato alla valorizzazione e all’ampliamento della possibilità di accesso e ai  beni e servizi come ad esempio: i servizi alla persona, un’istruzione ed una sanità di buon livello, le  occasioni per godere di momenti di svago e offerte culturali di buona qualità. Tutto ciò è intrinsecamente legato alle nuove forme di dominio che il capitale usa per dominare le classi subalterne.  Insomma il sistema di produzione e di commercio, oltre ad essere necessario al profitto del capitale è anche mezzo di controllo e asservimento ideologico.

Anche alla luce di tutto ciò, è necessario affermare che non vi può essere una strada verso la sostenibilità ambientale senza il cambiamento del modello socio-economico, oggi rappresentato dal capitalismo finanziario. 

Alcune questioni da approfondire e su cui lavorare

Per quanto riguarda i temi più squisitamente ambientali:

  1. il modello agricolo con i problemi ad esso connessi (spreco di risorse, impoverimento sociale ed economico, sovranità alimentare). Va infatti ricordato che il modello agricolo occidentale è il settore produttivo che complessivamente produce la più alta quantità di impatti ambientali, economici e sociali;
  2. l’attenzione al prodotto e al suo ciclo di vita;
  3. la questione territoriale.

Ognuno di questi tre punti necessità di un approfondimento qui solo accennato.

Il modello agricolo

L’attuale modello agricolo non è solo insostenibile dal punto di vista ambientale, ma lo è anche dal punto di vista sociale. Il modello di agricoltura industriale, basata principalmente sulle grandi fattorie, sulle grandi industrie agroalimentari, e sull’intenso utilizzo di macchine e sostanze chimiche, si regge solo su due elementi: a) il relativamente basso costo dell’energia, b) la sottomissione e l’impoverimento di milioni di contadini nel mondo.
Infatti, da una parte, la produzione di cibo e bevande è il settore di consumi responsabile della maggior quota di impatti ambientali. Ad esempio nell’europea a 27, i tre settori con i maggiori impatti ambientali sono i seguenti tre che producono circa il 75% degli impatti totali: alimenti 31%, edilizia  23,5%, trasporti 18,5%, mentre tutti gli altri settori producono il restante  27%.
D’altra parte va, ancora una volta sfatato il mito della industrializzazione dell’agricoltura. Siamo passati attraverso alcune tappe dalla cosiddetta “rivoluzione verde” degli anni ’60 del secolo scorso, alla cosiddetta “agricoltura di precisione”. Tali rivoluzioni, oggi come un tempo, sono basate sull’assunto che: grazie all’applicazione industriale di tecnologie di vario tipo (ultima delle quali è quella dell’utilizzo di organismi geneticamente modificati), fosse possibile produrre abbastanza cibo per dare da mangiare a tutti gli abitanti del mondo. Naturalmente tutto ciò senza dire che il principale scopo di tali processi è, ancora una volta, il dominio ed il controllo da parte di pochi miliardi di persone (produttori e consumatori). Ciò attraverso vari strumenti (brevetti, sistemi di logistica, mezzi di comunicazione, pubblicità. Oggi, mentre il numero delle persone denutrite continua non accenna a diminuire (anzi, a causa della crisi climatica e delle guerre che attraversano il mondo è destinato ad aumentare), è possibile affermare che gli affamati sono tali, non perché non c’è abbastanza cibo, ma perché sono così poveri che non possono comprarselo. Queste persone sono così povere anche grazie al modello agricolo che viene imposto in tutto il mondo da poche grandi compagnie agroindustriali. Peraltro, come ben noto, a causa di questo modello socio economico, il numero di contadini costretto a lasciare le campagne per andare a popolare le bidonville delle megalopoli del terzo mondo continua a crescere.

