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Il mondo trema. Cause e conseguenze dell’inflazione

di Alessandro
Scassellati

Nei Paesi ricchi l’inflazione è tornata a livelli che non si vedevano da 40 anni e ora le banche centrali hanno deciso di intervenire attraverso un rialzo dei tassi di interesse e la fine delle politiche non convenzionali di quantitative easing. Un percorso di “normalizzazione” delle politiche monetarie pieno di incertezze ed insidie alla luce delle tremende faglie che si sono aperte nell’economia mondiale a seguito, oltre che dell’inflazione crescente, della frammentazione geopolitica, della persistenza della pandemia da CoVid-19, della guerra Russia-Ucraina, del caos nelle global supply and value chains, dell’aumento dei prezzi di cibo, energia e materie prime minerali, della crisi del debito e della sicurezza alimentare nei Paesi a medio e basso reddito e del prevalere di un orientamento ribassista nei mercati azionari. Le probabilità di una recessione in Europa, negli Stati Uniti e in Cina sono significative e in aumento, e un crollo in una regione aumenterà le probabilità di un crollo nelle altre.

Dalla lotta alla deflazione alla lotta all’inflazione

L’alta inflazione sta di nuovo scuotendo il mondo e le vite di persone, famiglie e lavoratori subiscono pesantemente gli effetti nefasti della tendenza rialzista dei prezzi. Questo sta avvenendo dopo un lungo periodo di letargo durante il quale politici e banchieri centrali sono stati a lungo preoccupati per la deflazione dei prezzi e la debolezza della crescita della domanda aggregata (data dalla somma dei consumi, degli investimenti privati e della spesa pubblica). Dalla crisi finanziaria del 2007-2009, infatti, la FED e la BCE hanno cercato in tutti i modi di fare salire l’inflazione, portandola vicino a quel 2% considerato convenzionalmente il livello “sano” di crescita dei prezzi. Le hanno provate tutte, pompando trilioni di euro e di dollari nell’economia e a volte inseguendo più o meno esplicitamente anche obiettivi diversi dalla stabilità dei prezzi che è al centro del mandato di una banca centrale: la tenuta dell’area dell’euro, il contrasto alla crisi bancaria, la ripresa dell’occupazione, la difesa dell’economia dagli effetti disastrosi del CoVid-19.

Nei Paesi ricchi, le banche centrali hanno azzerato i tassi dei prestiti alle banche (nella zona euro sono a zero da ormai nove anni), hanno lanciato aste di miliardi di euro a tassi negativi per spingere il credito alle imprese, si sono inventate il quantitative easing, emettendo moneta per comprare titoli di Stato e debito privato. Tutte operazioni di politica monetaria nuove, sperimentate fino ad allora soltanto dalla Banca del Giappone, che lotta ormai da trent’anni contro la deflazione. Ma, l’inflazione, come la crescita economica, è rimasta sempre debole1.

La pandemia da CoVid-19, con i primi lockdowns, ha mandato al tappeto tanto la domanda quanto l’offerta, creando uno scenario paragonabile ad una guerra mondiale. In seguito, le riaperture hanno creato un forte disallineamento tra domanda, tornata sostenuta soprattutto per i beni, e offerta, indebolita dalla mancanza di scorte in magazzino e da problemi logistici e di produzione (soprattutto in Asia) legati allo sviluppo di nuove ondate, focolai e varianti del virus. Sono stati questi enormi “colli di bottiglia” creatisi in alcuni settori chiave (come quello dei microchip, da cui dipende la produzione di moltissimi settori industriali) a creare i disagi maggiori, a lasciare incertezze sulla ripresa e a spingere la crescita dell’inflazione.

E’ stato a partire dalla seconda metà del 2021 che l’inflazione ha cominciato a manifestarsi in modo significativo2, mentre Kristalina Georgieva, la managing director del FMI ha avvertito che l’economia mondiale rimaneva “inceppata” dalla pandemia di CoVid-19, rivedendo al ribasso le previsioni della crescita globale.

Per mesi nel 2021 i governatori delle grandi banche centrali e i politici dell’establishment hanno continuamente rassicurato le opinioni pubbliche sul fatto che le economie dei Paesi ricchi erano sulla buona strada verso un “ritorno alla normalità”. Ma, diverse turbolenze stavano investendo il capitalismo globale: dal caos e dai colli di bottiglia del sistema logistico delle supply chains globali, all’aumento di prezzi e futures di petrolio, gas naturale e di quasi tutte le materie prime (dal cotone ai minerali, alle commodities alimentari) in media del 60% nel 2021, dalla carenza di microchip alla crescita dei contagi per le varianti Delta e Omicron che provocavano grandi lockdowns e blocchi delle attività produttive in Cina (dove il governo persegue una politica “zero-CoVid”) ed altrove nel mondo (evidenziando il grande divario vaccinale tra nazioni ricche e povere), fino ad arrivare ai ritocchi verso l’alto dei listini di vendita da parte di molte imprese, soprattutto multinazionali, che hanno trasferito a valle le tensioni inflazionistiche, dai beni intermedi ai beni di investimento fino ai beni di consumo e ai consumatori finali. Evoluzioni che mettevano in discussione la narrazione della normalizzazione, facendo emergere lo spettro di una fiammata inflazionistica accompagnata ad una sostanziale stagnazione economica globale, una situazione tossica spesso definita di “stagflazione” (su questa fase vedi il nostro articolo qui).

Ufficialmente, i governatori delle banche centrali si sono mostrati tranquilli: la fiammata inflazionistica, hanno ripetuto come un mantra, era temporanea perché legata a 5 principali fattori che si sarebbero dovuti dissipare in breve tempo: l’effetto “imbuto” delle catene di produzione (supply chians); i rialzi dei prezzi di beni e servizi come i biglietti aerei o le stanze d’hotel, che erano precipitati all’inizio della pandemia; l’assenza di forti pressioni al rialzo sui salari; le aspettative sull’inflazione a lungo termine da parte di produttori e consumatori, che secondo i banchieri centrali restavano ancorate al 2%; le grandi tendenze secolari, dall’invecchiamento della popolazione alla digitalizzazione, passando per la globalizzazione, che spingono i prezzi verso il basso. Nello scenario della FED dell’ottobre 2021, l’inflazione sarebbe tornata verso il 2% già nel 2022. Anche la BCE ha offerto rassicurazioni simili3. In ogni caso, il 2021 è stato un anno segnato da un’inflazione del 5,8% nella zona OCSE, che riunisce i 38 Paesi più sviluppati. Livelli così alti non si vedevano da 25 anni in Europa, mentre negli USA, con l’economia cresciuta di circa il 6% nel 2021 e la disoccupazione scesa sotto il 4%, il tasso di inflazione è stato del 7% in dicembre (il settimo mese consecutivo in cui l’inflazione ha superato il 5%), il più alto degli ultimi 40 anni, ma a inizio 1982 era in discesa e non in aumento.

E’ stato solo ad inizio 2022 che politici e banchieri centrali negli USA e UE (ma anche in Regno Unito, Norvegia, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Brasile, Filippine, Corea del Sud, Singapore e altri Paesi) hanno abbandonato la caratterizzazione dell’impennata dei prezzi come fenomeno “transitorio” e hanno deciso che fosse giunto il momento di cominciare ad intervenire sui freni monetari e fiscali, riducendo la spesa per acquisti di titoli del Tesoro e preparandosi ad aumentare i tassi di interesse – l’approccio ortodosso per combattere l’inflazione4. Ben consapevoli, però, che la strada da percorrere era molto stretta, con la necessità di fare scelte difficili per cercare di seguire una rotta per un “atterraggio morbido”, una normalizzazione delle politiche monetarie senza arrestare la ripresa economica nazionale e globale o provocare shock finanziari, disoccupazione e una recessione generale. I rimedi ortodossi contro l’inflazione, infatti, hanno spesso effetti collaterali costosi e dolorosi (come fallimenti delle attività economiche e aumento della disoccupazione) e non sempre hanno prodotto gli effetti desiderati abbastanza rapidamente (per una ricostruzione di questa fase si vedano i nostri articoli qui e qui).

A gennaio i prezzi al consumo sono aumentati più del previsto negli USA (7,5% su base annua), Regno Unito ed Eurozona. Nei 19 Paesi della zona euro l’inflazione ha raggiunto il 5,1% (in Spagna al 7% e in Germania al 5,3%), il livello più alto da quando sono iniziate le rilevazioni nel 1997, ma i salari sono cresciuti solo del 2,8%. Il livello dell’inflazione in Turchia ha raggiunto quasi il 50% e in Russia, 9%. Ma, guardando oltre i Paesi avanzati, in Nigeria era quasi al 16%, in Pakistan al 13%, e il FMI ha rilevato che 79 Paesi emergenti e poveri si confrontavano con tassi di inflazione annui superiori al 5%.

A marzo l’inflazione americana è salita all’8,5% anno su anno (7,9% a febbraio), il livello più alto di inflazione dal 1981, mentre in India e Regno Unito era al 7%; in Germania al 7,3%; in Australia al 5,1%; in Russia al 16,7%; in Argentina al 52,3%; e in Turchia al 61,1%. Secondo Eurostat, l’inflazione nell’Eurozona è stata del 7,4% nel mese di marzo (5,9% in febbraio), ai massimi storici e con un forte aumento dei costi energetici. I prezzi dell’energia, infatti, sono aumentati del 44,4% in marzo, mentre il cibo non trasformato è costato il 7,8% in più. Ma anche quando queste componenti volatili vengono eliminate, l’inflazione “core” annua è stata del 3,2% a marzo, ben al di sopra dell’obiettivo del 2% della BCE. Questo mentre la disoccupazione è rimasta al 6,8% e i salari stagnanti5.

Shock dell’offerta e/o della domanda?

L’inflazione è una cifra composita, un indice, che viene messa insieme da innumerevoli transazioni in tutta l’economia. È solo quando si inizia a disaggregare l’indice che si vede cosa sta realmente accadendo. L’aumento dell’inflazione di per sé non provoca una recessione. In effetti, è spesso visto come un’indicazione che un’economia sta crescendo troppo rapidamente rispetto all’offerta di lavoro e di altre risorse. Il rischio è che il rapido aumento dei prezzi possa indurre i decisori politici, in particolare quelli delle banche centrali, a mettere un freno sull’economia. Il vero pericolo è che se governi e banche centrali non riescono rapidamente a tenere sotto controllo l’inflazione, possano essere costretti ad intraprendere azioni davvero drastiche – il che significa, ad esempio, grandi aumenti dei tassi di interesse. Questo non solo rallenterebbe l’economia, ma la farebbe precipitare in una profonda recessione (come è successo nei primi anni Ottanta).

Economisti, analisti, operatori economici e opinionisti discutono da oltre un anno sulle cause della nuova ondata inflazionistica che sta investendo il mondo. La discussione non è puramente accademica o legata alla polemica politica, perché riguarda le cause, le misure e gli strumenti da utilizzare per cercare di domare l’inflazione.

Se le cause sono dovute a degli shock dell’offerta, ad esempio, diventa chiaro che la politica monetaria non è particolarmente adatta per affrontare questi shock. “Può farlo, ma a un costo molto alto in termini di produzione ed occupazioneha sostenuto Yannis Stournaras, governatore della banca centrale greca e considerato una delle “colombe” tra i 25 membri del consiglio di governo della BCE6.

Una corretta identificazione delle cause consente anche di ragionare sui tempi dell’inflazione (temporanea o di medio-lungo periodo?). Ad esempio, maggiori costi energetici possono provocare un effetto inflazionistico a breve termine, ma nel medio-lungo periodo le conseguenze potrebbero anche essere deflazionistiche perché frenano la crescita e hanno effetti commerciali avversi.

I sostenitori di un aumento dei tassi di interesse sanno che il problema che stiamo affrontando non è il surriscaldamento delle economie, ma è dovuto in maniera preponderante alle onde provocate dagli shock dell’aumento dei prezzi di energia, materie prime e cibo, e delle interruzioni delle supply chians. Rendere più costosi i prestiti rischia di non fare altro che vincolare ulteriormente economie pressoché stagnanti, frenando i consumi e gli investimenti, e quindi la creazione di salari e posti di lavoro. Se i tassi aumenteranno troppo e troppo velocemente, è assai probabile che le aziende licenzieranno i lavoratori e taglieranno gli investimenti; che alcune aziende falliranno (soprattutto quelle più indebitate e a bassa produttività). Inoltre, tassi di interesse più alti spingeranno i governi a mettere in atto politiche di austerità, poiché il loro debito diventerà più costoso da servire e da ripagare. Il tasso di interesse costituisce uno strumento contundente che non prende di mira i fattori trainanti dell’inflazione attuale.

Aumento dei prezzi dell’energia e delle materie prime minerali

Come per l’ondata inflazionistica degli anni ’70 dopo la guerra dello Yom Kippur e gli shock dei prezzi del petrolio provocati dall’OPEC, un ruolo centrale nell’attuale ondata inflazionistica viene giocato dallo squilibrio tra domanda e offerta di combustibili fossili (petrolio, gas naturale e carbone) che ha un impatto devastante sui prezzi di quasi tutte le altre materie prime e merci.

Nella fase iniziale della pandemia da CoVid-19, con le fabbriche ferme e miliardi di persone in lockdown, la domanda mondiale di elettricità, petrolio, gas e carbone era scesa ai minimi, facendo crollare la produzione e i prezzi dei combustibili fossili. A partire dalla seconda fase della pandemia, tra la seconda metà del 2020 e l’inizio del 2021, però, i prezzi di petrolio, gas e carbone sono cominciati ad aumentare significativamente per via della domanda asiatica legata alla forte ripresa delle attività produttive in Cina e negli altri Paesi asiatici, e del graduale ritorno alla normalità negli USA e in Europa.

A gennaio 2021 il prezzo del petrolio era di 40 euro al barile, mentre a settembre ha toccato gli 80 dollari, il massimo da tre anni, con un aumento del 50%. L’OPEC, la Russia e altri Paesi produttori (OPEC+) hanno deciso di aumentare lentamente l’offerta, dopo i tagli record alla produzione effettuati nel 2020 (5,8 milioni di barili al giorno, ma tra aprile e giugno il taglio era stato di 10 milioni), rispondendo alle pressioni da parte di Paesi consumatori che hanno chiesto di produrre di più per far scendere i prezzi poiché ormai la domanda si era ripresa più rapidamente del previsto in buona parte del mondo7.

I prezzi del gas in Europa sono aumentati di circa il 350% nel 2021, mentre USA e l’Asia hanno registrato rispettivamente un aumento di circa il 120% e 175%. Anche i prezzi dell’elettricità sono aumentati drasticamente poiché molte centrali elettriche sono alimentate a gas. Questi aumenti dei prezzi sono stati dovuti a una combinazione di fattori, tra cui l’aumento della domanda in particolare dall’Asia mentre è entrata nella ripresa post-pandemia, le scorte di gas basse in Europa e le forniture di gas più limitate del solito dalla Russia. Alcune aziende, tra cui produttori di acciaio, produttori di fertilizzanti e produttori di vetro, hanno dovuto sospendere o ridurre la produzione in Europa e in Asia a causa dell’impennata dei prezzi del gas.

