Dopo 12 anni ininterrotti al potere e tre vittorie schiaccianti consecutive alle urne, nelle elezioni generali del 3 aprile Viktor Orbán e il suo partito di destra Fidesz (uscito dal Partito Popolare Europeo prima di essere espulso nel 2020) devono confrontarsi per la prima volta con un candidato e un unico fronte dei partiti di opposizione, unito dal desiderio di spodestare Orbán. I sondaggi danno Fidesz in leggero vantaggio sulla coalizione, ma la guerra in Ucraina dell’amico Putin potrebbe costare cara a Orbán, mettendo fine al suo esperimento di “democrazia illiberale”.
Viktor Orbán e Fidesz contro il cartello dei partiti di opposizione
Domenica 3 aprile si tengono elezioni politiche generali in Ungheria e Viktor Orbán cerca di ottenere il quarto mandato consecutivo (il quinto in totale, dopo essere stato al governo anche dal 1998 al 2002), dopo 12 anni di ininterrotto potere1.
Orbán ha costruito legami particolarmente stretti con Putin negli ultimi dieci anni (come anche con la Cina2), fino ad esserne considerato il maggiore alleato nell’Unione Europea3. Il 1° febbraio era stato a Mosca per incontrare Putin e l’invasione russa dell’Ucraina – che per giorni la TV di Stato ha continuato a definire un’operazione militare russa e non una guerra – avrebbe potuto rivelarsi molto imbarazzante per lui, ma già da prima dell’aggressione russa e in vista delle elezioni ha assunto una posizione cauta e pragmatica sulla crisi ucraina. Una posizione che apparentemente è stata ben accolta dagli elettori del partito al governo Fidesz, in alcuni sondaggi dato in ascesa al 50%. L’azienda di sondaggi Median sostiene che tra gli elettori di Fidesz, il 37% crede che l’invasione russa dell’Ucraina sia ingiustificata, mentre il 43% che sia giustificata. Su tutto l’elettorato, le rispettive percentuali sono del 55% e del 28%.
Orbán ha condannato l’invasione russa, evitando critiche personali a Putin, ha cercato di opporsi alle sanzioni contro la Russia, sostenendo che avrebbero potuto causare l’arresto delle importazioni di energia. L’Ungheria ottiene il 95% del gas metano che utilizza dalla Russia e per questo si oppone al divieto di importazione di gas e petrolio russo (in questo insieme a Germania, Bulgaria, Italia e altri Stati membri dell’UE). Poco prima dell’invasione dell’Ucraina, Orbán ha definito il 2021 l’anno di maggior successo nelle relazioni tra Budapest e Mosca, grazie alle importazioni ungheresi del vaccino russo Sputnik contro il CoVid-19 e ad un nuovo accordo di fornitura a lungo termine di gas firmato il 15 ottobre4. Ma, ora la guerra della Russia contro l’Ucraina minaccia comunque uno delle più grandi promesse di Orbán agli elettori: gas e riscaldamento a buon mercato.
Orbán ha impostato la campagna elettorale come una scelta tra la pace e la stabilità che solo il suo partito Fidesz sarebbe in grado di offrire, con l’obiettivo di evitare che il prezzo della guerra sia pagato dagli ungheresi (e anche dalla numerosa minoranza ungherese – composta da alcune centinaia di migliaia di persone – presente nella regione della Transcarpazia in Ucraina occidentale), e un’opposizione da lui definita di sinistra (in realtà formata da un’alleanza di sei partiti assai eterogenei), che secondo lui trascinerebbe l’Ungheria nel conflitto. “Non permetteremo alla sinistra di trascinare l’Ungheria in questa guerra. Non permetteremo alla sinistra di fare dell’Ungheria un obiettivo militare, di prendere di mira gli ungheresi in patria e in Transcarpazia“, ha affermato Orbán in un suo discorso sul palco davanti al Parlamento ai partecipanti alla Processione per la Pace.
In vista delle elezioni politiche, i partiti dell’opposizione al governo-regime di Orbán hanno siglato un patto per presentarsi insieme. Il fronte Uniti per l’Ungheria viene ora dato al 32% da un sondaggio di Median, condotto a fine marzo dal sito web Hvg.hu, mentre Fidesz al 40%, con circa il 20% degli elettori ancora indecisi5. Il fronte comprende il nazionalista Jobbik, i liberali, i verdi, la Coalizione Democratica di centro-sinistra, i socialdemocratici. Ha già consentito di strappare a Fidesz l’amministrazione di Budapest, ora guidata da Gergely Karácsony, leader del partito verde Dialogo per l’Ungheria, e di altre grandi città ungheresi nel 2019. La presenza di un partito come Jobbik ha suscitato non poche perplessità dati i suoi trascorsi di formazione politica apertamente neofascista e antisemita. È vero che il partito negli ultimi anni Jobbik è stato scavalcato a destra da Fidesz (con le sue campagne antisemite, nazional-populiste autoritarie, e xenofobe contro i rifugiati non europei), per cui ha cercato di ricollocarsi su posizione di centro-destra maggiormente mainstream, perdendo le frange più estreme, ma resta una formazione politica quanto meno ambigua. La sua presenza è però considerata indispensabile per poter contare di accumulare i voti necessari a battere il partito di Orbán, che mantiene un forte consenso (ma non la maggioranza assoluta) soprattutto grazie al voto delle zone rurali. In un testo dal titolo “Garanzie per un cambio di epoca”, i sei partiti hanno elencato 13 punti che sperano consentiranno loro di sconfiggere Fidesz e di garantire “che nessuno in Ungheria possa minare il sistema democratico e lo stato di diritto” con “l’adesione a poteri illimitati”. Sebbene siano discordanti sulla tassazione, sono d’accordo su quattro principi fondamentali: democrazia, stato di diritto, economia di mercato e integrazione europea.
Le sei formazioni politiche hanno deciso di presentare un elenco unico di candidati in ciascuna delle 106 circoscrizioni del Paese, nonché un unico candidato per il posto di primo ministro, il centrista cattolico (padre di 7 figli) Peter Márki-Zay, fondatore del movimento civico L’Ungheria di Tutti e sindaco di Hódmezővásárhely, piccola città dell’Ungheria meridionale (che fino alla sua elezione nel 2018 risultava essere una roccaforte del Fidesz), che è stato scelto attraverso il meccanismo delle primarie (fra i due turni hanno votato oltre 850 mila persone). I precedenti tentativi di spodestare Orbán sono stati guidati principalmente da un’élite liberal/progressista delle grandi città, ma ora l’alleanza ideologicamente diversificata spera di sfruttare la crescente insoddisfazione per il primo ministro nel suo cuore rurale conservatore.
Márki-Zay ha promesso una gestione politica basata sulla solidarietà sociale al posto dell’incitamento all’odio tipico del governo Orbán, e una vita politica fondata sull’onestà e sulla trasparenza (“ripristinare lo stato di diritto“). Gli altri punti del suo programma riguardano la modifica della legge elettorale che, così com’è concepita attualmente favorisce Fidesz, una nuova costituzione, un sistema fiscale progressivo di tassazione e di riduzione dell’IVA sui prodotti alimentari di base, l’eliminazione della legge “omofoba” anti-LGBT e l’introduzione del matrimonio tra persone dello stesso sesso, l’adesione alla nuova Procura europea e l’entrata dell’Ungheria nell’eurozona appena possibile.
Nei suoi comizi Orbán ha detto: “Dobbiamo difendere i nostri interessi… Dobbiamo stare fuori da questa guerra“. Nessun ungherese può mettersi “tra l’incudine ucraina e il martello russo“. “L‘Ungheria è al confine dei mondi, qui non capiamo le guerre e non si combattono nel nostro interesse, e chi vince, lo perdiamo. L’Europa centrale è solo una scacchiera per le grandi potenze mondiali e l’Ungheria è solo una pedina su di essa. Se i loro obiettivi lo richiedono, ci sacrificheranno“, ha aggiunto.
Ha respinto le due richieste che il presidente ucraino, Volodmyr Zelensky, ha avanzato a lui personalmente e all’Ungheria in un pressante appello (“devi decidere con chi stai“): l’estensione delle sanzioni al settore energetico, di fatto bloccando il blocco di acquisto di gas e petrolio russi da parte dell’Unione Europea dato che serve l’unanimità per l’approvazione, e la consegna di armi a Kiev (ma non ha bloccato i finanziamenti dell’UE per l’acquisto delle armi per l’Ucraina), a differenza degli altri Stati della NATO confinanti con l’Ucraina (Polonia, Romania e Slovacchia), creando una crisi interna nel Gruppo di Visegrad6, già da tempo diviso al suo interno sul piano politico-ideologico (con la Repubblica Ceca e la Slovacchia che guardano alle altre democrazie liberali europee, mentre Ungheria e Polonia vanno nella direzione opposta). “La sicurezza del popolo ungherese è molto importante per noi, quindi non si può parlare di dispiegare truppe o equipaggiamento militare in Ucraina, ovviamente forniremo aiuti umanitari“, aveva detto Orbán il 24 febbraio. I manifesti elettorali affissi sui cartelloni pubblicitari intorno a Budapest sono quasi esclusivamente quelli di Fidesz e la maggior parte promettono di “proteggere la pace e la sicurezza dell’Ungheria“, anche se alcuni sono stati dipinti a spruzzo con la lettera Z, per ricordare agli elettori gli stretti legami di Orbán con Russia.
Le posizioni del leader dell’opposizione, il centrista Peter Márki-Zay, sono distorte dagli annunci politici di Fidesz, che affermano ripetutamente che “vuole inviare truppe ungheresi in Ucraina“, mentre Márki-Zay accusa Orbán di essere troppo intimo con Putin, di essere “lo scagnozzo di Putin in Occidente”, di servire gli interessi del Cremlino e di cercare di costruire in Ungheria uno stato “illiberale” simile a quello della Russia. “Orbán e Putin o l’Occidente e l’Europa: questa è la posta in gioco. Una scelta tra il lato oscuro o il lato buono della storia“, ha scritto sui social media Márki-Zay.
Se l’opposizione democratica utilizza slogan come “L’Ungheria non diventerà una colonia russa” e “Putin o l’Europa?“, l’estrema destra Nostra Patria cerca di conquistare elettori a Fidesz facendo una campagna contro le sanzioni alla Russia e qualsiasi dispiegamento di truppe NATO in Ungheria. In questo quadro, la posizione cauta e pragmatica di Orbán potrebbe avere successo, anche perché la guerra ha distolto l’attenzione degli elettori dall’aumento dell’inflazione e dallo sciopero degli insegnanti che chiedono salari più alti. D’altra parte, Orbán e Fidesz possono contare su un grande vantaggio finanziario sull’opposizione, sul controllo della maggior parte dei giornali cartacei e online (con un ampio budget propagandistico online) e delle TV (soprattutto di quella pubblica, M1)7 e sulla capacità di fare appello ai suoi elettori come i veri difensori della nazione, con una narrativa “pace e sicurezza“.