I danni dal punto di vista ambientale, ad esempio per quello che riguarda la fertilità dei suoli, non riguarda soltanto i territori dell’Amazzonia dove si distrugge la biodiversità e la possibilità futura del suolo di produrre cibo, al fine di produrre soia che viene trasformata in mangimi da convertire i polli gonfiati e maiali sempre più magri, ma riguarda anche i nostri territori, dove, ad esempio, milioni di ettari vengono convertiti a mais per lo stesso motivo, provocando ingenti danni al sistema idrico e impoverendo i suoli. Ma anche dal punto sociale, pure da noi., le cose non vanno bene Infatti, a parte alcune esperienze ancora di nicchia, anche in Italia, il modello agricolo imperante produce guadagni solo per pochi, a scapito di molti e soprattutto a danno dell’ambiente.

Un nuovo modello agricolo e un nuovo modello di consumi alimentari, basato sulla sovranità alimentare e sulla sostenibilità (ambientale, sociale ed  economica) potrebbe divenire, anche in Italia, una importante opportunità di valorizzazione del territorio, di occupazione e di produzione di cibo sano e benessere.

Attenzione al prodotto

Una riflessione su come il possesso di beni, qualifichi la percezione di “benessere” suggerisce la necessità di una maggiore attenzione al prodotto, sia come elemento che lungo il suo ciclo di vita (utile a questo scopo sarebbe una seria LCA (Life cycle assessment) applicata a molti prodotti e servizi) produce impatti di vario tipo (sociali, ambientali, economici, sanitari), sia come elemento che può o meno rispondere ai bisogni reali delle persone.

Una premessa necessaria a questo proposito riguarda la necessità superare un’impressione sbagliata che molti cittadini hanno sui modi e i luoghi in cui si producono gli impatti ambientali. Oggi i principali impatti ambientali non sono più solo nei grandi impianti industriali nel momento della produzione, ma sono lungo tutto il ciclo di vita del prodotto e spesso nelle fasi di uso e smaltimento.
Diventa quindi utile comprendere che attraverso l’attenzione e lo studio di quello che avviene durante il ciclo di vita dei prodotti è possibile intervenire per :

  • ridurre le diverse criticità (sicurezza, ambiente, rispetto delle regole sindacali) migliorando la qualità complessiva del prodotto costituendo così un diverso presupposto di competitività;
  • entrare nel merito della formazione dei prezzi (avvicinando cittadini produttori e cittadini consumatori, regolando la catena di distribuzione, e definendo il prezzo giusto, comprensivo delle esternalità).

Ma grazie ad una maggiore attenzione al prodotto è anche possibile valutare e fare delle scelte sul tipo di prodotto o servizio realmente necessario a soddisfare esigenze reali.

Il secondo aspetto del tema “prodotti” riguarda la capacità di individuare bisogni effettivi e di capire se e come questi bisogni sono realmente soddisfatti da alcune categorie di beni o se è necessario trovare altri strumenti e/o altre modalità (servizi collettivi) capaci di soddisfare questi bisogni.

Non va, infatti, dimenticato che la produzione di un bene (più o meno materiale) non esiste oggi in funzione dei bisogni di un soggetto collettivo, ma in funzione del saggio di profitto e, quindi, le esigenze del consumatore sono rilevanti per il mercato solo quando rispondono a due presupposti:

  • si trasformano in una domanda di mercato;
  • vi è una determinata disponibilità a pagare da parte di qualcuno (il singolo consumatore in particolare).

Questo comporta varie conseguenze tra cui che:

  • la collettività di cittadini è trasformata in singoli consumatori;
  • la produzione di beni non si arresta quando i bisogni della collettività sono soddisfatti, ma quando il tasso di profitto lo impone;
  • il mercato, mentre promuove prodotti magari inutili, fa “fatica” a soddisfare alcuni bisogni meno appetibili nella logica del profitto.

A molti di quei bisogni non soddisfatti era chiamata a rispondere la collettività attraverso la pubblica amministrazione, ma oggi ciò è diventato più difficile sia per motivi politico economici (spesa pubblica, che per motivi solo politici (vedi il tema mercato/Stato/profitti per i privati).
È quindi indispensabile anche da questo punto di vista iniziare con una riflessione che parta dal consumo, piuttosto che dall’impresa, considerando prioritario capire come valorizzare il ruolo dei cittadini, individuando il loro effettivi bisogni ed il modo per soddisfarli avendo cura di ridurre al minimo il consumo di risorse e le emissioni inquinanti e, soprattutto, le ricadute socio economiche a livello globale.