Nei mesi che hanno preceduto la guerra in Ucraina, con la Russia il più grande esportatore mondiale di gas naturale e il secondo più grande di petrolio, in un’economia globale ancora dipendente dai combustibili fossili, i prezzi di gas e petrolio, anche grazie al sostegno della speculazione sul mercato dei futures del gas spot di Amsterdam, sono saliti in modo esponenziale nel giro di due settimane. I prezzi europei del gas naturale sono aumentati di quasi il 70% dopo l’invasione dell’Ucraina, mentre il prezzo globale del petrolio ha toccato 105 dollari per la prima volta dal 2014. L’invasione dell’Ucraina ha fatto schizzare ulterormente verso l’alto i prezzi e il 7 marzo il Brent ha sfiorato i 140 dollari al barile, un valore che non si vedeva da prima della crisi finanziaria del 2008.

In una situazione in cui i prezzi di benzina e gasolio sono cresciuti quotidianamente, le compagnie di combustibili fossili che sono le maggiori responsabili dell’attuale crisi inflazionistica, avendo ostacolato una più rapida decarbonizzazione (impedendo per decenni l’eliminazione della dipendenza dai combustibili), l’hanno finora cavalcata: BP, Shell, Chevron, Exxon Mobil, Total ed ENI hanno visto i profitti raggiungere i massimi da otto anni e, invece di investire nella transizione verso le energie rinnovabili, distribuiscono questi soldi a ricchi azionisti.

Sebbene i prezzi siano poi in parte scesi, rimangono storicamente elevati, alimentando la prospettiva di una spinta verso l’alto dei costi di produzione e dei prezzi in moltissimi settori economici e, quindi, determinando un ulteriore aumento del costo della vita8. Ad esempio, se si prendono i servizi logistici di consegna a domicilio e di lavanderia/lavaggio a secco, entrambi utilizzano molta energia e i prezzi sono aumentati a due cifre negli ultimi dodici mesi.

Dal 27 aprile la Russia ha interrotto le forniture di gas a Polonia e Bulgaria che arrivano attraverso i gasdotti Yamal e TurkStream (con Polonia e Ucraina dipendenti dalla Russia rispettivamente per circa il 55% e per il 90% della domanda di gas), costringendo questi Paesi a coprire il proprio fabbisogno di gas attraverso il carbone e le ben più costose forniture di GNL da Qatar e USA. Un avvertimento al resto dell’Unione Europea, anche perché in poche ore i prezzi del gas sono saliti a livelli stellari. La decisione di interrompere la fornitura ha fatto seguito al rifiuto dei Paesi europei di pagare in rubli le fornitura di gas di Gazprom, alla formazione di uno schieramento di 40 Paesi guidati dagli USA disposti ad armare l’Ucrainaper vincere la guerra” e indebolire la Russia (dall’inizio della guerra gli USA e i loro alleati hanno speso 5 miliardi di dollari in aiuti militari all’Ucraina, con 3,7 miliardi provenienti dagli USA), e all’annuncio della Polonia il giorno precedente che avrebbe imposto sanzioni a 50 entità e individui, inclusa la più grande compagnia di gas russa, per l’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca. All’inizio di aprile, il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, ha dichiarato al Bundestag che la dipendenza energetica del Paese dal gas russo è “cresciuta nel corso dei decenni e non può essere interrotta da un giorno all’altro“, dato che porterebbe al razionamento dell’energia all’industria e alla potenziale chiusura dei maggiori stabilimenti.

Nei Paesi ricchi, regole più rigorose per guidare la transizione verso un futuro più verde sono accusate di alimentare la “greenflation“, ad esempio chiudendo fabbriche, veicoli, navi e miniere inquinanti, riducendo a loro volta l’offerta di beni e servizi chiave. I prezzi per le quote europee di emissioni di carbonio sono raddoppiati nel 2021 a 65 euro la tonnellata. Un prezzo di 100 euro aumenterebbe del 12% i prezzi dell’energia elettrica al dettaglio in Europa, aggiungendo 35 punti base all’inflazione principale della zona euro, secondo le stime di Morgan Stanley.

Ci sono altri esempi. Il calo degli ordini di navi a causa delle imminenti modifiche alle regole sui carburanti potrebbe far aumentare le tariffe di spedizione che sono già aumentate del 280% nel 2021. Diversi analisti attribuiscono l’aumento dei prezzi delle materie prime almeno in parte al passaggio a tecnologie più verdi che aumentano i costi di estrazione e produzione.

Ma, la transizione verso un capitalismo verde e il raggiungimento degli obiettivi sul clima vengono rallentati e messi a rischio anche dall’aumento dei costi delle materie prime necessarie per produrre batterie elettriche, turbine eoliche e pannelli fotovoltaici. Litio, cobalto e nickel per le batterie, silicio per i pannelli solari, ma anche alluminio, acciaio, rame, terre rare e stagno per saldare i circuiti, sono i metalli necessari per la transizione verde e hanno subito rincari stratosferici, intensificando i rialzi nelle ultime settimane fino a raggiungere livelli di prezzo che non si vedevano da ben prima della pandemia da CoVid-19. Spesso anche i rifornimenti sono difficili, come del resto in quasi tutti i settori industriali, a causa del caos logistico che continua a sconvolgere le supply chains.

Il risultato è che da più parti si segnala la possibilità che il percorso verso la decarbonizzazione subisca una sostanziale battuta d’arresto. Il costo di batterie, impianti eolici e fotovoltaici – che scendeva ininterrottamente da un decennio – ha invertito la tendenza e nel 2021 si sono registrati aumenti addirittura a doppia cifra percentuale. Il costo dei pannelli fotovoltaici è aumentato del 16% e l’impatto si osserverà soprattutto dal 2022 con la fine delle vecchie scorte. Nell’eolico, le cose non vanno molto meglio. Si prevedono rincari del 10% per le turbine nei prossimi 12-18 mesi, con una forte compressione dei bilanci e profitti di molti produttori.

Caos nelle global supply and value chains e frammentazione dell’economia gobale

Negli ultimi decenni il modo di produzione capitalistico è diventato globale grazie alla deregolamentazione finanziaria, alla globalizzazione dei flussi di capitale e alla scomposizione dei processi produttivi in catene di approvvigionamento e del valore (global supply and value chains) che operano con una logica organizzativa just-in-time, ossia che producono solo in presenza di una domanda, senza o con minime scorte, per ridurre i costi e massimizzare i profitti. Un modello che non consente ritardi, carenze e margini di errore, limitando la capacità del sistema di assorbire le turbolenze impreviste.

Una trasformazione che è stata possibile grazie allo sviluppo della logistica globale, ossia dell’insieme delle attività organizzative, gestionali e strategiche che governano nelle aziende i flussi di materiali, componenti e beni e delle relative informazioni, dalle origini presso i fornitori fino alla consegna dei prodotti finiti ai clienti e al servizio post-vendita.

La ripresa a ritmi elevati degli scambi commerciali internazionali dopo alcuni mesi di sostanziale paralisi ha contribuito a creare un mismatch tra domanda (in forte ripresa) ed offerta (che è meno elastica e fa più fatica ad adattarsi). Si tratta dunque di problematiche di natura strutturale e preesistenti alla pandemia, che potranno essere risolte con una normalizzazione della domanda, ma soprattutto con adeguamenti dal lato dell’offerta, soprattutto nei settori della logistica e della dotazione infrastrutturale (porti, interporti, ferrovie, etc.).

La pandemia, altri eventi calamitosi, la guerra tra Russia e Ucraina, e la nuova strisciante Guerra Fredda fra USA e Cina hanno fatto emergere tutte le fragilità e vulnerabilità di questo sistema (dalla mancanza di containers agli incidenti, all’intasamento e al caos nel trasporto marittimo, dalla chiusura di porti e terminal strategici cinesi a Nigbo, Shenzen e Shangai alla mancanza di autisti dei camion che trasportano i container), ormai perennemente sotto pressione e sull’orlo di una crisi strutturale (su questo tema si veda il nostro articolo qui).

Con così tanti produttori che si affrettano ad aumentare le forniture e a fare nuovi ordini allo stesso tempo, i container, le navi e i camion necessari per spostare le merci spesso non sono stati e non sono disponibili e i costi sono aumentati vertiginosamente. In poco più di un anno il costo per la spedizione di un container su alcune rotte trafficate, come dalla Cina al porto più grande d’Europa, Rotterdam, è aumentato di circa il 300%. La spedizione di un container che costava 1.200-1.500 dollari è arrivata a costare 10.000-15.000 dollari, senza la certezza di una data di consegna.

Il commercio internazionale si è basato per decenni sui bassi costi e sull’affidabilità del trasporto marittimo (attraverso il quale passa il 90% delle merci globali), che ha consentito alle aziende industriali e ai grandi marchi commerciali di spostare la produzione in giro per il mondo alla ricerca di manodopera, materiali e componenti a basso costo. Dall’inizio della pandemia, il costo di far arrivare in Europa e negli USA le merci dalle piattaforme produttive asiatiche, latinoamericane ed africane è decuplicato, e molte aziende stanno ora rivedendo il loro modello di organizzazione della produzione.

Le aziende continuano a soffrire per le persistenti interruzioni di catene di approvvigionamento e distribuzione ultracomplesse e molto spesso globali. Le imprese edili pagano di più per cemento, legname, acciaio, ferro (il tondo per il cemento armato) e vernici, e devono aspettare settimane o mesi prima di ricevere quello che hanno ordinato. I rincari record dei materiali per le costruzioni stanno mettendo a rischio i cantieri in corso e riducono i margini delle imprese di appalti pubblici e privati. Anche agli ospedali mancano le attrezzature necessarie.

Gli analisti sostengono che si aspettano che i problemi delle catene di approvvigionamento inizino ad attenuarsi da questa estate, ma poiché i problemi del lavoro esplodono nei porti che sono ormai congestionati e sovraccarichi da lungo tempo, ciò potrebbe richiedere ancora più tempo. Ovunque, i grandi porti commerciali sono sotto pressione, con le navi che scarseggiano e la carenza di centinaia di migliaia di camionisti, marittimi9 e operatori portuali.

Al largo della costa del complesso portuale di Los Angeles-Long Beach (il più grande negli Stati Uniti e il nono più grande al mondo), una flottiglia di navi portacontainer da record è rimasta in attesa di scaricare merci. Marittimi, camionisti e lavoratori delle compagnie aeree hanno sopportato quarantene, restrizioni di viaggio e complessi requisiti di vaccinazione e test CoVid-19 per mantenere in movimento le catene di approvvigionamento tese durante la pandemia. Ma, in molti stanno ora raggiungendo il loro punto di rottura, ponendo un’altra minaccia alla rete intricata di porti, navi portacontainer e società di autotrasporti che spostano le merci in tutto il mondo. Un anno fa c’era la sensazione che questa caotica situazione del settore logistico sarebbe stata una cosa di breve durata. Ora, l’interpretazione del termine “transitorio” è cambiata.

E’ soprattutto in relazione alla rivalità per l’egemonia tra USA e Cina e al tema del funzionamento delle supply chains che nel mondo si discute di rallentamento e crisi della globalizzazione, di de-globalizzazione, crescente protezionismo e sanzioni economiche in relazione ad un “disaccoppiamento” sino-americano e a una frammentazione del mondo in due o più blocchi all’interno di uno scenario da guerra fredda fra USA e Cina, di riposizionamento delle attività produttive attraverso processi di re-shoring, near-shoring e friend-shoring (come lo ha definito di recente il ministro del Tesoro Janet Yellen, una sorta di balcanizzazione delle catene di approvvigionamento globali), privilegiando le questioni relative alla sicurezza, anche a scapito dell’efficienza economica.

Una parte crescente delle classi dirigenti occidentali sembra essere interessata alla creazione di un nuovo mondo, magari con un’inflazione più alta e una produttività più bassa, ma con supply chains più robuste e più affidabili sul piano politico. Considera che quelle che si sono costruite durante i 40 anni del regime di accumulazione del neoliberismo globalizzato si siano dimostrate molto efficienti, ma abbastanza fragili e soprattutto in grado di alimentare la crescita economico-politica di un Paese come la Cina considerato ormai come un “avversario sistemico”, i cui interessi sono considerati essere completamente in disaccordo con quelli degli Stati Uniti e le cui ambizioni a lungo termine si ritiene possano essere raggiunte solo a spese della prosperità americana.

Da questo punto di vista, a cominciare dalla questione del gas e petrolio russo, i Paesi occidentali sono impegnati nella rivisitazione dei termini del commercio e dei Paesi con cui commerciano e in cui investono. La discriminante politica, in termini di principi, di affiliazione e di affidabilità politico-militare, potrebbe diventare il criterio per decidere con chi continuare a commerciare e, quindi, per come riorganizzare le supply chains.

Un tema molto delicato quello della frammentazione dell’economia globale, perché oltre a far emergere in primo piano le frizioni, i conflitti, i cambiamenti nei partner commerciali e le alleanze politiche che potranno essere formate, pone seri interrogativi sulla sopravvivenza di un’economia globale integrata, sostenuta ed alimentata da processi economici di interdipendenza e cooperazione.

La maggior parte dei Paesi a medio e basso reddito, come buona parte dei Paesi dell’Unione Europea, guarda con preoccupazione alla possibile evoluzione del mondo verso dei blocchi economico-politici chiusi (vedi i nostri articoli qui e qui). Con tutti i limiti e le contraddizioni della globalizzazione neoliberista, per molti di questi Paesi l’integrazione nell’economia globale ha consentito di fare dei notevoli passi in avanti in tanti campi, da quelli produttivi a quelli delle dotazioni infrastrutturali, dell’innalzamento dei livelli di istruzione e della riduzione della povertà.

Quello che è certo è che in gioco non c’è solo la qualità delle economie, ma soprattutto la qualità del mondo in cui viviamo. Come ormai sappiamo bene, per affrontare le vere sfide esistenziali relative alla sopravvivenza del genere umano sul pianeta, ossia quelle climatico-ambientali, sarebbe necessaria una stretta cooperazione e l’impegno attivo di tutti i governi del mondo, con una leadership/governance coordinata più rappresentativa del G-20 e del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Aumento dei prezzi del cibo e insicurezza alimentare

Alla fine del 2021, l’indice dei prezzi alimentari della FAO era al livello più alto in un decennio e vicino al picco precedente di giugno 2011. Molti osservatori hanno avvertito che stava per arrivare una crisi alimentare globale causata dalla speculazione sulle materie prime alimentari. Dal 2015 al 2020 i prezzi dei generi alimentari sono stati relativamente bassi e stabili, ma nel 2021 sono aumentati in media del 28%. Gran parte di questa impennata è stata determinata dai cereali, con un aumento dei prezzi del mais e del grano rispettivamente del 44% e del 31%. Ma anche i prezzi di altri prodotti alimentari sono aumentati: i prezzi dell’olio vegetale hanno raggiunto livelli record durante l’anno, lo zucchero è aumentato del 38% e gli aumenti dei prezzi di carne e prodotti lattiero-caseari, sebbene inferiori, sono rimasti a doppia cifra.

L’inflazione dei prezzi alimentari ha superato l’aumento dell’indice generale dei prezzi ed è stata ancora più allarmante dato il significativo calo dei salari dei lavoratori durante la pandemia di CoVid-19, soprattutto nei Paesi a medio e basso reddito. Questa combinazione letale di cibo più costoso e redditi più bassi ha alimentato aumenti catastrofici della fame e della malnutrizione.