Per dare energia alla sua campagna elettorale Orbán ha cercato anche di invitare Donald J. Trump in marzo, da sempre uno dei suoi grandi ammiratori in ambito internazionale per la sua immagine di uomo forte e il suo controllo sulla politica ungherese8. Trump lo aveva ricevuto alla Casa Bianca con tutti gli onori nel 2019. Inoltre, per blandire il voto femminile, ha fatto eleggere alla presidenza della repubblica (una carica con un ruolo largamente cerimoniale) una donna, Katalin Novák, che per anni è stata vicepresidente di Fidesz e il ministro che ha gestito le politiche per la famiglia che avrebbero dovuto invertire il declino demografico in un Paese (con meno di 10 milioni di abitanti) con tassi di natalità tra i più bassi d’Europa, attraverso il sostegno economico per la classe media, compresi i sussidi per l’edilizia abitativa, i mutui per la casa sostenuti dallo Stato e i tagli alle tasse.
Soprattutto, negli ultimi mesi e ancora poche settimane prima delle elezioni, Orbán ha impresso un forte aumento alla spesa pubblica – di circa 5 miliardi di euro -, mettendo sotto pressione le finanze pubbliche (per cui dopo le elezioni del 3 aprile sarà necessaria una manovra finanziaria). Ha elargito 1,8 trilioni di fiorini (l’Ungheria non fa parte dell’Eurozona) di sgravi fiscali, tagli alle tasse (ad esempio, le persone di età inferiore ai 25 anni non dovranno pagare l’imposta sul reddito delle persone fisiche dal 2022), pensioni e aumenti dei minimi salariali, in una mossa che ha l’obiettivo di sostenenere il consenso elettorale per sé e Fidesz, ma che ha anche contribuito a spingere il deficit a 1.585 trilioni di fiorini a febbraio, metà dell’obiettivo del 2022.
Uno degli slogan della campagna di Orbán recita “L’Ungheria sta andando avanti, non indietro“, un riferimento al triste record di crescita economica dell’amministrazione guidata dai socialisti pre-Fidesz. Ma, l’aumento dei tassi di interesse (il 22 marzo la banca centrale li ha aumentati di 100 punti base), la svalutazione del fiorino, l’aumento dell’inflazione (quasi all’8%) e dei prezzi dell’energia (il blocco dei prezzi per limitare le bollette delle utenze domestiche, in vigore dal 2015, potrebbe costare fino a 1 trilione di fiorini nel 2022), il blocco dei prezzi di farina, olio di girasole, carne, zucchero e carburante, e il costo per l’accoglienza di oltre 350 mila profughi ucraini (pur continuando a rifiutare l’immigrazione), non solo di etnia ungherese (anche se l’aiuto che i rifugiati ottengono viene fornito quasi interamente da civili), stanno dissanguando le finanze pubbliche di un Paese che non ha avuto accesso ai fondi per 7,2 miliardi di euro del programma Next Generation dell’UE per la ripresa dalla pandemia da parte della Commissione Europea (sollecitata in questo senso anche da un gruppo trasversale di eurodeputati di sinistra e liberali) a causa del conflitto sugli standard democratici, i diritti delle minoranze, come quelli delle comunità Rom9, ebraica e LGBTIQ+10, le accuse di lunga data su frode, corruzione e nepotismo, la mancata indipendenza dei giudici11. Con Orbán che promette di continuare a sostenere le famiglie della classe media e i pensionati attraverso la spesa pubblica, il vero rischio per l’Ungheria riguarda il modo in cui le agenzie di rating del credito risponderanno ad un aumento del disavanzo rispetto al 4,9% previsto (dopo che nel 2021 è stato del 7,3% e nel 2020 dell’8%), probabilmente intorno al 7%.
L’economia ungherese e le politiche del governo Orbàn
Per vincere le elezioni Orbàn ha sempre seguito lo schema di espandere la spesa pubblica, distribuendo sussidi, esenzioni, aiuti e mance al suo elettorato. In vista delle elezioni dell’8 aprile 2018, il governo aveva imposto alle parti sociali un drastico aumento del salario minimo all’inizio del 2017 (quello netto era di 296 euro per i lavoratori non qualificati e a 388,5 euro per i lavoratori qualificati, ma il livello minimo di sussistenza era di 285-290 euro): del 15% per il lavoro non qualificato e del 25% per i lavoratori qualificati. Circa un milione di lavoratori (un quarto del totale) hanno beneficiato degli aumenti e il governo ha concesso alle aziende degli sgravi fiscali che coprivano un terzo dell’aumento dei salari. Il salario medio netto era di 750-760 euro. Orbàn ha concesso anche aiuti alle famiglie – pensioni, sussidi per chi fa figli, sconti nelle bollette di luce e gas – che complessivamente costano circa il 5% del PIL.
D’altra parte, a gennaio 2017, gli operai di Audi Ungheria (11.500 dipendenti) avevano deciso un’interruzione di due ore di lavoro, ottenendo l’adeguamento del proprio salario a quello dei 4 mila connazionali impiegati presso Daimler, ossia un aumento del 20% circa su due anni. L’industra automobilistica è la spina dorsale dell’industria ungherese: occupa circa 150 mila addetti, rappresenta oltre il 30% dell’intera produzione manifatturiera ed una fetta pari al 20% del totale delle esportazioni. Le auto prodotte in Ungheria, infatti, non sono destinate al mercato interno: il 93% della produzione viene esportata, in particolar modo verso gli altri Paesi dell’Unione Europea (87%). Audi A3, Mercedes Classe A, Opel Astra, ma anche Tata, General Motors, Suzuki e, da ultimo, BMW che, nell’estate 2018, ha deciso un’investimento di oltre un miliardo di euro per un nuovo stabilimento industriale da 150 mila auto all’anno e mille posti di lavoro diretti. L’azienda è stata indotta dall’offerta di uno sgravio fiscale del 50% (la Slovacchia offriva solo il 35%) e la promessa (mantenuta) di imporre per legge un’ora e mezza di straordinari al giorno, pagabili dopo 3 anni. E’ in questo modo che è stato costruito il “miracolo” dell’economia ungherese, che ha polarizzato verso Budapest gli investimenti dell’industria automobilistica all’interno dell’Unione Europea.
Gruppi industriali come Audi, Mercede-Benz, Bosch, General Electric, Flextronics e Samsung sono riusciti a pagare aliquote vicine allo zero. Non a caso, i prelievi sulle imprese pesano per appena il 4,7% del gettito complessivo, mentre il grosso grava sulle spalle dei cittadini come IVA. La corporate tax è ufficialmente al 9%, la più bassa nell’UE, c’è una flat tax del 15% sui redditi delle persone, mentre ha l’IVA più alta (27%) che rende le merci molto costose per i consumatori/cittadini.
Non a caso l’Ungheria rimane un Paese alle prese da anni con una imponente fuga dei lavoratori all’estero (oltre 1 milione dal 2008, circa l’11% della popolazione) alla ricerca di salari più alti e condizioni di vita migliori, che non può essere compensata da lavoratori migranti perché il governo di Orbàn è un convinto fautore del nazionalismo etnico magiaro e, in una mossa volta ad aumentare la popolazione del Paese (diminuita dalla sua ascesa al potere nel 2010 di 236 mila unità, scendendo a 9,78 milioni) ha introdotto misure di sostegno alle famiglie: le donne che hanno 4 o più figli non pagheranno mai più le imposte sul reddito; dai 3 figli in su arriva un assegno per l’acquisto di un auto a 7 posti; ci sono anche favorevoli condizioni di mutuo per le famiglie con più figli; previsti contributi per i nonni che badano ai nipoti; finanziamenti per 21 mila asili nido e kindergartens.12 Inoltre, Orbàn ha messo sotto diretto controllo statale le cliniche per fornire gratuitamente il servizio di fecondazione assistita in vitro.
Ma, per fare fronte alla attuale grave carenza di manodopera (il tasso di disoccupazione è al 3,6%) di un’economia che ha continuato a registrare una forte crescita fino alla crisi da CoVid-19, il Parlamento aveva approvato nel dicembre 2018 una riforma del codice del lavoro che ha innalzato il tetto massimo di ore di lavoro straordinario da 250 a 400 all’anno (l’equivalente di un giorno in più di lavoro a settimana), quasi il doppio di quanto consentito in precedenza, con la possibilità per le aziende di pagarle entro 3 anni. Una legge definita “schiavista” dai sindacati, osteggiata da grandi manifestazioni popolari e che comporta una settimana lavorativa di sei giorni o oltre 10 ore giornaliere per cinque giorni. Gli straordinari sono facoltativi, ma è difficile che i lavoratori possano opporsi a richieste di lavoro extra, per paura di essere licenziati. La polizia ha caricato e disperso i manifestanti con i lacrimogeni, mentre Orbàn ha sostenuto che la protesta era organizzata dalla “rete di George Soros”, un nemico inventato per Orbàn dal consulente politico americano Arthur Finkelstein nel 2010 e accusato di essere dietro tutti i mali del Paese.
Le proteste sono continuate per mesi e si sono trasformate in un movimento contro Orbàn, facendo emergere il movimento Momentum che è stato un importante catalizzatore politico del malcoltento. Soprattutto, Orbán ha subito la sua prima sconfitta elettorale dal 2010 alle elezioni locali (13 ottobre 2019), allorquando il candidato del “cartello di opposizione” – il pro-europeo verde di centrosinistra Gergely Karácsony (44 anni) – è stato eletto sindaco di Budapest con il 51% dei voti. I partiti di opposizione – da sinistra a destra – hanno unito le forze nel tentativo di strappare il controllo di Budapest e di altri comuni in mano a Fidesz ed evitare una sconfitta elettorale per la prima volta in quasi un decennio. In molti comuni solo uno sfidante dell’opposizione si è schierato contro Fidesz. I sondaggi avevano previsto solo lievi guadagni a livello nazionale per l’opposizione al di fuori della capitale, ma, oltre che a Budapest, questa ha vinto in 10 delle 23 principali città dell’Ungheria.
Il risultato del voto amministrativo è stato interpretato come la cartina di tornasole della nuova strategia di cooperazione dell’opposizione, che ha imboccato la strada per riuscire a presentare una seria sfida ad Orbán alle elezioni generali del 3 aprile.
Ma, Orbán e il suo partito Fidesz (che ha due terzi dei seggi in Parlamento) hanno sfruttato l’emergenza della diffusione della pandemia CoVid-19 per blindare il loro potere. Il 30 marzo 2020 il Parlamento ha approvato (137 a 53) una serie di misure sul coronavirus che includono la reclusione fino a 5 anni per coloro che diffondono intenzionalmente la disinformazione che ostacola la risposta del governo alla pandemia e non hanno dato alcun chiaro limite di tempo a uno stato di emergenza che ha consentito ad Orbán di governare per decreto, da solo e incontrastato. Il primo ministro è stato in grado di scavalcare tutta la legislazione esistente. Le informazioni sulle azioni del governo sono fornite solo al presidente del parlamento e ai leader dei gruppi parlamentari. La sola guardiana dell’azione dell’esecutivo è la Corte Costituzionale, la cui imparzialità non è garantita, considerando che gran parte dei suoi 15 giudici sono considerati essere stati nominati in quota Fidesz.
