Le banche centrali dei Paesi occidentali si sono ormai orientate in modo deciso sulla strada di una stretta monetaria con l’obiettivo di combattere la crescita dell’inflazione. In questo articolo cerchiamo di riflettere su questo nuovo scenario per capire le implicazioni degli aumenti dei tassi di interesse e della fine delle politiche monetarie accomodanti su salari e profitti. Emerge un quadro denso di incertezze che potrebbe portare ad una recessione globale entro il 2023.
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Carovita e aumento dei tassi d’interesse: la risposta delle banche centrali
L’indice dei prezzi al consumo negli Stati Uniti è aumentato dell’8,6% a maggio, il più alto dal 1981, superando la previsione del mercato dell’8,3%. Per frenare l’inflazione crescente e raffreddare prestiti e domanda, la Federal Reserve (FED) ha alzato il tasso di interesse di 0,75 punti percentuali il 15 giugno, l’aumento più alto dal 1994.
La FED aveva già alzato i tassi di interesse di 25 punti base a marzo, il primo aumento da quando aveva tagliato i tassi di interesse a zero allorché la pandemia aveva colpito gli Stati Uniti (marzo 2020). Ad aprile l’inflazione è scesa di 0,2 punti percentuali, dall’8,5 all’8,3%, ma a maggio è rimbalzata all’8,6%, con un aumento dei prezzi che non ha riguardato solo cibo ed energia. Pertanto, a maggio la FED ha aumentato il tasso di interesse di riferimento di 0,50 punti percentuali, mentre a giugno l’aumento è stato di 0,75 punti (il maggiore dal 2000), arrivando così ad un intervallo di tassi target compreso tra l’1,50% e l’1,75%.
I dati sembrano indicare che l’inflazione è ormai radicata in tutta l’economia e che quindi nel breve periodo l’aumento dei tassi di interesse non serva a molto per frenare l’inflazione. Gli analisti prevedono che la FED alzerà i tassi sette volte nel 2022, raggiungendo il 3,5% all’inizio del 2023, per poi farlo salire ancora oltre il 4% nei mesi successivi. “Andremo finché non ci sentiamo in un luogo in cui possiamo dire: ‘Sì, le condizioni finanziarie sono in un luogo appropriato. Vediamo l’inflazione scendere’“, ha affermato Powell. “Andremo fino a quel punto, e non ci sarà alcuna esitazione al riguardo“. “Noi della Fed comprendiamo le difficoltà che l’inflazione sta causando. L’inflazione non può scendere finché non si appiattisce. Questo è quello che stiamo cercando di vedere“, ha affermato, facendo pensare all’approccio violento utilizzato da Paul Volcker per ridurre l’inflazione nei primi anni’80, conosciuto come il “Volcker shock”.
L’inflazione record negli Stati Uniti e in Unione Europea (in particolare nell’Eurozona, dove ha raggiunto l’8,1% a maggio anno su anno, mentre era al 7,5% ad aprile) è il risultato di tre fattori principali: (1) aumenti dei prezzi dei prodotti energetici (petrolio, gas, carbone, elettricità), del cibo, di altre merci e delle case1; (2) gli shock nelle catene di fornitura (supply chains); (3) gli shock della domanda intervenuti a seguito della ripresa dalla crisi determinata dalla pandemia da CoVid-19 (ancora in corso).
Il processo di deglobalizzazione è stato innescato dalla guerra commerciale USA-Cina e la frammentazione del mondo in blocchi geopolitici e geoeconomici viene accelerato dalla guerra Russia-Ucraina, ma il trasferimento delle catene industriali globali avvenuto negli ultimi 40 anni non può essere annullato dall’oggi al domani. Nei primi anni ’80, gli Stati Uniti e i Paesi europei sono riusciti a rallentare l’inflazione (allora definita stagflazione) aumentando i tassi di interesse. Ma, hanno potuto farlo solo perché la Cina e altri Paesi dell’Asia orientale hanno fornito al mondo, compresi gli Stati Uniti, enormi quantità di prodotti di alta qualità a prezzi relativamente bassi, e quindi hanno contribuito a proteggere i mezzi di sussistenza delle popolazioni americane ed europee. In effetti, oggi le economie statunitense ed europee si basano sullo sviluppo coordinato delle industrie globali. Separate dalle catene industriali globali non sarebbero state in grado di raggiungere l’attuale livello di sviluppo e di garantire standard di vita elevati ai loro cittadini/consumatori.
La moderazione salariale e la riduzione del potere negoziale dei lavoratori sono stati possibili grazie al contenimento del potere dei sindacati e all’importazione di beni di consumo dai Paesi emergenti prodotti a basso costo (che allo stesso tempo hanno limitato l’impatto della stagnazione salariale sul potere d’acquisto e quindi sull’instabilità sociale). Le innovazioni finanziarie hanno permesso, in particolare sui mercati legati alle nuove tecnologie, di soddisfare l’esigenza di finanziare gli investimenti e di introdurre le nuove tecnologie.
La pandemia di CoVid-19 ha seriamente sconvolto l’industria globale e le catene di approvvigionamento, in particolare la fornitura di beni. L’utilizzo di pacchetti stimolo su larga scala – azioni intraprese per stimolare un’economia durante una recessione, attraverso la spesa pubblica e la riduzione dei tassi di interesse e delle tasse – dopo il marzo 2020 ha allentato la pressione sulle economie euro-americane, ma ha anche esacerbato lo squilibrio tra domanda e offerta, stimolando la domanda dei consumatori ben al di sopra della capacità produttiva delle economie, contribuendo al forte aumento dei prezzi al consumo.