La questione territoriale

L’Italia è un paese con una delle più alte diversità ecologica e naturale, e con una delle più alte diversità culturali. Ciò ha portato l’Italia ad avere uno dei più bei paesaggi del mondo, oltre la metà del patrimonio artistico del mondo, e, non secondario, una delle più importanti e vaste culture gastronomiche del mondo.
Anche per questi motivi, ma non solo, l’approccio territoriale è l’approccio cardine che va sviluppato.

Sia perché è sul territorio che si compiono molte aggressioni all’ecosistema e alla qualità della vita  delle persone.  Sia perché, soprattutto per un paese come l’Italia, il territorio è storicamente e naturalmente la ricchezza da cui partire per rilanciare processi atti a migliorare la qualità della vita,  migliorare la qualità dei servizi, migliorare la qualità del lavoro e rendere i frutti del lavoro più utili  alla collettività e meno impattanti sull’ambiente.
Innanzitutto va ricordato che è sull’utilizzo del territorio che si sono concentrati, le azioni di  rapina. Il settore immobiliare in Italia in questi ultimi decenni è quello che, da un lato ha fatto i maggiori guadagni a spese dei cittadini che si sono indebitati e sono stati buttati fuori dalle città e, dall’altro,  è il  settore che, probabilmente, ha causato i maggiore impatti ambientali (sia direttamente con la distruzione del territorio, sia indirettamente causando l’aumento della mobilità).

Peraltro, sino ad oggi, il settore delle costruzioni, rimane il settore con la più bassa innovazione tecnologica, con la più alta quota di lavoro nero e con la più alta incidenza di incidenti sul lavoro. Tale situazione è anche un elemento che si riflette negativamente sulla capacità e la volontà dell’industria italiana di investire sulla ricerca e l’innovazione.
Ma, probabilmente, ancor più che nella fabbrica, è, sul territorio è stata sconfitta la capacità delle collettività locali (cittadini ed istituzioni), di progettare il futuro e governare nell’interesse della collettività, invece che nell’interesse di privati.
Bisogna partire da questo elemento, sia per ridare un senso alla politica e all’impegno sociale, sia per ripensare ad un modello produttivo più sostenibile ambientalmente, socialmente ed  economicamente.

Occuparsi, quindi, del territorio, non solo difenderlo dalle aggressioni che subisce, ma anche per ricostruire le relazioni sociali e la capacità di agire collettivo, per ricominciare ripensare a come incidere positivamente sul modello produttivo.
Se il territorio e le collettività che vivono in esse sono perdono importanza si penserà solamente a politiche di sostegno alle imprese e il costo della crisi lo pagheranno i lavoratori e i cittadini.

All’estremo opposto, può esistere un percorso di sviluppo più propositivo, che, ripartendo dal territorio, ne valorizza la ricchezza del tessuto economico-sociale favorendo un migliore coesione sociale, una più attenta progettualità produttiva e una maggiore qualità dei prodotti e dei servizi.
In sostanza, se non si lascia solo ad altri la scelta sul che fare e sul come fare, è possibile ricominciare ad intervenire come collettività sull’uso del territorio, sul controllo delle filiere di produzione, sulle modalità della produzione e sulla qualità dei prodotti.
In sostanza, il territorio va visto come luogo dove:

  • valorizzare il processo partecipativo;
  • far emergere gli interessi collettivi;
  • realizzare il confronto tra chi rappresenta gli interessi collettivi e gli altri portatori di interessi;

È sul territorio che va ricostruito il ruolo degli amministratori e delle istituzioni per