Il mondo sta affrontando una “catastrofe umana” a causa dell’impennata dei prezzi alimentari – stimata in un +37% – in seguito all’invasione russa dell’Ucraina, ha avvertito il presidente della Banca Mondiale, David Malpass, a margine degli incontri di primavera del FMI-Banca Mondiale a Washington (19-22 aprile). In un’intervista alla BBC, Malpass ha affermato che l’aumento record dei prezzi dei generi alimentari sta spingendo centinaia di milioni di persone nella povertà. “È una catastrofe umana, il che significa che la nutrizione diminuisce. Ma, poi diventa anche una sfida politica per i governi che non possono farci niente, non l’hanno provocata e vedono salire i prezzi“.

L’Ucraina e la Russia sono i principali esportatori di grano, altri cereal e olio di girasole, così come Russia e Bielorussia di fertilizzanti (potassio e urea), ma la guerra, le sanzioni e le controsanzioni hanno interrotto la produzione e l’export. Malpass ha invitato i governi di tutto il mondo ad aumentare la fornitura di cibo, energia e fertilizzanti ove possibile e ad introdurre misure rivolte ai più poveri. Il FMI ha dichiarato di essere aperto a fornire finanziamenti di emergenza alle nazioni che affrontano l’insicurezza alimentare.

Con la guerra in Ucraina, i prezzi del grano sono balzati al livello più alto dal 2008 facendo salire i prezzi dei generi alimentari. Decenni prima l’Unione Sovietica era il più grande importatore mondiale di grano, con un record di 55 milioni di tonnellate acquistate a metà degli anni ’80. Tuttavia, la Russia ha superato gli Stati Uniti e il Canada per diventare il più grande esportatore mondiale a metà dell’ultimo decennio. L’Ucraina, soprannominata il “paniere d’Europa” per i suoi vasti e fertili campi, è la quinta più grande. Insieme, i due paesi rappresentano più di un quarto della fornitura mondiale, con l’Ucraina che esporta il 95% del suo grano attraverso i suoi porti del Mar Nero, dove le navi da guerra russe hanno bloccato il traffico commerciale.

I Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente sono tra i maggiori acquirenti, il che significa che uno shock commerciale sta devastando i Paesi poveri (su questo tema vedi il nostro articolo qui). Nel 2019, Egitto, Turchia e Bangladesh hanno acquistato più della metà del grano russo. Quasi l’85% delle importazioni egiziane provenivano da Russia e Ucraina nel 2021.

Il rischio è che l’impossibilità di far fronte a importazioni sempre più care possa mandare in crisi il sistema dei sussidi pubblici messo in piedi dai governi per calmierare i prezzi al consumo e portare ad un aumento dei prezzi, a penurie di generi alimentari di base o ad un ulteriore aumento del debito pubblico. In sostanza, che si possa arrivare a proteste di massa contro il carovita e la fame con repressioni nel sangue, come avvenuto con i “moti del pane” in Egitto nel 1977, le proteste in Marocco e Tunisia degli anni ’80, fino alla crisi alimentare mondiale del 2007-2008 e 2010-2011, durante la quale gli alti prezzi del grano sono stati fra le concause, almeno in alcuni Paesi, delle proteste poi sfociate nelle Primavere Arabe del 2011, nel rovesciamento di dittatori in Tunisia, Egitto, Libia e Yemen e in guerre civili in Siria, Libia e Yemen.

La guerra della Russia in Ucraina potrebbe portare a una delle peggiori crisi alimentari degli ultimi decenni. Anche se il conflitto dovesse essere risolto rapidamente, gli impatti si faranno sentire per qualche tempo. L’impennata del prezzo dei fertilizzanti, ad esempio, avrà un impatto ritardato, riducendo i raccolti per anni a venire, poiché gli agricoltori inizieranno a utilizzarne meno ora.

Ogni sforzo dovrebbe essere intrapreso per evitare e ridurre al minimo la sofferenza umana che sta accadendo ora. Ma, il messaggio più ampio è chiaro: per salvaguardarsi dalle crisi future, Paesi a medio e basso reddito e il mondo intero devono fare i necessari investimenti a lungo termine nei sistemi agricoli e alimentari per garantire che siano in grado di fornire cibo a tutte le persone in modo sostenibile.

Le conseguenze della guerra in Ucraina

La guerra in Ucraina si tradurrà in cibo ed energia costosi per i prossimi tre anni, ha avvertito la Banca Mondiale, rafforzando i timori che l’economia globale si stia dirigendo verso una replica della crescita debole e dell’elevata inflazione degli anni ’70. La scorsa settimana, nel suo World Economic Outlook, il FMI ha rivisto al ribasso le previsioni della crescita economica dell’86% dei 190 Paesi membri per il 2022. A gennaio aveva previsto una crescita globale del 4,4% per il 2022, ora solo del 3,6%10. Una previsione che è accompagnata da un aumento significativo dell’inflazione prevista – al 5,7% nelle economie avanzate e all’9,3% nelle economie a medio e basso reddito (un aumento rispettivamente del 2,2% e del 3,5% rispetto alla previsione di gennaio) – e da una profonda incertezza. Secondo alcuni analisti, le probabilità di una recessione in Europa, negli Stati Uniti e in Cina sono significative e in aumento, e un crollo in una regione aumenterà le probabilità di un crollo nelle altre.

Kristalina Georgieva, la managing director del FMI, sostiene che siamo entrati in “un mondo più incline agli shock”, anche se per ora esclude una recessione globale dato che la maggior parte dei Paesi continua a crescere, anche se lentamente11. Si prevede che la disuguaglianza peggiori all’interno e tra i Paesi12 e che vi saranno crisi finanziarie dovute alla difficoltà che molti Paesi incontreranno nel servizio del loro debito. Una delle principali preoccupazioni di Georgieva e Malpass è la possibilità che, come nel 2019, ci siano presto proteste e rivolte popolari nei Paesi a medio e basso reddito.

L’invasione russa dell’Ucraina ha innanzitutto creato una catastrofe umanitaria. In poco più di due mesi dall’invasione, circa 5 milioni di persone, per lo più donne e bambini, sono fuggite dall’Ucraina, mentre si stima che altri 7 milioni siano sfollati all’interno e migliaia sono state ferite o uccise.

La guerra avrà gravi conseguenze economiche per l’Europa – Mario Draghi ha parlato di “economia di guerra” – e ha colpito quando la ripresa dalla pandemia era ancora incompleta. Prima della guerra, mentre le economie europee avanzate ed emergenti avevano recuperato gran parte delle perdite del PIL del 2020, i consumi privati e gli investimenti erano ancora molto al di sotto delle tendenze pre-pandemia. La guerra ha portato a forti aumenti dei prezzi delle materie prime e ad aggravate interruzioni dal lato dell’offerta, che alimenteranno ulteriormente l’inflazione e taglieranno i redditi delle famiglie e i profitti delle imprese13.

La guerra è uno shock dell’offerta che riduce la produzione economica e fa aumentare i prezzi. Secondo il FMI, per i decisori politici europei le sfide principali sono chiare: prendersi cura dei rifugiati; aiutare le famiglie e le imprese vulnerabili a far fronte a una maggiore spesa per l’energia, anche con sussidi e misure di politica fiscale; rafforzare la sicurezza energetica; e, di concerto con le parti sociali, garantire che le aspettative sui salari e sui prezzi rimangano ben ancorate, ossia che non si inneschi una spirale prezzi-salari.

La guerra e le sue conseguenze si aggiungeranno anche alle sfide strutturali che l’Europa post-pandemia deve affrontare. In Ucraina, le infrastrutture sociali ed economiche distrutte dalla guerra dovranno essere ricostruite, anche per consentire il rientro dei rifugiati, il che richiederà ingenti flussi di finanziamento da parte dei donatori. Il presidente della Banca Europea per gli Investimenti (BEI) Werner Hoyer ha avvertito che la ricostruzione del Paese richiederà somme “inimmaginabili” provenienti sia dai bilanci pubblici sia da capitali privati.

Crisi del debito dei Paesi poveri

Gran parte dei Paesi a medio e basso reddito è ancora alle prese con la pandemia, le vaccinazioni delle popolazioni e deboli riprese economiche14. Al tempo stesso, si stanno confrontando con alti livelli di debito pubblico e privato estero, prezzi del cibo e dell’energia in aumento e la prospettiva di crescenti tassi di interesse decisi dalle banche centrali dei Paesi ricchi che rende più costoso il finanziamento di debiti denominati in dollari, accrescendo il rischio che i Paesi indebitati non riescano a servire e rimborsare i prestiti. Questa prospettiva obbliga le banche centrali di questi Paesi ad alzare i loro tassi (influenzando negativamente la crescita e la sostenibilità del debito), per tentare di scongiurare le fughe di capitali verso la sicurezza delle monete forti (dollaro, euro, franco svizzero, etc.) e conseguente deprezzamento delle loro valute (attraverso l’abbassamento dei tassi di cambio) che alimenterebbe l’inflazione. Una combinazione molto pericolosa per questi Paesi e potenzialmente per l’intero sistema finanziario globale15.

Il settimanale The Economist si domanda se le economie emergenti sono sull’orlo di un altro decennio perduto. La Banca Mondiale ha avvertito che c’è il rischio concreto di una crisi del debito, con 50-70 Paesi a medio e basso reddito che stanno lottando per pagare gli interessi sugli ingenti debiti, cresciuti durante la pandemia da CoVid-19, tra il 2020 e il 2021. Nel 2020 si è registrato il maggiore aumento del debito in un anno dalla seconda guerra mondiale, per cui il debito mondiale è oggi pari al 256% del PIL globale, quando politiche monetarie accomodanti e tassi di interesse a zero o sottozero hanno spinto banche e investitori privati globali a concedere loro dei prestiti per fronteggiare gli effetti della crisi16.

Durante la crisi pandemica, l’unica cosa che i Paesi a medio e basso reddito hanno potuto fare è stata quella di aumentare il debito pubblico, attingendo a tutte le possibili fonti di credito. Non hanno potuto godere del rilassamento fiscale e monetario che hanno avuto EU, USA, USA e Giappone17. Non avevano la forza politico-finanziaria per perseguire questo tipo di opzione.

Ora, circa il 60% dei Paesi più poveri è in difficoltà o ad alto rischio di essere in difficoltà per debito (“debt distress18. C’è il rischio che tanti Paesi a medio e basso reddito vadano a sbattere contro un muro e si crei una valanga di defaults e un nuovo “tsunami del debito” (su questo tema vedi il nostro articolo qui).

Al momento solo nei Paesi ricchi esiste un margine di manovra per un’azione fiscale per proteggere le loro economie e soprattutto i segmenti più vulnerabili della loro popolazione dagli effetti dolorosi dell’inflazione (ad esempio, in poco meno di un anno l’Italia ha speso circa 20 miliardi di euro per schermare almeno in parte popolazione ed imprese dagli aumenti dei prezzi energetici globali). Molti dei Paesi emergenti e quasi tutti i Paesi poveri, invece, devono affrontare – oltre agli effetti disastrosi dei cambiamenti climatici in atto che stanno già sconvolgendo agricoltura, allevamento, causando picchi nei prezzi dei generi alimentari – livelli di indebitamento preoccupanti e, quindi, hanno uno scarso o nullo spazio fiscale per poter proteggere la popolazione dagli effetti negativi dell’inflazione attraverso sussidi e/o l’imposizione di prezzi calmierati per i beni di prima necessità, proprio perché queste misure contribuirebbero ad aumentare un debito già insostenibile.

Possono certamente fare tutto quello che sono in grado di fare – estendere le scadenze del debito, mettere a posto i tassi di cambio, tenere i conti pubblici in ordine, allargare la base fiscale, combattere e reprimere la corruzione -, ma proprio nel momento in cui questi Paesi dovrebbero spendere di più per diventare più resilienti in relazione agli shock derivanti dai cambiamenti climatici19 e riprendere il cammino per realizzare gli obiettivi del millennio concordati in sede ONU (il 75% dei poveri del mondo vivono nei Paesi poveri), c’è poco spazio fiscale e ci sono pochi finanziamenti disponibili a lungo termine e a basso costo messi a disposizione dalle istituzioni finanziarie internazionali.

E’ evidente che il FMI e le altre istituzioni finanziarie multilaterali dovranno intervenire per aiutare questi Paesi a ristrutturare il debito al più presto attraverso tagli, allungamenti e monetizzazioni, altrimenti entro l’anno la situazione diventerà assai problematica, anche in considerazione degli effetti che deriveranno dagli ipotizzati rapidi aumenti dei tassi di interesse da parte della FED.

In queste ultime settimane, è all’ordine del giorno la crisi del debito di un piccolo Paese asiatico di 22 milioni di abitanti, il Sri Lanka che ha dichiarato default su 51 miliardi di dollari di debito estero (ma ci sono tanti casi: Tunisia, Zambia, Argentina, Venezuela, etc.). Il Paese sta esaurendo le riserve di valuta estera, per cui non è più un grado di pagare le importazioni. Mancano la benzina, il cibo e le medicine. Ci sono state grandi proteste popolari, repressione e alcuni feriti e morti, con le dimissioni del governo in carica. Secondo molti osservatori il caso del Sri Lanka rappresenta un’anteprima di tanti altri casi di crisi del debito che potranno esplodere nel corso del 2022.

L’economia del Sri Lanka non è diversificata ed è soggetta agli andamenti altalenanti dei prezzi di alcune commodities alimentari. Quindi, è sempre a rischio di crisi nel mercato dei cambi. Si basa, infatti, sull’export di té, caffé, spezie e altri alimenti, oltre che sulle rimesse degli emigrati, ma deve importare fertilizzanti, carburanti e quasi tutti prodotti industriali. Una certa rilevanza aveva il settore turistico internazionale, ma è andato in crisi dopo un grave attentato jiahdista in una chiesa nel 2019. La pandemia ha colpito duramente la popolazione e il governo ha fatto dei gravi errori: una riforma fiscale di stampo neoliberista che ha fortemente eroso la base contributiva e il tentativo fallimentare di trasformare da un giorno all’altro l’intero settore agricolo in agricoltura biologica.

Dal 1965 ci sono stati 16 interventi di sostegno del FMI e tutti hanno imposto delle condizionalità. L’ultimo è avvenuto nel 2016. Da alcune settimane la questione aperta riguarda chi mette a posto le cose e come. Da questo punto di vista, la crisi del debito del Sri Lanka rappresenta un test per le istituzioni finanziarie multilaterali – FMI, Banca Mondiale, UNDP, UNCTAD, etc. – su come gestire la nuova ondata di crisi del debito dei Paesi a medio e basso reddito.

Al momento, l’India, in funzione anti cinese20, è emersa come un attore chiave, fornendo miliardi di dollari di sostegno (prestiti, linee di credito, swapline tra le due banche centrali per garantire l’accesso alle valute internazionali) e chiedendo il pronto intervento del FMI. E il FMI ha posto le sue condizioni per un intervento di sostegno: lo Sri Lanka deve inasprire la politica monetaria, aumentare le tasse e adottare tassi di cambio flessibili per affrontare la crisi del debito.