Inoltre, gli sforzi di Washington per frenare l’ascesa della Cina e modificare l’ordine economico globale a proprio favore stanno mettendo a dura prova anche gli Stati Uniti. La politica statunitense di contenimento della Cina ha indebolito le basi economiche del Paese, minando notevolmente la sua cooperazione con il resto del mondo. Se Washington rimuovesse tutte le tariffe sulle merci cinesi e di altri Paesi imposte da Trump, è probabile che l’inflazione negli Stati Uniti diminuirebbe di circa 2 punti percentuali2.
Lotta all’inflazione, profitti e salari
In risposta all’aumento dei prezzi e in vista delle cruciali elezioni di midterm di novembre, il presidente Biden ha dichiarato nei giorni scorsi che “combattere l’inflazione” è la sua “massima priorità economica“. Ha promesso che la sua amministrazione “continuerà a fare tutto il possibile per abbassare i prezzi per il popolo americano“. Eppure, nonostante tali dichiarazioni di impegno, Biden ha rifiutato di revocare i dazi dell’amministrazione Trump sulle merci importate dalla Cina 3.
Nelle ultime settimane, almeno sul piano retorico, Biden sembra aver sposato l’offensiva promossa dalla sinistra del partito democratico contro le grandi coporations (e il loro azionisti), in particolare quelle petrolifere, accusate di aumentare i prezzi più per accrescere i profitti che per coprire costi crescenti, avvantaggiandosi delle loro posizioni monopolistiche in mercati settoriali di benei e servizi4, mangiando i salari della maggior parte degli americani (negli ultimi tre mesi i salari orari sono aumentati a un tasso di circa il 4,5%, non tenendo il passo con i prezzi di beni e servizi, aumentati dell’8,3% nei 12 mesi fino ad aprile) e mettendo ulteriormente in pericolo le persone finanziariamente vulnerabili. L’amministrazione Biden ha tentato di abbassare i prezzi dei carburanti. A marzo la Casa Bianca ha annunciato l’intenzione di rilasciare fino a 1 milione di barili di petrolio al giorno dalla riserva strategica, nel tentativo di smorzare i prezzi elevati della benzina esacerbati dalla guerra in Ucraina. Ma, i prezzi della benzina rimangono elevati a una media nazionale di 5 dollari al gallone (con punte fino ad oltre 5,50) rispetto ai 2,96 di un anno fa. Il 15 giugno, Biden ha convocato i massimi dirigenti petroliferi alla Casa Bianca per chiedere “un’azione immediata” e discutere i modi in cui possono “lavorare con la mia amministrazione per proporre soluzioni concrete a breve termine che affrontino la crisi”5.
Un rapporto di ricerca del think tank mainstream Brookings Institution ha rilevato che quasi tutte le aziende comprese in un campione che occupa oltre 7 milioni di lavoratori non hanno rispettato i propri impegni di passare a un modello più inclusivo negli ultimi due anni. In modo schiacciante, i guadagni finanziari hanno avvantaggiato azionisti ricchi e dirigenti, mentre i lavoratori in prima linea hanno subito le perdite maggiori e hanno beneficiato in minima parte del successo dell’azienda. Nonostante la speranza e il clamore – si pensi all’impegno dichiarato di adottare il modello del cosiddetto “stakeholder capitalism” -, le aziende stanno pagando i lavoratori solo leggermente di più in termini reali di quanto non facessero prima della pandemia e, per la maggior parte dei lavoratori, non ancora abbastanza per non essere dei lavoratori poveri. Continuano quindi a prevalere l’ideologia del profitto sulle persone e le azioni anti-sindacali, soprattutto nei settori che, come la logistica, richiedono maggiore forza lavoro.
Negli Stati Uniti, salari e stipendi crescono molto meno dell’inflazione6, ma più di quanto avviene in Europa, a seguito di quello che viene definito il “potere contrattuale individualizzato nel mercato del lavoro” che è stato rafforzato dal fenomeno post-pandemico della “great resignation” (la “grande dimissione volontaria”, con milioni di lavoratori che si sono dimessi per cercare lavori con salari e condizioni migliori). In Europa, grazie agli schemi della cassa integrazione italiana e del Kurzarbeit (lavoro ad orario ridotto) tedesco, in cui il governo fornisce almeno il 60% della retribuzione persa ai lavoratori le cui ore sono state ridotte (schemi che sono stati finanziati anche con i fondi UE del programma SURE), il colpo economico ed occupazionale della pandemia è stato attenuato, evitando la disoccupazione di massa degli Stati Uniti. Quindi, in Europa solo una piccola parte degli occupati stabili ha perso il lavoro, per cui non c’è stato bisogno di rinegoziare i contratti di lavoro quando l’economia è ripartita. Negli USA, invece, manca uno schema di protezione dei lavoratori che non sia il sussidio temporaneo di disoccupazione, per cui con la pandemia (da marzo 2020) c’è stato un aumento massivo della disoccupazione, arrivata a superare il 16%. La ripresa economica è stata molto rapida e i datori di lavoro hanno dovuto trovare ed assumere nuovi dipendenti in tempi rapidi per risolvere la carenza di lavoratori, concedendo salari e benefits migliori ai singoli lavoratori per attrarli e fidelizzarli. Ma, le milioni di dimissioni volontarie sono continuate, soprattutto nei settori delle costruzioni e dei servizi professionali e alle imprese, nel momento in cui i lavoratori hanno finalmente l’opportunità di trovare migliori salari e condizioni di lavoro in un mercato del lavoro che viene definito teso, rigido o stretto (tight), con un tasso di disoccupazione ufficiale del 3,6% e oltre 11 milioni di posti di lavoro offerti dalle imprese che rimangono scoperti. A maggio c’erano il 70% in più di posti di lavoro disponibili rispetto alle nuove assunzioni, mentre a marzo c’è stato il record di 1,92 posti di lavoro offerti per disoccupato7.
