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“Guardiano, a che punto è la notte?” (parte seconda)

di Franco
Ferrari

Nella prima parte di questo articolo abbiamo cercato di individuare i vari aspetti dell’attuale crisi di quello che abbiamo chiamato “ordine imperiale liberale” e come questi elementi siano tra loro collegati e intrecciati. Per questo risulta riduttiva un’analisi che metta al centro solo la dimensione “geopolitica”, ovvero quell’insieme di interessi e di azioni che identificano come attori solo gli Stati e non le diverse forze sociali che li attraversano (classi, movimenti, ecc.) e che fanno sì che essi non possano essere considerati soggetti omogenei. Se si analizza l’intreccio dei vari aspetti (rapporto tra gli Stati, globalizzazione, assetti democratici, relazioni tra le classi) si può parlare dell’esistenza di una “crisi organica” del sistema, rispetto alla quale i vari soggetti statuali e non si trovano a dover prendere posizione nel senso di uno sviluppo positivo o verso una regressione ad assetti preesistenti (che siano una nuova guerra fredda a guida imperiale o una permanente contrapposizione di attori nazionali in un mondo privo di regole e dominato dall’esercizio della forza).

A partire dal passaggio di millennio e parzialmente superato lo shock determinato dal crollo del blocco socialista, abbiamo assistito all’emergenze di movimenti che si sono posti in contrasto o in alternativa all’assetto mondiale dominante. Schematizzando molto un processo ben più complicato, si possono individuare due spinte fra loro decisamente diverse, che hanno cercato di dare soluzione alle contraddizioni emerse nel sistema mondiale guidato dagli Stati Uniti (capitalismo liberista globalizzato).

A sinistra abbiamo avuto fondamentalmente il movimento altermondialista nato a Seattle nella contestazione del WTO (l’organizzazione mondiale del commercio) che si è poi consolidato per alcuni anni nella formazione dei vari social forum. Questo movimento ha visto la convergenza di forze sociali diverse, sia tradizionali (i sindacati dei lavoratori) sia nuove (ambientalismo, femminismo, ecc.). La sua forza ha avuto una indubbia influenza nell’avviare la stagione dei governi progressisti dell’America Latina. Ma nell’insieme è stato sconfitto e non è riuscito ad incidere in misura significativa sui rapporti di forza globali né a determinare con chiarezza i possibili contenuti di un cambiamento strutturale. D’altra parte esso stesso non ha sciolto un’ambiguità che era presente fin dal suo sorgere tra la prefigurazione di una globalizzazione alternativa e la necessità invece di invertire la tendenza in atto inserendo meccanismi di de-globalizzazione e di ritorno ad una dimensione territoriale più ristretta.

Questa ambiguità si è espressa anche nelle diverse denominazioni che sono state attribuite al movimento (dagli osservatori come anche dai partecipanti) essendoci una significativa differenza tra il definirlo “no-global” o battezzarlo come “altermondialista”.

Il movimento che si è espresso nei Forum sociali e che ha avuto due momenti decisivi a Seattle e a Genova ha poi alimentato la mobilitazione mondiale contro la guerra in Iraq, al punto da essere definito, in un articolo del New York Times spesso citato, come la “seconda potenza mondiale”. Valutazione fin troppo generosa ma che sottintendeva anche un fatto inedito, che essendo i poteri mondiali tra loro integrati e allineati, l’unica alternativa poteva nascere dal basso, da un soggetto globale non statuale.

Si possono considerare queste due facce di un unico movimento ma non c’è dubbio che entrambi sono risultate sconfitte. La globalizzazione capitalista è proseguita senza particolari intralci almeno fino alla crisi interna apertasi con il fallimento di Lehman Brothers e la guerra in Iraq è stata messa in atto dagli Stati Uniti senza che l’opposizione emersa nell’opinione pubblica mondiale producesse alcun ripensamento.

