I governatori delle banche centrali e i politici dell’establishment ci rassicurano continuamente sul fatto che siamo sulla buona strada verso un “ritorno alla normalità”, ma diverse turbolenze stanno investendo il capitalismo globale, mettendo in discussione la narrazione della normalizzazione e facendo emergere lo spettro di una fiammata inflazionistica accompagnata ad una sostanziale stagnazione economica globale.
Le banche centrali e la normalizzazione delle politiche monetarie
Per la Banca Centrale Europea (BCE) e la Federal Reserve americana (FED) i prossimi mesi di novembre e dicembre saranno cruciali per rendere pubblica le loro strategie di uscita dalla situazione anomala che hanno contribuito a creare e che ora sta prendendo una piega inaspettata con una possibile ondata inflazionistica in arrivo.
La situazione è piuttosto confusa – ottimi dati economici si alternano ad altri pessimi, molte aziende cercano disperatamente lavoratori, mentre ci sono ancora milioni di occupati in meno rispetto a prima della pandemia –, ma indubitabilmente c’è un ambiente piuttosto inflazionistico destinato a durare nel 2022 e questo non viene considerato positivo per la crescita, determinando un enorme shock tra i decisori politici, monetari e finanziari globali. Negli USA e Unione Europea, i salari stanno aumentando, ma in molti casi non abbastanza rapidamente da superare il rapido aumento dei prezzi. Una riduzione del potere d’acquisto minaccia di creare un ciclo in cui i consumatori acquistano meno mentre beni e servizi diventano più costosi a causa dei limiti dell’offerta, una situazione spesso definita “stagflazione“.
La BCE e la FED negli ultimi 12 anni hanno cercato in tutti i modi di fare salire l’inflazione, portandola vicino a quel 2% considerato convenzionalmente il livello “sano” di crescita dei prezzi. Le hanno provate tutte (meno il cosiddetto helicopter money, ossia il lancio di denaro dall’elicottero), a volte inseguendo più o meno esplicitamente anche obiettivi diversi dalla stabilità dei prezzi che è al centro del mandato di una banca centrale: la tenuta dell’area dell’euro, il contrasto alla crisi bancaria, la ripresa dell’occupazione, la difesa dell’economia dagli effetti del CoVid-19 (che nel frattempo ha causato la morte di oltre 5 milioni di persone nel mondo).
Hanno azzerato i tassi dei prestiti alle banche (nella zona euro sono a zero da ormai nove anni), hanno lanciato aste di miliardi di euro a tassi negativi per spingere il credito alle imprese, si sono inventate il quantitative easing, emettendo moneta per comprare titoli di Stato e debito privato. Tutte operazioni di politica monetaria nuove, sperimentate fino ad allora soltanto dalla Banca del Giappone, che lotta ormai da trent’anni contro la deflazione. Ma, l’inflazione è rimasta sempre debole.
Gli economisti in questi anni si sono interrogati su questa imprevista “stagnazione secolare” – una combinazione di bassa crescita della produttività, mancanza di rendimenti degli investimenti privati e quasi deflazione – che contrasta con uno dei principi di base della scienza economico-monetaria: l’aumento della moneta in circolazione spinge i prezzi al rialzo. Per un lungo periodo questo non è avvenuto.
Al punto che, dopo aver ridotto e abbandonato il quantitative easing (la FED a partire dal 2015 e la BCE a partire dal 2018), le banche centrali sono state costrette a tornare sui loro passi ancor prima della crisi indotta dalla pandemia da CoVid-19, dato che crescita economica sostenuta e inflazione al 2% non si erano mai materializzate. Nel 2019, l’Europa rischiava nuovamente di scivolare nella deflazione. Mentre il presidente della BCE Draghi invocava l’intervento della politica economica, Berlino continuava a puntare i piedi. Nel settembre 2019, in una mossa disperata, Draghi annunciò un altro ciclo di quantitative easing, attirandosi un fiume di proteste dalla Germania.
Nel 2020, il mondo si è accorto che i mercati finanziari più grandi del mondo – quelli dei buoni del tesoro americano e dei Paesi europei – potevano essere destabilizzati dalla pandemia da CoVid-19. Per arginare questo rischio e rilanciare anche i mercati azionari crollati tra febbraio e marzo, la FED e la BCE – guidate rispettivamente da Jerome Powell e Christine Lagarde (due non economisti) – hanno adottato un approccio pragmatico straordinariamente espansivo alla stabilizzazione, avendo come priorità far ripartire la crescita economica. Questo ha consentito ai governi degli Stati Uniti (con il Cares Act da 2,35 trilioni di dollari, con il pacchetto da 892 miliardi di dollari di nuovi aiuti a fine 2020, e poi con l’American Rescue Plan da 1,9 trilioni di dollari) e dei Paesi europei, nonché all’Unione Europea (con i programmi SURE e Next Generation UE da 750 miliardi di euro), di poter fare nuovo debito e di espandere enormemente le loro politiche fiscali di sostegno, stimolo e rilancio economico, con l’obiettivo dichiarato di trovare un nuovo modello di crescita economica inclusiva ed ecologicamente sostenibile (la cosiddetta “transizione verde e digitale”).
Da questo punto di vista, la pandemia ha contribuito ad esacerbare molti problemi, come la stagnazione dei salari, il lavoro precario, lo stallo della produttività e l’aumento delle disuguaglianze, rendendo evidente come questi fenomeni non siano solo delle anomalie secondarie in un sistema economico e sociale altrimenti ben funzionante, ma dei risultati strutturali inevitabili del modo in cui le economie occidentali sono organizzate dopo un quarantennio di neoliberismo. Quindi, un semplice “ritorno alla normalità” è destinato a non funzionare, ossia non sarà in grado di far uscire le economie da quella condizione di “stagnazione secolare” in cui si trovavano prima della crisi pandemica. Anche per contrastare le crisi climatiche e naturali, è necessario un cambiamento molto più fondamentale che abbia come pivot le politiche pubbliche e un rinnovato ruolo dell’intervento dello Stato nell’economia. Per raggiungere l’azzeramento delle emissioni, l’intera economia deve essere orientata verso questi obiettivi. Allo stesso tempo è necessaria una strategia industriale attiva per sostenere tecnologie e modelli di consumo più verdi, con programmi di creazione di posti di lavoro per i lavoratori e le comunità colpite negativamente dalla transizione verde.
Pertanto, una parte significativa dell’estabishment politico ed economico dei Paesi ricchi sembra aver compreso che finché i bassi tassi di interesse mantengono il costo del debito pubblico sostenibile e le risorse pubbliche vengono utilizzate per finanziare gli investimenti (che aumentano il reddito nazionale futuro e quindi comportano più tasse), il rapporto tra debito e PIL alla fine è destinato a diminuire. Al contrario, cercare di ridurre il debito attraverso politiche di austerità è controproducente e dannoso, come ha dimostrato l’ultimo decennio.
Seppure a fatica, quindi, sta emergendo un nuovo paradigma economico che riconosce che per ridurre le disuguaglianze bisogna affrontare l'”economia delle rendite“, che ha concentrato la proprietà dei beni nelle mani dei ricchi. Ciò richiederà ridurre i monopoli e regolamentare il settore finanziario per concentrarsi sugli investimenti a lungo termine e non sull’estrazione di ricchezza a breve termine. La ricchezza e le grandi proprietà immobiliari dovrebbero essere tassate in modo più elevato, mentre l’utilizzo degli appalti pubblici per sostenere la creazione di ricchezza della comunità può garantire che le economie locali mantengano la loro ricchezza e posti di lavoro. La riforma del welfare, come un reddito minimo garantito, è necessaria per porre fine alla povertà. La disuguaglianza sistemica di genere e razziale deve essere sradicata. Tutte idee che sono entrate a far parte dei Green (New) Deal americano ed europeo.
L’inflazione è arrivata
Ora, però, l’inflazione è cominciata ad arrivare, mentre i grandi piani di stimolo per la crescita sono partiti da poco in Europa (i PNRR del NGUE) e non sono ancora stati approvati negli USA (il programma Build Back Better per infrastrutture e sociale da 3,5 trilioni di dollari). Tra l’altro, il 5 ottobre, Kristalina Georgieva, il capo del FMI ha avvertito che l’economia mondiale rimane “inceppata” dalla pandemia di CoVid-19 e ha rivelato che la sua organizzazione ha rivisto al ribasso le sue previsioni per la crescita globale quest’anno (dal 6% indicato a luglio), citando i rischi associati al debito, all’inflazione e alle tendenze economiche divergenti a seguito della pandemia di CoVid-19. Negli ultimi mesi, la crescita economica è rallentata negli Stati Uniti, in Germania e altri Paesi dell’Unione Europea, nel Regno Unito e in Cina, ma anche altrove nel mondo.
Al tempo stesso, la BCE, la FED e altre banche centrali si sono trovate a doversi confrontare con una forte impennata dell’indice dei prezzi. Nella zona euro ad agosto l’inflazione ha raggiunto il 3% (era al 2,2% a luglio) e il 3,4% a settembre, il massimo degli ultimi 13 anni, mentre negli Stati Uniti è arrivata (anno su anno) al 5,3% ad agosto e al 5,4% a settembre, livelli che non si vedevano dal 1992 e che, secondo la FED, sono destinati a mantenersi almeno fino a dicembre, prima di scendere al 2,2% per la fine del 2022.
Non è una dinamica normale, perché la pandemia ha reso anormali questi due anni. I lockdown e i blocchi delle attività produttive in tutto il mondo hanno creato anomalie economiche inedite. Dietro al rialzo dei prezzi, per esempio, c’è la forte componente del costo dell’energia, che era crollato quando con le fabbriche ferme e miliardi di persone in lockdown la domanda mondiale di elettricità e petrolio era scesa ai minimi ed è risalito velocemente con il graduale ritorno alla normalità.
Ci sono poi altri elementi straordinari, come la carenza di microchip, nonostante la produzione a Taiwan (la TSMC, che ha quasi una sorta di monopolio globale, con il 65% del mercato, e intende aumentare il prezzi fino al 20%) e in Corea del Sud (Samsung) sia ai massimi di sempre. Questa carenza frena la produzione di automobili1 e di qualsiasi altro prodotto con una forte componente di elettronica, creando scarsità e rincari per molti beni sofisticati. Goldman Sachs stima che nel 2021 la carenza di microprocessori colpirà 169 settori, riducendo la crescita degli Stati Uniti dell’1%. Mentre in un’auto attrezzata della classe medio-alta vengono installati fino a 1.000 semiconduttori, un’auto elettrica ne ha bisogno tra 1.200 e 1.400. In futuro, con il monitoraggio di ogni singola cella della batteria, il numero dovrebbe aumentare a 2.000. Ci vorrà del tempo per tornare alla normalità dato che la costruzione di nuove fabbriche di microchip richiede in media due anni.