Il terrore della FED per un possibile innesco della spirale salari-prezzi
Da questo punto di vista, la FED è terrorizzata dalla possibilità che si inneschi la spirale salari-prezzi stile anni ‘70. Secondo i dati governativi, le retribuzioni per i lavoratori hanno registrato il più grande aumento in più di tre decenni nel primo trimestre del 2022, alimentando la retorica allarmistica dei Repubblicani e degli economisti neoliberisti, oltre al panico di alcuni investitori. Ma, gli aumenti salariali, che svolgono un ruolo importante nel determinare il tasso di inflazione a più lungo termine, sono stati molto moderati a partire dal mese di aprile.
La teoria della spinta salariale dell’inflazione si basa sull’idea che un mercato del lavoro rigido (“piena occupazione“) consente ai lavoratori di spingere per salari più alti e quindi costringe i datori di lavoro ad aumentare i prezzi per sostenere i profitti. È una teoria che oggi persiste tra i keynesiani ortodossi perché pensano che la piena occupazione generi inflazione; ed è supportata dalle autorità perché ignora qualsiasi impatto sui prezzi da parte delle imprese che tentano di aumentare i profitti8.
In ogni caso, l’obiettivo politico a breve termine della FED è quello di rallentare la spesa aggregata abbastanza da ridurre l’eccesso di domanda di lavoro. Ma, probabilmente, questa situazione continuerà fino alla fine dell’anno e gli sforzi sempre più aggressivi della FED per “raffreddare il mercato del lavoro” attraverso gli aumenti dei tassi di interesse e il taglio delle sue disponibilità di 9 trilioni di dollari di assets (una mossa politica che spingerà ulteriormente al rialzo i costi di finanziamento) non guadagneranno terreno ancora per dei mesi.
Il vero problema del ragionamento che giustifica le azioni della FED è che l’aumento dell’inflazione non è stato determinato da nulla che assomigli a un mercato del lavoro surriscaldato, bensì da margini di profitto aziendali più elevati (soprattutto nei settori dell’energia) e colli di bottiglia delle catene di approvvigionamento dei beni (in particolare dei beni durevoli), con la chiusura di porti e altri nodi della rete logistica in tutto il mondo. Ciò significa che la FED che alza i tassi di interesse per “raffreddare” il mercato del lavoro e ridurre gli aumenti salariali o i salari stessi ha scarsi o nulli effetti sull’inflazione ed è più propensa a causare una stagnazione degli investimenti e dei consumi, provocando così una recessione.
In ogni caso, la persistente difficoltà che i datori di lavoro hanno nel ricoprire posizioni spinge i salari un po’ più in alto, ma stimola anche i datori di lavoro ad automatizzare le operazioni o a trovare altre forme organizzative più efficienti per strutturarsi su una forza lavoro più piccola. Sfide che cresceranno quando un numero maggiore di baby boomer lascerà la forza lavoro, per cui le aziende apriranno operazioni in parti del Paese con più lavoratori disponibili o si affideranno maggiormente ai lavoratori a distanza che risiedono in aree con dati demografici migliori.
Il problema fondamentale negli Stati Uniti oggi è lo svuotamento delle industrie e l’inefficienza delle catene di approvvigionamento. Ad esempio, la produttività del lavoro non agricolo è crollata del 7,3% nel primo trimestre del 2022 rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso: il calo più grande dal terzo trimestre del 1947, secondo il Bureau of Labor Statistics9. L’inflazione americana è alimentata anche da tendenze secolari che non sono destinate a svanire presto. La popolazione sta invecchiando, la partecipazione alla forza lavoro è in calo e la crescita della produttività è in calo.
Tassi di interesse più elevati interromperanno ulteriormente i flussi globali di capitale, danneggiando la produzione in altri Paesi e le forniture agli Stati Uniti. Aumenterà anche il costo della produzione interna e accelererà il passaggio dall’economia reale all’economia virtuale.
È interessante notare che a differenza della stretta delle politiche monetarie americana ed europea, i governi asiatici stanno adottando un approccio molto più mirato nel frenare la pressione inflazionistica globale, dai divieti alle esportazioni al controllo dei prezzi, una strategia che sembra funzionare almeno per ora. Sebbene l’inflazione rimanga una seria sfida economica in Asia, le misure in molti Paesi hanno aiutato a proteggere le popolazioni da alcuni aumenti dei prezzi e hanno significato che la maggior parte delle banche centrali della regione non ha dovuto aumentare i tassi di interesse così rapidamente come altrove. I vari sforzi hanno anche spostato alcuni degli oneri dei costi dai consumatori e dalle piccole imprese in gran parte sui bilanci dei governi.
Mentre l’Occidente aumenta i tassi, la banca centrale cinese li ha tagliati e il governo di Pechino ha lanciato uno stimolo economico. Ha aiutato le azioni della terraferma e il mercato di Hong Kong a invertire la tendenza al ribasso degli scambi, ma potrebbe non essere sufficiente per rilanciare l’economia globale come ha fatto il suo massiccio stimolo di 4 trilioni di dollari dopo la crisi finanziaria globale del 2008-2009.
La FED all’attacco di Wall Street
I rialzi dei tassi hanno ridotto i guadagni del mercato azionario, ossia del centro dell’economia statunitense. L’indice S&P 500 ha perso il 2,7% durante l’anno e mezzo della presidenza di Joe Biden, ma nel 2022 Wall Street e gli altri mercati azionari ed obbligazionari globali sono stati contrassegnati da una volatilità sconvolgente e perdite schiaccianti nei titoli tecnologici un tempo popolari10.