L’integrazione dell’Ungheria nell’economia tedesca e la tolleranza della UE per la “democrazia illiberale” di Orbán
Dopo il 1989, e soprattutto dopo l’allargamento ad est dell’Unione Europea tra il 1999 e il 2007, i Paesi dell’Europa centro-orientale – Ungheria, Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Romania, Bulgaria, Slovenia, Estonia, Lettonia e Lituania – sono stati incorporati nell’economia dell’Unione Europea come Paesi fornitori di forza lavoro a basso costo impegnata negli anelli maggiormente labor intensive delle supply chains industriali europee e globali.
Dopo aver subito negli anni ’90 gli shock-therapy transition programs, questi Paesi sono passati dal “socialismo reale” al “capitalismo oligarchico”. La transizione al libero mercato, infatti, è stata resa difficile dalla debolezza locale dell’agente di trasformazione preferito dal capitalismo neoliberista: la borghesia proprietaria. Si è cercato di “fare il capitalismo senza capitalisti”. I fondi dell’Europa occidentale hanno dato la priorità all’espansione del mercato rispetto alla democratizzazione: dal 1990 al 1996, solo l’1% del meccanismo di aiuto internazionale dell’Unione Europea per gli ex Stati socialisti è andato al finanziamento di partiti politici, media indipendenti e altre organizzazioni civiche. Ma, con l’avanzare dei mercati, la classe media è rimasta anemica13.
Trent’anni dopo, i benefici della libera economia sono stati divisi in modo molto diseguale. I divari di reddito tra città e campagne sono più ampi nell’Europa centro-orientale che in qualsiasi altra parte del continente. Eppure l’ubiquità del pensiero del libero mercato nella regione è un fatto compiuto e oggi questi Paesi sono in rapida crescita e in tendenziale piena occupazione. Basano la loro competitività su bassi salari e basse tasse per le imprese.
Al tempo stesso hanno anche grandemente beneficiato dei trasferimenti di risorse finanziarie dall’Unione Europea: tra il 2007 e il 2020, gli Stati membri dell’Europa centro-orientale hanno ricevuto 395 miliardi di euro, metà dei quali sono andati a Ungheria e Polonia. Stando ai dati della Commissione Europea, più della metà degli investimenti pubblici (strade, ponti, mercati, linee ferroviarie, etc.) in Ungheria e in Polonia nel periodo 2015-2020 sono stati finanziati dall’Unione Europea. Nel 2017, l’Ungheria ha contribuito al bilancio UE con 821 milioni di euro e ha incassato fondi per 4,049 miliardi.
L’Ungheria e gli altri Paesi dell’Europa orientale sono stati destinatari di rilevanti investimenti ed esternalizzazioni (near-shoring) sia per lavorazioni nel tessile/abbigliamento/calzaturiero da parte dei grandi marchi del “made in Italy”, sia per la produzione di componenti industriali a basso costo da parte delle grandi imprese metalmeccaniche europee, sopratutto tedesche. Con Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, e Slovacchia, l’economia tedesca gestisce un volume di scambi più ampio rispetto a quello con la Cina. La Germania è il più grande partner economico dell’Ungheria, con circa il 30% delle esportazioni e circa un terzo dei nuovi posti di lavoro ungheresi (almeno mezzo milione) è stato creato da un’azienda tedesca14.
Una parte importante della competitività dell’industria tedesca, soprattutto di quella dell’automobile, è il risultato di processi di investimento diretto nel capitale delle imprese e della costruzione di reti di subfornitura della componentistica che hanno consentito di mantenere in Germania l’assemblaggio finale, così come i laboratori di ricerca e sviluppo, che rappresentano le fasi di produzione a più alto valore aggiunto. Nel 2019, la Germania aveva esportazioni verso il resto del mondo che contribuivano alla presenza di 8,4 milioni di posti di lavoro in tutta l’Unione, di cui 6,8 milioni nella Repubblica Federale e nell’ordine 270 mila in Polonia, 160 mila in Italia, 155 mila in Olanda, oltre 150 mila nella Repubblica Ceca e in Ungheria, e 140 mila in Francia.
Il successo industriale tedesco degli ultimi 30 anni si è sostenuto, almeno in parte, sul lavoro di milioni di operai poveri dell’Est Europa che vivono con salari mensili di 500-700 euro e che devono far fronte a costi occidentali sull’acquisto di beni tecnologici, prodotti alimentari industriali, farmaci o servizi medici. Inoltre, le grandi imprese tedesche riescono anche ad eludere le basse tasse ufficiali sulle imprese, mentre le popolazioni locali sopportano un carico fiscale schiacciante nell’imposta sui consumi. Un rapporto di Finance Uncovered, una ONG indipendente bulgara, ha mostrato che i primi 10 gruppi attivi nel Paese, non solo hanno pagato un’aliquota dello 0,2% su ricavi aggregati pari a 11 miliardi di euro nel 2015, ma sono riusciti a risultare creditori netti dello Stato. Situazioni simili si ritrovano anche in Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia, Lettonia e Slovenia. In Polonia, la corporate tax porta nelle casse dello Stato solo il 5,3%. In sostanza, lavoratori e cittadini dei Paesi dell’Est Europa sussidiano alcune grandi imprese globali, soprattutto tedesche, facendo sì che possano remunerare meglio i propri dipendenti in Germania15.
Il modello di integrazione economica dei Paesi dell’Europa Orientale contribuisce anche a spiegare la lunga tolleranza dell’Unione Europea e del Partito Popolare Europeo (prima coalizione politica europea) che per anni hanno esercitato nei confronti del governo di Viktor Orbàn in Ungheria. Fidesz contribuiva con 11 membri al gruppo PPE – poi diventati 13 nel 2019 (ora 12) – al Parlamento Europeo, ossia a quasi la metà della maggioranza di 25 seggi sul gruppo dei Socialisti e Democratici che ha sostenuto Juncker alla testa della Commissione Europea. Le posizioni politiche di Fidesz, come del polacco Diritto e Giustizia (PiS) di Joroslaw Kaczyński (che però non fa parte del PPE ma del gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei) sono stati tollerate (e in alcuni casi anche lodate) per anni dai partiti europei mainstream di centro-destra.
Poco prima delle elezioni per il Parlamento Europeo del 2019, prendendo atto che i vecchi equilibri stavano per saltare e che stavano emergendo nuovi equilibri politici nazionali, per coprirsi a destra, la Merkel ha accettato che il bavarese Manfred Weber (leader del gruppo del PPE nel Parlamento Europeo e politico della CSU) corresse alle elezioni per il Parlamento europeo come Spitzenkandidat del PPE per la successione a Jean-Claude Juncker alla presidenza della Commissione. L’idea iniziale era che Weber, con il supporto di Orbàn, potesse fare da ponte per un’alleanza tra il tradizionale mondo conservatore del PPE e quello reazionario nazionalista di Salvini, AfD e PiS di Kaczyński, con l’obiettivo di governare l’Unione Europea da destra.
Ma, questa strategia non è stata condivisa da 13 partiti membri del PPE dei piccoli Stati centro-settentrionali (dal Benelux alla Svezia) che hanno chiesto l’espulsione del partito di Orbàn dopo che un manifesto elettorale di Fidesz aveva mostrato insieme Jean-Claude Juncker e George Soros con la scritta: “Avete il diritto di sapere cosa sta tramando Bruxelles”. Orbàn ha chiesto scusa ed è stato solo temporaneamente (auto)sospeso, non espulso. Una “autosospensione concordata”, un compromesso molto “democristiano”, si direbbe in Italia, che ha consentito al PPE di guadagnare tempo fino al dopo elezioni, lasciando la porta aperta per Fidesz di poter riconquistare la piena adesione (nel febbraio 2020 la sospensione era stata prolungata indefinitivamente). A Fidesz è stato chiesto di terminare la campagna anti-Juncker; riconoscere il danno causato e astenersi da azioni simili; e risolvere la controversia legale sullo status dell’Università dell’Europa Centrale fondata da Soros a Budapest.
Solo ai primi di marzo 2021, Orbàn ha ritirato Fidesz dal PPE, prima che venisse espulso, subito dopo che il PPE aveva approvato un cambiamento del regolamento interno che avrebbe spianato la strada alla sua estromissione dal gruppo16.
Ungheria e Polonia hanno governi che fanno proposte politiche simili, incentrate su un ritorno ad una sovranità nazionale incondizionata e basate sull’autoritarismo, sui muri ai confini e sulla chiusura delle frontiere (almeno per coloro che sono considerati non graditi, come rifugiati, profughi e migranti economici non europei17, sul settarismo sociale ed ideologico, sul nazionalismo, sui fondamentalismi religiosi ed identitari e sulla chiusura demografico-etnica e culturale.), è da anni orientato a dare vita a una “democrazia illiberale” e nazionalista (teorizzata da Fareed Zakaria a partire dalla seconda metà degli anni ‘90), basata sia sui valori tradizionali di lavoro, famiglia, religione e nazione sia sull’eliminazione dei contropoteri (media pluralistici, magistratura, sindacati e università indipendenti, organizzazioni non governative, diritti civili) sia sulla discriminazione delle minoranze. Tendono ad eliminare la distinzione tra i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario che sta alla base di ogni Stato di diritto e democrazia, nonché della stessa Unione Europea18.
Questi regimi, centrati su un leader autocratico (come Orbàn e Kaczyński) che concentra il potere nelle proprie mani prevaricando (e in molti casi eliminando) controlli e bilanciamenti istituzionali, sono stati finora capaci di conservare sostegno popolare e maggioranze elettorali attraverso il controllo sull’apparato statale e sui media tradizionali (mettendo sotto controllo, direttamente o indirettamente, tv, radio e giornali indipendenti), politiche di bilancio generalmente sobrie e prudenti e mercati relativamente aperti.
Molti degli sforzi di questi regimi per sovvertire la democrazia sono “legali“, nel senso che sono approvati dal legislatore o accettati dai tribunali. Possono anche essere rappresentati come sforzi per migliorare la democrazia – rendendo il sistema giudiziario più efficiente, combattendo la corruzione o ripulendo il processo elettorale. I giornali si pubblicano ancora, ma vengono comprati da oligarchi alleati del governo in carica o spinti all’autocensura. I cittadini continuano a criticare il governo, ma spesso si trovano ad affrontare problemi fiscali o altri problemi legali.
Un’erosione della democrazia che per molti è quasi impercettibile e che semina la confusione pubblica. Le persone non capiscono immediatamente cosa sta succedendo e in molti continuano a credere di vivere in una democrazia. Ma, la continua modifica delle regole, la sostituzione dei giudici, lo svuotamento delle funzioni del Parlamento, la trasformazione dei corpi intermedi in attori irrilevanti, la pressione poliziesca sulle opposizioni e la stampa libera, l’imposizione di una narrativa falsificata e la frode alle urne, permettono ai leader autocratici di vincere le elezioni successive e di imprimere una ulteriore stretta sul sistema politico-istituzionale, marginalizzando o eliminando qualsiasi credibile avversario, e dando vita a forme di “democrazia plebiscitaria”. Ciò che non è in discussione, tuttavia, è il carattere del modello economico di questi Paesi. Sia i liberali sia gli illiberali concordano sul fatto che dopo la fine del comunismo, l’unico percorso di sviluppo che rimane per le loro società è quello capitalista.