A questo si aggiunge il rialzo delle quotazioni di quasi tutte le materie prime, dal cotone ai minerali, comprese quelle alimentari. Un incremento in media del 60% nel 2021 che sembra anticipare un’ulteriore accelerazione dell’indice dei prezzi al consumo per i prossimi mesi2. L’indice dei prezzi alla produzione è in rialzo del 7,8% negli USA, del 9% in Cina e del 10,2% nell’Eurozona. Le imprese potranno evitare di scaricare i costi extra sui consumatori? E che ne sarà, nel caso, dei loro utili?
Per ora, da mesi molte imprese (soprattutto le grandi multinazionali) hanno cominciato a muoversi, ritoccando verso l’alto i listini di vendita, trasferendo a valle le tensioni inflazionistiche, dai beni intermedi ai beni di investimento fino ai beni di consumo, ossia fino agli ultimi anelli della catena del valore: i consumatori finali.
Le aziende continuano a soffrire per le persistenti interruzioni di catene di approvvigionamento e distribuzione ultracomplesse e molto spesso globali. Le imprese edili pagano di più per cemento, legname, acciaio, ferro (il tondo per il cemento armato) e vernici, e devono aspettare settimane o mesi prima di ricevere quello che hanno ordinato. I rincari record dei materiali per le costruzioni stanno mettendo a rischio i cantieri in corso e riducono i margini delle imprese di appalti pubblici e privati. Anche agli ospedali mancano le attrezzature necessarie.
Sullo sfondo c’è l’attività finanziaria, con fondi abilissimi nello speculare sulle tendenze in corso. È chiaro però che i tassi bassi e l’enorme disponibilità di moneta resa possibile dalle politiche monetarie accomodanti di questi anni, accompagnate dall’aumento della spesa pubblica, sono il contesto ideale per una corsa dei prezzi.
Ufficialmente, i governatori delle banche centrali si mostrano tranquilli: questa fiammata dell’inflazione, ripetono come un mantra, è temporanea perché legata a 5 principali fattori che dovrebbero rivelarsi temporanei: l’effetto “imbuto” delle catene di produzione (supply chians); i rialzi dei prezzi di beni e servizi come i biglietti aerei o le stanze d’hotel, che erano precipitati; l’assenza di forti pressioni al rialzo sui salari; le aspettative sull’inflazione a lungo termine da parte di produttori e consumatori, che secondo i banchieri centrali restano ancorate al 2%; le grandi tendenze secolari, dall’invecchiamento della popolazione alla digitalizzazione, passando per la globalizzazione, che spingono i prezzi verso il basso. Nello scenario della FED, l’inflazione tornerà verso il 2% già nel 2022.
La BCE ha offerto rassicurazioni simili a quelle della FED. Ha previsto un’inflazione al 2,2% per quest’anno, all’1,7% nel 2022 e all’1,5% nel 2023, ben al di sotto dell’obiettivo del 2% della BCE. Inoltre, a inizio di settembre ha deciso di ridurre gli acquisti di obbligazioni di emergenza nel prossimo trimestre, facendo un primo piccolo passo verso l’allentamento degli aiuti di emergenza che hanno sostenuto l’economia della zona euro durante la pandemia da coronavirus. La BCE ha deciso di rallentare il ritmo del suo Programma di Acquisto di Emergenza Pandemica (PEPP) da 1,85 trilioni di euro, che ha mantenuto bassi i costi di finanziamento mentre i governi hanno assunto importi di debito senza precedenti per finanziare la risposta alla pandemia. Passando da 80 a 70-60 miliardi di euro di acquisti al mese, senza escludere di poter aumentare lo stimolo se i mercati girano verso il basso e le condizioni di finanziamento lo richiedono. Ma, con l’aumento dei tassi di infezione negli Stati Uniti che ha reso la FED esitante a ridurre il suo stimolo, la BCE ha tenuto a sottolineare che non ha intenzione di chiudere i rubinetti dei soldi. Il tasso chiave della BCE rimane invariato a meno 0,5%, il PEPP rimane sulla buona strada per terminare il prossimo marzo e gli acquisti nell’ambito del vecchio programma di acquisto di assets (APP) rimangono a 20 miliardi di euro al mese. “The lady isn’t tapering” (“la signora non si sta assottigliando“), ha detto Christine Lagarde nella conferenza stampa per spiegare la decisione, usando un giro di parole che ricorda la famosa dichiarazione dell’ex primo ministro britannico Margaret Thatcher “the lady is not for turning”.
Anche la FED si prepara a ritirare presto parte del suo sostegno all’economia – riducendo già a novembre il suo programma di acquisto di titoli di Stato da 120 miliardi di dollari al mese che ha aiutato lo S&P 500 a raddoppiare i valori dai minimi di marzo 2020, segnalando anche che potrebbe aumentare i tassi di interesse nel 2022, prima di quanto molti si aspettassero -, ma allo stesso tempo preferirebbe “tornare alla normalità” (alzare i tassi di interesse) solo gradualmente, visti i milioni di americani che restano senza lavoro. La Casa Bianca sta cercando di approvare due grandi pacchetti da oltre 4 trilioni di dollari di valore complessivo che sono al centro dell’agenda economica del presidente Biden e i repubblicani hanno iniziato a utilizzare ogni nuovo dato sull’inflazione come argomento contro una maggiore spesa federale.
Tra l’altro, il presidente della FED, Jerome Powell, è in scadenza nel febbraio 2022 e vorrebbe essere riconfermato da Biden, ma alcuni esponenti della sinistra del Partito Democratico, come la senatrice Elisabeth Warren, hanno già dichiarato la loro opposizione, definendolo “un uomo pericoloso”3 e aprendo un grande dibattito sugli obiettivi e sui fattori che devono guidare la politica monetaria. La posta in gioco è enorme, compresa la possibilità che la prosperità negli Stati Uniti diventi più inclusiva. Secondo la sinistra democratica, la pandemia ha avuto un impatto significativo sullo stato del mercato del lavoro, in particolare di molte donne, soprattutto madri nere e ispaniche con bambini più piccoli e con redditi più bassi, ma anche di altri milioni di persone che sono ai margini dell’economia americana (quelli che sono i primi ad essere licenziati in caso di crisi economica e gli ultimi ad essere riassunti in caso di ripresa), per cui siamo ancora lontani da un’occupazione veramente piena o massima4. Pertanto, la FED dovrebbe procedere con molta cautela prima di ridurre il quantitative easing e aumentare i tassi di interesse5. Comunque, non prima che l’occupazione salariata sia aumentata di 5-8,5 milioni di unità e che l’economia si sia ripresa completamente. Un inasprimento della politica monetaria a breve termine, invece, comporterebbe una crescita del lavoro più lenta e risultati peggiori del mercato del lavoro (meno ore lavorate, salari più bassi) per i gruppi di lavoratori che hanno maggiormente sofferto nella fase di recessione.
La situazione è realmente sotto controllo? Falchi e colombe
Non tutti però sono convinti che la FED e la BCE abbiano davvero la situazione sotto controllo. Una parte dei decisori politici e degli uomini di Wall Street temono che, sebbene i rapidi guadagni di prezzo alla fine svaniranno, l’aggiustamento potrebbe trascinarsi per mesi. Un aumento più lungo dell’inflazione aumenta le possibilità che i consumatori cambino le loro aspettative e il loro comportamento, aprendo la strada a aumenti dei prezzi più permanenti.
Inoltre, diversi studiosi e analisti di fama mondiale hanno espresso dubbi e preoccupazioni nelle ultime settimane, avvertendo che l’attuale mix di politiche monetarie, creditizie e fiscali persistentemente allentate è destinato a stimolare eccessivamente la domanda aggregata e a portare a un surriscaldamento inflazionistico nel medio termine. Temono che, seguendo una strategia attendista, l’inflazione possa sfuggire di mano alle banche centrali che quindi potrebbero essere poi obbligate a misure estreme (alzare i tassi di interesse in modo deciso e improvviso, con il rischio che di generare una grave recessione economica globale). Per questo auspicano un immediato cambio di rotta.
Nouriel Roubini, l’economista celebre per avere previsto la crisi dei sub-prime, ha parlato di rischio “stagflazione”, una letale combinazione di crescita lenta, disoccupazione e alta inflazione, simile a quella che gli Stati Uniti e l’Europa hanno vissuto negli anni Settanta e che portò al cambio di paradigma con il passaggio dalle politiche keynesiane e socialdemocratiche a quelle monetariste e neoliberiste. Secondo Roubini, una stagflazione “lieve” è già in corso. L’inflazione è in aumento negli Stati Uniti e in molte economie avanzate e la crescita sta rallentando drasticamente, nonostante i massicci stimoli monetari, creditizi e fiscali. Roubini ammette che c’è consenso sul fatto che il rallentamento della crescita negli Stati Uniti, in Cina, in Europa e in altre grandi economie sia il risultato di strozzature dell’offerta nei mercati del lavoro e dei beni, per cui prevale la visione ottimistica degli analisti e dei responsabili politici di Wall Street che questa lieve stagflazione sarà temporanea, e durerà solo finché durano i colli di bottiglia dell’offerta. Ma, secondo Roubini, questo ottimismo non è giustificato, considerando che occorre tenere conto di molteplici fattori non completamente controllabili: la variante Delta del coronavirus CoVid-19, la scarsa offerta di forza lavoro, la disartcolazione di alcune importanti supply chains sia per la produzione sia per il consumo finale.
Kenneth Rogoff, che è stato capo economista del FMI e oggi insegna ad Harvard, condivide i timori di Roubini e, mettendo in relazione la sconfitta subita dagli USA in Afghanistan con quella in Vietnam nei primi anni ‘70, ha parlato della possibile “ri-creazione della tempesta perfetta che ha portato alla crescita lenta e all’inflazione molto alta degli anni ’70”. Tra i fattori scatenanti vi sarebbero un basso incremento della produttività, il protezionismo e gli enormi aumenti della spesa pubblica che non sono accompagnati da tasse più elevate sui ricchi. Allo stesso tempo, le sfide legate all’invecchiamento della popolazione (almeno nelle economie avanzate e in Cina) sono diventate sempre più impegnative, con regimi pensionistici pubblici sottofinanziati che rappresentano probabilmente una minaccia quantitativamente molto più grande per la solvibilità del bilancio pubblico rispetto al debito. Infine, le pressioni sociali per aumentare la spesa pubblica e i trasferimenti sono esplose in tutto il mondo, poiché la disuguaglianza è diventata più importante dal punto di vista politico per molti Paesi e il miglioramento della crescita lo è meno. E affrontare il cambiamento climatico e altre minacce ambientali quasi sicuramente eserciterà ulteriore pressione sui bilanci e rallenterà la crescita.