L’indice S&P 500 ha registrato il peggior inizio di anno (-13,3%), nei primi quattro mesi del 2022, in oltre 80 anni, con il calo più forte ad aprile pari al 4,9%. Ma, i prezzi delle azioni sono scesi, con forti oscillazioni, anche a maggio e giugno. Ad esempio, ci sono stati i crolli del 4% il 18 maggio e del 3,9% il 13 giugno. L’indice è arrivato a superare una perdita complessiva del 23% da gennaio. Gli analisti di JP Morgan hanno affermato che lo stato dell’S&P 500 “implica una probabilità dell’85% di una recessione negli Stati Uniti“.
Molti grandi investitori hanno ritenuto dall’inizio dell’anno e continuano ancora a ritenere che la FED sia stata inizialmente troppo lenta nel reagire all’aumento dell’inflazione (un’accusa che è stata espressa anche da alcuni analisti/economisti, come Lawrence Summers, Martin Wolf e Mohamed El-Erian, e dal settimanale The Economist) e dovrà aumentare i tassi in modo più aggressivo e più del previsto. E sebbene Powell si sia detto fiducioso che la FED possa domare l’inflazione senza spingere l’economia in recessione, preservando un mercato del lavoro forte, anche se ha ammesso che “ci potrebbe essere del dolore” (con un tasso di disoccupazione che potrebbe salire dal 3,6% al 4,1% nel 202311), molti analisti ed operatori finanziari sono dubbiosi che la banca centrale possa realizzare un cosiddetto atterraggio morbido (soft landing), ossia senza portare gli USA in recessione nel 2023, in considerazione di un contesto economico globale caratterizzato da prezzi alle stelle delle materie prime e fortissime tensioni geopolitiche derivanti dalla guerra calda in Ucraina e dalla guerra fredda tra USA e Cina.
Allo stesso tempo, le aspettative di una politica più restrittiva della FED hanno spinto al rialzo i rendimenti obbligazionari, precedentemente dormienti. Il rendimento del titolo del Tesoro statunitense a 10 anni è già approssimativamente raddoppiato quest’anno al 3%, la prima volta al di sopra di tale livello dalla fine del 2018, quando la FED stava raggiungendo la fine del suo ultimo ciclo di stretta monetaria. Con i rendimenti in aumento, le obbligazioni sono un investimento più competitivo delle azioni, con il rendimento dei Buoni del Tesoro a 10 anni circa il doppio del livello del rendimento da dividendo dell’S&P 500. I rendimenti obbligazionari più elevati, in particolare, attenuano il fascino delle aziende tecnologiche e di altri settori ad alta crescita, che sono valutati per i loro potenziali flussi di cassa e perdono attrattiva quando i rendimenti obbligazionari aumentano. Gli investitori affermano che l’impatto si è riflesso nei ribassi fuori misura registrati da alcune scommesse sulla crescita post-pandemia, con l’indice di crescita Russell 1000 in calo del 24% quest’anno.
Allo stesso tempo, è crollato anche il Bitcoin, il re delle criptovalute, che ha perso oltre un terzo del suo valore. Se diventa più costoso prendere a prestito denaro e se ci sono meno soldi in circolazione, gli investimenti rischiosi e che non promettono profitti probabili e rapidi diventano meno appetibili. E così è stato anche per le altre criptovalute e investimenti legati alla blockchain, una tecnologia promettente, ma per ora con limitate applicazioni.
Gli operatori finanziari vorrebbero vedere indicazioni che l’inflazione negli Stati Uniti sta raggiungendo il picco in modo che la FED possa fare un passo indietro da azioni potenzialmente più aggressive. “Questo non è il momento per letture tremendamente sfumate dell’inflazione“, ha affermato Powell. “Dobbiamo vedere l’inflazione scendere in modo convincente. Fino a quando non lo faremo, andremo avanti“.
L’inasprimento delle condizioni finanziarie è una conseguenza intenzionale degli aumenti dei tassi della FED e del QT o inasprimento quantitativo. La FED vuole rallentare la domanda aggregata e per farlo le condizioni finanziarie devono inasprirsi. Il calo delle azioni contribuisce all’obiettivo della FED di rallentare la crescita della domanda a causa dell'”effetto ricchezza” in cui gli investitori riducono alcune spese in risposta ai cali del mercato. Quello che abbiamo visto finora rimane coerente con gli obiettivi della FED in termini di inasprimento delle condizioni finanziarie per rallentare la crescita e riallineare la domanda con un’offerta depressa. Wall Street sta facendo i conti con una FED determinata a ridurre l’inflazione a tutti i costi.
In ogni caso, è evidente che ci sono limiti a quanto le azioni possono perdere valore prima che la FED possa prestare attenzione. La maggior parte dei ribassi di quest’anno sono stati una rivalutazione delle azioni e degli utili futuri sulla base di tassi di interesse previsti più alti, mentre sarebbe preoccupante un calo che possa segnalare una flessione dell’economia più marcata del previsto. È assai probabile che se le stime degli utili dell’S&P 500 nel complesso iniziassero a scendere, molto probabilmente la FED presterebbe attenzione. Sarebbe un segno che l’economia sta vacillando e che un “atterraggio morbido” sarebbe ancora meno probabile e potrebbe essere fuori dal controllo della FED. “La domanda se possiamo eseguire un atterraggio morbido o meno, potrebbe effettivamente dipendere da fattori che non controlliamo“, ha affermato il presidente della FED. “Ci sono grandi eventi, eventi geopolitici in corso in tutto il mondo, che giocheranno un ruolo molto importante nell’economia nel prossimo anno“.
In ogni caso, i banchieri della FED sembrano aver tratto insegnamento dalle recessioni degli ultimi due decenni secondo cui i ribassi delle azioni di solito non sono troppo consequenziali, mentre qualsiasi perturbazione nei mercati del credito, come l’esplosione dei mutui subprime che ha portato alla recessione del 2007-2009, può essere estremamente disastrosa. Il crollo delle azioni tecnologiche del 2000 quando è scoppiata la bolla delle dot.com è stato visto dai banchieri centrali come perlopiù benigno per l’economia.