Il punto di forza del movimento altermondialista è stata la sua dimensione globale e internazionalista nel senso migliore del termine, ma non si è posto adeguatamente il tema del potere e di come modificare concretamente i rapporti di forza in un ambiente diventato più complesso. Non ha chiarito il giudizio di fondo sulla globalizzazione e non ha sufficientemente sviluppato una visione alternativa al modello di sviluppo dominante.

Questo movimento è stato sconfitto, ma tutte le contraddizioni che ne avevano determinato la nascita sono rimaste in campo e per alcuni aspetti si sono andate aggravando, in particolare le diseguaglianze sociali che hanno consolidato la formazione di una oligarchia economico-finanziaria globale.

La seconda reazione si è espressa in movimenti di tipo populista e nel rilancio di un nazionalismo a base etnica. La contrapposizione basso contro altro, presente nel movimento altermondialista, è in parte confluita nella lettura populista del conflitto (nel quale si dissolveva l’elemento classista) e la sua trasformazione in una dimensione moralistica di conflitto tra bene/male (popolo buono/ élite malvagia). Questa è andata di pari passo al tentativo di rinazionalizzare il conflitto sociale, spesso anche fondando il nazionalismo (che in un’altra fase storica ha avuto una funzione progressiva nel processo di costruzione degli Stati nazionali e di superamento dei residui feudali) su una connotazione etnica, che presuppone la riaffermazione o la riconquista di identità storicamente immutabili. Identità per altro per lo più in larga parte “immaginate” se non immaginarie. Fondate su ricostruzioni storiche spesso del tutto inventate, proiettando in un lontano passato ciò che in buona parte è solo costruzione recente.

Il nazionalismo reazionario presuppone non solo l’essenzialismo delle identità ma anche la loro definizione attraverso la costruzione del nemico, via via ridefinito nei diversi momenti sulla base di differenze religiose, contrasti geopolitici radicati nel passato storico o rinverdendo contrasti ideologici. Attorno al rilancio del nazionalismo a base etnica si sono potute manipolare le paure legate ai processi migratori, costruire unità interclassiste che dirottano i conflitti sociali interni nella comune avversione verso il nemico esterno, ecc. Collegata a questi aspetti vi è una visione tendenzialmente autoritaria del sistema politico, presupponendo che il “popolo”, etnicamente definito, non possa che essere politicamente omogeneo e l’eventuale dissenso o prospettiva alternativa non possa che essere introdotta dall’esterno, dal “nemico”.

Crisi della globalizzazione capitalista, sconfitta del movimento di carattere universalista che ha cercato di segnalarne e correggere le contraddizioni ed emergere di spinte etno-nazionaliste regressive sono quindi elementi essenziali che hanno portato all’attuale congiuntura.

L’Ucraina terreno di conflitto tra due progetti nazionalisti

In questo scenario globale si può valutare il conflitto russo-ucraino secondo i diversi punti di vista dei soggetti in campo.

Innanzitutto vi è quello dell’Amministrazione statunitense al quale si è accodata la classe dominante dell’Europa occidentale (Germania, Francia, ecc.). Sarebbe in corso un attacco esterno all’ordine imperiale liberale da parte delle forze “autoritarie” ed è quindi necessario attivare un conflitto fortemente ideologizzato secondo uno schema largamente mutuato dalla guerra fredda (mondo libero contro dittature). Questo conflitto deve avere una guida indiscutibile, gli Stati Uniti, e basarsi su una serie di alleanze politico-militari, riattivando quelle esistenti (la NATO) e costruendone di nuove dove serve (in Asia). In questa lettura confluiscono vari materiali ideologici: la lettura manichea dei conflitti (buoni contro cattivi), il messianismo americano (il “destino manifesto”) che sono evidentemente anche espressione di concreti interessi materiali del capitalismo americano.