Secondo Rogoff, il forte aumento del debito pubblico renderà inevitabilmente più doloroso dal punto di vista politico per le banche centrali aumentare i tassi di interesse nominali se i tassi reali globali iniziano a salire. Gli alti debiti sono già un motivo per cui alcune banche centrali esiteranno ad aumentare i tassi di interesse se e quando si verificherà la normalizzazione post-pandemia. Il debito privato, che è aumentato anche durante la pandemia, è forse un problema ancora più grande. Le inadempienze private diffuse alla fine avrebbero un enorme impatto fiscale attraverso una riscossione fiscale inferiore e maggiori costi della rete di sicurezza sociale.
Larry Summers, l’ex segretario al Tesoro di Bill Clinton, ha notato sarcasticamente che “tutte le volte che sentite che l’inflazione è transitoria, ricordatevi che il rialzo a due cifre dei prezzi delle case non si è ancora materializzato negli indici. Le case rappresentano il 40% dell’inflazione core” (quella che esclude gli effetti di energia e prodotti alimentari).
Se questi “falchi” che vedono il rischio di un’inflazione fuori controllo hanno ragione, le banche centrali dovrebbero essere un po’ meno “colombe”: iniziare o accelerare la riduzione degli stimoli monetari e incamminarsi verso un ritorno dei tassi di interesse a livelli più normali.
Se invece i “falchi” hanno torto, e davvero l’inflazione è temporanea, ai governatori non resta che tenere d’occhio l’indice dei prezzi e magari procedere con qualche aggiustamento minore della strategia monetaria. In entrambi casi è un passaggio molto delicato per la BCE per la FED, perché ridurre gli stimoli rischia di frenare la ripresa dopo il devastante shock della pandemia, ma mantenerli potrebbe alimentare l’inflazione e costringere a un inasprimento monetario molto più brusco il prossimo anno6.
Bisogna sperare che le colombe abbiano ragione. Nessuno negli uffici della FED e della BCE ha avuto esperienza di politiche monetarie in contesti di pandemia né di strategie di rientro da politiche economiche ultra straordinarie. La credibilità dei banchieri centrali non è mai stata così a rischio. E la loro abilità nel gestire l’imprevisto non è mai stata così importante.
I quattro possibili scenari evolutivi
Come evolveranno l’economia e i mercati globali nel prossimo anno? Nella sua analisi, Roubini ha delineato quattro possibili scenari che potrebbero seguire la “leggera stagflazione” degli ultimi mesi. La ripresa nella prima metà del 2021 ha recentemente lasciato il posto a una crescita nettamente più lenta e a un’impennata dell’inflazione ben al di sopra dell’obiettivo del 2% delle banche centrali, a causa degli effetti della variante Delta, delle strozzature dell’offerta nei mercati dei beni e del lavoro e della carenza di alcune merci, input intermedi, beni finali e lavoro. I rendimenti obbligazionari sono diminuiti negli ultimi mesi e la recente correzione del mercato azionario è stata finora modesta, forse riflettendo le speranze che la lieve stagflazione si dimostri temporanea.
Ma, Mohamed El-Erian, consigliere del gigante assicurativo Allianz e presidente del Queens’ College di Cambridge, afferma che il calo a sorpresa della produzione industriale in Cina registrato a settembre è un chiaro avvertimento che l’economia mondiale potrebbe crollare mentre i prezzi stanno ancora aumentando rapidamente. “I problemi della catena di approvvigionamento sono molto più persistenti di quanto previsto dalla maggior parte dei politici, anche se le aziende sono meno sorprese“, ha affermato. “I governi devono ripensare rapidamente perché i tre elementi – lato dell’offerta, trasporti, lavoro – si stanno unendo per soffiare un vento stagflazionistico attraverso l’economia globale”.
I quattro scenari dipendono dal fatto che la crescita acceleri o rallenti e che l’inflazione rimanga persistentemente più alta o rallenti.
1.Gli analisti di Wall Street e la maggior parte dei politici prevedono uno scenario ottimista di crescita più forte insieme a una moderazione dell’inflazione in linea con l’obiettivo del 2% delle banche centrali. Secondo questa visione, il recente episodio stagflazionistico è guidato in gran parte dall’impatto della variante Delta. Una volta svanito, lo saranno anche i colli di bottiglia dell’offerta, a condizione che non emergano nuove varianti virulente. Allora la crescita accelererebbe mentre l’inflazione scenderebbe.
Per i mercati, ciò rappresenterebbe una ripresa della prospettiva del “commercio di reflazione” dall’inizio di quest’anno, quando si sperava che una crescita più forte avrebbe sostenuto guadagni maggiori, più elevati rendimenti dei titoli del Tesoro e prezzi delle azioni di banche, società energetiche e società tecnologiche ancora più alti. In questo scenario roseo, l’inflazione si ridurrebbe, mantenendo le aspettative di inflazione ancorate intorno al 2%, i rendimenti obbligazionari aumenterebbero gradualmente insieme ai tassi di interesse reali e le banche centrali sarebbero in grado di ridurre il quantitative easing senza scuotere i mercati azionari o obbligazionari. Nei mercati azionari, ci sarebbe una rotazione dai mercati statunitensi a quelli europei, giapponese e dei Paesi emergenti, e da titoli growth, tecnologici e difensivi a titoli ciclici e value.
2. Il secondo scenario prevede il “surriscaldamento“. Qui, la crescita accelererebbe man mano che le strozzature dell’offerta vengono eliminate, ma l’inflazione rimarrebbe ostinatamente più alta, perché le sue cause risulterebbero essere non temporanee. Con i risparmi non spesi e la domanda repressa già elevata, la continuazione di politiche monetarie e fiscali ultra-allentate stimolerebbe ulteriormente la domanda aggregata. La crescita risultante sarebbe associata a un’inflazione persistente al di sopra dell’obiettivo, smentendo la convinzione delle banche centrali che gli aumenti dei prezzi siano solo temporanei.
La risposta del mercato a tale surriscaldamento dipenderebbe quindi da come reagiranno le banche centrali7. Se i politici non intervengono, i mercati azionari potrebbero continuare a salire per un po’, poiché i rendimenti obbligazionari reali rimangono bassi. Ma, il conseguente aumento delle aspettative di inflazione alla fine aumenterebbe anche i rendimenti dei titoli nominali e anche reali, poiché i premi al rischio di inflazione aumenterebbero, costringendo a una correzione nei mercati azionari. Alternativamente, se le banche centrali diventassero aggressive e iniziassero a combattere l’inflazione, i tassi reali aumenterebbero, facendo salire i rendimenti obbligazionari e, ancora una volta, costringendo a una correzione maggiore dei mercati azionari.
3. Un terzo scenario è la stagflazione in corso, con un’inflazione elevata e una crescita molto più lenta nel medio termine. In questo caso, l’inflazione continuerebbe ad essere alimentata da politiche monetarie, creditizie e fiscali espansive. Le banche centrali, intrappolate nella trappola del debito a causa dell’elevato rapporto debito pubblico e privato, farebbero fatica a normalizzare i tassi senza innescare un crollo del mercato finanziario.
Inoltre, una serie di persistenti shock negativi dell’offerta a medio termine potrebbe ridurre la crescita nel tempo e aumentare i costi di produzione, aumentando la pressione inflazionistica. Tali shock potrebbero derivare dalla deglobalizzazione e dal crescente protezionismo, dalla balcanizzazione delle catene di approvvigionamento globali, dall’invecchiamento demografico nelle economie a basso reddito ed emergenti, dalle restrizioni migratorie, dal “disaccoppiamento” sino-americano, dagli effetti del cambiamento climatico sui prezzi delle materie prime, da una recrudescenza della pandemia, dalla guerra informatica e dal contraccolpo contro la disuguaglianza di reddito e ricchezza.
In questo scenario, i rendimenti delle obbligazioni nominali aumenterebbero di molto man mano che le aspettative di inflazione crescono. E anche i rendimenti reali sarebbero più alti (anche se le banche centrali rimanessero “a bit behind the curve“, ossia un passo indietro), perché una crescita rapida e volatile dei prezzi aumenterebbe i premi al rischio sulle obbligazioni a più lungo termine. In queste condizioni, i mercati azionari sarebbero pronti per una brusca correzione, potenzialmente nel territorio del mercato ribassista (che riflette un calo di almeno il 20% dal loro ultimo massimo).
4. L’ultimo scenario sarebbe caratterizzato da un rallentamento della crescita. L’indebolimento della domanda aggregata si rivelerebbe non solo uno spavento transitorio, ma un presagio della nuova normalità, in particolare se lo stimolo monetario e fiscale viene ritirato troppo presto. In questo caso, una domanda aggregata più bassa e una crescita più lenta porterebbero a una minore inflazione, le azioni si correggerebbero per riflettere le prospettive di crescita più deboli e i rendimenti obbligazionari diminuirebbero ulteriormente (perché i rendimenti reali e le aspettative di inflazione sarebbero inferiori).
Quale di questi quattro scenari è più probabile? Mentre la maggior parte degli analisti di mercato e dei responsabili politici spinge per lo scenario ottimistico, è possibile che lo scenario del surriscaldamento sia più saliente. Date le politiche monetarie, fiscali e creditizie espansive di oggi, la variante Delta e i relativi colli di bottiglia dell’offerta surriscaldano la crescita e lasceranno le banche centrali bloccate tra l’incudine e il martello. Di fronte a una trappola del debito e a un’inflazione persistentemente al di sopra dell’obiettivo, quasi sicuramente rimarranno un passo indietro e le politiche fiscali rimarranno troppo allentate.
Gli shock negativi dell’offerta
La pandemia da CoVid-19, con i primi lockdown, ha mandato al tappeto tanto la domanda quanto l’offerta, creando uno scenario paragonabile ad una guerra mondiale. In seguito, le riaperture hanno creato un forte disallineamento tra domanda (tornata sostenuta) e offerta, indebolita dalla mancanza di scorte in magazzino e da problemi logistici e di produzione legati allo sviluppo di nuove ondate, focolai e varianti del virus. Sono questi enormi “colli di bottiglia” creatisi in alcuni settori chiave (come quello dei microchip, da cui dipende la produzione di moltissimi settori industriali) a creare i disagi maggiori e a lasciare incertezze sulla ripresa e sull’inflazione che dovrebbe venire.
È probabile che gli shock negativi dell’offerta persistano nel medio e lungo termine e che, quindi si continui a navigare a vista. Questo anche se il presidente della BCE Christine Lagarde ha dichiarato il 28 settembre che “la sfida chiave è garantire che non reagiamo in modo eccessivo agli shock transitori dell’offerta che non hanno alcun impatto sul medio termine, alimentando anche le forze positive della domanda che potrebbero portare l’inflazione in modo duraturo verso il nostro obiettivo di inflazione del 2% “. Di questi shock negativi se ne possono individuare diversi.