Il mercato azionario non è l’unico obiettivo dell’inasprimento della FED. Tassi più elevati per i mutui casa (arrivati sopra al 6%) e per i veicoli, oltre che per le carte di credito, riducono la domanda in quei mercati, dove le forniture sono scarse12, e un dollaro più forte ha l’effetto di ridurre la domanda di esportazione per i produttori statunitensi e di ridurre i prezzi all’importazione.
È interessante notare che per oltre un decennio la FED e le altre banche centrali dei Paesi ricchi hanno creato un’enorme quantità di moneta attraverso politiche monetarie “non convenzionali”, ossia non previste né dai loro statuti né dai manuali di macroeconomia neoliberista. Hanno anche drasticamente tagliato il tasso di interesse, ossia hanno abbassato il prezzo che le banche private possono addebitare per il denaro che creano, non tanto perché tassi più bassi avrebbero portato a maggiori investimenti produttivi e crescita della produttività, quanto piuttosto perché tassi più bassi avrebbero dovuto alimentare “bolle” dei prezzi degli assets (azioni, obbligazioni, case, etc.). Così, grazie al bassissimo costo del denaro, è stata alimentata una asset inflation, mentre i prezzi di beni e servizi sono restati quasi fermi, e i mercati finanziari hanno continuato a segnare risultati record fino alle prime due settimane di gennaio 2020: a Wall Street l’indice Dow Jones è cresciuto di quasi il 25%, mentre lo S&P500 del 30% e il Nasdaq del 40%; il FTSE100 di Londra è cresciuto del 12%, mentre il Dax30 in Germania e il CAC in Francia sono saliti del 25%; il Nikkei è aumentato del 18%, il CSI300, che contiene le maggiori società di Shanghai e Shenzhen, ha registrato un aumento del 36% e l’ASX200 australiano è arrivato al suo punto più alto di sempre in novembre. A fine 2019 tutti i titoli azionari valevano 87,1 trilioni di dollari, pari al 100% del PIL globale, e nel complesso questo è stato l’anno migliore per le azioni dal 2009. Gli operatori finanziari non avevano alcun vero motivo per pensare che la festa non dovesse continuare anche nel 2020. Gli Stati Uniti e la Cina sembravano vicini a un armistizio nella loro guerra commerciale, la FED e BCE stavano stimolando l’economia, e la vittoria di Boris Johnson alle elezioni aveva rimosso ogni incertezza riguardo al fatto che la Gran Bretagna avrebbe lasciato l’Unione Europea. Ancora il 4 febbraio 2020 Donald Trump aveva aperto il suo discorso sullo Stato dell’Unione con una descrizione di quello che pomposamente aveva definito “the great American comeback“: “I posti di lavoro sono in forte espansione, i redditi stanno aumentando vertiginosamente, la povertà sta precipitando, la criminalità sta diminuendo, la fiducia sta aumentando e il nostro Paese sta di nuovo prosperando ed è altamente rispettato“.
Poi, tra febbraio e i primi di marzo è arrivata la pandemia da CoVid-19 con il crollo dei mercati azionari e obbligazionari13. La FED e le altre banche centrali hanno dovuto prestare attenzione ed intervenire, tagliando i tassi di interesse a zero o sotto zero e pompando trilioni di dollari ed euro in economie ridotte in stato comatoso. In sostanza, la FED ha rassicurato gli investitori che avrebbe fatto di tutto per sostenere l’economia americana ed evitare una crisi finanziaria, immettendo un’enorme massa di liquidità. Dal 20 marzo 2020 Wall Street e gli altri mercati finanziari globali sono ripartiti segnando una crescita record dei valori azionari.
Ora, l’era del denaro a basso costo è finita e la FED ha capito che se vuole veramente mettere sotto controllo l’inflazione deve “raffreddare” la domanda e che per fare questo deve colpire quel 10% della popolazione americana più ricco, che per decenni ha allevato e protetto con le “politiche non convenzionali”, riducendo il valore dei loro assets finanziari (azioni, rendite, immobili, etc.), in modo da ridurre i loro consumi. La FED sa bene che il 10% più ricco degli americani che controlla e beneficia della “asset economy”, è responsabile di oltre la metà dei consumi nazionali, secondo la Moody’s Analytics. La FED spera anche che la riduzione del valore dei risparmi pensionistici ed assicurativi di milioni di americani (i programmi 401k) ormai in pensione li spingerà a tornare al lavoro, contribuendo a “raffreddare” un mercato del lavoro considerato teso.
Anche la Banca Centrale Europea alza i tassi
La Banca Centrale Europea dovrebbe aumentare i tassi di interesse fino a tre volte quest’anno per combattere l’inflazione. Questi aumenti potrebbero essere relativamente piccoli, ovvero 0,25 punti percentuali ciascuno. Se ciò avvenisse entro dicembre, si avrebbe l’effetto che entro il 2023 i tassi sui depositi delle banche europee, che ora sono meno 0,5%, sarebbero in territorio positivo. La BCE ha anche deciso la fine degli acquisti diretti di titoli pubblici, anche se continuerà a reinvestire gli introiti di quelli in scadenza nell’acquisto di nuovi titoli.
A partire da maggio, i membri del consiglio direttivo della BCE sono diventati più espliciti su una normalizzazione della politica monetaria più rapida di quanto previsto in precedenza, con un sostegno più pubblico ad un primo aumento dei tassi a luglio.
La FED è più avanti in questo percorso, ma si ritiene che gli Stati Uniti siano circa sei mesi prima nel ciclo economico, per cui viene considerato opportuno che la BCE agisca successivamente. Questo anche se il procedere spedito della FED, con aumenti di 0,50 e 0,75 punti, finisce per far apprezzare il il dollaro nei confronti dell’euro, alimentando l’inflazione importata nell’Eurozona e quindi costringendo la BCE a cercare di compensare la differenza, alzando a sua volta i tassi di interesse per evitare che il divario non aumenti in modo significativo.