L’ex ministro degli esteri polacco, esponente del partito di destra al potere a Varsavia, ha sintetizzato molto lucidamente alcune delle possibili implicazioni che questa visione potrebbe avere sulla specifica vicenda ucraina e sulle sue conseguenze di lungo periodo. Avvio di una nuova “guerra fredda”, conflitto con la Russia di lungo periodo, non superabile con la fine del conflitto in Ucraina. Possibilmente questa guerra dovrebbe durare molto tempo, chiedendo agli ucraini di sacrificarsi per la causa comune, per indebolire militarmente, economicamente e politicamente la Russia. Per perseguire questo disegno è possibile che ci debba scontrare con Germania e Francia. In questo modo si tornerebbe a quello scontro tra la “nuova” Europa, sostenuta da Washington, e la “vecchia” ancora troppo titubante nel mettersi l’elmetto e fondamentalmente sempre “panciafichista” perché interessata solo ai benefici economici.

Per gli Stati Uniti questo scenario avrebbe il vantaggio duplice di indebolire significativamente la Russia per poter concentrare le proprie forze nel conflitto con la Cina (e per raggiungere questo obbiettivo si chiede bizzarramente l’aiuto della Cina stessa) oltre a rimuovere qualsiasi velleità di autonomia dell’Unione Europea.

Se guardiamo ai soggetti direttamente impegnati nel conflitto militare vediamo l’emergere di due progetti nazionalisti in cui si sono impegnate le rispettive direzioni politiche. Due progetti che competono nello stesso territorio.

A Kiev, dopo Maidan nel 2014, è prevalsa una lettura esclusivista dell’identità ucraina. Questa impone l’ucrainizzazione forzata della minoranza russofona, la reinvenzione della storia eliminando qualsiasi riferimento all’Unione Sovietica, comprendendo in questo anche il ruolo che i sovietici hanno svolto nella lotta al nazifascismo, la rivendicazione della continuità dello Stato ucraino con le forze collaborazioniste del nazismo. Questo revisionismo storico si è tradotto in una serie di azioni politiche concrete che vanno dall’abbattimento delle statue che ricordano l’azione dell’Armata Rossa alla cancellazione dei nomi di centinaia di paesi e cittadine, alla riduzione del ruolo del lingua russa, alla esaltazione dei principali esponenti del collaborazionismo durante il conflitto mondiale, benché questi si fossero macchiati di importanti crimini contro le minoranze (ebrei, polacchi) e contro gli oppositori del nazifascismo.  Gli storici dello sterminio degli ebrei ricordano come ad un certo punto le Einsatzgruppen tedesche decidessero di dedicarsi all’eliminazione degli adulti, lasciando la fucilazione dei bambini alla volonterosa collaborazione degli ucraini nazionalisti.

I gruppi dirigenti ucraini, dopo il 2014, hanno scelto di perseguire la radicalizzazione del conflitto etnico interno (trattando la ribellione della minoranza russofona del Donbass come atto di terrorismo) in questo sostenuti soprattutto dalla amministrazione americana ai tempi di Obama e di Biden. Il progetto nazionalista interno che ha disarticolato i difficili equilibri di un Paese storicamente di frontiera fra mondo russo e Europa centrale ha accettato di fare dell’Ucraina terreno di scontro tra contrapposte logiche di potenza anziché di avvicinamento e di mediazione.

Particolarmente attivo in questa prospettiva il Presidente ucraino Poroshenko, che pure dovette accettare gli accordi di Minsk, sconfitto alle elezioni presidenziali dall’improvvisato populismo di Zelensky. Il quale è stato eletto, oltre che su una piattaforma anti-corruzione e su promesse (in qualche caso mirabolanti) di raddrizzamento economico del Paese, anche in una prospettiva di pacificazione interna. Il guaio per gli ucraini è che le sue scelte concrete si sono sempre più allontanate dalle promesse elettorali. Oggi si presenta come l’eroe della resistenza, ma forse una volta finito il conflitto (speriamo presto) qualcuno gli dovrà chiedere conto di aver portato il paese e il suo Paese ad un disastro forse evitabile.