Per cominciare, c’è la tendenza alla deglobalizzazione e al crescente protezionismo, alla balcanizzazione e al ripristino di catene di approvvigionamento estese e all’invecchiamento demografico delle economie avanzate e dei mercati emergenti chiave. Restrizioni più severe sull’immigrazione stanno ostacolando la migrazione dal Sud del mondo più povero al Nord più ricco. La guerra fredda sino-americana è appena iniziata e minaccia di frammentare l’economia globale (con lo spettro del “disaccoppiamento” tra l’economia americana e quella cinese). E il cambiamento climatico sta già sconvolgendo l’agricoltura e causando picchi nei prezzi dei generi alimentari.
Inoltre, le pandemie globali persistenti porteranno inevitabilmente a una maggiore autosufficienza nazionale e controlli sulle esportazioni per beni e materiali chiave. La guerra informatica sta interrompendo sempre più la produzione, ma rimane molto costosa da controllare. E il contraccolpo politico contro la disuguaglianza di reddito e ricchezza sta spingendo le autorità fiscali e di regolamentazione ad attuare politiche che rafforzino il potere dei lavoratori e dei sindacati, ponendo le basi per una crescita salariale accelerata (che sarebbe vista dalle banche centrali come un serio problema da colpire attraverso il rialzo dei tassi di interesse). Un numero crescente di lavoratori tedeschi, tra cui macchinisti, personale sanitario e lavoratori dell’industria dei camper, ha scioperato nelle ultime settimane, chiedendo salari più alti a causa dell’aumento dell’inflazione, che ha raggiunto il 4,1% a settembre, il massimo da 29 anni8. Inoltre, un elemento centrale della piattaforma elettorale dell’SPD è stato l’aumento del salario minimo nazionale da 9,60 euro all’ora a 12. La sua realizzazione comporterebbe un aumento salariale del 25% per 10 milioni di lavoratori9.
Tra l’altro, in Germania, nonostante la quasi piena occupazione, c’è una carenza di manodopera di lunga data – attualmente circa 400 mila lavoratori all’anno. È un problema rilevante che ostacola la crescita economica complessiva e si fa sentire nella vita di tutti i giorni, principalmente nel settore dell’assistenza alle persone, nel settore sanitario, nell’industria manifatturiera, IT, ingegneria e ogni artigianato e commercio specializzato, dagli idraulici ai carpentieri. C’è una carenza da 60 a 80 mila lavoratori del trasporto su strada e gli economisti avvertono di una crisi demografica, con più persone che andranno in pensione rispetto a quelle con un lavoro attivo. Dopo la vittoria del referendum sull’esproprio dei grandi fondi immobiliari a Berlino è assai probabile che il governo debba dover intervenire sul caro affitti, considerando che la maggior parte dei lavoratori tedeschi non possiede la casa in cui abita.
Negli Stati Uniti, molte aziende devono ora offrire bonus e stipendi/salari di ingresso più alti rispetto a prima della pandemia anche per mansioni poco qualificate, se vogliono trovare nuovi dipendenti.
Sebbene questi persistenti shock negativi dell’offerta minaccino di ridurre la crescita potenziale, il perdurare di politiche monetarie e fiscali espansive potrebbe innescare un disancoraggio delle aspettative di inflazione. La conseguente spirale salari-prezzi introdurrebbe quindi un ambiente stagflazionistico a medio termine peggiore di quello degli anni ’70, quando il rapporto debito/PIL era inferiore a quello attuale. Ecco perché il rischio di una crisi del debito stagflazionistica continuerà a incombere nel medio termine.
Il peso della variante Delta
La variante Delta particolarmente virulenta e contagiosa del CoVid-19 colpisce soprattutto le persone non vaccinate che nel mondo sono ancora miliardi – una minoranza delle popolazioni dei Paesi ricchi e la maggioranza di quelle dei Paesi emergenti e poveri – e sta aumentando i costi di produzione, i ritardi e le carenze dei prodotti, riducendo la crescita della produzione e limitando l’offerta di lavoro.
La variante ha messo in luce le ampie disparità nei tassi di vaccinazione tra nazioni ricche e povere e il risultato dell’esitazione alla vaccinazione in alcuni Paesi occidentali. Più della metà della popolazione mondiale deve ancora ricevere almeno una dose di vaccino e solo il 2,2% di quella dei Paesi poveri è stata vaccinata almeno con una dose. Pertanto, siamo di fronte ad una doppia situazione sanitaria tra i Paesi ricchi che procedono spediti con le vaccinazioni, e quindi con l’economia in piena riapertura, e i Paesi a basso reddito ed emergenti che hanno enormi difficoltà di accesso ai vaccini, in cui si trovano però molte materie prime e unità di produzione, ossia gli elementi fondamentali delle supply chains globali. Un disallineamento sanitario che sta facendo salire i prezzi, mettendo le economie dei Paesi ricchi in una modalità di stop-and-go e creando una disorganizzazione globale delle catene di rifornimento. Kristalina Georgieva, capo del FMI, ha affermato che l’ostacolo più serio a una piena ripresa economica è questo “grande divario vaccinale” tra nazioni ricche e povere e ha avvertito che l’economia globale potrebbe subire perdite cumulative di 5,3 trilioni di dollari nei prossimi cinque anni a meno che non venga rapidamente chiuso.
Una situazione in larga parte dovuta alla mancata rinuncia o sospensione dei brevetti sui vaccini che rappresenta il maggiore ostacolo agli sforzi per porre fine alla pandemia. La maggior parte dei Paesi ricchi si è opposta alla richiesta della maggior parte dei Paesi poveri ed emergenti di sospendere temporaneamente le regole sulla proprietà intellettuale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) per contenere più rapidamente la pandemia di CoVid-19. La maggior parte delle iniziative globali per rendere i vaccini disponibili per i Paesi poveri, come Covax, non affrontano l’enorme carenza di offerta e i prezzi elevati. Nel frattempo, i fornitori di vaccini proteggono gelosamente i loro monopoli, sostenendo che nessun altro può produrli in sicurezza. Per questo milioni di persone stanno morendo, confermando che nessuno è al sicuro finché non lo sono tutti.
Negli USA (dove dove sono morte oltre 700 mila persone e dove circa un terzo della popolazione rimane ancora non vaccinata) e in Europa, i lavoratori, molti dei quali stanno ancora ricevendo i sussidi di disoccupazione, sono riluttanti a tornare al posto di lavoro. E chi ha bambini potrebbe dover rimanere a casa, a causa della chiusura delle scuole e della mancanza di servizi di custodia dei bambini a prezzi accessibili.
In ogni caso la diffusione della variante Delta ha smorzato la spesa in alcuni settori, come il tempo libero e i trasporti, mentre sta ostacolando la ripresa della produzione e le spedizioni. Sta interrompendo la riapertura di molti settori dei servizi e sta mettendo a soqquadro il funzionamento delle catene di approvvigionamento, dei porti e dei sistemi logistici globali. La carenza di input chiave come i semiconduttori sta ulteriormente ostacolando la produzione di automobili, beni elettronici e altri beni di consumo durevoli, aumentando così l’inflazione.
I blocchi e le interruzioni delle supply chains
Nel 2020, un picco della domanda da parte dei lavoratori bloccati a casa e delle loro famiglie di mobili, elettronica e altri prodotti di consumo si è scontrato con la chiusura delle fabbriche in Asia, ha sopraffatto le rotte marittime di spedizione e i sistemi di distribuzione. Negli Stati Uniti e in altri Paesi ricchi, infatti, i consumatori avevano approffittato del lockdown e delle risorse pubbliche di sostegno al reddito per mettersi in casa console per videogiochi, computer, tv, apparecchi per preparare il cibo e cyclette, inondando di ordini il settore delle spedizioni ed esaurendo le scorte di molti componenti e prodotti. Con la fase di riapertura, si pensava che dopo qualche mese le fabbriche si sarebbero messe al passo con la domanda e le navi avrebbero smaltito gli ordini inevasi. Invece, non è andata così.
L’instabilità del commercio internazionale sta durando più di quanto ci si aspettasse, perché le carenze e i ritardi di alcuni prodotti rendono impossibile fabbricarne altri, con effetti a cascata in tutti i settori economici. Le aziende sono abituate a produrre con l’approccio “snello” secondo il modello del “just in time”, ossia produrre solo in presenza di una domanda senza o con minime scorte, per ridurre i costi e massimizzare i prodotti. Un modello che non consente ritardi, carenze e margini di errore, limitando la capacità del sistema di assorbire le turbolenze impreviste.
A marzo, la mega-nave portacontainer Ever Given incagliata nel canale di Suez, bloccando per oltre una settimana il traffico di centinaia di navi su una via di comunicazione vitale per l’Europa e l’Asia (dove transita circa il 12% del commercio mondiale), ha evidenziato tutte le fragilità del sistema logistico che opera a servizio delle supply chains globali, aggravando il caos del trasporto marittimo. Poi, si sono aggiunte le chiusure temporanee di diversi porti strategici in Cina a causa del CoVid-1910.
Oggi, appare sempre più chiaro che “tornare alla normalità” non sarà un processo rapido. Gli arresti delle fabbriche continuano a ripercuotersi sulla catena di approvvigionamento globale. Gli intasamenti delle rotte di spedizione potranno solo peggiorare con l’avvicinarsi delle festività natalizie. È “frustrante vedere che i colli di bottiglia e i problemi della catena di approvvigionamento non migliorano, anzi, al margine, apparentemente stanno peggiorando un po’’“, ha detto Jerome Powell durante un colloquio il 29 settembre. “Vediamo che continuerà nel prossimo anno, probabilmente, e manterrà l’inflazione più a lungo di quanto pensassimo“.
Anche Gita Gopinath, capoeconomista del FMI, ha riconosciuto che: “i colli di bottiglia nell’offerta stanno persistendo più a lungo di quanto molti di noi si aspettassero all’inizio di quest’anno”. Per Gopinath c’è il rischio “di coda” (a bassa probabilità, ma alto impatto) che l’inflazione in occidente sfugga di mano, se gli shock energetici proseguono e i sindacati chiedono adeguamenti immediati dei salari.
Prima che le interruzioni e le carenze della catena di approvvigionamento spazzassero il mondo sulla scia della pandemia di CoVid-19, acquistare i pezzi per una catena di montaggio era spesso facile, bastava un clic su un pulsante e aspettare alcuni giorni o, al massimo, alcune settimane per la consegna. Non più. La carenza di metalli, plastica, legno e persino bottiglie di liquori è ormai da mesi la norma. Il risultato è un mondo in cui gli acquirenti devono attendere la consegna di articoli che una volta erano abbondanti, se riescono ad ottenerli.