Per ora il pericolo di una spirale salari-prezzi, in cui le richieste di salari più alti alimentano l’inflazione, è quasi del tutto inesistente nell’Eurozona, anche tenendo conto degli accordi salariali al momento in discussione e dell’aumento del salario minimo in Germania da ottobre. La stessa Lagarde ammette che nell’Eurozona l’inflazione è dovuta soprattutto all’aumento delle materie prime (non solo petrolio, gas e cereali) ed è dunque una inflazione da offerta e non da domanda. .
A partire da luglio si chiuderà la stagione inaugurata da Draghi con il whatever it takes (2014) e proseguita con il pompaggio di liquidità, con il denaro che praticamente non costava nulla, grazie a tassi negativi, mentre la BCE acquistava titoli di Stato a piene mani, sostenendo i pacchetti fiscali degli Stati, a cominciare dall’Italia che ha portato il suo rapporto debito/PIL al 150%. La reazione dei mercati finanziari europei è stata negativa, con le borse europee in picchiata e lo spread tra i Btp italiani e i Bund tedeschi che è tornato a salire. La BCE ha promesso di individuare e mettere in opera uno strumento anti-spread che dovrebbe combattere la “frammentazione” dei costi di finanziamento dei singoli Stati14, ma è chiaro che si tornerà a fare tanta fatica, mentre già aleggia lo spettro di un ritorno sia alle politiche di austerità sia alla stagflazione sia ad una seconda crisi del mercato delle obbligazioni pubbliche dell’Eurozona.
L’inflazione nei Paesi a medio e basso reddito: verso una crisi del debito?
I prezzi stavano aumentando prima dell’invasione russa dell’Ucraina, che ha ulteriormente sconvolto i mercati dell’energia e le esportazioni alimentari, costringendo i Paesi in via di sviluppo a pagare di più per importare prodotti di base in un momento in cui stanno già lottando con l’aumento dei debiti assunti per pagare le risposte alla pandemia.
Il World Economic Outlook del FMI pubblicato fine aprile aveva stimato che l’inflazione avrebbe raggiunto l’8,7% nelle economie in via di sviluppo rispetto al 5,7% nei Paesi ricchi. Gli esperti temono che altre centinaia di milioni di persone finiranno in povertà e che le reti di trasporto e alimentari saranno duramente colpite. Anche gli sforzi umanitari per i rifugiati (arrivati ad oltre 100 milioni) e le popolazioni che già affrontano la crisi della fame potrebbero non riuscire a far fronte all’aumento dei prezzi, in un momento in cui molti stanno già affrontando una riduzione dei finanziamenti per gli aiuti.
Oxfam ha stimato che quest’anno un quarto di miliardo di persone si trova ad affrontare la povertà a causa dell’aumento dei prezzi di cibo e carburante, definendolo “il più profondo crollo dell’umanità verso la povertà estrema e la sofferenza nella memoria“. L’aumento dei prezzi del petrolio si fa sentire, con la benzina in aumento del 63% in Sudan, del 50% in Sierra Leone e del 42% in Ghana rispetto al 9% in Gran Bretagna.
Allo stesso tempo, il dollaro ha raggiunto i massimi da due decenni nelle ultime settimane (circa un +10% dall’inizio dell’anno) e la sua forza sta inasprendo le condizioni finanziarie proprio mentre l’economia mondiale affronta la prospettiva di un rallentamento. Questa impennata minaccia di danneggiare il più ampio contesto di mercato ed esporre le crepe economiche e finanziarie nel sistema. Mentre la debolezza della valuta normalmente avvantaggia i Paesi dipendenti dalle esportazioni come quelli sottosviluppati, questa equazione non regge quando l’inflazione è alta e in aumento, poiché il cibo e il carburante importati diventano più costosi così come aumentano i costi per macchinari e attrezzature.
Quasi tutte le passate crisi dei mercati emergenti sono state legate alla forza del dollaro. Con l’aumento del dollaro, i Paesi in via di sviluppo devono inasprire la politica monetaria per evitare crolli delle proprie valute. Non farlo aggraverebbe l’inflazione e aumenterebbe il costo del servizio del debito denominato in dollari.
Il debito pubblico medio in valuta estera nei Paesi emergenti si attestava ad un terzo del PIL alla fine del 2021, rispetto al 18% nel 2013. Diversi Paesi stanno già cercando assistenza dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale e un’ulteriore forza del dollaro potrebbe aggravare di molto quei numeri (a questo proposito si vedano i nostri articoli qui e qui.).