I successi delle “democrazie illiberali” ungherese e polacca sono stati resi possibili dal “realismo” (cinismo) dei politici di centro-destra in Europa che per anni si sono rifiutati di prendere le distanze da quelli che in realtà sono dei governi conservatori (se non proprio reazionari) composti da etnonazionalisti bianchi. I democratico-cristiani tedeschi sono apparsi a lungo meno preoccupati per lo Stato di diritto in Ungheria o Polonia o per altri “valori europei” che per importanti investimenti delle compagnie automobilistiche, come Audi, il secondo datore di lavoro in Ungheria, e Mercedes, che ricevono entrambe sussidi dallo Stato ungherese. Come ha notato amaramente Timothy Garton Ash, una delle scoperte più deprimenti degli ultimi anni è che l’UE, che passa così tanto tempo a parlare di democrazia, è pateticamente inefficace quando si tratta di difendere la democrazia all’interno dei propri Stati membri.
Ungheria, Polonia e altri Paesi dell’Europa centro-orientale, così come i Paesi scandinavi (Danimarca, Svezia e Finlandia), e fino alla Brexit anche il Regno Unito, vogliono perseguire un’integrazione esclusivamente economica, di libero scambio, pensando in questo modo di preservare la loro sovranità parlamentare e governativa nazionale, per cui finora hanno fatto di tutto, e probabilmente continueranno a farlo, per bloccare o posticipare ogni passo in avanti del processo di integrazione politica a livello europeo. “C’è una crescente espansione di poteri in atto qui che deve essere finalmente fermata. I polacchi hanno avuto il coraggio di iniziare questa battaglia. Il nostro posto è lì con loro ”, ha dichiarato Viktor Orbán.
Questi Paesi sono favorevoli ad un mercato unico – inteso come un’unione doganale -, ma non ad una politica comune – intesa come un’unione federale. Si comportano come se fossero dei commensali ad un tavolo da pranzo che vogliono avere il privilegio di scegliere à la carte i piatti graditi (ad esempio, i finanziamenti provenienti dai programmi strutturali) e di rifiutare quelli sgraditi (ad esempio, l’allocazione al loro interno di una quota di rifugiati non europei). Sono governati da leaders nazionalisti che trattano Bruxelles come una nuova Mosca19.
Solo negli ultimi anni la Commissione e il Parlamento hanno cominciato ad affrontare con coerenza la questione della “democrazia illiberale” ungherese, mettendola in stato di accusa. Il primo passo è stato fatto il 26 giugno 2018, quando il Comitato per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento Europeo ha votato in favore dell’avvio di un processo sanzionatorio dell’UE contro l’Ungheria per le violazioni dello Stato di diritto, e quando la Commissione ha annunciato l’impegno di studiare modi per legare ulteriormente l’attribuzione dei finanziamenti europei al rispetto dei princìpi relativi alle separazioni dei poteri.
Dalla vittoria di Orbàn e Fidesz del 2010 al regime di “democrazia illiberale”
Dopo la transizione verso un’economia di mercato, l’ortodossia economica neoliberista da manuale ha regnato sovrana in tutto il blocco orientale. La coalizione socialdemocratica e liberale che governava l’Ungheria prima del 2010 abbracciava con tutto il cuore il fondamentalismo del mercato: il primo ministro dell’epoca, Ferenc Gyurcsány (un economista che era stato a capo della Lega dei Giovani Comunisti Ungheresi negli anni ’80) era persino definito il Tony Blair ungherese. In effetti, come il New Labour di Blair, il riformista Partito Socialista Ungherese si è alienato i suoi elettori della classe operaia per i decenni a venire Durante la transizione dal comunismo alla democrazia, Gyurcsány e i suoi vecchi compagni avevano fatto una piccola fortuna gestendo società di consulenza con nomi come Eurocorp International Finance Inc. Verso la metà degli anni 2000 erano partecipanti abituali del World Economic Forum di Davos. Sebbene questo tipo di mutamento e di opportunità economica fosse comune ovunque nell’Europa centrale e orientale, questi legami e orientamenti basati sul fondamentalismo del mercato hanno reso più facile per Orbán ritrarre il comunismo sovietico e il neoliberalismo europeo come forme successive di governo dall’esterno.
Soprattutto, la vulnerabile e piccola Ungheria aveva legato gran parte del suo debito nazionale e familiare al franco svizzero tra il 2003 e il 2008 e quando dopo la crisi finanziaria globale il valore del fiorino ungherese è crollato, mentre quello del franco svizzero è cresciuto, il Paese, le sue società e un milione di proprietari di case si sono trovati quasi rovinati da forze lontane che hanno reso i loro debiti insostenibili. Con il ribasso del fiorino, nel giro di poche settimane le famiglie ungheresi hanno visto le rate dei mutui e dei finanziamenti per le case e le auto impennarsi del 20% o addirittura del 40% (ad esempio, per coloro i cui debiti erano denominati in yen giapponesi).
L’Ungheria è stata “umiliata” da un FMI disponibile, ma invadente (ha imposto severe politiche di austerità), e dall’assistenza finanziaria prestata dall’UE (invece che dalla BCE), che molti in Ungheria hanno pensato rendessero l’Ungheria una colonia dell’Unione e degli interessi del capitale internazionale. Per i nazionalisti e coloro che hanno perso i loro risparmi e le loro case, l’intervento del FMI e dell’UE ha ricordato il Trattato di Trianon del 1920, che aveva consentito alle grandi potenze dell’Europa di amputare il 70% del territorio dell’Ungheria e il 75% della sua popolazione.
Il partito Fidesz, guidato da Viktor Orbán, ha usato lo spettro antisemita dei banchieri stranieri e delle cospirazioni ebraiche che si abbattevano sull’Ungheria per vincere le elezioni nel 2010 e costituire la base ideologica di partenza per ciò che oggi è politicamente noto come un regime di “democrazia illiberale”. Il suo governo ha introdotto una rigida regolamentazione finanziaria ed è riuscito a ridurre la vulnerabilità finanziaria ristrutturando il debito pubblico, così che oggi è detenuto principalmente in valuta nazionale anziché in valuta estera. Inizialmente, gli stessi membri del governo hanno anche flirtato con l’idea di una politica economica statalista di sinistra, “keynesiana” o addirittura da “Stato sviluppista”, in linea con le strategie di sviluppo seguite da Paesi asiatici come la Corea del Sud o il Giappone durante la Guerra Fredda, dove, facendo leva su “campioni nazionali“, governi conservatori ed autoritari hanno guidato l’espansione e hanno fatto meno affidamento sugli investimenti di capitali esteri20.
Ma, a milioni di genitori e figli delle classi medie e popolari angosciati, impoveriti, bisognosi di riscatto, protezione e sicurezza, Orbán ha offerto soluzioni alternative di adattamento al cambiamento, puntando su una ostilità alla globalizzazione, espressa più sull’opposizione al libero movimento delle persone che ai flussi di capitali e merci, sul recupero dell’identità culturale nazionale magiara, sul ritorno all’autorità dello Stato, sul conservatorismo religioso, sul bonapartismo plebiscitario, ossia sulla verticalizzazione sempre più spinta della leadership, sul protezionismo commerciale e culturale, e sulla xenofobia. Così, per un numero sempre crescente di cittadini ungheresi Orbàn ha dato risposte politiche che hanno preso in considerazione il loro disagio sociale, economico e culturale, offrendo loro (almeno apparentemente) una prospettiva di futuro, una “speranza” di riscatto in linea con il modello conservatore di “società del workfare” proupugnato da Margaret Thatcher negli anni ’80.
Orbán ha adottato il punto di vista della Thatcher secondo cui il mezzo migliore per rinvigorire un’economia in difficoltà – oltre a esercitare la moderazione fiscale attraverso politiche di austerità e di spinta alla privatizzazione dei servizi (sanità e istruzione, soprattutto) – è quello di liberare il potere creativo dell’impresa privata attraverso la riduzione delle tasse e degli incentivi per gli investimenti produttivi, ed estrarre la massima quantità di lavoro dalla forza lavoro, riducendo drasticamente i sussidi di disoccupazione, stigmatizzando e punendo l’ozio e premiando coloro che iniziano a lavorare in settori economici a basso salario. In nome del ripristino della “dignità del lavoro” e della retorica repressiva contro gli “scrocconi del welfare”, come prima misura di politica sociale del governo Fidesz ha ridotto il periodo di fruizione dei sussidi di disoccupazione a tre mesi, il più breve nell’Unione Europea. Fidesz ha introdotto una flat tax (un’imposta fissa) sul reddito (compresa una tassa sul salario minimo) e l’aliquota fiscale effettiva più bassa d’Europa per le multinazionali, che beneficiano anche di generose agevolazioni fiscali speciali. Di conseguenza, diversi grandi produttori tedeschi hanno beneficiato di sussidi statali in Ungheria di gran lunga maggiori che nel loro stesso paese, contraddicendo i feroci attacchi retorici di Orbán al capitale internazionale.
Allo stesso tempo, per Orbán la crisi finanziaria del 2008 ha segnato il declino dell’Occidente e dei suoi valori liberali: in futuro sarebbero sistemi “non occidentali, non liberali, non liberal-democratici e forse nemmeno democratici” (come Cina e Russia) che creerebbero società di successo e competitive. Il liberalismo rappresenta “corruzione, sesso e violenza“. Il ministro delle risorse umane di Orbán dal 2012 al 2018, Zoltán Balog, era un sostenitore del “separatismo benevolo” per i Rom, comprese le scuole separate. Orbán vuole “ripulire” l’Ungheria e metterla su un sentiero anti-liberale – compresa la costruzione di una recinzione di filo spinato lungo i confini per tenere fuori i migranti musulmani illegali21. “Noi non vogliamo che nella nostra società ci siano la diversità, la mescolanza: non vogliamo che il nostro colore, le nostre tradizioni e la nostra cultura nazionale si mescolino con quelle degli altri. Vogliamo essere quello che eravamo millecento anni fa, quando siamo arrivati nel bacino carpatico.” “Ci sono due strade che l’Ungheria può scegliere di seguire” – ha detto Orbán nella campagna elettorale del 2018 – “Avremo o un governo nazionale, nel qual caso non diventeremo un Paese di immigrati, o il popolo di George Soros formerà un governo e l’Ungheria diventerà un Paese di immigrati.”
Quando parla di George Soros, Orbán evoca l’ossessione della “grande sostituzione” comune all’estrema destra europea e mondiale: la teoria cospiratoria – formulata dallo scrittore francese Jean Raspail nel 1973 e poi ripresa dai manifesti di Anders Breivik e degli altri suprematisti bianchi omicidi, nonché diffusa dallo scrittore francese Renaud Camus (un allievo di Roland Barthes) dal 2011 – secondo cui l’Europa bianca sta per essere rimpiazzata dalla popolazione di origine africana e musulmana. Una teoria perversa ed aberrante che non tiene conto del fatto che sono le dittature arabe e africane, le guerre, l’estrattivismo delle global corporations, le conseguenze disastrose dei mutamenti climatici e la povertà a spingere i profughi verso l’Europa, e non un fantomatico piano d’invasione, aggiungendo che proprio il sostegno accordato alle dittature arabe ed africane anche dalle estreme destre occidentali (a cominciare da Orbán) alimenta l’emigrazione verso l’Europa. La vera “grande sostituzione” è quella a cui viene sottoposta la compassione, sostituita con l’indifferenza verso un’umanità sofferente.