Il fatto è che i creditori del Sri Lanka – come degli altri Paesi a medio e basso reddito a forte indebitamento – sono molti e di tipo differente: FMI, Banca Mondiale e altre istituzioni finanziarie multilaterali, banche private e altri operatori privati internazionali, detentori di obbligazioni21, Cina, India, etc. Per ristrutturare il debito del Paese ormai diventato insostenibile, tutti questi diversi soggetti dovrebbero essere portati al più presto allo stesso tavolo attraverso qualche meccanismo di risoluzione. Ma, è proprio su questo punto che al momento sta crollando tutta l’architettura finanziaria globale del debito. Non esiste alcun buon meccanismo per coordinare i diversi creditori mondiali ed arrivare ad un accordo che li impegni ad offrire debito in base a termini ragionevoli.

Durante la crisi da CoVid-19 nell’aprile 2020 era stato sospeso il pagamento di 13 miliardi di dollari per interessi sul debito a 48 Paesi poveri da parte del G-20. Un supporto modesto che si è concluso nel dicembre 2021 e che non ha offerto un vero sollievo, solo un allungamento dei tempi di pagamento degli interessi.

Alla fine del 2020 il G-20 ha elaborato un “Common Framework” che contiene un insieme di principi a cui creditori e debitori dovrebbero attenersi, ma finora solo tre Paesi – Zambia, Etiopia e Sudan – hanno provato a percorrere questa strada, con risultati fallimentari.

In sostanza, mancano dei buoni meccanismi per risolvere crisi del debito complesse che coinvolgono creditori pubblici e privati bilaterali e multilaterali. Un nuovo meccanismo permanente per la ristrutturazione del debito sovrano dovrebbe essere basato su principi già concordati da 136 Stati membri delle Nazioni Unite (l’Italia si è astenuta), ma probabilmente i passi coraggiosi necessari arriveranno solo quando ci sarà una reale volontà politica ai massimi livelli, in particolare quando la Cina e gli Stati Uniti saranno pronti a sedersi insieme ad un tavolo e riconoscere il loro comune interesse in una prosperità globale per tutti.

Wall Street, mercati azionari, bolle finanziarie e inflazione

I manuali di economia dicono che i tassi di interesse bassi stimolano gli investimenti privati perché abbassano il costo del prestito. Questo è certamente il caso, ma un percorso ancora più forte attraverso il quale hanno operato i tassi di interesse bassi negli ultimi decenni è stato quello di stimolare le bolle dei prezzi degli assets. Quando la “bolla delle dot-com” negli Stati Uniti è crollata all’inizio di questo secolo, il presidente della FED Alan Greenspan ha abbassato i tassi di interesse, il che ha stimolato una nuova bolla, la bolla immobiliare negli USA. Questo, aumentando artificialmente la ricchezza di molti individui, ha dato impulso alla spesa per consumi, ma anche agli investimenti in alloggi e altri progetti che hanno inaugurato un nuovo boom.

La politica dei tassi di interesse bassi della FED e delle altre banche centrali, in breve, ha operato non solo per il suo effetto diretto di abbassare il costo del denaro, ma anche, in modo significativo, stimolando una bolla speculativa dei prezzi degli assets, in cui il prezzo di un asset aumenta molte volte più del suo “vero valore“, cioè ciò che i suoi guadagni scontati nel corso della sua vita garantirebbero22. Questo accade perché mentre tutti si aspettano che il prezzo dell’asset alla fine crolli, coloro che detengono l’asset credono che aumenterebbe ancora per un po’ di tempo. Sperano di venderlo entro quel tempo e intascare le plusvalenze. E questa domanda alimentata dalla speculazione per l’asset viene aiutata se i tassi di interesse vengono mantenuti bassi.

Ma, i tassi di interesse bassi possono incoraggiare la speculazione non solo nei mercati degli assets, ma anche nei mercati delle materie prime. Ed è proprio quello che è successo soprattutto negli Stati Uniti, perché dopo il crollo della bolla immobiliare gli speculatori sono diventati particolarmente cauti nei confronti della speculazione sul mercato degli assets. La speculazione può sorgere non solo in quei beni che per un motivo o per un altro possono essere temporaneamente scarsi o dove possono esserci colli di bottiglia temporanei e i cui prezzi, quindi, dovrebbero aumentare immediatamente; sorgerebbero anche in materie prime dove la domanda è inelastica (cioè non scende troppo quando i prezzi salgono) così che anche se non ci sono strozzature nell’offerta, si possono creare scarsità artificiali per realizzare un profitto. E la domanda diventa particolarmente anelastica quando il credito è facilmente disponibile (perché allora le persone prendono denaro in prestito per mantenere la domanda).

Il petrolio è un candidato ovvio per un tale aumento artificiale dei prezzi e non sorprende che i prezzi della benzina negli Stati Uniti a novembre 2021 siano stati superiori a quelli di novembre 2020 fino al 58%, che è stato il più alto in qualsiasi mese dal 1980. L’aumento nel 1980 era arrivato quando si era verificato il secondo shock petrolifero; l’attuale aumento del prezzo del petrolio (e del gas) si è tuttavia verificato senza che vi siano stati aumenti di prezzo imposti dai Paesi OPEC e OPEC+. In effetti, l’amministrazione statunitense ha poi deciso di mettere sul mercato le scorte strategiche di petrolio per calmierare i prezzi del petrolio e della benzina.

La speculazione sulle merci è stata generalmente ignorata nella definizione delle politiche economiche nei Paesi ricchi. È dato per scontato che tassi di interesse bassi stimolerebbero la domanda aggregata provocando bolle dei prezzi degli assets e possibilmente aumentando direttamente gli investimenti, riducendo i costi di finanziamento; il fatto che i tassi di interesse bassi potrebbero anche incoraggiare la speculazione sulle merci in modo che il conseguente aumento dei prezzi possa portare a un calo della domanda aggregata invece di aumentarla, è stato appena riconosciuto. Eppure questo sta emergendo come conseguenza di una politica dei tassi di interesse bassi, che renderebbe molto più difficile qualsiasi intervento statale per innalzare il livello della domanda aggregata23.

Il capitale finanziario globalizzato si oppone all’intervento fiscale di qualsiasi governo per stimolare la domanda, sebbene sia più tollerante all’intervento attraverso la politica monetaria, poiché ciò funziona attraverso le decisioni dei detentori di capitali e quindi non ha l’effetto di delegittimare il sistema scavalcandoli. Ma, se anche la politica monetaria diventa infruttuosa negli Stati Uniti, dal momento che dà luogo all’inflazione molto prima che il sistema abbia incontrato grossi colli di bottiglia dal lato dell’offerta, allora il sistema rimane senza strumenti per rilanciare l’attività e superare la disoccupazione di massa.

La persistenza della disoccupazione mantiene il profilo dei salari reali nell’economia mondiale pressoché stagnante, anche se il profilo della produttività del lavoro cresce a livello internazionale, aumentando la quota del surplus economico nella produzione mondiale e spingendo così l’economia mondiale in una crisi di sovrapproduzione ancora più profonda. Se allo stesso tempo non sono disponibili strumenti per innalzare il livello della domanda aggregata, cioè per contrastare la crisi, il capitalismo mondiale è condannato a uno stato di perenne disoccupazione di massa, che può solo minare la sua stabilità politica.

La finanziarizzazione è andata così lontano negli Stati Uniti che ora la FED deve procedere con estrema cautela per evitare un crollo finanziario forse peggiore di quello del 1929. Il 10 gennaio, Wall Street ha mandato un primo avviso, i mercati finanziari globali sono crollati a causa delle crescenti preoccupazioni degli investitori sul potenziale aumento dei tassi di interesse da parte della FED in risposta alle crescenti pressioni inflazionistiche24. Le azioni a Wall Street hanno avuto il peggior gennaio dal 2009, con un calo del 5,3%. Altri avvisi sono arrivati nei mesi successivi e l’indice S&P 500 ha perso circa l’11% da inizio anno e il Nasdaq oltre il 5%, dopo un primo trimestre vertiginoso che si è concluso con tutti i principali indici azionari di Wall Street che hanno subito la peggiore performance in due anni, mentre altri mercati finanziari globali hanno registrato record di movimenti negativi ancora più estremi. Una tempesta perfetta di timori sull’inflazione, la prospettiva di tassi più alti e il lockdown a Shanghai hanno spinto il mercato verso posizioni ribassiste. Il CEO di JPMorgan Jamie Dimon ha affermato nella sua lettera annuale agli azionisti agli inizi di aprile che rischi senza precedenti incombono sull’economia statunitense: “la combinazione di guerra e inflazione potrebbe avere conseguenze imprevedibili” e questo costringe la sua banca e gli altri operatori finanziari a prepararsi per sconvolgimenti drammatici.

Powell è quindi intrappolato. Deve rispondere lentamente e con attenzione o rischiare una vera e propria gigantesca svendita con shock nei mercati obbligazionari, creditizi e azionari. Con un accumulo così massiccio di debito privato e pubblico, i mercati potrebbero non essere in grado di digerire costi di finanziamento più elevati25. In caso di panico, la FED e le altre banche centrali si troverebbero nella trappola del debito e probabilmente invertirebbero la rotta. Ciò renderebbe probabile uno spostamento al rialzo delle aspettative di inflazione, con l’inflazione che diventa endemica. In questi giorni, è soprattutto Wall Street che è al comando, più che la FED.

Per questo è assai probabile che la strada per domare l’inflazione e riportare la politica monetaria alla normalità sarà relativamente lunga. La crescita dell’economia americana è destinata a rallentare e l’inflazione elevata renderà la vita più difficile ai Democratici nelle elezioni di medio termine di novembre, con il rischio di perdere le maggioranze al Senato e alla Camera dei Rappresentanti, rendendo Biden una “anatra zoppa” negli ultimi due anni del suo mandato26.

In ogni caso, se cambia il corso delle politiche monetarie alcuni nodi finanziari verranno al pettine. Finché le banche centrali hanno attuato politiche monetarie non convenzionali, creando un’era del denaro magico, la festa speculativa basata sull’indebitamento è andata avanti. Ma, ora le bolle degli assets e del credito potrebbero sgonfiarsi nel 2022 con l’avvio della normalizzazione delle politiche monetarie. Inflazione, rallentamento della crescita e rischi geopolitici e sistemici potrebbero creare le condizioni per una forte correzione del mercato azionario nel 2022, con una maggiore volatilità dei mercati finanziari e pesanti svalutazioni dei valori delle azioni per renderle più vicine al loro “vero valore“, soprattutto per le cosiddette aziende zombie, ossia quelle tante aziende che negli anni del denaro a costo zero si sono pesantemente indebitate in dollari senza una strategia di accumulazione che non fosse quella legata alla mera speculazione finanziaria. Molte di queste zombie companies rischiano di non essere più in grado di rimborsare o rifinanziare i propri debiti (prestiti a leva, obbligazioni, etc.) e questo potrà avere effetti pesanti sui bilanci di molte banche che, con i tassi di interesse vicini allo zero, si sono trovate già in gravi difficoltà, poiché i margini di profitto sono stati compressi.

Molte di queste grandi corporations (una su 10 nei Paesi emergenti e avanzati) hanno finito per trasformarsi in quelle che la Bank of International Settlements (BIS), la banca centrale delle banche centrali globali, considera imprese zombie, decotte o a bassa produttività, ossia in “imprese che non potrebbero sopravvivere senza un flusso di finanziamenti a basso costo“. Il FMI ha segnalato che dal 2008 è quadruplicato, sia negli USA sia nell’Eurozona, lo stock dei bond con rating BBB, ovvero ancora considerati a livello investment grade, investimenti sicuri, ma di livello basso, mentre sono raddoppiati gli speculative grade, ovvero i junk bond, le obbligazioni spazzatura. Prima della pandemia da CoVid-19, secondo il FMI, erano da considerarsi a rischio almeno circa 19 mila miliardi di dollari di debito corporate: non sarebbe possibile fare fronte a quasi il 40% del debito societario in otto Paesi principali – Stati Uniti, Cina, Giappone, Germania, Gran Bretagna, Francia, Italia e Spagna – qualora ci fosse una flessione grave quanto quella del 2008. Una ricerca di Bloomberg del 2018 aveva identificato 69 aziende in tutto il mondo che avevano aumentato i loro livelli di debito del 50% o più tra il 2013 e il 2018, avevano almeno 5 miliardi di dollari di debiti e insieme, erano sedute su quasi 1,4 trilioni di obbligazioni e prestiti, la maggior parte dei quali classificati come junk (spazzatura) e in scadenza entro i prossimi 7 anni. Una nuova ricerca del FMI ha rifatto il punto sulle vulnerabilità e sui rischi nel settore delle imprese e valutato come bassa la preparazione dei Paesi a gestire una ristrutturazione su larga scala delle imprese.

Molto del debito di queste imprese è formato da leveraged loans (“finanziamenti a leva”), crediti super-speculativi erogati da investitori di vario tipo. Finanziamenti che poi vengono rivenduti sul mercato come titoli negoziabili e che spesso vengono “impacchettati”, con ulteriore leva sopra, in cartolarizzazioni chiamate Clo (Collaterized loans obligations). Il mercato dei leveraged loans è raddoppiato negli USA dal 2010, arrivando a 1.300 miliardi di dollari nel 2019, ai quali andavano sommati 267 miliardi di euro dell’Europa. La metà di questi – circa 850 miliardi di dollari – è “impacchettata” in Clo. In sostanza, basta poco, un ulteriore rallentamento della crescita o un aumento dei tassi, per portare molte imprese al default.

A questi elementi di debolezza si aggiungono il fatto che i debiti per comprare azioni (il cosiddetto “margin debt” che funziona come un moltiplicatore dei rialzi quando sul mercato c’è fiducia e dei ribassi quando la fiducia svanisce) sono sui massimi, le valutazioni dei titoli hi-tech sono molto elevate e le famiglie americane non hanno avuto una esposizione così elevata sul mercato azionario.

Il difficile percorso delle banche centrali verso un soft landing

Tutti questi shock e complessi sviluppi avvengono in un momento in cui molti Paesi devono far fronte a vincoli più severi per le loro politiche economiche. L’inflazione elevata e crescente preclude un ritorno allo stimolo di politica monetaria convenzionale e non convenzionale nei Paesi ricchi.

L’inflazione è un problema globale, ma ci sono differenze tra i Paesi, e il nuovo contesto inflazionistico costringe le banche centrali a dover fare delle scelte di policy molto delicate e problematiche. Inoltre, espone l’economia reale ai potenziali imprevedibili effetti della volatilità dei mercati finanziari.

Da mesi gli organismi che governano le principali banche centrali mondiali – la FED e la BCE – discutono sulle cose da fare – ad esempio, se tenere immutati o alzare i tassi; se alzarli e di quanto; se chiudere i programmi di acquisto di asset, liquidarli e con velocità farlo – e più volte sono emerse posizioni diverse al loro interno tra “colombe” e “falchi”, lasciando ai presidenti – rispettivamente Jerome Powell e Christine Lagarde – il compito di trovare soluzioni “concertate” in grado di ottenere il necessario ampio consenso.