Alessandro Scassellati
- L’impennata della domanda e la mancanza di offerta dovuta alla pandemia hanno portato a un aumento dei prezzi in un’ampia fascia di beni e servizi. Ad esempio, le tariffe aeree sono aumentate del 40% negli ultimi tre mesi. Un mercato immobiliare in forte espansione ha reso gli alloggi inaccessibili per molti americani, in particolare per le persone di colore, e il 49% delle persone ha recentemente dichiarato a Pew Research che gli alloggi a prezzi inaccessibili sono un grosso problema nella loro comunità.[↩]
- In un documento del think tank neoliberista Peterson Institute for International Economics del marzo 2022, gli economisti Gary Clyde Hufbauer, Megan Hogan e Yilin Wang hanno stimato che l’eliminazione delle tariffe della guerra commerciale di Trump con la Cina ridurrebbe direttamente l’inflazione di 0,3 punti percentuali. E poiché le società tentano di competere in un contesto di prezzi interni e di importazione più bassi, la riduzione potrebbe crescere fino a 1,3 punti percentuali a lungo termine. Inoltre, gli autori ritengono che un pacchetto più ampio di politiche di liberalizzazione commerciale produrrebbe un effetto ancora più ampio. Delineano un piano che includerebbe l’eliminazione dei dazi cinesi di Trump (che tra l’altro, secondo molti analisti, avrebbero causato danni occupazionali in diversi settori produttivi negli USA); rinuncia ai dazi sul legname canadese; un allentamento delle regole che escludono i concorrenti stranieri dagli appalti del governo statunitense; limitare le tariffe su una gamma di merci; e ampliare la portata delle importazioni duty-free dai Paesi in via di sviluppo. Un piano che ridurrebbe dazi e quote su 610,5 miliardi di dollari di merci importate, riducendo direttamente l’inflazione di 0,5 punti percentuali. A lungo termine, la riduzione potrebbe raggiungere i 2 punti percentuali.[↩]
- Da mesi la Casa Bianca ha preso in considerazione la possibilità di revocare le tariffe Trump, ma finora si è rifiutata di agire. Le relazioni USA-Cina sono sempre più contraddittorie e l’amministrazione è probabilmente riluttante a diminuire i dazi unilateralmente. Biden è anche preoccupato di un possibile indebolimento del suo sostegno tra i sindacati che tendono a favorire misure protezionistiche.[↩]
- Secondo questo punto di vista, la pressione inflazionistica dal lato dell’offerta è frutto della capacità delle grandi imprese capitaliste concentrate di influenzare i prezzi. I profitti aziendali sono saliti alle stelle poiché le aziende hanno approfittato di questo ambiente economico per aumentare i prezzi il più in alto possibile. Il New York Times si riferisce a questo come “greedflation” (“inflazione da avidità”), sebbene questo sia semplicemente il modo di produzione capitalista che funziona come previsto. La riduzione della concorrenza dovuta ai fallimenti delle imprese, alle tariffe e al consolidamento delle imprese capitaliste in monopoli sempre più grandi migliorano la capacità delle imprese di aumentare i prezzi ben oltre i loro costi di produzione. L’analisi delle dichiarazioni della Securities and Exchange Commission per 100 società statunitensi ha rilevato che gli utili netti sono aumentati in media del 49%. Questi aumenti sono arrivati mentre le società hanno fatto salire i prezzi di prodotti e servizi e tutte tranne dieci hanno eseguito massicci programmi di riacquisto di azioni o aumentato i dividendi per arricchire gli azionisti. Questi risultati sono in linea con i recenti dati del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti che mostrano che i margini di profitto aziendali sono aumentati del 35% durante l’ultimo anno e sono al livello più alto dal 1950.[↩]
- L’amministratore delegato della Chevron, Michael Wirth, ha contestato le critiche dei funzionari della Casa Bianca all’industria petrolifera sui costi energetici, affermando che la riduzione dei prezzi del carburante richiederà “un cambiamento di approccio” da parte del governo. Wirth ha affermato che l’industria petrolifera ha bisogno di chiarezza e coerenza su questioni politiche che vanno da locazioni e permessi su terreni federali, alla capacità di consentire e costruire infrastrutture critiche e normative che tengano conto di costi e benefici. “Abbiamo bisogno di un dialogo onesto“, ha detto Wirth. “Che riconosce che la nostra industria è un settore vitale dell’economia statunitense ed è essenziale per la nostra sicurezza nazionale“.[↩]
- Anche il Wall Street Journal ha ammesso che la quota salariale in realtà non sta crescendo: “La quota di lavoro sulla produzione nazionale è più o meno quella che era prima della pandemia“. La situazione attuale, inoltre, rappresenta solo una continuazione del trend degli ultimi decenni: “Negli ultimi due decenni… la quota del reddito degli Stati Uniti che va al lavoro è diminuita, nonostante i periodi di bassa disoccupazione”.[↩]
- Tradizionalmente, la FED si è concentrata sulla disoccupazione come misura del numero di lavoratori che non riescono a trovare lavoro, mentre attualmente si è più concentrata sul numero di aziende che non riescono a trovare lavoratori.[↩]
- Non a caso, all’interno di un quadro interpretativo marxista, l’inflazione rappresenta una delle modalità in cui si esprime il conflitto di classe. In un discorso del 1865, “Valore, prezzo e profitto”, Marx sosteneva che il valore (prezzo) della merce dipendeva in definitiva dal tempo medio di lavoro impiegato per produrla. Ma, ciò significava che la quota di quel tempo di lavoro tra i lavoratori che creavano la merce e il capitalista che la possedeva non era fissa, ma dipendeva dalla lotta di classe tra datori di lavoro e impiegati. Come ha detto, “i capitalisti non possono aumentare o ridurre i salari semplicemente a loro piacimento, né possono aumentare i prezzi a piacimento per compensare i mancati profitti derivanti da un aumento dei salari“. Se i salari sono “trattenuti” ciò potrebbe non abbassare i prezzi, ma semplicemente aumentare i profitti. Questa tipo di analisi porta a vedere l’intervento della FED come una dichiarazione di guerra contro i lavoratori e contrasta nettamente il punto di vista neoliberista, espresso a suo tempo da Milton Friedman, che considera l’inflazione un fenomeno puramente monetario, derivante da comportamenti più o meno irresponsabili dei governi e delle banche centrali.[↩]