Durante questa campagna elettorale nazionale, come durante la precedente, Orbán ha ritratto i partiti dell’opposizione come burattini di George Soros il finanziere e filantropo americano di origine ungherese22. Dal 1979 Soros ha speso miliardi di dollari – attraverso una rete di ONG finanziate dalle fondazioni Soros e Open Society – per lo sviluppo della società civile nei Paesi comunisti e post-comunisti, finanziando movimenti come Solidarność in Polonia e Carta 77 in Cecoslovacchia. Nell’Europa centro orientale, la Open Society Foundation ha finanziato anche piani d’integrazione dei Rom, una minoranza etnica tuttora fortemente discriminata, vittima di pregiudizio generalizzato. Nel 1984 Soros ha creato la sua prima fondazione straniera in Ungheria e nel corso di un decennio ha assegnato borse di studio agli intellettuali ungheresi per portarli negli Stati Uniti e Gran Bretagna, fornito macchine Xerox a biblioteche e università, e ha offerto fondi a teatri, biblioteche, intellettuali, artisti e scuole sperimentali. Nel 1991 ha aperto a Budapest la Central European University (CEU) con la missione di formare una nuova élite europea transnazionale. Soros ha accusato Orbán di “tentare di ristabilire il tipo di finta democrazia che ha prevalso [in Ungheria] nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale“.
Nel 2018, i manifesti elettorali fatti affiggere da Orbán in tutta l’Ungheria rappresentavano Soros come un burattinaio maligno ghignante desideroso di inondare l’Ungheria di profughi e di distruggere il Paese in combutta con i leaders dei partiti dell’opposizione. Orbán ha speso gran parte del suo tempo in campagna elettorale a demonizzare Soros, utilizzando argomenti antisemiti (ma non antisionisti) e sostenendo che Soros stava segretamente complottando per inviare milioni di immigrati in Ungheria. La continua e martellante propaganda di Orbán ha avuto l’obiettivo di inculcare nella popolazione il nesso causale Soros / ONU / migranti / Islam / terrorismo.
Dopo la ri-elezione di Orbán, un “ambiente politico e giuridico sempre più repressivo” ha portato la Open Society Foundation (che ha una dotazione finanziaria di oltre 18 miliardi di dollari) alla decisione di chiudere la sua sede a Budapest per trasferirsi a Berlino, mentre la CEU si è trasferita a Vienna dopo che la sua capacità di rilasciare diplomi è stata revocata dal governo a fine 2019. Nell’ottobre 2020, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha condannato l’Ungheria per la legge sull’istruzione superiore contro la CEU che ha violato il diritto comunitario sulla libera circolazione dei servizi, la libertà accademica prevista dalla Carta dei diritti fondamentali della UE e le disposizioni della WTO.
Come alternativa alla CEU, Orbán ha poi lanciato un progetto per la costruzione di un campus di una università cinese – l’Università Fudan di Shanghai – a Budapest, che costerebbe molto ai contribuenti ungheresi offrendo poco in cambio23. Un progetto controverso che ha stimolato grandi manifestazioni di protesta (in violazione dei regolamenti governativi) del fronte di opposizione in vista delle elezioni del 3 aprile, utilizzando la retorica nazionalista di Orbán contro di lui, e che ha costretto il governo ad una rara inversione di marcia. Per ora il progetto è stato congelato da Orbán che ha proposto di tenere un referendum sull’università cinese dopo le elezioni generali.
Subito dopo la vittoria nelle elezioni del 2018, Orbán ha fatto approvare la cosiddetta legge “Stop Soros“, che ha trasformato in reato penale punibile con la reclusione per persone o organizzazioni che aiutano i migranti/profughi non europei, definiti “clandestini”. Hannah Arendt sosteneva nel suo libro “Le origini del totalitarismo” (1951) che l’incapacità degli Stati di garantire i diritti agli sfollati in Europa tra le guerre mondiali (in gran parte provenienti dall’Europa orientale e di religione ebraica, in fuga da progrom e “pulizie etniche”) contribuì a creare le condizioni per le successive dittature. L’apolidia – la mancanza di una cittadinanza, di un passaporto da esibire, dello scudo di uno Stato-nazione – aveva ridotto le persone alla condizione di fuorilegge: hanno dovuto violare le leggi per vivere e sono state soggette a pene detentive senza aver mai commesso reati. La presenza di milioni di sfollati divenne anche un potente strumento per quei regimi che volevano minare l’idea dei diritti umani universali, sostenendo che fosse possibile ottenere diritti solo “essendo parte della nazione“. Appellarsi ai diritti umani in astratto non è servito in assenza di istituzioni che garantissero efficacemente tali diritti, per cui il più fondamentale dei diritti è il “diritto di avere diritti”.
I governi hanno represso i migranti/profughi indesiderati, dando alle forze di polizia ampi poteri che alla fine sono stati esercitati anche sui loro stessi cittadini. Ciò accadde nelle democrazie dell’Europa occidentale, sostenne Arendt, e non solo negli stati totalitari. “I profughi costretti a muoversi di Paese in Paese rappresentano l’avanguardia dei loro popoli… Il rispetto reciproco dei popoli europei è andato in frantumi quando, e perché, si permise che i membri più deboli fossero esclusi e perseguitati”.
Nel settembre del 1935, il governo nazista tedesco impose le Leggi di Norimberga che proibivano ai non ariani di sposare quelli del “sangue tedesco” e crearono una categoria di cittadinanza di seconda classe per gli ebrei. Venne anche dato l’avvio alla costruzione di grandi centri di detenzione – campi di concentramento – per le persone colpite da queste leggi. L’olocausto è stato il punto terminale di un processo: l’odio è cresciuto gradualmente a partire dalle parole, dagli stereotipi e dai pregiudizi, attraverso l’esclusione legale, la disumanizzazione e un’escalation di violenza. Processi di sterminio e di pulizia etnica analoghi a quelli che hanno investito ebrei, rom e sinti sotto il nazi-fascismo sono stati imposti a diversi popoli senza Stato, dagli armeni ai curdi, dagli albanesi della ex Yugoslavia ai tutsi del Burundi.
Tutto questo ha un preoccupante parallelo con quanto sta accadendo in relazione alla questione dei migranti non europei nell’Unione Europea, a cominciare dall’Ungheria di Orbàn dove nuove leggi criminalizzano i cittadini ungheresi che aiutano o facciano campagna in favore dei migranti e richiedenti asilo (fino ad un anno di carcere per il reato di agevolazione dell’immigrazione illegale) e il Parlamento ha anche approvato un emendamento costituzionale che afferma “il divieto di collocare cittadini stranieri sul territorio del Paese, salva l’autorizzazione del Parlamento” (una misura pensata per respingere il sistema della redistribuzione delle “quote” di rifugiati non europei tra i Paesi UE). Inoltre, la modifica costituzionale ha imposto l’obbligo di “difendere la cristianità”, ha limitato il diritto di manifestazione e ha istituito tribunali amministrativi speciali con giudici di nomina governativa.
Orbàn è un “imprenditore della paura” che, privando i migranti non europei di ogni diritto e criminalizzando chi li aiuta, educa i cittadini ungheresi alla mancanza di empatia, al cinismo e all’indifferenza verso una parte sofferente dell’umanità che fugge da guerre, carestie e fame, legittimando in questo modo le basi politico-culturali su cui nel prossimo futuro potrebbe prosperare quella “banalità del male”, denunciata dalla Arendt, indirizzata contro qualsiasi minoranza o forma di dissenso politico e sindacale. Migliaia di funzionari nazisti come Eichmann hanno partecipato a omicidi di massa, per poi tornare la sera a casa alla vita domestica in famiglia. Ciò che li rendeva capaci di questo, sosteneva la Arendt, era la perdita della loro capacità di pensare: “Più a lungo si ascoltava [Eichmann], più evidente diventava che la sua incapacità di parlare era strettamente connessa con l’incapacità di pensare, vale a dire di pensare dal punto di vista di qualcun altro.” Questo, a sua volta, era l’effetto del moderno stile di vita burocratico. Gli Stati totalitari trasformano le persone in ingranaggi di una macchina amministrativa, sosteneva Arendt, “disumanizzandoli“, ma questa potrebbe essere anche una caratteristica di tutte le moderne burocrazie.
Il Parlamento Europeo ha votato (12 settembre 2018) a favore – 448 favorevoli, 197 contrari e 48 astenuti – dell’avvio di una procedura di infrazione contro il governo ungherese per violazione dello Stato di diritto e dei “princìpi fondamentali dell’Unione”. Il rapporto dell’eurodeputata verde Judith Sargentini, a nome della Commissione Affari Interni dell’Europarlamento, aveva individuato 12 aree in cui le leggi fatte approvare da Orbán rappresentavano una “minaccia sistemica”: sistema costituzionale, magistratura, corruzione, libertà di espressione, associazioni e ONG, diritti dei rifugiati e delle minoranze, libertà accademica e di religione, diritto alla parità di trattamento tra uomini e donne, i diritti economici e sociali, tutela della privacy.
Nel suo intervento al Parlamento Europeo, Orbán ha urlato: “Le decisioni dell’Ungheria sono prese dagli elettori nelle elezioni parlamentari. Quello che state sostenendo non è altro che dire che non ci si può sufficientemente fidare del fatto che il popolo ungherese sia capace di giudicare ciò che è nel suo interesse. Pensate di conoscere i bisogni del popolo ungherese meglio degli stessi ungheresi. Pertanto, devo dirvi che questo rapporto non mostra rispetto per il popolo ungherese. Questo rapporto applica un doppio standard, è un abuso di potere, oltrepassa i limiti delle sfere di competenza e il metodo di adozione è una violazione del trattato. …Ogni nazione e ogni Stato membro ha il diritto di decidere come organizzare la propria vita nel proprio Paese. Dobbiamo difendere i nostri confini e noi soli decideremo con chi vogliamo vivere.”
Ora, la procedura prevede che il governo ungherese sia sentito dal Consiglio Europeo, che dovrà decidere a maggioranza di almeno 4/5 degli Stati se vi sia un “chiaro e serio rischio di violazione dei valori UE”. In caso affermativo, si apre una fase di dialogo e per poter applicare le sanzioni previste dall’articolo 7.2 (tra cui la sostensione del diritto di voto) è necessario un voto espresso all’unanimità (con Polonia, anch’essa sotto procedura per violazione dei princìpi democratici, e Repubblica Ceca che hanno già dichiarato che non voteranno contro l’Ungheria, che volentieri ricambierà il favore). La linea d’azione pragmatica per Bruxelles, quindi, è quella di stringere i cordoni della borsa – sfruttando il nuovo “meccanismo di condizionalità e altri strumenti finanziari” per tagliare i finanziamenti derivanti dal bilancio dell’UE e dal fondo per la ripresa dalla pandemia – e sperare che alle elezioni del 3 aprile, Fidesz e Viktor Orbán vengano finalmente battuti.