Dal lato russo della frontiera è emerso un altro e contrastante progetto nazionalista, quello di Putin. Era inevitabile che la Russia, dopo il decennio di Eltsin, cercasse di uscire dallo stato di sudditanza e riaffermasse una qualche idea nazionale che ne rilanciasse l’orgoglio e l’identità. Putin è stato espressione di questo desiderio diffuso nel popolo russo e questo gli ha consentito per un lungo periodo di avere un notevole consenso forse ora indebolito ma non svanito.

Dovrebbe essere del tutto chiaro che la visione del mondo di Putin ha un’impronta decisamente nazional-conservatrice. Il partito del potere, Russia Unita, che sostiene il presidente, benché non ne vada sopravvalutata l’omogeneità ideologica per il peso della corruzione e dell’opportunismo, si è comunque considerato un partito fratello delle nuove destre europee, come il Front National francese o la Lega italiana. Il sistema di Putin è caratterizzato da un capitalismo oligarchico largamente parassitario (gli oligarchi si appropriano della ricchezza senza preoccuparsi di produrla e fin che hanno potuto l’hanno portata all’estero), da una visione sempre più autoritaria nell’esercizio del potere politico e dalla ricerca di un ruolo internazionale più autonomo. Questo aspetto della sua politica lo ha portato in alcuni casi a contrapporlo agli interessi degli Stati Uniti. E quindi a svolgere, in misura assai più limitata, quel ruolo di contrappeso che ha avuto l’Unione Sovietica per alcuni decenni.

Nonostante questo e benché Putin abbia permesso un certo recupero di aspetti della storia sovietica (in particolare il ruolo svolto nella “grande guerra patriottica”) ciò non implica affatto che egli si collochi in continuità con la storia sovietica. I suoi referenti ideologici, anche se utilizzati in modo strumentale e a volte eclettico, sono collocati nel mondo della Russia pre-sovietica e dell’emigrazione bianca anticomunista.

Rispetto alla storia, i due progetti ideologici speculari (russo e ucraino) hanno necessariamente un atteggiamento molto diverso. La Russia è quella che celebra “la sacra guerra” come recita uno dei più popolari inni composti e diffusi durante la seconda guerra mondiale, mentre in Ucraina si intitolano stadi ai criminali di guerra complici del nazismo.

Questi progetti nazionalisti (quello grande russo di Putin e quella della identità ucraina depurata per legge dal suo intreccio con la storia russa e sovietica) possono essere condotti allo scontro permanente o a trovare una qualche forma di convivenza che si basi sul riconoscimento delle reciproche esigenze di sicurezza e anche del principio di autodeterminazione per quanto riguarda la politica interna.

I passi in avanti che in queste ore sembrano emergere dalle trattative possono andare in questa direzione. Un esito che veda Russia e Ucraina convergere su una qualche forma di trattato metterebbe in difficoltà le tendenze oltranziste, come quelle espresse dall’ex ministro degli esteri polacco sopra citato, presenti anche all’interno dell’Amministrazione statunitense e nel Regno Unito, che vedono come unica soluzione auspicabile la sconfitta e il tracollo della Russia. Tocca dare ragione a Erdogan quando afferma che per mettere fine alla guerra è necessario che nessuna delle parti si senta totalmente sconfitta. E questo, come si capisce dalla lettura della stampa occidentale, non a tutti piace.

Il ruolo della guerra nella risoluzione dei conflitti

Fuori dall’Europa e soprattutto in Medio Oriente molti hanno denunciato l’ipocrisia occidentale di fronte alla guerra in Ucraina e al modo in cui è stato affrontato (con la giusta generosità) l’afflusso di milioni di profughi.