Entrambe le banche centrali devono dare l’impressione di saper rispondere con decisione ad eventi e dati economici in modo da mantenere la loro “credibilità” di istituzioni in grado di ridurre l’inflazione. Le banche centrali possono alzare i tassi di interesse, ossia possono rendere il credito più costoso, facendo alzare il costo dei mutui (negli USA hanno già superato il limite del tasso del 5%), delle carte di credito, del credito al consumo in modo da rendere più costose le spese e il risparmio più attrattivo. Aumentando i tassi si mette pressione sulle persone e le aziende (ma anche sui Paesi) che hanno preso in prestito troppo denaro e che rischiano una stretta severa. L’effetto complessivo è quello di ridurre (“raffreddare”) una domanda aggregata considerata “surriscaldata”, riducendo la pressione sui mercati dell’offerta, sperando di ridurre l’inflazione27.

In realtà, la relazione tra tassi di interesse e inflazione non è chiarissima tanto che gli economisti parlano del “puzzle dei prezzi” con la possibilità di avere contemporaneamente alti tassi e alta inflazione, con alti tassi che possono portare ad un taglio degli investimenti (e quindi dell’offerta) e possono indurre il panico nei consumatori che possono decidere di spendere ancora di più, facendo crescere la domanda e, quindi, l’inflazione.

Ad ogni modo, la normalizzazione della politica monetaria può essere fatta in modo morbido o in modo brutale. Il caso più eclatante di terapia d’urto è stato il “Volcker shock” applicato dalla FED guidata da Paul Volcker a partire dall’agosto 1979, quando in pochissimo tempo i tassi sono stati portati al 20% facendo crollare l’economia americana e riducendo l’inflazione sotto il 3% nel 1983. Una terapia d’urto che ha dato gambe al neoliberismo, svuotando la produzione industriale americana e potenziando in modo permanente sia Wall Street come centro finanziario globale sia la Cina come nuova “fabbrica del mondo”.

Il Volcker shock ha annientato la “spirale tra salari e prezzi” degli anni ’70 con una politica monetaria drasticamente restrittiva che ha prodotto una recessione globale (con l’America Latina che è entrata in una spirale di crisi del debito che ha quasi fatto crollare tutte le grandi banche di New York), in cui la disoccupazione americana ha raggiunto il picco dell’11%, disciplinando il lavoro organizzato, facendo precipitare milioni di persone nella disoccupazione e povertà e creando un’economia finanziarizzata che ha funzionato per una piccola élite (il famoso 1% o 10%). Un processo che ha anche alterato gli equilibri interni dell’economia statunitense, rendendo l’industria più debole e la finanza più forte. Pertanto, dall’inizio degli anni ’80 in poi, la forza trainante dell’economia americana non è stata il suo settore manifatturiero, seppure ancora significativo, ma quello delle banche e degli operatori finanziari (fondi pensione, fondi comuni di investimento, fondi negoziati in borsa, hedge funds, private equity funds, etc.).

Sappiamo anche che, proprio in coincidenza con la nomina di Volcker, si è sviluppata una potente contro-offensiva, una vera e propria “guerra di movimento” conservatrice, pro-capitalista e anti-governativa, controllata da partiti tradizionali di centro-destra, portata avanti da parte delle forze politiche e culturali anglo-americane più legate e sensibili agli interessi delle grandi imprese che hanno avviato il sistematico smantellamento della struttura sociale dell’accumulazione Fordista-Keynesiana, sostituendo il keynesismo con l’hayekesmo, il neoliberismo, il monetarismo e abbandonando unilateralmente l’impegno per la piena occupazione (nonostante il mandato politico di piena occupazione sancito dall’Humphrey-Hawkins Act del 1978 negli USA) per orientarsi verso la supply-side economics (una dottrina secondo cui la performance economica dipende in gran parte dal mantenimento di basse aliquote fiscali per i ricchi), sposando l’idea di ridurre la disoccupazione attraverso la compressione dei salari invece che attraverso gli investimenti pubblici, recidendo anche il legame tra salari e crescita della produttività (sugli effetti del Volcker shock si veda il nostro articolo qui).

Uno dei problemi è che oggi viviamo in un’economia basata su dei mercati globali delle merci. Come abbiamo visto nelle pagine precedenti, sono i funzionamenti e i malfunzionamenti di questi mercati – gli shock dell’offerta – che causano l’inflazione. Questi mercati globalizzati non sono così sensibili ai tassi di interessi nazionali. Per questo ci si dovrebbe interrogare sul perché si fa questo uso dei tassi per rispondere all’inflazione se i fattori che la determinano non possono essere contrastati dai tassi stessi.

Si potrebbero utilizzare altri strumenti, ma uno degli elementi costitutivi del modo di regolazione neoliberista è il monetarismo per come è stato definito da Milton Friedman e che presuppone uno stretto collegamento tra i livelli dei prezzi e la quantità di moneta in circolazione. Friedman ha sostenuto che “l’inflazione è sempre un fenomeno monetario”. Quindi se l’inflazione è troppo bassa bisogna immettere più moneta nell’economia e abbassare i tassi d’interesse; viceversa se è troppo alta. Chi produce la moneta sono le banche centrali, insieme con le banche commerciali e altri operatori finanziari, e il tasso di interesse dovrebbe essere il principale strumento per controllare questa creazione di denaro.

In realtà, per contrastare l’inflazione, oltre ai tassi, ci sono anche altri strumenti monetari. La banca centrale cinese, ad esempio, usa una serie di strumenti più diretti e mirati, come l’inasprimento dei requisiti di riserva delle banche in rapporto ai prestiti, per controllare l’ammontare del credito che le banche producono e, quindi, l’ammontare del denaro in circolazione. Durante la seconda guerra mondiale, la FED ha imposto controlli diretti sul credito al consumo per limitare l’ammontare dei prestiti alle famiglie e, quindi, limitare gli acquisti e contenere la domanda. Negli anni ’70 nei Paesi europei e negli USA (con Nixon nel 1971), in presenza di un’inflazione galoppante, i governi hanno imposto controlli sugli aumenti dei prezzi di beni e servizi. Solo alla fine degli anni ’70 l’amministrazione Carter ha avviato la liberalizzazione dell’economia e la deregolamentazione dei prezzi del petrolio e del gas, dei viaggi aerei e degli autotrasporti, e solo nel 1981, con l’amministrazione Reagan, il prezzo della benzina è stato liberalizzato. Nell’era del neoliberismo tutti questi strumenti regolativi (e altri ancora) sono stati via via eliminati nelle economie occidentali perché considerati troppo intrusivi in relazione al funzionamento dei mercato dei capitali.

Pertanto, ora la richiesta mainstream è di rivedere la politica monetaria in accordo con il paradigma neoliberista, senza cioé prevedere che i governi possano interferire con la fissazione di prezzi, ossia senza che possano imporre controlli diretti e strategici sugli aumenti dei prezzi o aumentare la tassazione dei profitti o introdurre misure di compensazione (interventi fiscali come le “politiche dei redditi” e “dei salari”, l’introduzione o l’innalzamento del salario minimo, forme di indicizzazione delle retribuzioni), politiche che potrebbero ridurre i rischi distorsivi dovuti alla speculazione e ai gravi fallimenti del mercato. Da questo punto di vista, ad esempio, la sinistra del Partito Democratico attribuisce l’aumento dei prezzi in gran parte all’avidità di grandi corporations globali e grandi catene commerciali che hanno posizioni pressochè monopolistiche su tanti mercati di beni e servizi. In un recente sondaggio, quasi il 60% dei grandi rivenditori americani ha affermato che l’inflazione ha dato loro la possibilità di aumentare i prezzi oltre quanto necessario per compensare i costi più elevati. I prezzi della carne stanno aumentando vertiginosamente perché le quattro gigantesche società di lavorazione della carne – Tyson, JBS, Marfrig, e Seaboard – che dominano il settore stanno “usando il loro potere di mercato per ricavare margini di profitto sempre più grandi per se stessi“, secondo un recente rapporto del Consiglio Economico Nazionale della Casa Bianca. L’analisi dei documenti depositati presso la Securities and Exchange Commission da 100 società statunitensi ha rilevato che i profitti netti sono aumentati in media del 49% e in alcuni casi individuali fino al 111.000%. Questi aumenti sono arrivati quando le società hanno caricato sui consumatori prezzi più alti e tutte tranne 10 hanno eseguito massicci programmi di riacquisto di azioni o aumentato i dividendi per arricchire gli azionisti. I consumatori stanno subendo un duro colpo finanziario poiché le grandi aziende e i loro azionisti traggono profitto o sono in gran parte protetti.

L’amministrazione USA, come altri governi, dovrebbe guardare alla stretta relazione tra inflazione e potere di un ristretto numero di grandi imprese che su molti mercati settoriali occupano posizioni oligopolistiche, se non proprio monopolistiche (spesso legittimate dai diritti “di proprietà intellettuale”, come nel settore farmaceutico, attraverso brevetti, trade-mark, copyright di progetti industriali che giustificano un “diritto di rendita” che viene finaziarizzato) e – come sostiene Robert Reichproteggono i loro profitti facendo pagare di più i clienti/consumatori, invece di coprire da soli l’aumento dei costi. E’ del tutto evidente la facilità con cui le grandi aziende – da Sturbucks a McDonald’s, Chipotle, Procter & Gamble, Amazon, Kroger, Costco, Target, Nestlé, Unilever, Danone -, con profitti record, hanno trasferito e trasferiscono i maggiori costi ai clienti attraverso prezzi più elevati. Le grandi aziende non hanno alcun incentivo ad assorbire i costi crescenti delle forniture perché hanno un potere di mercato sufficiente per trasferire questi costi sui consumatori, a volte usando l’inflazione per giustificare aumenti dei prezzi ancora maggiori28. Reich ritiene che occorra contrastare il crescente squilibrio nel potere economico delle grandi corporations attraverso: (a) un’applicazione più rigorosa delle norme antitrust, (b) una tassa temporanea sugli utili inaspettati, (c) tasse più elevate sui ricchi e sulle società, (d) un divieto dei riacquisti delle azioni da parte delle società (i cosiddetti “corporate buybacks”), (e) sindacati più forti e (f) la riforma del finanziamento elettorale per tenere fuori le donazioni di corporations e altre potenti lobby dalla politica.

Se, come negli anni ’70, l’ondata inflazionistica deve molto all’aumento dei prezzi dei combustibili fossili e altre materie prime, la maggiore differenza è che oggi non ci sono le pressioni de lavoro organizzato, dei sindacati (negli USA solo il 6% dei lavoratori del settore privato è iscritto ad un sindacato, nel Regno Unito l’11%, in Germania il 20%, in Belgio il 53%, in Svezia il 68% e in Islanda l’86%), per far aumentare salari e stipendi. Non c’è la pressione della contrattazione nazionale e di potenti organizzazioni sindacali che chiedono aumenti salariali per abbattere gli effetti negativi dell’inflazione per i loro iscritti, come non ci sono dei meccanismi tipo “scala mobile” che garantivano l’adeguamento automatico dei salari all’inflazione. In sostanza, manca quella che negli anni ’70 veniva definita la spirale prezzi-salari, mentre quello che vediamo ora sono degli shock dell’offerta legati al caos delle supply chains, ai prezzi di energia, materie prime, cibo, etc..

La crescita salariale annua in America del 5,7% è chiaramente in contrasto con l’obiettivo di inflazione del 2% della Federal Reserve, ma anche al di sotto del tasso di inflazione del 7,5%. L’economia americana è cresciuta del 5,7% nel 2021, dopo aver subito una contrazione del 3,4% nel 2020, grazie ai pacchetti finanziari del governo federale che hanno fornito quasi 6 trilioni di dollari in aiuti per la pandemia, ma la disoccupazione è ancora al 3.6% e ci sono 2,9 milioni di lavoratori in meno rispetto al 2019 nella forza lavoro attiva (data la crescita della popolazione degli USA, è 4,5 milioni inferiore a quella che sarebbe stata senza la pandemia).

Finora in nessun Paese del mondo ci sono stati dei sostanziali aumenti dei salari in linea con il tasso d’inflazione. Il risultato è che i salari reali sono diminuiti e quindi il potere di acquisto delle persone che lavorano è diminuito. In queste condizioni, solo se l’inflazione è temporanea e non troppo elevata, con i prezzi che poi tornano a scendere, i lavoratori non staranno peggio a seguito dell’erosione del loro standard di vita.

Il rapporto di forze tra capitale e lavoro è cambiato a spese del lavoro29 e questo espone tutti i lavoratori che non hanno alcun potere di contrattazione nel mercato del lavoro. Sono a forte rischio con un’inflazione che si sta avvicinando alle due cifre. La questione aperta, e che preoccupa le classi dirigenti, è se e come risponderanno. Negli USA, ad esempio, c’è una riscoperta dei sindacati. I lavoratori stanno scoprendo che se non si organizzano saranno alla totale mercé delle grandi corporations, del mercato e dei prezzi che salgono in modo minaccioso.

Oltre ai lavoratori, coloro che sono maggiormente colpiti da un’ondata inflazionistica sono tutti coloro che hanno degli asset monetari, nominali e finanziari che non si adeguano all’inflazione. Chi ha un conto di risparmio, chi detiene denaro liquido, chi ha una pensione o una rendita fissa viene penalizzato dalla perdita di valore, mentre chi ha investito in immobili o azioni è più coperto rispetto al rischio dell’inflazione. Coloro che hanno contratto dei debiti/mutui a lungo termine ad un tasso fisso hanno tutto da guadagnare sempre che i loro redditi si adeguino al tasso di inflazione.

Gli Stati Uniti hanno la fortuna di essere più remoti e isolati rispetto agli effetti negativi della guerra in Ucraina rispetto all’Europa (si pensi, ad esempio, ai milioni di profughi), ma risentono comunque delle pressioni inflazionistiche frutto di una combinazione tra aumento del costo dell’energia, interruzioni nelle supply chians e rapido incremento della spesa pubblica, il risultato dei pacchetti federali di aiuti a famiglie e lavoratori e dei tassi di interesse bassi, che ha sopraffatto la capacità dell’economia di aumentare la produzione nel breve periodo. Le imprese hanno alzato i prezzi sia per scaricare i maggiori costi sia per frenare la domanda, mandando i margini dei profitti alle stelle.

Nella sua conferenza stampa del gennaio 2022, in mezzo alla crescente preoccupazione per l’aumento dell’inflazione, Powell ha affermato che “la maggior parte dei partecipanti al FOMC concorda sul fatto che le condizioni del mercato del lavoro sono coerenti con la massima occupazione“, che ha definito “il più alto livello di occupazione coerente con la stabilità dei prezzi“. La questione, ha aggiunto Powell, è “se possiamo aumentare i tassi [di interesse] e passare a una [politica monetaria] meno accomodante… senza danneggiare il mercato del lavoro“.

Nella riunione di marzo, il consiglio che governa la FED ha deciso di aumentare il tasso di interesse di un modesto quarto di punto. Per giustificare tale decisione Powell ha descritto un’economia americana come “very strong” (cresciuta del 5,7% nel 2021), che sta andando molto bene, con un mercato del lavoro che è estremamente teso, avendo aggiunto una media di 600 mila posti di lavoro al mese negli ultimi sei mesi, in cui ci sono molte più offerte di lavoro (5 milioni) di quanti sono i disoccupati30. In sostanza, una condizione di massima occupazione31, con un forte disequilibrio tra offerta e domanda di lavoro32.