La Commissione Europea ha aperto procedure di infrazione contro l’Ungheria anche per non aver rispettato la legge su asilo e ricollocamenti dei migranti e per la legge “Stop Soros“, chidendono la modifica. Questo è il primo passo in un processo legale che potrebbe portare l’Ungheria ad essere deferita anche alla Corte di Giustizia Europea.
Nel frattempo, le condizioni delle scuole e degli ospedali in Ungheria sono tra le peggiori in Europa, mentre gli amici più stretti di Orbán e quelli con cui ha costruito il partito Fidesz (molti dei quali – a cominciare da Orbán stesso – in passato sono stati tra i beneficiari di borse di studio finanziate dalle fondazioni di Soros) sono ora diventate tra le persone più ricche in Ungheria. Il sindaco della città natale di Orbán e uno dei suoi amici dalla scuola elementare, Lőrinc Mészáros, ad esempio, era un idraulico disoccupato un decennio fa, mentre ora è il quinto uomo più ricco del Paese, e la sua attività è cresciuta molto rapidamente. La famiglia di Orbán è stata quotata dalla rivista Forbes per un valore di 23 milioni di euro. Nel febbraio 2018, l’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF) ha riferito che l’utilizzo da parte dell’Ungheria di fondi UE per quasi 1 miliardo di euro per realizzare progetti di illuminazione ha subito “irregolarità” legali e conflitti di interesse, inclusi 40 milioni di euro per progetti collegati al genero di Orbán, ed è quindi necessaria un’indagine per frode del bilancio.
Orbán ha riscritto la costituzione dell’Ungheria nel 2010 grazie alla maggioranza di due terzi, ha riempito la corte costituzionale di alleati e ha nominato procuratore capo un ex collega politico. I suoi sostenitori sono a capo di migliaia di organismi precedentemente indipendenti, tra cui la banca nazionale ungherese, i comitati elettorali, gli istituti culturali, i mezzi di comunicazione (controllano il 90% dei giornali, radio e Tv, e hanno di fatto reintrodotto la censura) e le federazioni sportive. Orbán e i suoi sodali di Fidesz hanno messo sotto stretto controllo settori chiave dell’economia nazionale come le utilities, l’energia, le costruzioni e le banche che fanno capo allo Stato per almeno il 50%. Il demanio agricolo statale è stato messo all’asta e alleati politici e membri della famiglia di Orbán sono diventati grandi proprietari in grado di ottenere milioni di euro di sussidi erogati dalla politica agricola comune (PAC) europea.
Il populismo di Orbán si nutre del mito della Grande Ungheria e della ferita subita dopo la Prima Guerra Mondiale, quando l’Ungheria perse due terzi del suo territorio e un terzo degli ungheresi etnici finì nei Paesi vicini. L’ideologia di Orbán poggia su una esaltazione della “magiarità” (magyarsàg) ed è stata esposta in un discorso incendiario del 2014 a Băile Tuşnad, cittadina della Transilvania ceduta alla Romania dopo il Trattato di Trianon del 4 giugno 1920 (ma sede ogni estate di un festival culturale magiaro), che Orbán vuole invertire, dando la cittadinanza ed estendendo il diritto di voto a oltre un milione di etnici ungheresi (magiarofoni) in Romania, Slovacchia, Ucraina, Austria, Slovenia, Croazia e Serbia (Hitler aveva la stessa passione per i tedeschi etnici che vivevano oltre i confini della Germania negli anni ’30). Il governo di Budapest finanzia generosamente associazioni, chiese cristiane, scuole, club sportivi e siti di informazione (con radio, tv, giornali e riviste) in lingua ungherese in tutti questi Paesi. Inoltre, negli ultimi anni uomini d’affari ungheresi vicini ad Orbán hanno avviato o investito in una manciata di organi di stampa e canali tv di destra in Slovenia e in Repubblica di Macedonia del Nord.
Mano a mano che l’ondata reazionaria si va estendendo nei diversi Paesi europei, tra i leader e i partiti/movimenti populisti nazionalisti conservatori e di estrema destra si sta diffondendo la convinzione che non sia più così necessario battersi per uscire dall’Unione Europea (anche in considerazione delle difficoltà incontrate dalla Gran Bretagna nel percorso verso la Brexit), dal momento che intravedono la possibilità di contrastarla, conquistarla e svuotarla dall’interno, preservandone la forma, ma cambiandone la sostanza attraverso un progetto transnazionale identitario di una “Europa dei popoli” dove “ogni Stato recupera sovranità e controllo del territorio” (come sostiene Marine Le Pen), che faccia leva su una interpretazione ideologica conservatrice dello Stato-nazione ed integralista, antimoderna e antidemocratica della cristianità, ossia sull’idea che lo Stato debba essere subordinato alle Chiese (cattolica e/o evangeliche) e debba usare il suo straordinario potere per creare e difendere la particolare comunità morale che le Chiese immaginano. In difesa di un’”Europa bianca e cristiana” considerata “il vero Occidente”, quello dei “valori originari”, che l’Europa occidentale attuale avrebbe tradito per seguire le “chiacchiere liberali”, per realizzare una visione di progresso associato al laicismo, alla liberal-social-democrazia, al capitalismo democratico, all’ecologia, alla celebrazione delle minoranze, all’accoglienza dei rifugiati musulmani, ai diritti umani, civili, delle donne e dei LGBTIQ+, al cosmopolitismo e al multiculturalismo.
Una posizione esplicitata da Orbàn: “Sembra che l’Europa occidentale e l’Europa centrale abbiano scelto due strade divergenti. […] E per quanto possa sembrare assurdo la minaccia più pericolosa per l’Ungheria oggi arriva dall’Occidente. Questa minaccia è rappresentata dai politici di Bruxelles, Berlino e Parigi. Vogliono farci adottare le loro politiche, quelle politiche che hanno trasformato i loro Paesi in Paesi di immigrazione e che hanno aperto la strada al declino della cultura cristiana e all’espansione dell’Islam. Vogliono farci accettare gli immigrati e trasformarci in un Paese con una popolazione mista.” Orbàn è un membro della Chiesa riformata calvinista, ha una moglie cattolica e un figlio pastore di una comunità pentecostale, mentre lo Stato ungherese spende milioni di fiorini per restaurare cappelle e campanili (dal 2010 sono stati costruiti o restaurati circa 3 mila luoghi di culto utilizzando fondi pubblici), ma soprattutto finanzia il sistema scolastico delle chiese cattoliche e protestanti. Le scuole cristiane (completamente gratuite) ricevono il triplo dei fondi pubblici rispetto a quelle statali e dal 2011 le iscrizioni sono aumentate dell’80%24.
Le posizioni di Orbàn e di altri nazional-populisti europei sono molto simili a quelle espresse da Vladimir Putin che già nel 2013 aveva avvertito che i “Paesi euro-atlantici” stavano “rifiutando le loro radici“, che includevano i “valori cristiani” che costituivano la “base della civiltà occidentale“. Secondo Putin, Europa e Stati Uniti stavano “negando i princìpi morali e tutte le identità tradizionali: la cultura nazionale, religiosa e anche sessuale“. Non a caso Putin, almeno fino all’invasione dell’Ucraina, è stato considerato il vero leader di coloro che in Europa (come Orbàn) e nel mondo propugnano una visione socialmente e culturalmente conservatrice (se non proprio reazionaria) che si contrappone a quella della democrazia liberale e socialdemocratica.
Alessandro Scassellati
- Le elezioni politiche generali dell’8 aprile 2018 erano state vinte da Fidesz, il partito-Stato di destra e nazionalista costruito da Viktor Orbàn, riottenendo la maggioranza dei due terzi del Parlamento (con il 49% dei voti totali, +4%, ha avuto 133 eletti su 199) che ha consentito di cambiare qualsiasi legge (anche la costituzione) senza il sostegno dell’opposizione. Il secondo posto era andato a Jobbik (19,3% dei voti e 25 eletti), il partito di estrema destra che ha tentato di trasformare sé stesso in una forza centrista anti-corruzione e pro-giustizia sociale. Terza era arrivata l’alleanza rosso-verde tra i socialisti di MSZP e gli ecologisti di Dialogo per l’Ungheria (il 12,2% dei voti e 20 eletti). Il risultato aveva rappresentato una schiacciante sconfitta per l’opposizione che era rimasta estremamente divisa e frammentata e non era riuscita a siglare un patto per competere insieme a livello nazionale. Il sistema elettorale ungherese – 106 collegi uninominali a turno unico, in cui vince il primo classificato, e 93 seggi di lista con sbarramento al 5% nazionale – consente a un partito di conquistare la maggioranza dei seggi senza la maggioranza dei voti. Analizzando i risultati si coglieva una evidente frattura fra i centri urbani (Budapest, Pecs e Szeged), che avevano sostenuto l’opposizione di centro-sinistra, e le zone rurali (sovrarappresentate nel sistema elettorale) che avevano votato massicciamente Orbán e, in misura minore, Jobbik. Inoltre, il voto a Fidesz era particolarmente significativo lungo la frontiera meridionale con la Serbia, in quello che fu l’epicentro della crisi dei migranti nel 2015-16 e che Orbán, attraverso la costruzione del suo muro, aveva trasformato nel simbolo della resistenza europea alla presunta invasione dei rifugiati. Ma, il voto alla destra nazionalista era anche straordinariamente elevato lungo la antica cortina di ferro, la frontiera che ieri divideva Est e Ovest e oggi separa l’Ungheria e l’Austria. In alcuni collegi posti in questa regione (Kormend, Csorna, Sarvar) la somma dei voti per Fidesz e per Jobbik arrivava addirittura a superare il 90%. Alle elezioni europee del 2019 Fidesz è andato anche oltre allo strabiliante risultato delle elezioni politiche, ottenendo il 52% dei voti (mentre Jobbik era crollato al 6,4%), una vittoria che “ci obbliga a bloccare l’immigrazione in tutta Europa, a costruire l’Europa delle Nazioni, a difendere la cultura cristiana”, aveva detto Orbán. In campagna elettorale, Orbán aveva sostenuto che le elezioni erano “la grande occasione per fermare il progetto post-nazionale e post-cristiano” perseguito in questi anni dalla “élite post-1968” attraverso l’alleanza tra grande capitale e “progressismo di sinistra” che avrebbe favorito l’immigrazione (dipinta come “invasione islamica”). Di recente, nella sua visita a Budapest, Papa Francesco ha esortato l’Ungheria a “tendere le braccia verso tutti” in un’apparente velata critica alle politiche anti-migranti di Viktor Orbán (il tipo di nazionalista populista che il Papa spesso critica durante le sue esternazioni e omelie).[↩]
- La feroce posizione anticomunista di Orbán a livello nazionale non ha ostacolato un abbraccio entusiasta della Cina nell’ambito di una politica di “Apertura Orientale“. Lo ha visto rafforzare i legami con enormi progetti congiunti di affari e infrastrutture, bloccando al contempo le recenti dichiarazioni dell’UE che denunciano il record della Cina in materia di diritti umani. Ma, ha alimentato un crescente disagio all’interno, in parte a causa delle preoccupazioni per la “trappola del debito”.[↩]
- I legami sono stati così stretti che il ministro degli Esteri di Orbán, Péter Szijjártó, ha ricevuto la medaglia dell’Ordine dell’Amicizia russo dal ministro degli Esteri di Putin, Sergei Lavrov, solo a dicembre.[↩]