Non siamo in presenza dell’inedito ritorno della guerra che invece non ci ha mai lasciato in questi decenni che ci separano dalla caduta dell’Unione Sovietica. Nemmeno il “cuore dell’Europa” è stato privato della visione di bombardamenti indiscriminati delle città, come ben hanno presente, e lo hanno ricordato proprio in questi giorni, i cittadini serbi e soprattutto quelli di Belgrado.

Il trentennio è stato scandito dalle guerre. Il primo conflitto in Iraq, l’ex Jugoslavia, l’Afghanistan, il secondo conflitto in Iraq, la Libia. Questo per ricordare solo le guerre di cui gli Stati Uniti e l’Occidente (anche noi) sono stati promotori e protagonisti. Quasi nulla di quanto ha messo in campo Putin nell’invasione dell’Ucraina, manca di precedenti nelle “nostre” guerre di questi decenni. Non solo il comportamento militare sul campo, che si tratti di bombardamenti di strutture civili (che nel nostro caso chiamiamo pudicamente “danni collaterali”) come la terra bruciata in intere città (Mariupol non ricorda solo Aleppo ma anche Falluja in Iraq), ma anche la razionalizzazione della guerra.

Nel corso degli anni abbiamo visto numerose teorizzazioni per giustificare la guerra. Non solo l’ossimoro della “guerra umanitaria”, ma anche la “guerra preventiva” o l’idea che esista una “R2P”, una responsabilità di proteggere per giustificare la violazione della sovranità nazionale a difesa di popolazioni soggette a repressione da parte dei propri governi. Si è rimesso in discussione il vincolo della sovranità nazionale, subordinato alle decisioni di una imprecisa “comunità internazionale” alla quale si è attribuita la possibilità di portare la guerra all’interno degli Stati.

Putin ha utilizzato analoghe argomentazioni per giustificare la propria invasione. Guerra “preventiva” di fronte ad un futuro pericolo derivante dal crescente inserimento dell’Ucraina del sistema militare della Nato e responsabilità di proteggere le popolazioni del Donbas di fronte al pericolo di genocidio messo in atto da parte dei “nazisti” di Kiev. Nemmeno l’idea di non chiamare “guerra” la “guerra” è del tutto originale. Per le “nostre” guerre si è inventata la denominazione di “operazione di polizia internazionale”. Lo stesso Napolitano spiegava nel 2002 sull’Unità che “le azioni dell’Onu non sono guerra”, mentre Tom Benettollo rispondeva sullo stesso giornale che “la terra è tonda, la guerra è guerra”.

L’indubbia ipocrisia della propaganda occidentale (che include in questi giorni anche l’impegno della stampa italiana nel mettere in atto il “Nazi-washing”, per legittimare il sostegno alle bande armate dell’estrema destra ucraina) va rilevata e denunciata, ma non può essere utilizzata per legittimare un opposto doppio standard. Non si possono utilizzare i crimini commessi dagli Stati Uniti in altre guerre per legittimare o giustificare quelli commessi da Putin in Ucraina.

La Costituzione italiana afferma che la guerra non dovrebbe essere lo strumento a cui ricorrere per la risoluzione dei conflitti tra gli Stati. Nei fatti questo principio, affermato alla luce della tragedia della seconda guerra mondiale di cui l’Italia fascista era stata promotrice al fianco della Germania nazista, resta largamente minoritario sulla scena internazionale. Abbiamo visto al contrario come si siano elaborate nuove teorie finalizzate a giustificare e legittimare le guerre.

Ci sono diverse ragioni politiche e non sono morali per opporsi a questa estensione della legittimazione della guerra come modalità ordinaria e sempre incombente di gestione dei conflitti tra gli Stati ma anche all’interno degli Stati stessi.