Nei suoi interventi pubblici Powell ha ribadito che l’obiettivo della FED è quello di riportare l’inflazione intorno al 2% attraverso un percorso di normalizzazione delle politiche monetarie che garantisca un “soft landing”, ossia un “atterraggio morbido” che non danneggi investimenti produttivi e occupazione. Usare gli strumenti in dotazione alla FED, inasprire la politica monetaria abbastanza da rallentare la domanda per rimettere in sincronia domanda ed offerta dei materiali di base della produzione in modo che l’inflazione rallenti senza provocare una recessione. Un percorso non facile, ma Powell considera la stabilità dei prezzi necessaria per avere un forte e dinamico mercato del lavoro per un periodo di tempo esteso, insieme alla stabilità finanziaria33.

Ora, dopo l’aumento dello 0,25% del tasso e un’inflazione dell’’8,5% a marzo, al momento la FED pare orientata a muoversi più velocemente, con tre aumenti successivi dello 0,50% ciascuno – per raggiungere entro i primi mesi del 2023 un tasso di interesse “neutrale – intorno al 2,4% o oltre – rispetto all’obiettivo di un’inflazione al 2%

Powell ha manifestato anche l’intenzione di cominciare a tagliare il bilancio della FED che è arrivato ad avere 9 trilioni di dollari a seguito dei programmi di acquisti di obbligazioni ed altri asset implementato a partire dalla crisi pandemica da CoVid-19. I titoli verranno messi sul mercato molto più velocemente rispetto al 2017, quando la FED ha lasciato ridurre le sue partecipazioni, alla luce dell’economia molto più forte ora e di quello che ora è un bilancio molto più grande34.

Nella sua azione di normalizzazione, la FED deve cercare di evitare l’esplosione della bolla immobiliare (come è avvenuto in Cina dalla seconda metà del 2021, costringendo governo e banca centrale ad intervenire). I bassi tassi di interesse hanno alimentato l’incremento non solo dei prezzi delle azioni, ma anche di assets come la terra e le case (il settore immobiliare). Negli USA, in Europa e altri Paesi ricchi, gli affitti sono rimbalzati ad un ritmo vertiginoso nel dopo pandemia, spingendo l’inflazione delle abitazioni – una parte importante degli indici dei prezzi complessivi – più in alto.

Sul fronte europeo, la BCE, a differenza della FED e della Bank of England, non ha ancora iniziato a ridurre il quantitative easing né ad aumentare il tasso di interesse, che è ancora negativo di 50 punti base. Finora, l’Eurozona (19 Paesi, con 19 politiche fiscali e 19 ministri della Finanze differenti) non ha visto così tanta espansione della domanda, crescita economica e inflazione come negli Stati Uniti. Per questo Lagarde ha un approccio più moderato sull’inflazione rispetto a Powell, nonostante in marzo questa abbia raggiunto il 7,4%. Ritiene che le economie UE e USA si stiano muovendo a passi differenti e differenti siano anche le componenti/cause principali che alimentano l’inflazione. Secondo la BCE, infatti, il driver dell’inflazione europea è uno shock dell’offerta, con quasi il 50% che è rappresentato dai prezzi energetici, accompagnato da incertezze della domanda e da cambiamenti nel mercato del lavoro. Pertanto, Lagarde continua a rassicurare da mesi che l’inflazione europea è temporanea e non è strutturale: non è stata incorporata nel nucleo delle forze produttive, come i salari. Se si guarda la cosiddetta inflazione “core”, ossia depurata dall’aumento dei prezzi di energia e cibo, questa si riduce al 2,9%, più bassa di quella americana.

Il messaggio di fondo di Lagarde è che occorre essere pazienti. Finito l’inverno (con la riduzione del fabbisogno di gas naturale per riscaldare le case) e non appena la produzione tornerà a pieno regime, i prezzi inizieranno a scendere verso la “normalità”.

In questa situazione, la BCE ha deciso a marzo che all’incontro di giugno si deciderà quando, nel terzo trimestre, verrà terminato il programma di acquisti di assets (già in riduzione da mesi), che comunque la BCE, a differenza della FED, non intende mettere sul mercato, ma rinnovare. La BCE ha acquistato quasi 5 trilioni di euro di debito pubblico e privato dal 2015. In ogni caso, la BCE ha anche deciso di tenere le sue opzioni aperte in relazione alle evoluzioni e agli impatti negativi della guerra in Ucraina, prevedendo gradualità e flessibilità nella conduzione della sua politica monetaria. Per quanto riguarda i tassi di interesse, Lagarde ha detto che non saranno aumentati fino a quando i dati economici non supporteranno una decisione in tal senso (ma un primo rialzo potrebbe esserci a luglio).

Resistere all’approccio ortodosso alla lotta all’inflazione – riduzione della spesa e aumento dei tassi di interesse – è forse la sfida più grande che la BCE sta affrontando ora e Lagarde deve difendersi dai “falchi” presenti del Consiglio direttivo che chiedono un rialzo anticipato dei tassi d’interesse. Si tratterebbe, seppur per ragioni diverse, di una replica dell’errore commesso da Trichet nel 2011, dopo la Grande Crisi del 2008-200935, minacciando non solo la transizione verde, ma l’intera ripresa post pandemia.