- Tra le altre cose, l’Ungheria ha ottenuto anche un prestito russo per finanziare l’espansione della centrale nucleare di Paks II. A Budapest c’è anche una sede dell’International Investment Bank, un’istituzione finanziaria con radici sovietiche, aperta nel 2019.[↩]
- In una rilevazione del sondaggista Zavecz Research condotto tra il 21 e il 27 marzo, Fidesz ha avuto il 39% e l’alleanza di opposizione il 36%. Tra gli elettori che hanno preso una decisione sul voto, Fidesz aveva il 50% mentre l’opposizione si attestava al 46%, sostiene Zavecz, prevedendo una gara serrata.[↩]
- La riunione dei ministri della Difesa del Gruppo di Visegrad – che mette insieme Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia – prevista per questa settimana è stata annullata dopo che Polonia e Repubblica Ceca si sono ritirate per la tiepida risposta dell’Ungheria alla guerra della Russia contro l’Ucraina.[↩]
- Dopo quasi un decennio al potere, l’Ungheria nel 2019 è diventato il primo Stato membro dell’UE ad essere classificato come “parzialmente libero” dal gruppo di monitoraggio statunitense Freedom House. I reporter delle poche testate indipendenti vengono spiati segretamente.[↩]
- L’ala più conservatrice, nazionalista bianca e post-neoliberista della destra repubblicana ha avuto una fascinazione per Orbán, erigendolo a massimo difensore della civiltà occidentale. La destra potrebbe perdere la guerra culturale in America, ma l’Ungheria offre un modello per la politica antiliberale che non solo vince le elezioni, ma ha mostrato come usare il braccio forte dello Stato per imporre la propria volontà. Per loro, l’Ungheria può sembrare l’utopia post-neoliberista: la tanto decantata repressione di Orbán sulla “correttezza politica“, le rigide politiche di immigrazione e gli attacchi al secolarismo e ai diritti delle minoranze sono stati combinati con quella che dall’altra parte dell’Atlantico viene considerata (molto erroneamente) un’agenda economica (di sinistra) pro-lavoratori. Il conduttore di Fox News Tucker Carlson ha trascorso del tempo in Ungheria all’inizio del 2022, trasmettendo diversi servizi da Budapest e realizzando un “documentario“ intitolato “Ungheria contro Soros: la lotta per la civiltà”, che dipingeva l’Ungheria come un paradiso conservatore, sotto il costante attacco del miliardario di origine ungherese, George Soros. Era il secondo viaggio di Carlson in Ungheria in meno di un anno. Lo scorso agosto si era recato a Budapest per intervistare Orbán. Poche settimane dopo l’apparizione del premier ungherese su Fox, Trump gli ha inviato un messaggio di congratulazioni: “Ottimo lavoro Tucker, sono orgoglioso di te!“[↩]
- Ungheria, Repubblica Ceca, e Slovacchia sono finiti sotto procedura di infrazione per non avere garantito parità di accesso all’istruzione ai loro giovani cittadini di etnia Rom[↩]
- Negli ultimi anni, Orbán e Fidesz hanno intensificato la loro campagna contro i diritti LGBTIQ+. Lo scorso giugno, il parlamento ungherese ha approvato una legge che vieta la rappresentazione di persone gay all’interno del materiale didattico scolastico o di film e programmi TV per minori di 18 anni. Nonostante il boicottaggio del voto da parte di alcuni politici dell’opposizione, l’assemblea nazionale ha approvato la legge con 157 voti contro uno (con l’appoggio anche di Jobbik, che fa parte della coalizione delle opposizioni), dopo che i parlamentari di Fidesz hanno ignorato la richiesta del commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatović, di abbandonare il piano che “contrasta contro i diritti e le identità delle persone LGBTIQ+“. L’approvazione della legge, che discrimina chiaramente le persone in base al loro orientamento sessuale, è stata condannata dalla gran parte dei leader europei durante il successivo Consiglio Europeo (l’Ungheria è stata difesa solo da Polonia, Slovenia e Bulgaria). Il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione (8 luglio 2021) sulle violazioni del diritto dell’UE e dei diritti dei cittadini LGBTIQ+ in Ungheria a seguito delle modifiche giuridiche adottate dal parlamento ungherese. Inoltre, dopo la sentenza della Corte di Giustizia Europea del 16 febbraio 2022 che ha giudicato il meccanismo di condizionalità dello Stato di diritto in linea con il diritto dell’UE, respingendo i ricorsi presentati da Ungheria e Polonia, ha approvato anche una risoluzione (10 marzo 2022) sullo Stato di diritto e le conseguenze della sentenza della CGUE.[↩]
- Mentre la Commissione Europea ha approvato i piani di tutti gli Stati membri (18), le decisioni su Ungheria e Polonia sono rimaste bloccate a causa delle preoccupazioni sullo stato di diritto. E’ bene ricordare che l’accordo sul programma Next Generation UE da 750 miliardi di euro è stato a lungo avversato oltre che dai Paesi cosiddetti “frugali” (Olanda, Danimarca, Austria e Svezia), nettamente contrari ad ipotesi di messa in comune del debito, anche dai Paesi di Visegrad – Ungheria, Polonia, Cechia e Slovacchia –, e Finlandia. Il risultato finale dell’estenuante negoziato durato dalla primavera all’estate 2020 è stato un insieme piuttosto disordinato di compromessi. Per quanto riguarda il rispetto dello stato di diritto, Francia, Germania e altri Paesi volevano un collegamento con i fondi dell’UE, ma i governi di Ungheria e Polonia (appoggiati anche dalla Slovenia), accusati di minare l’indipendenza della magistratura e i diritti delle minoranze come quelli della comunità LGBTIQ+ hanno respinto questo piano. Il compromesso concordato dai leader ha rimandato la definizione di un meccanismo per la condizionalità dei finanziamenti al rispetto dello stato di diritto ad un successivo Consiglio e a un accordo con il Parlamento che ha stabilito la possibilità per la Commissione di bloccare i pagamenti del bilancio ai governi con decisioni raggiunte dalla maggioranza qualificata (e non all’unanimità) degli Stati membri. Una soluzione non gradita a Ungheria e Polonia che ne hanno chiesto la cancellazione e hanno posto il loro veto all’approvazione di bilancio e Recovery Fund, costringendo a nuove trattative per cercare di diluire il meccanismo. Alla fine, la situazione di stallo è stata disinnescata il 10 dicembre 2020 attraverso una “dichiarazione interpretativa” dell’ultimo minuto che ha assicurato che il meccanismo delle norme sanzionatorie doveva essere approvato dalla Corte di Giustizia Europea prima di poter essere applicato. Per ora il trasferimento dei fondi ai due Paesi rimangono bloccati anche se appare probabile che, nel contesto della situazione critica determinatasi a seguito della guerra ucraina, si arrivi a qualche forma di compromesso con la Commissione, almeno per la Polonia.[↩]
- Gli schemi di sostegno alla famiglia, le politiche sociali emblematiche dell’era di Orbán, sono volutamente concepiti per escludere le famiglie a basso reddito. Ciò è garantito rendendo la maggior parte del sostegno alle famiglie con figli accessibile solo sotto forma di agevolazioni fiscali e prestiti commerciali e mutui sovvenzionati dallo Stato. Tali prodotti finanziari sono disponibili solo attraverso banche commerciali che applicano i consueti criteri di merito creditizio, esclusi quelli a basso reddito; e in verità, i mutui possono essere utilizzati solo per l’acquisto di case di dimensioni fuori dalla portata della maggior parte delle famiglie bisognose. Nel frattempo, l’importo del sussidio familiare universale in contanti è rimasto invariato dal 2008. Queste misure hanno chiaramente svantaggiato i lavoratori poveri e i disoccupati, compresa la stragrande maggioranza dei Rom, che costituiscono circa l’8% della popolazione ungherese.[↩]
- I Paesi ex comunisti entrati nell’UE hanno registrato, tra il 2000 e il 2019, tassi di crescita annuali medi del 2,9%, mentre nel nucleo originario dell’Europa a 15 il reddito medio pro capite cresceva, negli stessi periodi, tra lo 0,4% e lo 0,8%. Nonostante la crescita dell’ultimo ventennio, il blocco orientale ha a malapena recuperato il divario che si era aperto rispetto alla media europea dopo la caduta del muro di Berlino (nei primi anni di transizione all’economia capitalista le distanze si accentuarono di molto). Il riavvicinamento si deve in gran parte ai guai economici del nucleo originario, soprattutto quelli dei Paesi del sud.[↩]
- Nel 2019, la Germania ha assorbito il 56% dei beni e prodotti esportati dagli altri Paesi europei (sopratutto da Olanda, Francia, Belgio, Italia e Paesi di Visegrad). Nella metà dei casi si trattava di beni intermedi, che entravano nel circuito produttivo del più importante sistema industriale europeo (soprattutto nell’industria automobilistica). La Germania è ancora la grande fabbrica che assembla le merci prodotte nel resto d’Europa. Un sesto dei prodotti che arrivano nel Paese sono beni di investimento, macchine o attrezzature, mentre solo un terzo sono beni finiti, beni di consumo.[↩]
- Secondo i dati dell’Ufficio studi di Intesa Sanpaolo per Il Sole 24 Ore (2017), dal 2008 al 2015 nell’elettromeccanica, nella meccanica e nell’auto la quota di import tedesco da Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria Slovacchia e Romania è salita dal 18 al 23,4% (in gran parte a scapito dell’Italia e degli altri Paesi dell’Europa mediterranea). Dagli impianti industriali di questi Paesi arriva una quota crescente del made in Germany. Le linee produttive ormai sono così integrate che il FMI parla di “German-Central European supply chain”, un sistema produttivo unico dove la gran parte del valore è catturata dalle grandi imprese tedesche. Paesi trasformati in laboratori di produzione e assemblaggio per l’industria tedesca, che forniscono manodopera così a buon mercato da trascinare verso il basso i salari tedeschi. Un hinterland a pochi chilometri di distanza, comprendente 64 milioni di abitanti, che è stato trasformato in una piattaforma di produzione neo-Fordista delocalizzata dell’industria tedesca (e su scala minore anche di quelle italiane, francesi e inglesi). Anche i conglomerati coreani si sono recentemente trasferiti in Ungheria e Polonia, affermandosi come i principali fornitori di batterie per l’industria automobilistica europea. Un sistema di catene produttive fortemente integrate che solo parzialmente ha risentito degli effetti negativi della pandemia da CoVid-19. Ma, i Paesi dell’Europa orientale sono vulnerabili perché le loro economie dipendono dalle esportazioni e questo le lascia in balia della domanda in altri Paesi, dipendenti soprattutto dal successo dei prodotti industriali tedeschi sui mercati globali. In proporzione al PIL, le esportazioni di beni e servizi variano dal 96% in Slovacchia e dall’85% in Ungheria, fino al 67% in Bulgaria e al 61% in Lettonia. A titolo di confronto, in Spagna il rapporto è del 35%. Da notare che in nessuno di questi Paesi, a differenza di quelli occidentali, esiste un sistema di contrattazione collettiva salariale – né in azienda, né per settore – salvo che per le sedi distaccate di poche multinazionali. Per chi lavora nelle fabbriche si applica solo il salario minimo di legge e questo è generalmente intorno ai 3-5 euro all’ora, pari a circa un decimo dell’operaio tedesco che costa 33 euro l’ora lorde (26 euro di retribuzione netta) e la cui produttività effettiva non è di tanto superiore. In Polonia la produttività è cresciuta il 43% in più dei salari negli ultimi 10 anni e il rapporto è molto simile in Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Paesi baltici.[↩]