Insieme alle carenze sono arrivati forti aumenti dei prezzi, che alimentano i timori di un’ondata di inflazione sostenuta. Negli ultimi mesi, sono continuate a sorgere nuove difficoltà, comprese le interruzioni dovute agli uragani che colpiscono le piattaforme petrolifere nel Golfo del Messico e le raffinerie di petrolio statunitensi. Questo ha comportato l’interruzione delle forniture della plastica e di altri materiali di base. Alcune industrie si stanno affrettando a costruire nuove fabbriche, compresi i produttori di semiconduttori sotto pressione per alimentare un crescente appetito per i chip necessari nelle automobili e nell’elettronica. Ma, non tutti i produttori sono desiderosi di costruire nuovi impianti. L’industria delle biciclette, ad esempio, è fortemente concentrata in Asia e i produttori temono che l’attuale aumento della domanda sia solo temporaneo, per cui ricorrono al lavoro straordinario piuttosto che investire in nuova capacità produttiva.
L’intasamento della logistica globale
Ad aggravare il problema attuale sono le linee di trasporto/rifornimento intasate e, più in generale, l’intero sistema della logistica che versa nel caos. Un efficiente funzionamento della logistica è fondamentale per assicurare il funzionamento del capitalismo attuale, basato su delle supply and value chains globali che operano con un approccio just-in-time. La logistica comprende l’insieme delle attività organizzative, gestionali e strategiche che nelle aziende governano i flussi di materiali, componenti e beni e delle relative informazioni, dalle origini presso i fornitori fino alla consegna dei prodotti finiti ai clienti e al servizio post-vendita.
Con così tanti produttori che si affrettano ad aumentare le forniture allo stesso tempo, i container, le navi e i camion necessari per spostare le merci spesso non sono disponibili e i costi sono aumentati vertiginosamente. L’indice di spedizione di Drewry, che misura il costo dei container, è aumentato del 291% rispetto a un anno fa. Su alcune rotte trafficate, come dalla Cina al porto più grande d’Europa, Rotterdam, il costo della spedizione di un container è aumentato di sei volte nell’ultimo anno.
Un container che non può essere scaricato a Los Angeles o ad Amsterdam perché i portuali sono in quarantena è un container che non può essere caricato di soia in Iowa o di bottiglie di vino pinot grigio in Trentino, lasciando all’asciutto compratori in Indonesia o negli Stati Uniti e provocando una potenziale carenza di mangimi per animali nel sud-est asiatico e scaffali vuoti dei negozi di liquori e della GDO americana.
Il commercio internazionale si basa da decenni sui bassi costi e sull’affidabilità del trasporto marittimo (attraverso il quale passa il 90% delle merci globali), che ha consentito alle aziende industriali e ai grandi marchi commerciali di spostare la produzione in giro per il mondo alla ricerca di manodopera, materiali e componenti a basso costo. Dall’inizio della pandemia, il costo di far arrivare le merci dalle piattaforme produttive asiatiche, latinoamericane ed africane è decuplicato, e molte aziende potrebbero essere costrette a rivedere il loro modello di organizzazione della produzione.
Gli analisti sostengono che si aspettano che i problemi delle catene di approvvigionamento inizino ad attenuarsi la prossima estate, ma poiché i problemi del lavoro esplodono nei porti che sono ormai congestionati e sovraccarichi da lungo tempo, ciò potrebbe richiedere ancora più tempo. Ovunque, i grandi porti commerciali sono sotto pressione, con le navi che scarseggiano e la carenza di camionisti11, marittimi12 e operatori portuali. Al largo della costa del complesso portuale di Los Angeles-Long Beach (il più grande negli Stati Uniti e il nono più grande al mondo), una flottiglia di navi portacontainer da record è in attesa di scaricare merci. Marittimi, camionisti e lavoratori delle compagnie aeree hanno sopportato quarantene, restrizioni di viaggio e complessi requisiti di vaccinazione e test CoVid-19 per mantenere in movimento le catene di approvvigionamento tese durante la pandemia. Ma, in molti stanno ora raggiungendo il loro punto di rottura, ponendo un’altra minaccia alla rete intricata di porti, navi portacontainer e società di autotrasporti che spostano le merci in tutto il mondo13. Un anno fa c’era la sensazione che questa caotica situazione del settore logistico sarebbe stata una cosa di breve durata. Ora, l’interpretazione del termine “transitorio” è cambiata.
La ripresa a ritmi elevati degli scambi commerciali internazionali dopo alcuni mesi di sostanziale paralisi ha contribuito a creare un mismatch tra domanda (in forte ripresa) ed offerta (che è meno elastica e fa più fatica ad adattarsi). Si tratta dunque di problematiche di natura strutturale e preesistenti alla pandemia, che potranno essere risolte con una normalizzazione della domanda, ma soprattutto con adeguamenti dal lato dell’offerta, soprattutto nei settori della logistica e della dotazione infrastrutturale.
Nel breve termine, la difficoltà a trovare spazio per le spedizioni potrebbe tradursi in una carenza di giocattoli, bigiotteria, abbigliamento e altri prodotti durante le prossime festività natalizie, costringendo le aziende ad aumentare i prezzi per assicurarsi che la loro fornitura duri.
Questa evoluzione ha interrotto alcuni dei meccanismi che normalmente aiutano a tenere sotto controllo le forniture e i prezzi. Infatti, si possono continuare a perlustrare i mercati globali di produzione, inclusa la Cina, alla ricerca di materie prime, componenti e prodotti finali più economici, ma poi si devono fare i conti con i prezzi di spedizione che sono aumentati così tanto da cancellare spesso qualsiasi vantaggio di prezzo.
Nel settore abbigliamento, alcuni dei grandi marchi europei della moda – come Hugo Boss, Zara (Inditex) e Benetton – si stanno allontanando sempre più dalle catene di approvvigionamento globali e dai centri di produzione a basso costo in Asia (da Paesi come Bangladesh, Vietnam, Cambogia, Cina e India), in un cambiamento che potrebbe rivelarsi un’eredità duratura della pandemia di CoVid-19. Stanno avvicinando la produzione ai loro mercati finali (“nearshoring”), aumentando la produzione in Serbia, Croazia, Turchia, Tunisia, Marocco ed Egitto (ma anche in Italia, Spagna e Portogallo), con l’obiettivo di ridurre la produzione in Asia nel breve periodo (dove comunque i costi di produzioni sono inferiori del 20-25%). Le difficoltà esplose nelle supply chains intercontinentali hanno interessato gran parte del settore e hanno aumentato i costi e i tempi di spedizione, minando un modello di business che si è dimostrato egemone negli ultimi 30 anni. I grandi marchi vogliono tornare ad avere un maggiore controllo sul processo di produzione e anche sui costi di trasporto. Oggi, un container che costava 1.200-1.500 dollari può costare 10.000-15.000 dollari, senza la certezza di una data di consegna. I maggiori costi di produzione delle piattaforme produttive euro-mediterranee sono oggi compensati da tempi di consegna più brevi e certi (4-5 settimane rispetto a 7-8 mesi).
Il rischio di esplosione di bolle speculative
Un aumento dei tassi di interessi e/o l’uscita repentina dai programmi straordinari di acquisti dei titoli potrebbe generare una o più crisi finanziarie in giro per il mondo, stante l’enorme aumento dei debiti (pubblici e privati) dopo la pandemia. Nelle ultime settimane, mentre i prezzi al consumo corrono, gli investitori invece di vendere le obbligazioni, riportando i tassi più in alto in armonia con il crescente rischio inflattivo, li acquistano. La capitalizzazione dei bond globali, sia governativi sia corporate, ormai sfiora la soglia dei 70 mila miliardi di dollari, pari a circa tre quarti del PIL globale (84 mila miliardi nel 2020 e con una stima a 93 mila miliardi nel 2021)14. Un dato senza precedenti per questa classe di investimento, aggravato dalla quota di bond che hanno tassi negativi (chi li compra paga un interesse al debitore, invece di riceverlo) che è stimata essere intorno ai 17 mila miliardi.
La pandemia da CoVid-19 ha stimolato l’emissione di nuovo debito con acquisti sostenuti dalla banche centrali, i cui bilanci hanno superato 30 mila miliardi di dollari, accentuando le contraddizioni che il mondo finanziario stava già sperimentando. Ora, queste contraddizioni rischiano di trasformarsi in enormi bolle. La grande domanda è cosa accadrà alla montagna di bond in circolazione se e quando le banche centrali inizieranno ad alzare i tassi di interesse. Questo è un fattore che spinge la FED e la BCE a muoversi con estrema cautela sulla strada verso la “normalità monetaria”. Si dovrà temporeggiare nella speranza che l’economia reale si riprenda e sia in grado di mettere una toppa alle bolle finanziarie che sono state create in questi anni di politiche monetarie non convenzionali, ossia politiche non previste né dai loro statuti né dai manuali di macroeconomia neoliberista.
La fine del denaro a buon mercato sta quasi sicuramente arrivando al termine, ma Powell e Lagarde devono evitare il cosiddetto taper tantrum del 2013, quando Ben Bernake, superata la crisi finanziaria globale, annunciò l’uscita dal programma di acquisto titoli, scatenando il panico sui mercati finanziari: i tassi d’interesse delle obbligazioni salirono alle stelle, le azioni crollarono.
Inoltre, c’è sempre il rischio dell’esplosione di bolle immobiliari. I bassi tassi di interesse hanno alimentato l’incremento non solo dei prezzi delle azioni, ma anche di assets come la terra e le case (il settore immobiliare). Negli USA, in Europa e altri Paesi ricchi, gli affitti stanno rimbalzando a un ritmo vertiginoso nel dopo pandemia, minacciando di spingere l’inflazione delle abitazioni – una parte importante degli indici dei prezzi complessivi – più in alto.
Dopo la crisi finanziaria del 2008, il mercato immobiliare in maggiore espansione al mondo è stato quello cinese. Un osservatore attento come Adam Tooze ritiene che il real estate in Cina sia il settore di maggiore accumulazione di ricchezza del XXI secolo. Nel 1998, solo un terzo dei cinesi viveva in città grandi e piccole, ora due terzi15. In poco più di un ventennio, 480 milioni di cinesi si sono trasferiti dalle zone rurali e dai villaggi nelle aree urbane, contribuendo a trasformare grandi città come Pechino, Shenzhen e Shanghai in alcune delle più costose del mondo. Negli ultimi anni, quindi, il settore immobiliare ha fortemente influenzato la crescita cinese e, secondo stime della Bank of America, contribuisce al 28% del PIL della Cina. Circa il 20% della crescita economica cinese è stata legata al settore immobiliare negli ultimi anni. La struttura politica cinese è fortemente coinvolta nel business di questo settore, attraverso i governi locali (province e città) che vendono ai developers i diritti di edificazione sui terreni, che poi loro usano come collaterali per ottenere credito dal sistema bancario e attivare i nuovi progetti urbanistici.