  • attuare il controllo su ciò che avviene, ed essere i garanti dei diritti collettivi e di percorsi di sviluppo armonico delle collettività locali;
  • dar senso e valorizzare le reali esperienze di innovazione sociale che già sono presenti nel paese (va ricordato che, anche se molto indebolite, esistono ancora molte esperienze di innovazione sociale e culturali che si occupano di cose che vanno dalle comunità energetiche, alle esperienze di tutela del territorio, di inclusione sociale, e progetti di nuova economia);
  • per indirizzare e valorizzare la qualità delle attività produttive, sia per offrire maggiori possibilità di lavoro, sia per difendere il territorio e l’ambiente. A questo livello (livello locale) è probabilmente più facile promuovere e valorizzare (anche dal punto di vista culturale) esperienze di nuove economie che promuovono il riuso e la riparazione, che favoriscono produzioni locali.

Certamente tutte cose facili da dire ma difficile a farsi!

Territorio ed attività produttive

Una riflessione che mette insieme territorio e struttura produttiva è strategica, sia per costruire una proposta per un nuovo modello produttivo, sia per ripensare alla ricostruzione di una nuova coesione sociale.
Il modello dalla grande fabbrica, come luogo principale dove costruire coesione sociale, solidarietà ed impegno politico, non tiene più, sia a causa della globalizzazione, sia a causa della mancata capacità di discutere di: ”cosa e come produrre”. Ciò vale in particolare se si pensa al modello FIAT che lascia al paese una pesante eredità. La necessità di questa riflessione e motivata anche dal fatto che una struttura produttiva (industriale ed agricola) è indispensabile ad un paese, anche da punto di vista della coesione sociale. Lasciare che l’Italia diventi sempre più il paese del commercio, dei servizi o del turismo è negativo sia per gli aspetti sociali che per quelli economici. Dobbiamo, quindi, riflettere e cercare di intervenire sulle questioni dell’industria e dell’agricoltura.
Per quanto riguarda il settore industriale italiano, la crisi che sta attraversando può essere ricondotta, oltre che ai motivi di carattere globale, anche alla tendenza ad una politica, per così dire di “retroguardia”, che mira a fare guadagni sullo sfruttamento di rendite del passato e non a scommesse sul futuro (la tutela ambientale viene considerata ancora una passività, il costo del lavoro è ancora uno dei  temi su cui sono concentrati quasi tutte le attenzione dei nostri industriali).
Le nostre imprese, salvo alcuni casi particolari, soffrono di una scarsa propensione e permeabilità all’innovazione tecnologica e operano spesso in settori a basso valore aggiunto, oggi sempre più vulnerabili rispetto alla competitività esterna e alle variazioni di prezzi sui mercati internazionali. Forse il settore dell’edilizia rappresenta il caso più emblematico di questa situazione.
A tutto ciò va aggiunto che si può affermare che, da almeno un trentennio, non esiste una politica industriale-agricola governativa capace di pianificare mettendo al centro gli interessi delle collettività.

Su questi nodi si intreccia la questione del territorio. Infatti, un altro fattore di debolezza del nostro sistema produttivo è la difficoltà di creare sinergie tra industria, terziario, ricerca e pubblica amministrazione a causa di una scarsa abitudine alla collaborazione e al confronto tra entità differenti. In particolare spesso la nostra PA soffre di una scarsa capacità progettuale e di una difficoltà a mobilitarsi attorno a obiettivi comuni a favore della collettività e a creare sinergie con il territorio.
Insomma la nostra PA ha rinunciato a governare i processi.