- I 180 eurodeputati del PPE, alcuni dei quali da anni si battevano per l’espulsione di Fidesz, che accusavano di indebolire la magistratura e frenare le libertà dei media, accademiche e di altro tipo, hanno sostenuto il cambiamento con 148 voti favorevoli, 28 contrari e quattro astensioni. Orbán, il presidente del partito, ha dichiarato in una lettera pubblicata su Twitter subito dopo il voto che era “deludente” che nel bel mezzo di una pandemia il PPE si stesse occupando di limitare i diritti dei propri rappresentanti. Ha accusato il PPE di “cercare di silenziare e disabilitare i nostri deputati democraticamente eletti“. Il voto è stato “una mossa ostile contro Fidesz e i nostri elettori“, ha affermato, oltre che “antidemocratico, ingiusto e inaccettabile … Pertanto, l’organo di governo di Fidesz ha deciso di lasciare immediatamente il Gruppo PPE“. Gli eurodeputati di Fidesz potrebbero prima o poi unirsi al gruppo socialmente conservatore ed euroscettico dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR) dominato dal partito polacco Legge e Giustizia (PiS) e guidato da Giorgia Meloni o al gruppo nazionalista di estrema destra Identità e Democrazia fondato nel 2019 da Marine Le Pen e Matteo Salvini.[↩]
- Vogliono frontiere aperte per i propri cittadini e frontiere chiuse per i rifugiati non europei: le prime assicurano che i cittadini frustrati possano semplicemente andarsene (e che probabilmente non abbiano tempo né energia per organizzare l’opposizione politica dopo aver lavorato a Londra o Berlino come camerieri per dieci ore al giorno). E’ bene ricordare che uno dei temi di conflitto tra Commissione Europea e Ungheria e Polonia riguarda la questione dell’immigrazione e, in particolare, la ripartizione degli oneri dell’accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati. La Corte di Giustizia Europea ha respinto i ricorsi di Ungheria, Polonia e Slovacchia che non hanno voluto rispettare il sistema delle quote obbligatorie sui rifugiati accolti da Italia e Grecia decise dalla Commissione a maggioranza il 22 settembre 2015. Poi, il 2 aprile 2020 la Corte ha condannato questi Paesi per essere venuti meno ai loro obblighi europei, ma non è successo nulla. D’altra parte, il Consiglio Europeo del giugno 2018 ha trasformato le quote da obbligatorie in volontarie, per cui nulla di sostanziale è continuato a succedere. Von der Layen aveva promesso il superamento del Trattato di Dublino e l’avvio di un nuovo corso finalmente solidale, ma le misure contenute nel Patto sull’Immigrazione e l’Asilo, presentato il 23 settembre 2020, che doveva passare al vaglio del Parlamento e del Consiglio Europeo, hanno in gran parte disatteso le dichiarazioni che lo hanno preceduto. L’esigenza primaria rimane per l’Unione Europea chiudere le frontiere, limitare gli ingressi e favorire i rimpatri di coloro che vengono definiti “migranti economici”, ossia di coloro che cercano di sottrarsi alla miseria a rischio della vita perché non esistono visti di lavoro che possono richiedere. La ricollocazione obbligatoria dei migranti per il superamento del Trattato di Dublino, che da tempo le organizzazioni umanitarie e gli enti di tutela hanno chiesto, non è stata inserita tra le misure che invece prevedono un “meccanismo di solidarietà obbligatoria”: gli Stati membri possono scegliere se accettare il ricollocamento o gestire e pagare per le spese del rimpatrio delle persone la cui domanda di asilo viene respinta.[↩]
- Il governo e la Corte Costituzionale della Polonia rifiutano il principio fondamentale del primato giuridico dell’UE – garantito dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea -, un pilastro fondamentale dell’ordinamento giuridico del blocco a cui tutti gli Stati membri aderiscono al momento dell’adesione. Per la disputa su questa questione tra UE e Polonia vedi il nostro articolo.[↩]
- Rivendicano una loro autonomia decisionale dall’Unione Europea in politiche cruciali, come la politica della sicurezza o la politica migratoria. Secondo Viktor Orbàn: “L’Europa non è a Bruxelles, ma a Berlino, Budapest, Varsavia e Parigi. Io non attacco Bruxelles, ma i politici e i burocrati di Bruxelles. Si comportano come se fossero il centro dell’impero. Invece, noi vogliamo un’UE con un Parlamento dai poteri ben delimitati, una Commissione che vigila sui trattati anziché fare una propria politica, e un forte Consiglio dei capi di governo”. D’altra parte, Orbàn ha affermato anche che “Trent’anni fa pensavamo che l’Europa fosse il nostro futuro. Oggi, crediamo di essere noi il futuro dell’Europa.”[↩]
- Ma, non è stata mai creata alcuna impresa ungherese competitiva a livello globale, mentre oligarchi (amici e sodali di Orbán) in cerca di rendite hanno accumulato enormi fortune in settori a basso valore aggiunto come l’edilizia e l’agricoltura, che ricevono anche la maggior parte degli investimenti e dei sussidi dai fondi dell’UE. Nonostante la retorica, la ricerca della “sovranità economica” da parte di Orbán si è ridotta principalmente a dei tentativi di sovvenzionare gli oligarchi locali.[↩]
- L’Ungheria di Viktor Orbàn, diventata la rappresentazione dello Stato sovranista, da sola ha costruito oltre 450 km di recinzione: un doppio muro anti migranti al confine con la Serbia e uno lungo la frontiera con la Croazia per evitare che i rifugiati non europei passino da lì. Una posizione estrema, che di fatto impedisce la richiesta di asilo politico e che ha scatenato un vero e proprio effetto domino. Anche la Slovenia ha voluto il suo muro per difendere “la sovranità nazionale e la sicurezza pubblica” e tutelarsi “dall’invasione dell’islam“. Una mossa che ha spinto l’Austria ad erigere una barriera di 330 km al confine con l’ex Stato iugoslavo, più o meno per gli stessi motivi. La Bulgaria ha costruito un muro da 240 km al confine con la Turchia nel 2017. Le repubbliche baltiche, Estonia, Lettonia e Lituania, hanno costruito 336 km di recinzione con la Russia, che sono diventati 526 nel 2019.[↩]
- Soros è stato allievo (alla London School of Economics) e amico del filosofo Karl Popper, membro della Mont Pèlerin Society e autore del libro manifesto “La società aperta ed i suoi nemici” (1945) che sosteneva che le società aperte – ossia fondate sul primato della libertà individuale, dell’economia di mercato e della democrazia politica – garantiscono e proteggono lo scambio razionale, mentre le società chiuse costringono le persone a sottomettersi all’autorità, indipendentemente dal fatto che tale autorità sia religiosa, politica o economica. Per Soros, l’obiettivo dell’esistenza umana contemporanea è quello di costruire un mondo definito non da Stati sovrani, ma da una comunità globale i cui componenti comprendono che tutti condividono un interesse per la libertà, l’uguaglianza e la prosperità. Secondo Soros, la creazione di una tale società aperta globale è l’unico modo per garantire che l’umanità superi le sfide esistenziali del cambiamento climatico e della proliferazione nucleare.[↩]
- Il sito sarebbe il primo avamposto europeo per Fudan, con il completamento del complesso entro il 2024, in base all’accordo firmato con le autorità ungheresi. Il costo stimato di 1,5 miliardi di euro del progetto sarebbe in gran parte pagato dall’Ungheria, tramite un prestito dalla Cina. Sarebbe costruito su un sito destinato ad ospitare studenti a basso reddito. L’Ungheria dovrà anche coprire i costi di manutenzione e gli stipendi accademici estremamente generosi, ma lo Stato non avrebbe una partecipazione di maggioranza nel trust che gestisce e supervisiona il campus. Le notizie sul prestito pianificato per costruire il campus di Fudan arrivano dopo anni di preoccupazioni per un controverso ammodernamento del valore di 3 miliardi di dollari sostenuto dalla Cina della decrepita ferrovia che collega Budapest a Belgrado, un investimento che secondo le attuali proiezioni potrebbe richiedere centinaia di anni per essere ripagato.[↩]
- Molti leaders europei delle forze di centro-destra sono stati felici di usare Orbàn per i loro scopi a breve termine: i conservatori della CSU, che hanno imposto l’obbligo del crocifisso appeso negli uffici pubblici in nome della “identità bavarese”, perché “la croce non è un segno di una religione, ma l’impegno per un’identità, per un imprinting, per un’affermazione dei nostri valori culturali, storici e spirituali”, scatenando peraltro la protesta delle gerarchie ecclesiastiche della Chiesa cattolica per questo uso politico del più importante simbolo della fede cristiana. La croce “è un segno di protesta contro la violenza, l’ingiustizia, il peccato e la morte, ma non un segno contro altre persone; non spetta allo Stato spiegare quale sia il significato della croce” – ha affermato Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco di Baviera e presidente della Conferenza episcopale tedesca. I politici della CSU hanno celebrato Orbàn come un “loro amico” campione di un “conservatorismo civico”, per mostrare la loro opposizione alle politiche sui rifugiati di Angela Merkel. Il cancelliere democratico-cristiano austriaco Sebastian Kurz, il leader della destra francese Laurent Wauquiez e il leader della Lega Matteo Salvini hanno elogiato Orbán per dimostrare la propria fermezza sull’immigrazione. Rimettendo il crocifisso negli edifici pubblici, sostenendo che “appartiene alle fondamenta del nostro Stato”, si intende suggerire che essere cristiani sia requisito essenziale del “vero tedesco”. D’altra parte, Seehofer aveva aggiunto la parola Heimat al nome del suo ministero (la parola tedesca si riferisce a casa, conforto e appartenenza, ma è anche stata usata dai nazisti e da altri gruppi di estrema destra come sinonimo di “patria”) e ha affermato che: “L’Islam non è parte del nostro Paese. La Germania è stata forgiata dalla cristianità e in questo rientrano le domeniche di festa, e i giorni solenni come Pasqua, la Pentecoste e il Natale”. Ma, oggi in Germania vivono 4,7 milioni di musulmani (2 milioni sono cittadini tedeschi), molti di loro sono nati qui, figli e nipoti dei lavoratori fatti venire come gastarbeiter dalla Turchia negli anni ’60 dopo che il Muro di Berlino aveva interrotto l’afflusso dei tedeschi dell’Est. Sono ben integrati e in ogni grande città c’è almeno una moschea.[↩]
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