Nelle ultime settimane è scoppiata la crisi finanziaria del colosso immobiliare cinese Evergrande (un conglomerato inserito nella lista Fortune 500 Global) – 305 miliardi di dollari di debito, pari a quasi il 2% del PIL cinese -, per la quale si si scommette che il governo o la Banca centrale cinese interverranno per evitare il collasso del gruppo. Evergrande è impegnata in dozzine di vasti progetti residenziali (ora bloccati) e si stimano in 1,6 milioni gli appartamenti incompiuti che deve consegnare agli investitori. Il potenziale crollo – il culmine di anni di prestiti – ha provocato onde d’urto nei settori finanziario e immobiliare, e ha suscitato la preoccupazione che possa avere ripercussioni sull’intero sistema finanziario cinese, anche sui mercati internazionali. Ci sono anche preoccupazioni su come influirà sui prezzi del minerale di ferro. L’agenzia Fitch Ratings ha declassato le sue previsioni per la crescita economica della Cina, affermando che “il principale fattore che pesa sulle prospettive è il rallentamento del settore immobiliare“.
La crisi di Evergrande non è arrivata senza preavviso e negli ultimi anni i regolatori cinesi hanno messo a dura prova l’intero mercato immobiliare del Paese, valutato 52 trilioni di dollari da Goldman Sachs nel 2019. In tutta la Cina sono sorte dozzine di grattacieli e la fretta di costruire ha causato numerosi problemi, tra cui rischi finanziari, scarsa qualità delle edificazioni e un enorme eccesso di offerta. Gli analisti hanno stimato che nelle proprietà vuote potrebbero essere alloggiate 90 milioni di persone.
“La casa serve per viverci, non per specularci”, è il mantra che Xi Jinping ha ripetuto da mesi. Stabilizzare il mercato del mattone è una delle priorità di Xi, che sta cercando contemporaneamente di ridurre i costi che i cinesi devono affrontare per mettere su famiglia e fare figli, e disinnescare i rischi che il fallimento di una società come Evergrande potrebbero portare all’intero sistema bancario e finanziario cinese.
Il valore delle vendite di case è diminuito del 20% sulla scia della regolamentazione più severa. Nell’agosto del 2020, in risposta alle crescenti preoccupazioni per il mercato immobiliare, il governo ha introdotto dei coefficienti di capitalizzazione del debito, soprannominati “tre linee rosse”. Una mossa che ha esacerbato lo stress finanziario che molti sviluppatori stavano vivendo in un mercato immobiliare strutturalmente indebolito. Il governo ha cercato di migliorare la stabilità finanziaria costringendo gli sviluppatori a ridurre i prestiti e a frenare l’eccesso di offerta di alloggi, ma la crisi del debito per Evergrande e altre società immobiliari è arrivata comunque.
Il caso Evergrande ha riportato all’attenzione il tema dell’enorme debito dell’economia cinese – quello del settore non finanziario (pubblico e privato) superava i 46 mila miliardi di dollari, pari al 287% del PIL, nel marzo 2021 – e del rischio di contagio in caso di crisi. Un debito cresciuto in media ad un ritmo del 18% all’anno e che rappresenta il 22% del debito non finanziario globale (era pari al 3% nel 2001), secondo solo agli USA.
Le carenze energetiche fossili e la difficile transizione verso le energie rinnovabili
A fine settembre, il prezzo del petrolio ha toccato gli 80 dollari al barile (era a 40 a gennaio), il massimo da tre anni, con un aumento del 50% nel 2021. Il 4 ottobre i ministri dell’OPEC, la Russia e altri Paesi produttori (OPEC+) si sono riuniti a Vienna e hanno deciso di mantenere un ritmo costante nell’aumento dell’offerta. L’OPEC+ sta lentamente annullando i tagli record alla produzione effettuati nel 2020 (5,8 milioni di barili al giorno, ma tra aprile e giugno il taglio era stato di 10 milioni), rispondendo alle pressioni da parte di Paesi consumatori come gli Stati Uniti e l’India che chiedono di produrre di più per far scendere i prezzi poiché ormai la domanda si è ripresa più rapidamente del previsto in alcune parti del mondo.
La domanda di petrolio sta anche aumentando poiché l’aumento record dei prezzi del gas naturale a livello globale16 sta spingendo i produttori di energia a cambiare combustibile, abbandonando il gas (ad esempio, in Pakistan, Bangladesh e Medio Oriente). Ma, diversi Paesi dell’OPEC+, tra cui Nigeria, Angola e Kazakistan, fanno fatica ad aumentare la produzione a causa di anni di investimenti insufficienti o di lavori di manutenzione ritardati dalla pandemia di CoVid-19. Mentre importanti Paesi produttori, come Venezuela ed Iran, continuano ad essere sotto embargo internazionale. Nei prossimi anni è assai probabile che la diminuzione degli investimenti nel petrolio, gas e carbone potrà significare che per queste fonti di energia i prezzi si manterranno elevati.
Diverse città in tutta la Cina hanno subito interruzioni di corrente negli ultimi giorni a causa della carenza di carbone e della spinta a raggiungere rigidi obiettivi di emissioni (la Cina è il Paese che genera le maggiori emissioni serra)17. Le interruzioni hanno rallentato le fabbriche, suscitando preoccupazioni riguardo alle catene di approvvigionamento globali prima di Natale e all’aumento della pressione inflazionistica in tutto il mondo. Goldman Sachs ha stimato che fino al 44% dell’attività industriale della Cina è stata colpita dalla carenza di energia, che potrebbe colpire la crescita del PIL. Intanto, è stato deciso un aumento del prezzo dell’elettricità del 25% per gli utenti industriali nella provincia manifatturiera del Guangdong, il cuore della Cina industriale. Ma, la prospettiva di garantire ampie forniture per la prossima stagione invernale, quando la domanda di carbone raggiunge il picco, non è ottimistica18. La continua tendenza al rialzo dei prezzi sia dell’energia sia delle materie prime è destinata a pesare sulla produzione industriale nel medio periodo.
L’indice dei responsabili degli acquisti nel settore manifatturiero (PMI) della Cina si è contratto a settembre a 49,6, il punto più basso da febbraio 2020, secondo i dati del National Bureau of Statistics (NBS) cinese. Una contrazione che ha avuto effetti negativi sulle economia di altri Paesi asiatici, come Vietnam e Indonesia, fortemente integrati nelle supply chains cinesi. Le carenze energetiche della Cina hanno iniziato ad avere effetti sulle catene di fornitura globali. La crisi dell’elettricità cinese si aggiunge a una stretta energetica globale che rischia di sconvolgere la ripresa economica post-pandemia. Il premier cinese Li Keqiang ha ordinato alle aziende di Stato di assicurarsi le forniture di gas a qualunque prezzo, proprio per prevenire nuovi blackout. Questo non potrà che far salire ancora il prezzo dell’energia, almeno nel breve periodo. Così, per la prima volta la Cina genera inflazione nel resto mondo, dopo aver eroso i prezzi durante 30 anni.
Nei Paesi ricchi, invece, regole più rigorose per guidare la transizione verso un futuro più verde sono accusate di alimentare la “greenflation“, ad esempio chiudendo fabbriche, veicoli, navi e miniere inquinanti, riducendo a loro volta l’offerta di beni e servizi chiave. I prezzi per le quote europee di emissioni di carbonio sono raddoppiati quest’anno a 65 euro la tonnellata. Un prezzo di 100 euro aumenterebbe del 12% i prezzi dell’energia elettrica al dettaglio in Europa, aggiungendo 35 punti base all’inflazione principale della zona euro, secondo le stime di Morgan Stanley.
Ci sono altri esempi. Il calo degli ordini di navi a causa delle imminenti modifiche alle regole sui carburanti potrebbe far aumentare le tariffe di spedizione che sono già aumentate del 280% quest’anno. Diversi analisti attribuiscono l’aumento dei prezzi delle materie prime almeno in parte al passaggio a tecnologie più verdi che aumentano i costi di estrazione e produzione.
Ma, la transizione verso un capitalismo verde e il raggiungimento degli obiettivi sul clima vengono rallentati e messi a rischio anche dall’aumento dei costi delle materie prime necessarie per produrre batterie elettriche, turbine eoliche e pannelli fotovoltaici. Litio, cobalto e nickel per le batterie, silicio per i pannelli solari, ma anche alluminio, acciaio, rame, terre rare e stagno per saldare i circuiti, sono i metalli necessari per la transizione verde e hanno subito rincari stratosferici, intensificando i rialzi nelle ultime settimane fino a raggiungere livelli di prezzo che non si vedevano da ben prima della pandemia da CoVid-19. Spesso anche i rifornimenti sono difficili, come del resto in quasi tutti i settori industriali, a causa del caos logistico che continua a sconvolgere le supply chains.
Il risultato è che da più parti si segnala la possibilità che il percorso verso la decarbonizzazione subisca una battuta d’arresto. Il costo di batterie, impianti eolici e fotovoltaici – che scendeva ininterrottamente da un decennio – ha invertito la tendenza e nel 2021, secondo gli analisti, si registreranno aumenti addirittura a doppia cifra percentuale. Il costo dei pannelli fotovoltaici è aumentato del 16% e l’impatto si osserverà soprattutto dal 2022, perché gli sviluppatori per ora hanno scorte adeguate. Nell’eolico, le cose non vanno molto meglio. Si prevedono rincari del 10% per le turbine nei prossimi 12-18 mesi, con una forte compressione dei bilanci e profitti di molti produttori.
I Paesi poveri sono a rischio
Gran parte dei Paesi poveri ed emergenti è ancora alle prese con la pandemia. Ma, anche prima che il coronavirus venga sconfitto, i responsabili delle politiche monetarie potrebbero dover affrontare minacce di inflazione potenzialmente gravi.
Man mano che l’economia globale inizia a emergere dalla crisi CoVid-19, la gestione dei rischi di inflazione sarà molto più impegnativa nei Paesi poveri ed emergenti che nei Paesi ricchi. Ciò riflette la natura degli shock che guidano l’inflazione e il fatto che i Paesi a basso reddito ed emergenti non sono attrezzati per rispondere con decisione (ad esempio, spesso hanno una base fiscale molto bassa). Una combinazione di shock e di specifiche vulnerabilità potrebbe quindi minacciare seriamente la stabilità economica e la prosperità di questi Paesi.
Per cominciare, la dinamica del debito globale ha consentito ai Paesi ricchi di prendere in prestito a buon mercato ed impiegare enormi pacchetti di incentivi fiscali, mentre i Paesi a basso e medio reddito hanno dovuto tagliare, per cui è probabile che le disuguaglianze globali si stiano allargando. I Paesi più ricchi hanno speso in media circa il 6,5% del PIL per lo stimolo fiscale CoVid-19, che è quasi il doppio del 3,3% del PIL speso dai Paesi a basso reddito a rischio di un brusco consolidamento fiscale, definito come quando le politiche del governo si concentrano su riduzione del disavanzo e del debito, ad esempio attraverso misure di austerità.