È utile a questo proposito una riflessione sul tema dei distretti industriali o sulle aree a vocazione turistica, sia per capire l’importanza di alcune problematiche, sia per costruire proposte di lavoro.
I distretti industriali costituivano un tratto caratteristico della struttura produttiva italiana, non  soltanto per il loro peso sull’industria del Paese, ma anche in quanto rappresentavano una soluzione  organizzativa originale che coniuga la ridotta dimensione aziendale con una forte capacità  organizzativa e innovativa. I distretti industriali hanno trainato per lungo tempo le buone prestazioni di un’industria italiana dominata da soggetti di piccole dimensioni e specializzata in beni considerati tradizionali o maturi (tessile-abbigliamento, calzature, mobili, piastrelle, meccanica leggera), ma anche di settori più innovativi come il medicale. Negli ultimi anni, in un quadro di cambiamento dell’ambiente competitivo, i distretti industriali italiani sembrano, tuttavia, in difficoltà. A partire dalla metà degli anni ‘90 condizioni di cambio meno favorevoli, unitamente ad un contesto competitivo internazionale divenuto più complesso (in primis per le pressioni competitive esercitate dalla Cina sulle produzioni tipicamente distrettuali), hanno frenato i distretti che non sono più riusciti ad ottenere prestazioni migliori rispetto alle aree non distrettuali nei medesimi comparti di specializzazione.
A tutto ciò va aggiunto che per la forte dipendenza di molte piccole e medie industrie del nord Italia dall’industria tedesca (soprattutto la Lombardia lavora producendo semilavorati e componenti per l’industria tedesca), la situazione economia della Germania rappresenta un grave problema per i nostri produttori del nord!
Ma la cosa che, probabilmente, ha pesato molto, è stata la perdita di sintonia con il territorio.

Infatti, la centralità del territorio, fondante delle forme organizzative dei distretti e dalla capacità di sfruttare le conoscenze tacite, il “saper fare”, le professionalità dei lavoratori, può essere influenzata positivamente o meno a seconda delle risposte che collettività locali ed imprese danno a queste. A questo si deve aggiungere l’effetto non sempre positivo, per il modo con cui viene fatta, dell’introduzione delle tecnologie informatiche nei processi produttivi.
Naturalmente in questi fatti sono tutt’altro che secondari gli effetti che si sono avuti per le condizioni di lavoro e le condizioni salariali!

Se la risposta delle imprese del distretto al nuovo contesto mondiale è difensiva e si limita solamente a ricercare costi del lavoro più contenuti tramite processi di delocalizzazione o esternalizzazione produttiva, il territorio perde importanza, e comunque, chi ne risente maggiormente sono i lavoratori. All’estremo opposto, esiste un percorso di sviluppo più propositivo, che non abbandona il territorio, ma riparte proprio da esso, valorizzando la ricchezza del tessuto economico-sociale, che alimenta poi le economie esterne e i vantaggi localizzativi dei distretti spingendo verso una maggiore qualità dei prodotti e una migliore coesione sociale del territorio.
Ciò serve a valorizzare la qualità ambientale, e sociale dei processi produttivi (industriali ed  agricoli) attraverso un accurato controllo collettivo all’intera catena di produzione in grado di  valutare sia i modi con cui vengono impiegati i lavoratori (attenzione alla sicurezza, ai diritti, ecc..),  sia le modalità della produzione che la qualità dei prodotti.

Discorsi simili possono essere fatti per quanto riguarda le attività legate al turismo, che sono una importante risorsa del nostro paese, ma nel contempo, per i modi con cui vengono svolte, sono fonte di rilevanti impatti ambientali, senza neppure portare vantaggi economici e sociali per le  collettività locali.  Va sottolineato in proposito che al di là di problemi strutturali e organizzativi rilevanti, quali, per l’appunto, l’assenza di una strategia unitaria sul territorio che punti alla promozione unitaria del territorio nazionale e alla diversificazione delle offerte in esso presenti, l’aspetto qualità dell’offerta turistica, è una delle chiavi del rilancio del settore. Componente rilevante della qualità è la qualità ambientale dell’offerta e la sostenibilità nel rapporto tra servizi turistici e territorio.
Grazie a una maggiore rapporto tra territorio, collettività locali e turismo, questo si presta ad esercitare un effetto moltiplicatore del proprio peso sulla sostenibilità, grazie all’interazione diretta che si esercita tra territorio/aziende turistiche e i loro fornitori/turisti/consumatori.