Alessandro Scassellati

  1. La crisi finanziaria del 2007-2009 ha svelato che “il re è nudo” e ha portato il sistema di regolazione neoliberista e il suo regime di accumulazione basato su bassi salari, compressione dei diritti dei lavoratori, prezzi contenuti e ultra-concorrenziali, massimizzazione del profitto per gli azionisti e soprattutto sull’attività finanziaria, ad un improvviso collasso, facendo esplodere una crisi globale che ha causato un crollo della domanda aggregata e una stagnazione di lungo periodo. Come ha notato Luciano Gallino, ha reso evidente “una grave contraddizione nel sistema capitalistico, perché esso per sopravvivere avrebbe bisogno di consumatori/lavoratori non poveri, bensì relativamente benestanti.” Gli economisti in questi anni si sono interrogati su questa imprevista “stagnazione secolare” (come l’aveva definita Larry Summers nel 2013) – una combinazione di bassa crescita della produttività, mancanza di rendimenti degli investimenti privati e quasi deflazione – che contrasta con uno dei principi di base della scienza economico-monetaria: l’aumento della moneta in circolazione dovrebbe spingere i prezzi al rialzo. Per un lungo periodo questo non è avvenuto. Al punto che, dopo aver ridotto e abbandonato il quantitative easing (la FED a partire dal 2015 e la BCE a partire dal 2018), le banche centrali sono state costrette a tornare sui loro passi ancor prima della crisi indotta dalla pandemia da CoVid-19, dato che crescita economica sostenuta e inflazione al 2% non si erano mai materializzate. Nel 2019, l’Eurozona rischiava nuovamente di scivolare nella deflazione. Mentre il presidente della BCE Draghi invocava l’intervento della politica economica, Berlino continuava a puntare i piedi. Nel settembre 2019, in una mossa disperata, Draghi annunciò un altro ciclo di quantitative easing, attirandosi un fiume di proteste dalla Germania. Poi, nel 2020, il mondo si è accorto che i mercati finanziari più grandi del mondo – quelli dei buoni del tesoro americano e dei Paesi europei – potevano essere destabilizzati dalla pandemia da CoVid-19. Per arginare questo rischio e rilanciare anche i mercati azionari crollati tra febbraio e marzo, la FED e la BCE – guidate rispettivamente da Jerome Powell e Christine Lagarde (due non economisti) – hanno adottato un approccio pragmatico straordinariamente espansivo alla stabilizzazione, avendo come priorità quella di far ripartire la crescita economica. Questo ha consentito ai governi degli Stati Uniti (con il Cares Act da 2,35 trilioni di dollari, con il pacchetto da 892 miliardi di dollari di nuovi aiuti a fine 2020, e poi con l’American Rescue Plan da 1,9 trilioni di dollari) e dei Paesi europei, nonché all’Unione Europea (con i programmi SURE e Next Generation UE da 750 miliardi di euro), di poter fare nuovo debito e di espandere enormemente le loro politiche fiscali di sostegno, stimolo e rilancio economico, con l’obiettivo dichiarato di trovare un nuovo modello di crescita economica inclusiva ed ecologicamente sostenibile (la cosiddetta “transizione verde e digitale”).[]
  2. Ad agosto nell’Eurozona l’inflazione aveva raggiunto il 3% (era al 2,2% a luglio) e il 3,4% a settembre, mentre negli Stati Uniti era arrivata (anno su anno) al 5,3% ad agosto e al 5,4% a settembre, livelli che non si vedevano dal 1992.[]
  3. A settembre, la BCE aveva previsto un’inflazione al 2,2% per il 2021, all’1,7% nel 2022 e all’1,5% nel 2023, ben al di sotto dell’obiettivo del 2% della BCE. Inoltre, ha deciso di ridurre gli acquisti di obbligazioni di emergenza nel successivo trimestre, facendo un primo piccolo passo verso l’allentamento degli aiuti di emergenza che hanno sostenuto l’economia della zona euro durante la pandemia da coronavirus. La BCE ha deciso di rallentare il ritmo del suo Programma di Acquisto di Emergenza Pandemica (PEPP) da 1,85 trilioni di euro, che ha mantenuto bassi i costi di finanziamento per i governi che hanno assunto importi di debito senza precedenti per finanziare la risposta alla pandemia. Passando da 80 a 70-60 miliardi di euro di acquisti al mese, mentre gli acquisti nell’ambito del vecchio programma di acquisto di assets (APP) sono rimasti a 20 miliardi di euro al mese.[]
  4. La FED ha previsto tre rialzi dei tassi nel 2022 a partire da marzo e ha accelerato il tasso al quale tagliava la spesa per l’acquisto del Tesoro e titoli garantiti da ipoteca entro marzo, annunciando che avrebbe terminato tale programma a partire dal mese di marzo. Powell ha detto alla Commissione del Senato per le banche che ora era l’inflazione l’obiettivo principale della FED – non la promozione di una maggiore crescita dell’occupazione, nonostante che negli USA ci fossero ancora 4 milioni le persone disoccupate rispetto a prima della pandemia, o proteggersi da una recessione da coronavirus -, dato che gli aumenti dei prezzi erano ad un massimo di 40 anni e ben oltre l’obiettivo del 2% della FED. Ha detto che pensava che l’inflazione sarebbe diminuita entro la metà del 2022, ma che la FED era pronta a fare ciò che fosse stato necessario per evitare che gli alti tassi di aumento dei prezzi diventassero “radicati“.[]
  5. Nell’ultimo anno l’inflazione ha superato la crescita salariale in tutti i Paesi del G7, nonostante l’apparente carenza diffusa di manodopera. Uno dei pochi “problemi” che le economie dei Paesi avanzati non stanno affrontando è l’inflazione dei salari. Pressoché ovunque i lavoratori hanno vissuto il periodo di stagnazione salariale più lungo dal 1800. In Italia i salari sono stagnanti e pressoché fermi da decenni. Anzi, sono addirittura diminuiti negli ultimi trent’anni. E non c’è più un meccanismo di adeguamento automatico degli stessi al costo della vita (la “scala mobile” fu soppressa nel 1992). Uno studio recente di OpenPolis condotto sulla base di dati OCSE ha dimostrato che nel nostro Paese il salario medio annuale è sceso del 2,9% dal 1990 a oggi. Unico caso in tutta l’Unione Europea. Impietoso il confronto con altri Paesi a noi vicini, non solo geograficamente: in Germania e in Francia, ad esempio, le retribuzioni medie sono aumentate rispettivamente del 33,7% e del 31,1%, pur partendo da livelli già più alti dei nostri. In Francia, secondo un’analisi di Le Monde, gli aumenti dei salari reali francesi continuano ad essere comunque modesti – l’aumento mediano del salario è del 2,2%-2,5% compresa l’anzianità e le promozioni, ben al di sotto del livello di inflazione (4,5%), quindi con la perdita di potere d’acquisto – in un contesto di forte crescita economica e di ottima salute delle imprese francesi, con profitti record e un indice azionario CAC40 a un livello eccezionale, e, di inflazione elevata, che, secondo i dati dell’Istituto di Statistica, ha raggiunto a gennaio 2022 il 2,9% , ma che potrebbe salire al 3% o 3,5% nella prima metà dell’anno. In un sondaggio pubblicato il 7 febbraio, basato su un campione di 80 aziende, la Deloitte ha osservato uno scongelamento dei salari rispettato per due anni e il ritorno ai livelli precedenti alla crisi causata dal CoVid-19, ma niente di più. In alcune realtà lavorative, i dipendenti sono riusciti a creare un rapporto di forza per ottenere di più, con gli scioperi a Decathlon, Leroy-Merlin o Air Liquide, o le minacce di scioperi, come alla Sodexo. Dopo 25 giorni di sciopero e la chiusura di quattro forni, i dipendenti della Thermal Ceramics, produttore di prodotti isolanti per l’industria, sono tornati al lavoro l’11 febbraio, grazie ad un aumento generale del 3,8% e un bonus eccezionale di 2.500 euro. La protesta continua presso le aziende Dassault Aviation, Kem One (plastica), siti del gruppo Thales o Lustucru. Ma, in altre realtà lavorative il malcontento è elevato, come nei settori delle pulizie, sicurezza, ristorazione, alberghiero, trasporto su strada e commercio al dettaglio. Alla Nestlé Francia i negoziati per il rinnovo del contratto sono stati condotti al ribasso (sotto il 3%), nonostante marchi come Purina e Nespresso stanno ottenendo ottimi risultati economici e i dividendi degli azionisti continuano ad aumentare. È passato così tanto tempo dall’ultima volta che alcuni settori hanno aumentato i salari che spesso è più una questione di recupero che di veri passi in avanti.[]
  6. Stournas ha esortato alla prudenza, a continuare il programma APP di acquisto di asset (obbligazioni, buoni del tesoro, titoli garantiti da ipoteca – MBS, etc.) e a non aumentare i tassi di interesse almeno fino alla fine del 2022.[]
  7. Ma, diversi Paesi dell’OPEC+, tra cui Nigeria, Angola e Kazakistan, fanno fatica ad aumentare la produzione a causa di anni di investimenti insufficienti o di lavori di manutenzione ritardati dalla pandemia di CoVid-19. Mentre importanti Paesi produttori, come Venezuela ed Iran, continuano ad essere sotto embargo internazionale. Nei prossimi anni è assai probabile che la diminuzione degli investimenti nel petrolio, gas e carbone potrà significare che per queste fonti di energia i prezzi si manterranno elevati.[]
  8. In tutta l’UE, il gas russo rappresenta il 40% della fornitura di energia, anche se in alcune nazioni come la Repubblica Ceca e la Lettonia sale al 100%. Negli ultimi due decenni, la Germania è diventata più dipendente dalle fonti di energia esterne, salendo al 67% – tra i tassi più alti nell’UE – mentre sta riducendo la produzione di energia nucleare. Il gas fornito dalla Russia rappresenta il 65% delle importazioni totali di gas naturale in Germania, per un valore di quasi 50 miliardi di euro nel 2020, secondo Eurostat. La Francia, che ha una quota maggiore di energia nucleare, fa affidamento sulle importazioni per meno della metà la sua energia. Diversificare rapidamente i fornitori di gas naturale è diventato il mantra della politica estera europea ed italiana. Restando ancorati ai combustibili fossili, per non importare gas dalla Russia i Paesi europei cercano di importarne di più gas da Paesi come USA, Qatar, Algeria, Egitto, Repubblica del Congo, Angola, Azerbaijan e Mozambico. Sulle implicazioni economiche e geopolitiche per quanto riguarda l’Italia vedi il nostro articolo qui.[]
  9. E’ bene ricordare che, secondo l’International Chamber of Shipping (ICS), la maggior parte dei marinai di basso livello arriva dalle Filippine, seguita da Cina, Indonesia, Russia e Ucraina. Il maggior numero di ufficiali proviene dalla Cina, oltre che da Filippine, India, Indonesia e Russia. La situazione spesso già difficile degli oltre 1,6 milioni di marittimi che nel mondo sono al servizio dell’economia globale è stata fortemente aggravata dal CoVid-19. Ad un certo punto nel 2020 c’erano circa 400 mila marinai che non potevano tornare a casa. Molti erano bloccati perché le regole nazionali sul CoVid-19 impedivano alle persone di viaggiare da un Paese all’altro. Molti porti hanno rifiutato di far sbarcare i marinai. La guerra Russia-Ucraina potrebbe avere un impatto particolare sul settore marittimo, già colpito dalla carenza di container, dal CoVid-19 e dal blocco del canale di Suez. Secondo l’ICS, quasi il 15% dei marittimi nel mondo sono russi o ucraini e le catene di approvvigionamento e i costi potrebbero risentirne se la libera circolazione di una parte così significativa della forza lavoro fosse limitata.[]
  10. Il FMI ha rivisto al ribasso anche le previsioni per la crescita globale nel 2023, dal 3,8% al 3,6%. Revisioni che si applicano alle economie avanzate e in via di sviluppo, indicando che a medio termine i motori economici e i modelli di crescita a livello mondiale hanno perso forza. L’attuale periodo di bassa crescita della produttività in molti Paesi è il risultato dei fallimenti passati e persistenti nell’investire nei motori di una crescita solida ed inclusiva a lungo termine, comprese le infrastrutture fisiche, i sistemi sanitari e il capitale umano.[]
  11. Secondo il FMI, i Paesi a medio reddito saranno ancora sotto al trend prepandemico del 6% nel 2026. Si sono accumulati oltre 2 anni di ritardo nella loro ripresa.[]
  12. Un recente rapporto Oxfam (Inequality Kills) sostiene che i 10 uomini più ricchi del mondo hanno visto la loro ricchezza globale raddoppiare a 1,5 trilioni di dollari dall’inizio della pandemia globale a seguito di un aumento dei prezzi delle azioni e degli immobili che ha ampliato il divario tra ricchi e poveri. Insieme possiedono più ricchezza dei 3,1 miliardi di persone più povere, considerando che i dati della Banca Mondiale mostrano che 163 milioni di persone in più sono state spinte al di sotto della soglia di povertà mentre i super ricchi hanno beneficiato dello stimolo fornito dai governi in tutto il mondo per mitigare l’impatto del virus. Oxfam prevede che entro il 2030 3,3 miliardi di persone vivranno con meno di 5,50 dollari al giorno. Oxfam ha sostenuto che una tassa una tantum del 99% sui guadagni di ricchezza CoVid-19 dei 10 uomini più ricchi avrebbe consentito da sola di raccogliere 812 miliardi di dollari, abbastanza per pagare le dosi per vaccinare il mondo intero e fornire risorse anche per affrontare il cambiamento climatico, fornire assistenza sanitaria universale e protezione sociale e affrontare la questione della violenza di genere in 80 Paesi. Anche dopo un prelievo del 99%, i primi 10 miliardari sarebbero stati meglio di 8 miliardi di dollari rispetto a prima della pandemia. Anche il FMI ha sostenuto che per ridurre la disuguaglianza all’interno dei Paesi e tra Paesi serve una tassa sui ricchi. Noi abbiamo affrontato la questione della tassazione dei ricchi e delle corporations qui e qui[]
  13. Il FMI ha ridotto le previsioni di crescita del PIL per il 2022 di non meno di 1 punto percentuale e fino al 3% per la maggior parte dei Paesi, rispetto alle proiezioni di gennaio 2022. Quindi, la crescita per l’Europea nel suo complesso è prevista tra l’1,5% e il 2,7%; 2,8% per l’Eurozona e 2,3% per l’Italia. Il FMI prevede che diverse grandi economie, come Francia, Germania, Italia e Regno Unito, si espanderanno a malapena o addirittura si contrarranno per due trimestri consecutivi quest’anno (recessione tecnica). L’attività in Russia diminuirà dell’8,5% e in Ucraina del 35%.[]
  14. Alla fine del 2021, circa il 41% dei Paesi ricchi ha raggiunto la soglia del livello di reddito pro capite del 2019, rispetto al 28% dei Paesi a medio reddito e solo al 23% dei Paesi a basso reddito. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) ritiene che la ripresa del mercato del lavoro globale dallo shock pandemico sarà lenta, disomogenea ed incerta. Per molti Paesi a medio e basso reddito l’OIL ritiene che il tasso di disoccupazione potrebbe essere superiore ai livelli pre-pandemici fino al 2023/24. Ci vorranno anni per riassorbire completamente l’impatto della crisi nel mondo del lavoro. A farne le spese sono e saranno soprattutto i Paesi poveri con evidenti rischi sociali e politici.[]
  15. E’ bene ricordare che uno dei drammatici effetti collaterali della terapia d’urto contro l’inflazione statunitense nei primi anni ’80 è stata la crisi del debito latinoamericano. I Paesi che si erano pesantemente indebitati in dollari nella seconda metà degli anni ’70 con le banche statunitensi (impegnate nel riciclaggio dei petrodollari dei Paesi arabi) hanno scoperto che i prestiti non erano rimborsabili quando i tassi di interesse americani sono aumentati vertiginosamente con la “cura Volker” e la recessione globale che ne è scaturita ha soffocato le loro esportazioni.[]
  16. Solo nel 2021 sono stati pagati 11 trilioni di dollari di interessi sul debito, l’equivalente di quattro o cinque volte il PIL di un Paese come l’Italia. Ora, tutto questo è successo grazie ad un costo del credito molto basso. In effetti, il capitalismo ha vissuto di tempo preso in prestito negli ultimi due decenni o più. Il credito a buon mercato alimentava il boom. Ora l’epoca del credito a buon mercato sta per finire e il quadro è destinato a diventare molto problematico e conflittuale soprattutto per i Paesi a medio e basso reddito, ma anche un Paese ricco come l’Italia dovrà presto tornare a confrontarsi con la questione della sostenibilità del suo debito pubblico, una questione che all’interno dell’Unione Europea oramai riguarda anche Belgio, Cipro, Francia, Grecia, Spagna e Portogallo, che hanno tutti debiti superiori al 100% del PIL. Anche il debito pubblico statunitense ha ha superato il 100%, raggiungendo a fine 2021 la cifra record di 28.900 miliardi di dollari.[]
  17. I Paesi più ricchi hanno speso in media circa il 6,5% del PIL per lo stimolo fiscale CoVid-19, che è quasi il doppio del 3,3% del PIL speso dai Paesi a medio e basso reddito.[]
  18. Molti dei Paesi poveri stanno già ora spendendo oltre il 20% delle proprie entrate per pagare gli interessi sul debito, con Angola e Ghana che spendono entrambi oltre il 35%, decimando tutte le voci della spesa pubblica, ed in particolare salute, istruzione e altri servizi pubblici di cui le persone hanno un assoluto bisogno. Oltre 60 Paesi – Congo, Gambia, Ghana, Kenya, Zambia, e Sierra Leone – stanno spendendo di più per il servizio del debito che per sanità e istruzione messe insieme. Questi Paesi a basso reddito non hanno scelto casualmente di tagliare la spesa sanitaria. Per decenni, il FMI ha concesso loro dei prestiti, ma sappiamo che le condizioni coercitive legate a questi prestiti hanno richiesto il congelamento dei salari del settore pubblico. A questi Paesi è stato chiesto di contenere o tagliare i salari, col risultato di avere un minor numero di medici, insegnanti e infermieri. In pratica, questo ha significato che questi Paesi non hanno potuto spendere di più per la salute e l’istruzione senza cadere venire penalizzati dal FMI. Due dei Paesi più colpiti dall’Ebola, Sierra Leone e Guinea, hanno programmi del FMI che prevedono un calo dei bilanci sanitari. Nel 2019, il Cameroun ha speso il 23,8% del suo budget per il pagamento del debito, rispetto al 3,9% delle entrate del Paese speso per la salute. I Paesi che stanno cadendo in difficoltà nel debito includono la Tunisia e il Libano, che hanno visto sconvolgimenti politici, così come lo Zambia e il Ghana. Lo Zambia è stato il primo Paese africano a fare default sul debito nel 2020 durante la pandemia e ora deve destinare il 44% delle sue entrate annuali del governo ai creditori. Il Ghana spende circa il 37% del suo bilancio nazionale per il pagamento degli interessi sul debito. Per molti di questi Paesi è complicato arrivare alla cancellazione del debito perché hanno contratto debiti a condizioni non agevolate da istituti di credito privati.[]
  19. I Paesi a medio e basso reddito hanno un’esposizione molto maggiore agli shock ambientali, che diventeranno più frequenti e gravi a causa del cambiamento climatico. Gli eventi meteorologici estremi in effetti agiscono come shock negativi dell’offerta, causando un calo della produzione e un aumento dei prezzi, le condizioni più difficili per i responsabili delle politiche monetarie. Diversi Paesi, tra cui Nigeria e Sri Lanka, stanno attualmente affrontando prezzi alimentari alle stelle, mentre la siccità e la conseguente carestia di Madagascar e Paesi di Sahel e Corno d’Africa sono un altro forte promemoria della vulnerabilità dei Paesi poveri africani. Purtroppo, il vertice sul clima della Cop26 a Glasgow nel 2021 ha offerto per lo più discorsi retorici, lasciando il mondo sulla buona strada per subire un devastante riscaldamento di 3°C in questo secolo.[]
  20. Uno dei maggiori creditori del Sri Lanka è la Cina. E’ sul caso del Sri Lanka che è stata elaborata da think-tank indiani la falsa tesi della “trappola del debito” cinese. I maggiori creditori del Sri Lanka sono in realtà banche e istituzioni finanziarie giapponesi.[]
  21. La capitalizzazione dei bond globali, sia governativi sia corporate, ormai sfiora la soglia dei 70 mila miliardi di dollari, pari a circa tre quarti del PIL globale (stimato a 93 mila miliardi nel 2021). Un dato senza precedenti per questa classe di investimento, aggravato dalla quota di bond che hanno tassi negativi (chi li compra paga un interesse al debitore, invece di riceverlo) che è stimata essere intorno ai 17 mila miliardi.[]