Inoltre, i Paesi poveri ed emergenti hanno un’esposizione molto maggiore agli shock ambientali, che diventeranno più frequenti e gravi a causa del cambiamento climatico. Gli eventi meteorologici estremi in effetti agiscono come shock negativi dell’offerta, causando un calo della produzione e un aumento dei prezzi, le condizioni più difficili per i responsabili delle politiche monetarie. Diversi Paesi, tra cui Nigeria e Sri Lanka, stanno attualmente affrontando prezzi alimentari alle stelle, mentre la siccità e la conseguente carestia del Madagascar sono un altro forte promemoria della vulnerabilità dei Paesi poveri africani.
Queste economie sono anche più esposte agli shock finanziari. Prima o poi, la politica monetaria dei Paesi ricchi si normalizzerà e, se l’esperienza passata è una guida, molti mercati dei Paesi emergenti e poveri sperimenteranno massicci deflussi di capitali. Lo spettro della fuga di capitali può essere particolarmente rilevante per le economie più povere, soprattutto se accompagnato da una riduzione degli aiuti allo sviluppo. Tali arresti improvvisi portano a dei dilemmi politici: i politici possono lasciare che le loro valute si deprezzino (attraverso l’abbassamento dei tassi di cambio), il che alimenterebbe l’inflazione, o che aumentino i tassi di interesse, che influenzerebbero negativamente la crescita e la sostenibilità del debito19.
Da mesi le banche centrali dei Paesi a basso reddito ed emergenti stanno restringendo i loro mercati, ossia stanno alzando i tassi di interesse, in anticipazione del nuovo orientamento verso la “normalizzazione monetaria” della FED, della BCE e delle altre banche centrali dei Paesi ricchi. Questo sta avvenendo nonostante che almeno 100 Paesi a basso reddito vivano una condizione di “debt distressed” (“difficoltà nel debito”) e molti di loro stanno già ora spendendo oltre il 20% delle proprie entrate per pagare gli interessi sul debito, con Angola e Ghana che spendono entrambi oltre il 35%, decimando tutte le voci della spesa pubblica, ed in particolare salute, istruzione e altri servizi pubblici di cui le persone hanno un assoluto bisogno. Diversi Paesi – Congo, Gambia, Ghana, Kenya, Zambia, e Sierra Leone – stanno spendendo di più per il servizio del debito che per sanità e istruzione messe insieme20. Per molti di questi paesi è complicato arrivare alla cancellazione del debito perché hanno contratto debiti a condizioni non agevolate da istituti di credito privati.
Entrambi i tipi di shock inflazionistici saranno un severo test per i responsabili delle politiche monetarie nei Paesi più poveri. Molti non hanno l’esperienza e le competenze necessarie per garantire la loro credibilità e stabilizzare le aspettative di inflazione. Potrebbero così svilupparsi diversi circuiti di feedback negativo. Per i Paesi con alti livelli di debito denominato in valuta estera, il deprezzamento del tasso di cambio potrebbe portare a un fatale disallineamento valutario, innescando una crisi del debito e un’impennata dell’inflazione. E il disancoraggio delle aspettative di inflazione potrebbe avere ulteriori ramificazioni per i già fragili sistemi finanziari delle economie dei Paesi poveri ed emergenti.
Inoltre, l’inflazione tende a persistere a lungo dopo le svalutazioni dei tassi di cambio. Le politiche di conversione della spesa volte a sostituire le importazioni sempre più costose con beni di produzione interna più economici hanno spesso portato solo a una crescita mediocre e a un’inflazione ostinatamente alta. Ciò ha eroso il potere d’acquisto delle famiglie, alimentando la povertà e l’instabilità sociale.
Parte della risposta politica a questi rischi di inflazione è nelle mani degli stessi Paesi poveri ed emergenti. Un quadro di politica fiscale credibile farebbe molto per stabilizzare le aspettative ed eliminare il rischio di dominio fiscale. Sebbene il consolidamento fiscale nel bel mezzo di una pandemia non sia chiaramente appropriato, un controllo più rigoroso della corruzione e una riduzione delle perdite aiuterebbe a garantire che la spesa pubblica raggiunga i beneficiari previsti e ne massimizzi l’impatto. La corruzione costa a queste economie circa 1,3 trilioni di dollari all’anno, o tre quarti del PIL dell’Africa subsahariana. La crisi del CoVid-19 dovrebbe spronare i governi di questi Paesi a reprimere l’uso improprio dei fondi pubblici. Ciò creerà uno spazio fiscale per attenuare l’impatto dell’inflazione sulle famiglie più povere, ponendo le basi per la ripresa e la crescita economica sostenuta.
Ma, la comunità internazionale potrebbe aiutare i Paesi a basso reddito a superare le insidie inflazionistiche. In tali casi, la stabilità macroeconomica nei Paesi più poveri dipende in larga misura dalla finanza esterna. La comunità internazionale ha quindi urgente bisogno di sostenere le riserve internazionali di questi Paesi per sostenere le loro valute e domare i rischi di inflazione. Sebbene le pressioni inflazionistiche rimangano generalmente sotto controllo per ora, il rischio di inflazione in queste economie potrebbe materializzarsi in modi non lineari. Ad esempio, il continuo esaurimento delle riserve internazionali potrebbe causare il deprezzamento improvviso della valuta di un Paese. Ciò può far precipitare l’inflazione in una spirale, soprattutto se le autorità non hanno la credibilità per ancorare le aspettative.
L’accelerazione dell’inflazione, insieme al peggioramento delle prospettive di crescita e di occupazione, esporrà le economie a basso reddito al tipo di instabilità sociopolitica vista di recente in Tunisia, Sudafrica, Nigeria e Senegal. Gli effetti di ricaduta di tali disordini sono proprio ciò di cui l’economia mondiale non ha bisogno mentre si riprende dalla pandemia.
La recente nuova assegnazione di 650 miliardi di dollari di diritti speciali di prelievo (DSP) da parte del FMI rappresenta un’opportunità per aiutare i Paesi a basso reddito. Sebbene i DSP siano stati sempre più (e giustamente) visti come uno strumento di sviluppo, sono essenzialmente una risorsa di riserva che può avere importanti benefici antinflazionistici. Garantire che un numero maggiore di nuovi DSP passi dalle economie avanzate ai Paesi poveri rafforzerà le loro riserve internazionali e quindi aiuterà a proteggere miliardi di persone dal rischio di inflazione. Ciò, a sua volta, darà alle autorità nazionali e al settore privato lo spazio per agire con decisione per riaccendere la crescita e ridurre la povertà.
- Sia General Motors sia Honda, Nissan, Volkswagen e Stellantis, come tutti gli altri grandi gruppi automobilistici, hanno registrato un calo significativo delle produzioni e delle vendite (nell’ordine del 10-33%) rispetto all’anno precedente durante i tre mesi terminati a settembre, poiché la carenza di chip, ma anche di componenti in metallo, plastica e materiali grezzi, li ha costretti a lasciare gli impianti inattivi, lasciando ai concessionari pochi veicoli da offrire ai clienti. Nel 2021, la produzione di automobili in Germania scenderà del 18% a soli 2,9 milioni di veicoli dopo che si era ridotta del 24,6% a 3,5 milioni di auto nel 2020 a causa della pandemia Poiché le auto usate continuano a scarseggiare, i loro prezzi – uno dei principali motori dell’inflazione quest’anno negli USA – potrebbero aumentare di nuovo.[↩]
- Nei Paesi a basso reddito ed emergenti, dove il cibo costituisce una grossa fetta dei panieri dell’inflazione, questo porta ad una forte pressione per inasprire la politica monetaria, mentre è un problema minore per i Paesi ricchi, ma gli aumenti dei prezzi sembrano inevitabili per articoli come bibite e snack.[↩]
- Durante un’audizione davanti alla commissione bancaria del Senato, Warren ha affermato che sotto Powell la FED ha annacquato i regolamenti bancari successivi alla crisi finanziaria e indebolito il sistema bancario statunitense. “Il suo record mi dà gravi preoccupazioni“, ha detto, “Più e più volte lei ha agito per rendere il nostro sistema bancario meno sicuro, e questo la rende un uomo pericoloso per guidare la FED, ed è per questo che mi opporrò alla sua nomina“.[↩]
- Questo anche se gli Stati Uniti stanno sperimentando una massiccia carenza di manodopera, soprattutto nel settore del tempo libero e dell’intrattenimento. Alla fine di giugno negli Stati Uniti si sono creati 10 milioni nuovi posti di lavoro. I cartelli “cercasi aiuto” possono essere individuati nelle vetrine dei ristoranti di tutto il Paese. I repubblicani hanno accusato gli aumenti dei sussidi di disoccupazione legati alla pandemia per la mancanza di lavoratori. Questi sussidi sono terminati, ma ci sono ancora poche prove che i settori economici più colpiti stiano reclutando abbastanza lavoratori. I bassi salari hanno portato milioni di persone a riconsiderare la propria carriera durante la pandemia, fenomeno noto come la Grande Rassegnazione che fa il paio con il fenomeno dei “morti della disperazione” (quasi 800 mila negli ultimi 20 anni) legato all’epidemia di dipendenza e di overdose da oppiacei. Allo stesso tempo, la mancanza di servizi di custodia dei bambini a prezzi accessibili e la continua chiusura di alcune scuole ha portato molte persone a lasciare la forza lavoro.[↩]
- È bene ricordare che la FED ha due obiettivi fissati dal suo mandato: mantenere i prezzi stabili (con un aumento massimo del 2%) e la piena occupazione. Powell deve riuscire a unire 18 membri del comitato di politica monetaria della FED, diviso in tre fazioni che finora hanno più o meno lo stesso potere. Da un lato, ci sono le cosiddette “colombe”, convinte che la disoccupazione – soprattutto tra le donne, i lavoratori a basso reddito e le minoranze sociali – sia ancora troppo alta per porre fine alle politiche di sostegno. A loro si oppongono i “falchi”, secondo i quali il forte aumento dei prezzi potrebbe modificare in modo permanente le aspettative d’inflazione di lavoratori e aziende, innescando così la pericolosa spirale di prezzi e salari sempre più alti. Poi, ci sono Powell e i “centristi”, che devono trovare un equilibrio fra le due ali, perché la FED non può fare entrambe le cose: comprare azioni e buoni del tesoro e non comprarli, alzare i tassi e non alzarli. Una soluzione di compromesso, tuttavia, non deve apparire all’esterno come inefficace o tiepida, per non rischiare turbolenze sui mercati finanziari.[↩]