In sostanza attraverso un serio approccio territoriale è possibile valorizzare le attività che puntano all’integrazione dei modelli produttivi locali (ad esempio agricoltura di qualità e turismo), difendendo la qualità del territorio, fornendo ulteriore occasione di lavoro e di reddito per molti cittadini.

Su questi temi molto deboli o addirittura assenti sono state le attenzioni del sindacato e delle forze politiche della sinistra!

Infine ma non secondario va sottolineata la cronica mancanza di attenzione e volontà di concentrarsi sulla cura del territorio. Un esempio ultimo di questo è il taglio delle risorse del PNRR destinate alla sistemazione idrogeologica.
A questo proposito vale la pena di ricordare che in vecchi studi di alcuni anni fa stimava che con la media di spesa annua per la tutela del territori degli ultimi decenni ci vorrebbero cento anni per dare una sistemata effettiva al territorio nazionale, mentre si stima che ci vorrebbe un spesa di almeno cento miliardi nei prossimi dieci anni per ridurre sensibilmente i rischi idrogeologici. ( senza parlare dei rischi sismici). Ma, sempre secondo le stime, potrebbero trovare occupazione circa 100/150.000 persone l’anno, e il risparmio sui costi per rimediare ai danni provocati dalle catastrofi ambientali, potrebbe essere paragonabile, se non maggiore della spesa per le azioni di tutela. Ciò naturalmente con una diversa politica di gestione del territorio (in primo luogo, con la fine della cementificazione selvaggia!)

Per riassumere le cose sin qui dette in modo un po’ confuso i punti su cui concentrare la nostra riflessione e le proposte di lavoro sono i seguenti:

  • una riflessione sul significato di alcuni termini (sviluppo, decrescita), anche in relazione ad alcune riflessioni marxiane sulla natura, sulla riduzione della produttività dei suoli e sulla caduta del saggio di profitto;
  • la necessità realizzare effettivamente la transizione energetica, non solo per la eliminazione dell’uso delle fonti fossili, ma anche del superamento della produzione energetica fondata si grandi impianti a tecnologia complessa, a favore di impianti più diffusi sul territorio e più facilmente e democraticamente gestibili;
  • la necessità di legare il più possibile le varie produzioni al territorio e alle collettività locali, intervenendo per razionalizzare le modalità produttive, di trasporto e di commercio delle merci. Il legame con il territorio potrebbe essere lo strumento più efficace per effettuare la transizione perso un sistema di produzione e consumo, più “sobrio” e più razionale che consuma meno risorse, che privilegia il riuso e la riparazione rispetto al consumo “usa getta” di prodotti spesso inutili;
  • garantire un forte impegno risorse per la cura del territorio e per la gestione democratica dei beni comuni. Naturalmente contrastando i processi di privatizzazione, e di cementificazione del suolo;
  • una rivoluzione dei modelli di trasporto di merci e persone.

Al fine di ottenere risultati positivi rispetto ai punti prima elencati, va fatta un riflessione accurata sul rapporto che ci deve essere tra la definizione di una politica di governo nazionale e la realizzazione e gestione di azioni a livello locale. Ciò anche alla luce di quello che si profila con l’autonomia differenziata, o con la citata assenza di una politica governativa dei passati decenni.

Queste brevi note, per suggerire come una sinistra nuova non può più limitarsi alla ricerca di vertenze territoriali da supportare e cavalcare, ma deve essere capace, nello stesso momento, di discutere e progettare nuovi orizzonti, senza rinunciare all’idea di pianificare un impegno di medio periodo sul territorio e sulle questioni che hanno una ricaduta immediata sulla vita di tutti i giorni dei cittadini / lavoratori. Questioni che riguardano, per l’appunto, la qualità della vita, il lavoro e la tutela dell’ambiente.

Questi temi, uniti ad un indispensabile rilancio dell’impegno per la pace, contro tutte le guerre (quelle combattute con le armi e quelle combattute con le operazioni finanziarie) dovrebbero caratterizzare il lavoro di ricostruzione di una sinistra per l’Italia e non solo.

Riccardo Rifici

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