  22. Le azioni a Wall Street sono salite alle stelle tra l’aprile 2020 e la fine del  2021. Ma, l’earning yield a Wall Street è sui minimi dalla fine degli anni ‘40. L’earning yield si ricava dividendo gli utili con il prezzo delle azioni: di fatto questo indicatore mostra la redditività delle azioni stesse. Il fatto che sia sui minimi dalla fine degli anni ’40 significa che i prezzi sono saliti più degli utili delle aziende. Anche se i profitti sono cresciuti, i prezzi delle azioni, sostenuti dalla liquidità delle banche centrali, sono cresciuti molto più velocemente.[]
  23. Per oltre un decennio bassi tassi di interesse e “politiche non convenzionali” hanno promosso l’effervescenza dei mercati azionari che avrebbe dovuto avere un effetto espansivo per le economie reali, facendo aumentare la domanda aggregata attraverso maggiori spese da parte di coloro che si sentivano più ricchi a causa delle “bolle” finanziarie. Ma, i ricchi risparmiano una percentuale più alta dei loro redditi rispetto ai poveri (anche se il 10% più ricco degli americani è responsabile della metà dei consumi nazionali, secondo la Moody’s Analytics), per cui stagnazione salariale e disuguaglianze crescenti hanno creato una contraddizione strutturale. Più disuguale è la società, tanto maggiore è l’investimento necessario per tenere in movimento la macchina economica, mentre tanto minori sono i redditi disponibili per acquistare la maggiore produzione derivante dall’investimento di capitale. Quindi, se non si interviene per ridurre le disuguaglianze e la stagnazione salariale, il consumo dipende sempre più solo dal debito privato, mentre il risparmio dei ricchi viene sempre più impiegato nella speculazione finanziaria per generare rendita piuttosto che espansione della produzione di servizi e beni di consumo e durevoli. Quando il modello neoliberista fu inizialmente implementato nei primi anni ‘80, il processo di generazione di reddito e domanda aggregata era ancora robusto e le disuguaglianze di reddito erano molto più basse. Inoltre, l’economia ha avuto spazio per l’inflazione dei prezzi degli assets e per la crescita del credito poiché i prezzi degli assets e l’indebitamento erano entrambi relativamente bassi all’inizio del periodo. Quelle condizioni iniziali favorevoli hanno consentito all’economia di potersi espandere tra il 1980 e il 2007 – gli anni della cosiddetta “Grande Moderazione” – nonostante gli effetti stagnanti della politica neoliberista. Tuttavia, dopo la crisi del 2007-2009 tali condizioni si sono esaurite in modo tale che l’inflazione del debito e dei prezzi degli assets non è riuscita più colmare adeguatamente il divario strutturale della domanda. Per questo si è discusso a lungo del fenomeno della “stagnazione secolare“, di cui aveva parlato Lawrence Summers nel 2013. Lo “scenario giapponese” caratterizzato da una domanda debole, indicata da una combinazione di bassa inflazione, enormi livelli di debiti pubblici e privati, e ultrabassi tassi di interesse reali e nominali, sembra essere divenuto strutturale e quindi è probabile che persista, nonostante l’attuale vampata inflazionistica.[]
  24. La reazione di Wall Street è arrivata dopo che nella settimana precedente erano trapelati i verbali dell’ultimo incontro della FED di dicembre in cui i membri del consiglio hanno valutato se fosse necessario aumentare i tassi di interesse “prima o a un ritmo più veloce“.[]
  25. Le equity pubbliche e private sono entrambe costose (con un rapporto prezzo/utili superiore alla media); i prezzi degli immobili (sia per l’acquisto delle abitazioni sia per gli affitti) sono alti negli Stati Uniti e in molte altre economie ricche; e c’è ancora una corsa alle azioni meme, ai crypto assets e alle SPAC (società di acquisizione per scopi speciali). I rendimenti dei titoli di Stato restano estremamente bassi e gli spread creditizi – sia high yield che high grade – sono stati compressi, in parte a causa del sostegno diretto e indiretto delle banche centrali.[]
  26. Le disfunzioni politiche stanno aumentando sia nei Paesi ricchi sia in quelli emergenti e poveri. Le elezioni di medio termine statunitensi potrebbero offrire un’anteprima della vera e propria crisi costituzionale – se non della vera e propria violenza politica – che potrebbe seguire il voto presidenziale nel 2024. Gli Stati Uniti stanno vivendo livelli quasi senza precedenti di polarizzazione partigiana, blocco e radicalizzazione, tutti elementi che rappresentano un grave rischio sistemico. I partiti populisti (sia di estrema destra che di estrema sinistra) si stanno rafforzando in tutto il mondo, anche in regioni come l’America Latina che sta fronteggiando rischi economici, politici e sociali molto elevati e dove il populismo ha una storia disastrosa. Argentina e Venezuela sono sulla strada della rovina finanziaria. La normalizzazione dei tassi di interesse da parte della FED e di altre banche centrali potrebbe causare shock finanziari in questi e altri fragili mercati emergenti come Turchia, Libano, Sri Lanka e Brasile, oltre che in numerosi Paesi poveri con indici di indebitamento già insostenibili[]
  27. Su questo punto è bene ricordare che nel 1955 William McChesney Martin, all’epoca capo della FED, descrisse così il suo lavoro: il banchiere centrale è quello che “nasconde gli alcolici proprio quando la festa comincia a decollare”. In altre parole, per evitare che l’economia si surriscaldi facendo esplodere l’inflazione, la FED deve intervenire tempestivamente, per esempio alzando i tassi di interesse.[]
  28. In America, come in Europa, questo fenomeno è aggravato da fatto che negli ultimi 40 anni settori tradizionalmente riservati allo Stato o comunque sottoposti a una forte regolazione da parte del potere politico, perché considerati “beni collettivi” o “monopoli naturali” – sanità, previdenza, formazione, trasporti, energia, acqua, carceri, difesa civile e militare –, sono stati aperti al capitale privato, messi sul mercato e spesso svenduti, ampliando così la sfera della mercificazione di beni e servizi e permettendo a grandi aziende di creare dei monopoli privati, imporre delle tariffe su beni essenziali e pretenderne il pagamento per l’accesso sia da parte dei cittadini sia dei governi, molto spesso con un peggioramento della qualità dei servizi erogati a causa di una riduzione di investimenti ed occupati.[]
  29. Oggi il lavoratore tipo ha poco o nessun potere contrattuale. Le aziende possono aumentare la produzione esternalizzando qualsiasi cosa ovunque perché il capitale è diventato globale, mentre mezzo secolo fa le aziende che avevano bisogno di più produzione dovevano contrattare con i propri lavoratori per ottenerla. Questi cambiamenti hanno spostato il potere dal lavoro al capitale, aumentando la quota della torta economica destinata ai profitti e diminuendo la quota destinata ai salari. E’ stato questo passaggio di potere che ha posto fine alla “spirale salari-prezzi”, per cui oggi i lavoratori sono schiacciati tra salari stagnanti e prezzi in aumento. Il risultato è che molte delle persone più povere delle nostre società stanno lottando per sopravvivere.[]
  30. In effetti, negli Stati Uniti molte aziende devono ora offrire bonus e stipendi/salari di ingresso più alti rispetto a prima della pandemia anche per mansioni poco qualificate, se vogliono trovare nuovi dipendenti. Molti analisti ed economisti mainstream, sostenitori del pensiero ortodosso del libero mercato, sostengono che è necessario aumentare rapidamente i tassi di interesse perché, almeno negli USA, saremmo sull’orlo di una “spirale salari-prezzi” in cui i lavoratori chiedono salari più alti per compensare l’aumento dell’inflazione, che a loro volta fanno aumentare l’inflazione. Il rapporto di gennaio sull’occupazione del Dipartimento del Lavoro ha acuito i timori mainstream che un mercato del lavoro cosiddetto “rigido, con una “carenza di manodopera”, stia spingendo verso l’alto i salari, alimentando l’inflazione, e quindi la FED deve frenare questa “spirale salari-prezzi”, alzando i tassi di interesse, prima che possa sfuggire al controllo. Ma, secondo il Consumer Expenditure Survey sempre del Dipartimento del Lavoro, un quinto degli americani con il reddito più basso spende l’83% del proprio reddito per l’alloggio, e a mala pena può permettersi di sostenere aumenti degli affitti, per non parlare di carburante, cibo e altri beni essenziali. Non c’è una “carenza di manodopera” che fa salire i salari, quanto una carenza di buoni posti di lavoro che pagano salari adeguati per sostenere le famiglie che lavorano. L’aumento dei tassi di interesse aggraverà questa carenza. Non c’è una “spirale salari-prezzi”, al contrario, i salari reali dei lavoratori sono diminuiti a causa dell’inflazione. Anche se i salari complessivi sono aumentati, non sono riusciti a tenere il passo con gli aumenti dei prezzi, peggiorando la situazione della maggior parte dei lavoratori in termini di potere d’acquisto. Il tipico lavoratore americano non ha avuto un vero aumento salariale in quattro decenni. La disuguaglianza di reddito è fuori controllo. La disuguaglianza di ricchezza è nella stratosfera (dove Jeff Bezos si sta dirigendo, a quanto pare). Se i salari più bassi aumentano perché i datori di lavoro devono pagare di più per ottenere i lavoratori di cui hanno bisogno, non è un problema, ma un fatto positivo ce contribuisce a ridurre le disuguaglianze, la stagnazione salariale, l’indebitamento delle famiglie. Invece di lamentarsi della cosiddetta “carenza di manodopera“, economisti e politici dovrebbero lamentarsi della carenza di posti di lavoro che pagano un salario di sussistenza.[]
  31. Secondo il mandato assegnatole dal Congresso, la Federal Reserve deve puntare sia alla massima occupazione sia alla stabilità dei prezzi. Mentre la FED (come la BCE) ha definito la stabilità dei prezzi come un’inflazione media del 2%, per la massima occupazione non è stato mai definito un target preciso. Nella sua dichiarazione sulla strategia di politica monetaria, il Federal Open Market Committee (FOMC), l’organo di definizione delle politiche della FED, afferma: “Il livello massimo di occupazione è un obiettivo ampio e inclusivo che non è direttamente misurabile e cambia nel tempo a causa principalmente di fattori non monetari che incidono sulla struttura e sulla dinamica del mercato del lavoro….[Le] decisioni politiche del Comitato devono essere informate da valutazioni delle carenze occupazionali dal suo livello massimo, riconoscendo che tali valutazioni sono necessariamente incerte e soggette a revisione. Il Comitato considera un’ampia gamma di indicatori nell’effettuare queste valutazioni”. In pratica questo significa che la massima occupazione – una volta chiamata piena occupazione – è il livello più alto di occupazione che l’economia può sostenere senza generare un’inflazione indesiderata. Descrive un’economia in cui quasi tutti coloro che vogliono lavorare hanno un lavoro. Il tasso di disoccupazione è un modo importante per valutare se un’economia è al massimo dell’occupazione, ma non l’unico. Il tasso di disoccupazione principale (U-3) è definito dal Bureau of Labor Statistics (BLS) come la percentuale di adulti che non hanno un lavoro, hanno attivamente cercato lavoro nelle ultime quattro settimane e sono attualmente in grado di lavorare. Il tasso di disoccupazione è una percentuale della forza lavoro, la somma dei disoccupati più gli occupati. Questa misura, tuttavia, non tiene conto di tutti i lavoratori inattivi e non è una misura sufficiente di ciò che viene chiamato rallentamento nel mercato del lavoro. Non conta, ad esempio, i lavoratori che hanno rinunciato a cercare lavoro o quelli che lavorano part-time perché non trovano un lavoro a tempo pieno. Il BLS pubblica diverse misure alternative. La misura U-6, ad esempio, conta i disoccupati più i lavoratori scoraggiati (coloro che vorrebbero lavorare, ma hanno rinunciato a cercare perché credono che non ci siano posti di lavoro per loro), quelli che sono marginalmente attaccati alla forza lavoro (coloro che vorrebbe lavorare, ma hanno smesso di cercare lavoro per qualsiasi altro motivo) e coloro che lavorano part-time che preferirebbero un lavoro a tempo pieno. Per gran parte dell’ultimo decennio il tasso di disoccupazione è diminuito e l’inflazione non è aumentata. “Sebbene il tasso di disoccupazione sia un indicatore aggregato molto informativo, fornisce solo una misura ristretta di dove il mercato del lavoro è relativo alla massima occupazione“, ha affermato il governatore della FED Lael Brainard. “Per quasi quattro decenni, la politica monetaria è stata guidata da una forte presunzione che una politica accomodante dovesse essere ridotta preventivamente quando il tasso di disoccupazione si avvicina al suo tasso normale in previsione di un’inflazione altrimenti presto elevata. Ma, i cambiamenti nelle relazioni economiche nell’ultimo decennio hanno portato l’inflazione tendenziale a rimanere un po’ al di sotto dell’obiettivo e l’inflazione a essere relativamente insensibile all’utilizzo delle risorse.” Con una piccola modifica, ma significativa alla sua dichiarazione di strategia di politica monetaria, la FED ha dichiarato nell’agosto 2020 che avrebbe risposto a “mancanza di occupazione dal suo livello massimo” piuttosto che alle precedenti “deviazioni dal suo livello massimo“. Questo ha indicato che la FED non avrebbe più inasprito preventivamente la politica monetaria solo perché la disoccupazione si stava avvicinando o addirittura scendendo al di sotto delle stime del tasso di disoccupazione che i modelli economici suggeriscono essere coerenti con l’inflazione stabile. “Questo cambiamento segnala che l’elevata occupazione, in assenza di aumenti indesiderati dell’inflazione o altri rischi che potrebbero impedire il raggiungimento degli obiettivi del Comitato, non sarà di per sé motivo di preoccupazione di policy“, ha affermato la FED. La FED definisce il livello massimo di occupazione come un “obiettivo ampio e inclusivo“. Quando il presidente della FED Powell ha annunciato l’aggiunta di quella frase alla dichiarazione strategica della FED, ha affermato che “riflette il nostro apprezzamento per i benefici di un forte mercato del lavoro, in particolare per molti nelle comunità a basso e moderato reddito“. Ciò riflette la richiesta fatta alla FED di mantenere i tassi di interesse più bassi come un modo per aumentare l’occupazione nelle comunità, comprese le comunità di colore, dove è più probabile che le persone siano disoccupate. Dovrebbe, inoltre, voler dire guardare oltre il tasso di disoccupazione generale per decidere se l’economia è al massimo dell’occupazione. Cosa questo significhi in pratica per la politica della Fed resta da vedere. Alcuni osservatori hanno sostenuto che la FED dovrebbe mantenere bassi i tassi di interesse fino a quando il tasso di disoccupazione dei neri non scenderà. Ma, Powell ha affermato: “Il punto dell’obiettivo ampio e inclusivo non era quello di puntare a un tasso di disoccupazione particolare per un gruppo particolare … E una delle cose che guardiamo sono i tassi di disoccupazione, i tassi di partecipazione e i salari per gruppi demografici e di età diversi e quel tipo di cosa.“. Negli USA, il tasso di partecipazione alla forza lavoro (LFP), ossia il numero di occupati più i disoccupati ufficiali diviso per la popolazione civile non istituzionalizzata di età superiore ai 16 anni, è in costante decremento poiché la generazione del baby boom invecchia e va in pensione. Durante le recessioni economiche, la LFP tende a diminuire dal momento che le persone smettono di cercare lavoro. Durante la pandemia, il tasso di LFP è diminuito drasticamente poiché molti genitori (in particolare le madri) hanno lasciato la forza lavoro a causa della chiusura delle strutture per l’infanzia e del passaggio delle scuole all’apprendimento a distanza, e altri hanno abbandonato per paura del CoVid-19 o per altri motivi, e altri ancora hanno preso il pensionamento anticipato. La pandemia e i bassi salari hanno portato milioni di persone a riconsiderare la propria carriera durante la pandemia, fenomeno noto come la Grande Dimissione dai luoghi di lavoro iniziato nell’aprile 2021 e continuato finora, che fa il paio con il fenomeno dei “morti della disperazione” (quasi 800 mila negli ultimi 20 anni) legato all’epidemia di dipendenza e di overdose da oppioidi. La FED e molti economisti sono rimasti sorpresi dal fatto che l’LFP non sia rimbalzato più rapidamente dal momento che i vaccini erano diventati disponibili e i lockdowns erano terminati. Per cui, alla fine del 2021 (quando il tasso di disoccupazione è sceso sotto il 4%) all’inizio del 2022, questo ha portato la FED a ritenere che l’economia fosse più vicina alla massima occupazione di quanto avesse previsto.[]
  32. Powell attribuisce un grande valore al dato raccolto dal Bureau of Labor Statistics relativo al numero di posizioni per le quali i datori di lavoro stanno reclutando attivamente e dovrebbero iniziare entro 30 giorni dall’assunzione. In particolare, al numero di posti di lavoro non occupati, considerato come una misura della domanda insoddisfatta di manodopera. Il rapporto tra il numero di disoccupati per offerta di lavoro è un modo per misurare la forza del mercato del lavoro; più basso è questo rapporto, più l’economia è vicina alla massima occupazione.[]
  33. E’ bene ricordare il ruolo egemone della finanza nel capitalismo americano. Oggi, la ricchezza nell’economia americana è detenuta in modo schiacciante sotto forma di assets finanziari. Circa 100 milioni di americani posseggono delle azioni, ma l’84% delle azioni sono detenute da un 10% di americani e il 93% da un 20%. E’ stato soprattutto questo 20% che, grazie alla politica di quantitative easing, ha beneficiato della “superbolla” speculativa che ha gonfiato in modo abnorme il valore degli assets (soprattutto azioni, obbligazioni, beni immobiliari, terre agricole, futures delle materie prime), non gli investimenti produttivi. L’effetto è stato che i ricchi sono diventati più ricchi. Anche se gli assets finanziari rappresentano crediti su attività fisiche, i movimenti dei prezzi degli assets finanziari sono del tutto estranei, e non sincroni, all’inflazione nei prezzi di beni e servizi. L’inflazione dei prezzi delle merci, quindi, riduce il valore reale degli assets finanziari. Ciò è vero anche quando il tasso di aumento dei prezzi degli assets finanziari supera nel tempo il tasso di inflazione dei prezzi di beni e servizi. Il capitale finanziario si oppone quindi invariabilmente all’inflazione dei prezzi di beni e servizi e vuole che tale inflazione sia tenuta sotto stretto controllo con un target massimo del 2%.[]
  34. La fine del denaro a buon mercato sta quasi sicuramente arrivando al termine, ma Powell deve essere in grado di evitare il cosiddetto taper tantrum del 2013, quando Ben Bernake, superata la crisi finanziaria globale, annunciò l’uscita dal programma di acquisto titoli, scatenando il panico sui mercati finanziari: i tassi d’interesse delle obbligazioni salirono alle stelle, le azioni crollarono.[]
  35. Nel luglio 2008, la BCE aveva alzato il tasso di interesse di riferimento (probabilmente una reazione eccessiva all’aumento dei prezzi del petrolio), ma ha presto corretto il suo errore, attenuandosi drasticamente a novembre-aprile, dopo che la era diventata evidente la crisi finanziaria globale. Ma, poi ha aumentato di nuovo i tassi nell’aprile-luglio 2011 probabilmente pensando che la crisi fosse stata superata. Poi, a partire dalla fine del 2011, Mario Draghi è venuto in soccorso, modificando la linea strategica della BCE.[]
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