- Dai primi anni 2000, dopo una prima crisi finanziaria (lo scoppio della bolla delle dot.com), sono emerse tendenze deflazionistiche. Il rallentamento della produttività e dell’investimento produttivo ha coinciso con un aumento dei risparmi: la cosiddetta “grande moderazione” ha lasciato il posto alla “stagnazione secolare”. Gli eccessi di risparmio hanno alimentato mercati finanziari sempre più sovradimensionati, alimentando l’inflazione delle attività finanziarie e immobiliari, mentre i prezzi dei beni di consumo sono rimasti stabili grazie alla moderazione salariale e alle importazioni dai Paesi a basso salario. Se l’inflazione attuale è strutturale, lo strumento principale per affrontarla non è la politica monetaria, ma la politica di bilancio e industriale. L’obiettivo dovrebbe essere di accelerare quanto più possibile il riallineamento di domanda e offerta per i settori in cui queste sono disallineate facilitando allo stesso tempo i cambiamenti strutturali legati alla transizione ecologica e digitale. La capacità di mantenere un flusso costante di investimenti pubblici e privati diventa in quest’ottica centrale, ed è ciò che rende particolarmente rischiosa la restrizione monetaria.[↩]
- I lockdowns e altre misure di salute pubblica hanno stimolato un’accelerazione nell’adozione delle tecnologie digitali durante la pandemia. Tuttavia, contrariamente alle aspettative del mercato, questa tendenza sta rallentando con la rimozione delle restrizioni pandemiche. In un contesto di proiezioni di crescita eccessivamente ottimistiche, i mercati azionari hanno prodotto valutazioni che nel migliore dei casi sarebbero state irrealistiche. In un momento di aumento dell’inflazione, inasprimento monetario e proiezioni di crescita in calo, i mercati hanno iniziato a correggere. Non sorprende che i titoli growth, il cui valore deriva dai flussi di cassa futuri attesi, e che tendono a essere concentrati nel settore tecnologico, siano scesi particolarmente in modo brusco.[↩]
- Larry Summers afferma che gli Stati Uniti hanno bisogno del 5% di tasso di disoccupazione per cinque anni per mettere sotto controllo l’inflazione. “Abbiamo bisogno di cinque anni di disoccupazione al di sopra del 5% per contenere l’inflazione, in altre parole, abbiamo bisogno di due anni di disoccupazione del 7,5% o cinque anni di disoccupazione del 6% o un anno di disoccupazione del 10%“, ha detto Summers in un discorso a Londra. “Ci sono numeri che sono notevolmente scoraggianti rispetto alla visione della Fed Reserve“.[↩]
- Il costo mensile della casa, che comprende l’affitto equivalente, è aumentato a maggio. Il problema con gli alloggi è la carenza di offerta nazionale e non è che la FED disponga dello strumento per far costruire più case alle persone. I prezzi delle case sono aumentati del 38% dall’inizio della pandemia e a Manhattan il prezzo medio mensile degli alloggi è salito a un nuovo folle massimo di 4.000 dollari al mese. Sul problema della casa negli Stati Uniti si veda il nostro articolo qui.[↩]
- Tra lunedì 9 e lunedì 16 marzo 2020 in molti hanno pensato che fosse arrivato il tanto temuto “Minsky moment” – ossia, l’istante in cui scoppia una bolla causata dall’accumulo di debito privato – dal momento che i mercati azionari globali sono affondati, stabilendo nuovi record negativi (il mercato azionario di Wall Street ha avuto il peggiore crash dal “Black Monday” del 19 ottobre 1987), mentre investitori in preda al panico fuggivano a capofitto verso il dollaro contante e i titoli di Stato per cercare di coprire gli effetti economici traumatici del coronavirus (il prezzo dei buoni del Tesoro USA a 10 anni ha segnato il record in oltre un decennio, mentre il rendimento – che si muove nella direzione opposta ai prezzi – per i buoni del Tesoro USA a 30 anni è sceso per la prima volta al di sotto dell’1%). Il “bull market” americano aveva festeggiato il suo undicesimo compleanno in questa settimana e si è immediatamente fermato: gli indici azionari S&P 500 e Dow Jones sono precipitati di oltre il 20% dai loro picchi record, facendoli entrare in un mercato ribassista (“bear market”). Nel giro di pochi giorni, i mercati azionari mondiali hanno bruciato trilioni di dollari. Wall Street ha perso tutto quello che aveva guadagnato dall’elezione di Trump, mettendo a rischio i risparmi pensionistici ed assicurativi di milioni di americani. Inoltre, il prezzo del petrolio è precipitato di oltre il 30% dopo che Arabia Saudita e Russia hanno aperto una guerra dei prezzi fra loro e contro i produttori americani da olio di scisto. Bassi prezzi del petrolio hanno fatto prevedere l’arrivo di una crisi finanziaria per tutti i principali Paesi produttori che, soprattutto in Africa, Sud-Est Asia e Sud America – dalla Nigeria all’Iran, dall’Algeria all’Ecuador, dal Kazakhstan all’Angola, dall’Iraq al Messico, dalla Guinea Equatoriale al Sud Sudan – basano entrate fiscali e valori delle monete sulle esportazioni di petrolio. Come nel 1973-74, gli eventi nei mercati petroliferi sono stati un fattore cruciale della crisi, solo che questa volta il problema è stato che il costo del greggio è crollato anziché aumentare di quattro volte. Negli anni ’70, gli shock petroliferi si sono aggiunti alla già crescente pressione inflazionistica. Questa volta è successo il contrario, avvicinando molti Paesi alla deflazione. Ciò ha reso molto più difficile per le banche centrali stimolare le loro economie attraverso tassi di interesse più bassi, poiché esisteva un limite realistico a quanto più bassi potessero ancora essere i costi di indebitamento.[↩]
- Lo scudo “anti-spread” annunciato dovrebbe valere 500 miliardi di euro e dovrebbe arrivare entro il 27 giugno. Opererà in base al principio dei saldi invariati, poiché un piano di acquisti diretti infiammerebbe ancora di più l’inflazione. In concreto la BCE venderà titoli dei Paesi più forti per acquistare quelli dei periferici in difficoltà. Tradotto, la BCE venderà Bund e comprerà Btp.[↩]