La prima rimanda alla presenza degli armamenti nucleari. E’ una riflessione non nuova, che è stata avanzata fin dagli anni ’50 e ad un certo punto, anche all’interno del movimento comunista internazionale, vi era chi sosteneva che la portata distruttiva degli armamenti atomici non era tale da determinare l’esclusione della guerra come momento possibile se non addirittura necessario del passaggio da un mondo capitalista ad un mondo socialista. Il cambiamento introdotto dalla guerra in Ucraina è che finora, gli altri conflitti militari avevano contrapposto gli Stati Uniti, in possesso di armamento nucleare, a Stati la cui potenza militare era molto inferiore o pressoché inesistente (malgrado le menzogne sull’Iraq di Saddam Hussein). In Ucraina si assiste invece al possibile coinvolgimento su entrambi i fronti di Stati in possesso di armamenti nucleari.

La seconda riflessione che ci propongono le guerre del trentennio è il fatto che esse non hanno portato a nuovi assetti statali, nonostante tutte le discussioni sul “regime change” o sul “nation building”, ma hanno in pratica prodotto degli “Stati falliti”. Lo si vede in Libia, in Iraq come in Afghanistan. Le guerre diventano endemiche e non producono mai i risultati che i promotori si sono prefigurati. Pensiamo a quanto siamo lontani dalla fantasia dei neoconservatori americani secondo i quali la guerra in Iraq doveva dar vita ad un “nuovo Medio Oriente” trasformato in una nuova oasi del capitalismo liberista. Progetto clamorosamente fallito.

La terza questione che emerge riguarda l’evoluzione delle forme dell’azione militare. Anche senza arrivare all’uso del nucleare si introducono armi sempre più potenti e distruttive o insidiose (si pensi al ricorso ai droni). Questo si accompagna alla privatizzazione dell’azione militare con le grandi compagnie di mercenari attive su molti scenari o al ricorso alla cosiddetta guerra ibrida che utilizza forme di conflitto non militare.

L’esigenza di un movimento anti-sistemico globale

Ci sono spinte forti perché dalla guerra in Ucraina si esca con un’ulteriore militarizzazione della politica a livello globale. Un processo che avrebbe conseguenze anche nell’articolazione dei conflitti politici e sociali all’interno dei singoli Paesi che verrebbero subordinati allo scontro tra campi ideologico-militari. Assisteremmo, più che la guerra come continuazione della politica con altri mezzi, alla politica come continuazione della guerra con altri mezzi.

Sembra evidente che per fronteggiare le contraddizioni che si intrecciano nell’attuale congiuntura e che abbiamo richiamato nella prima parte dell’articolo e per sottrarsi alla logica di guerra, occorrerebbe un nuovo movimento anti-sistemico universalista, di cui nel  movimento altermondialista del dopo-Seattle abbiamo visto qualche elemento ma anche importanti limiti.

Questo movimento non può essere subordinato al conflitto tra Stati. Non c’è un campo “progressivo” e uno “regressivo” con il quale schierarsi. Semmai ci sono due tendenze negative che influiscono in modi diversi in gran parte dei campi statuali: da un lato i promotori dell””ordine liberale imperiale” dall’altro i sostenitori di una visione etno-nazionalista e essenzialista dei conflitti.

Definito questo punto di discrimine con le tendenze che ripropongono modalità di schieramento “campiste”, anche solo accennare ai contenuti di questo “movimento anti-sistemico” e alle sue modalità di costruzione, andrebbe molto oltre lo spazio di questo articolo e anche alle competenze del sottoscritto. Si può solo accennare a due ambiti nel quale andrebbero superati i limitati del movimento nato a Seattle: la questione del potere e la definizione di una propria economia politica e quindi di un modello di sviluppo alternativo a quello dominante (e che attraversa e non divide i diversi campi geopolitici). Problemi non di poco conto ma ineludibili se vogliamo intravedere la fine di una lunga notte.

Franco Ferrari

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1 Commento. Nuovo commento

  • Franca laviosa
    31/03/2022 5:54

    Molto interessante.
    Buona trattazione delle tematiche oggi in campo che permette riflessioni oggettive.

    Rispondi

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