- La questione è particolarmente rilevante per l’Eurozona dove si discute da tempo sulla possibile modifica delle regole europee che regolano la gestione del deficit e del debito pubblico, in particolare quelle del Patto di stabilità e del Fiscal compact (introdotto nel 2012, all’epoca della crisi dei debiti sovrani). Si era cominciato ad affrontare il tema nel 2019, ma lo scoppio della pandemia ha interrotto la discussione, anche perché le regole di bilancio europee sono state sospese per permettere agli Stati nazionali e alla UE di mettere in campo robuste misure di stimolo fiscale, cioè di spesa statale, per contrastare la crisi. La questione della ridefinizione del Patto di stabilità e soprattutto del Fiscal compact si pone anche perché alla fine del 2022 saranno reintrodotte le regole che impongono agli Stati di tenere sotto controllo il debito pubblico e c’è la preoccupazione che la reintroduzione dei vincoli possa minare la ripresa economica. Per un’analisi degli aspetti, implicazioni e conflitti economici e politici relativi a questo tema, vedi qui.[↩]
- Su questo punto è bene ricordare che nel 1955 William McChesney Martin, all’epoca capo della FED, descrisse così il suo lavoro: il banchiere centrale è quello che “nasconde gli alcolici proprio quando la festa comincia a decollare”. In altre parole, per evitare che l’economia si surriscaldi facendo esplodere l’inflazione, la FED deve intervenire tempestivamente, per esempio alzando i tassi di interesse. Sembra chiaro che presto la FED sarà ad un passo da quel punto critico. Larry Summers ha detto di recente che “a quanto pare, questa volta la FED aspetta di vedere le prime persone che barcollano ubriache prima di portare via il punch”.[↩]
- Un aumento del 14,3% dei prezzi dell’energia e l’effetto a catena sui prezzi della benzina (in aumento del 20%) e dei prodotti alimentari (4,9%) hanno tutti contribuito all’aumento del tasso di inflazione. Tuttavia, l’inflazione core, che esclude l’energia e altre componenti tipicamente volatili, è stata solo dell’1,9% a settembre. La Bundesbank prevede che l’inflazione salirà al 5% entro la fine dell’anno. I fattori che trainano l’aumento dei prezzi sono l’aumento dell’aliquota IVA, dopo che è stata temporaneamente abbassata lo scorso anno per aiutare le aziende a far fronte alla pandemia, nonché l’aumento delle tariffe sulle emissioni di CO2 e la scarsità di metalli, legno e semiconduttori. Nonostante il portafoglio degli ordini pieno, si prevede che questi attriti nell’offerta continueranno almeno fino alla fine dell’anno e costeranno all’economia 40 miliardi di euro, il cui effetto si farà sentire principalmente nel 2022. Le ragioni storiche dell’angoscia tedesca per l’inflazione sono ben note e risalgono all’iperinflazione degli anni ’20 che contribuì a destabilizzare la fragile repubblica di Weimar. Da allora, i timori di inflazione hanno plasmato il dibattito pubblico. Ma, è interessante notare che durante l’ultima campagna elettorale, Markus Söder, capo dell’Unione Cristiano-Sociale bavarese (CSU), ha chiesto un “freno all’inflazione“, un meccanismo in cui il il governo compensa i consumatori per i costi di riscaldamento più elevati e i risparmiatori per i bassi rendimenti sui loro depositi. Christian Lindner, che guida i liberaldemocratici, ha detto che “abbiamo bisogno di fermare l’inflazione indotta politicamente“, accusando il ministro delle Finanze socialdemocratico e candidato alla cancelliera Olaf Scholz di favorire la spesa pubblica eccessiva anche prima che la pandemia la rendesse accettabile. Nonostante questi tentativi dei conservatori, tuttavia, il tema dell’inflazione non ha preso piede e a malapena ha avuto un impatto nei dibattiti pubblici. Il cambiamento climatico, le questioni sociali e il debito pubblico sono stati molto più importanti nel dibattito durante la campagna elettorale.[↩]
- Nel corso del 2021, a gennaio il salario minimo è aumentato in Croazia, i sindacati hanno respinto la proposta di un suo aumento del 4% in Ungheria, è stato annunciato un aumento in Polonia, è aumentato in Slovenia, è stato richiesto un aumento in Turchia; a febbraio è aumentato in Lituania e Slovacchia; ad aprile si è aperta la discussione sulla direttiva per il salario minimo nel Parlamento Europeo; a maggio il salario minimo è aumentato nella Repubblica Ceca e per i lavoratori dell’allevamento e dell’industria della carne in Germania; a giugno c’è stato un adeguamento a Malta e, in alcuni cantoni della Svizzera tra cui quello di Ginevra, c’è stato il voto che porterà il salario minimo a più di 2.000 euro mensili.[↩]
- A maggio il governo cinese ha chiuso per settimane il grande porto vicino a Shenzen, una delle principali città industriali del Paese, a causa di un piccolo focolaio di una variante del CoVid-19. A metà agosto è stato chiuso un terminal di container vicino alla città di Ningbo (terzo porto container più grande mondo), rischiando di provocare effetti a catena in tutto il mondo e mettendo in pericolo le forniture ai negozi americani per il Black Friday e il giorno del ringraziamento (l’inizio della stagione delle compere natalizie).[↩]
- L’associazione tedesca del trasporto merci e le aziende di logistica hanno avvertito che la carenza di forza lavoro riguarda oltre 60 mila autisti di camion, che dovrebbe aumentare di 15 mila unità l’anno, considerato il fatto che il numero degli autisti che andranno in pensione è superiore a quello formato.[↩]
- È bene ricordare che, secondo l’International Chamber of Shipping, la maggior parte dei marinai di basso livello arriva dalle Filippine, seguita da Cina, Indonesia, Russia e Ucraina. Il maggior numero di ufficiali proviene dalla Cina, oltre che da Filippine, India, Indonesia e Russia. La situazione spesso già difficile degli oltre 1,6 milioni di marittimi che nel mondo sono al servizio dell’economia globale è stata fortemente aggravata dal CoVid-19. Ad un certo punto nel 2020 c’erano circa 400 mila marinai che non potevano tornare a casa. Molti erano bloccati perché le regole nazionali sul CoVid-19 impedivano alle persone di viaggiare da un Paese all’altro. Molti porti hanno rifiutato di far sbarcare i marinai.[↩]
- Clamorosa la carenza di autisti di veicoli pesanti nel Regno Unito (stimata in circa 100 mila) che ha mandato in crisi il sistema di rifornimento di carburanti alle stazioni di servizio e di prodotti alimentari ai punti vendita della grande distribuzione organizzata. Un risultato della Brexit che ha imposto restrizioni all’accesso al Paese da parte di migliaia di camionisti dell’est Europa. Il governo inglese ha dovuto concedere dei visti temporanei di emergenza per migliaia di autisti stranieri e far intervenire 200 militari per cercare di alleviare i problemi logistici. Il governo ha dovuto autorizzare anche l’arrivo di 5.500 lavoratori per il settore della lavorazione della carne avicola che potranno rimanere fino alla fine del 2021. È probabile che altri settori che soffrono di carenze di manodopera, come l’ospitalità e l’assistenza sociale, eserciteranno ora pressioni sui ministri affinché concedano anche esenzioni anche a loro. Nei Paesi ricchi, la carenza dei camionisti è in larga parte il risultato della deregolamentazione avviata negli anni ’70, con la fine della fissazione delle tariffe pubbliche che hanno costretto le aziende di autotrasporto a competere tra loro per offrire prezzi di spedizione più bassi. Questo è stato fatto abbassando le paghe dei loro autisti. L’autotrasporto a livello aziendale è diventato imprevedibile e finanziariamente fragile, quindi gli orari degli autisti sono diventati insostenibili, anche se la paga durante i periodi di boom potrebbe essere elevata. Oggi, anche se gli stipendi aumentano, la programmazione sta schiacciando i conducenti.[↩]
- Nel 2010 il valore delle obbligazioni in circolazione era 35 mila miliardi, pari al 53% del PIL globale.[↩]
- Nel 1998 è stato introdotto il sistema di proprietà privata della casa, ponendo fine al vecchio sistema di housing pubblico. Per i cinesi si è aperta la possibilità di avere la proprietà di qualcosa e la casa di proprietà è diventato il principale investimento delle famiglie cinesi. Oggi, l’80% della ricchezza delle famiglie cinesi è investito nel settore immobiliare (solo il 30% negli USA). Il 90% delle famiglie cinesi che vivono nelle città sono proprietarie delle case in cui vivono. Buona parte del debito delle famiglie della classe media cinese è costituito da mutui per la prima casa.[↩]
- I prezzi del gas in Europa sono aumentati di circa il 350% quest’anno, mentre USA e l’Asia hanno registrato rispettivamente un aumento di circa il 120% e 175% dalla fine di gennaio. Negli Stati Uniti, i prezzi sono saliti ai massimi pluriennali e sono circa il doppio rispetto all’inizio dell’anno. Anche i prezzi dell’elettricità sono aumentati drasticamente poiché molte centrali elettriche sono alimentate a gas. Questi aumenti dei prezzi sono dovuti a una combinazione di fattori, tra cui l’aumento della domanda in particolare dall’Asia mentre entra nella ripresa post-pandemia, le scorte di gas basse in Europa e le forniture di gas più limitate del solito dalla Russia. Alcune aziende, tra cui produttori di acciaio, produttori di fertilizzanti e produttori di vetro, hanno dovuto sospendere o ridurre la produzione in Europa e in Asia a causa dell’impennata dei prezzi del gas. La Norvegia ha consentito un aumento delle esportazioni di gas. Entro la fine dell’anno potrebbe arrivare una maggiore offerta dalla Russia con il nuovo gasdotto Nord Stream 2 che è in attesa dell’approvazione del regolatore energetico tedesco. A questo proposito, un gruppo di parlamentari del Parlamento Europeo ha chiesto alla Commissione Europea di indagare sul ruolo di Gazprom (l’azienda controllata dallo Stato russo che ha il monopolio del gas) nell’aumento dei prezzi, affermando che il suo comportamento fa sospettare una manipolazione del mercato e uno “sforzo di pressione” sull’Europa per concordare un rapido lancio del suo gasdotto Nord Stream 2. Molti economisti considerano che i prezzi del gas più alti siano destinati a rimanere nel medio periodo, a causa del rallentamento della produzione degli Stati Uniti, dell’aumento dei costi dei permessi di emissioni di carbonio per gli inquinatori e dei limiti all’uso di combustibili più sporchi.[↩]
- Il carbone rappresenta ancora circa il 57% del mix energetico cinese, seguito dal petrolio a circa il 20%, il gas natural all’8%, l’idroelettrico attorno al 3% e le rinnovabili (eolico, solare, biomasse) sotto il 3%. Inoltre, la produzione di energia elettrica è di circa 7.500 TWh, con il carbone che rappresenta circa il 62% del totale, l’idroelettrico il 17%, altre rinnovabili (eolico, solare, geotermico) l’11%, il gas naturale circa il 2,5%, e il nucleare su valori prossimi al 4,5%. Da questi dati emerge come sebbene la Cina sia il Paese con la più alta produzione al mondo di energia elettrica rinnovabile e la crescita di nuovi impianti (soprattutto eolico e solare) sia la più alta al mondo, la quota di rinnovabili sia ancora modesta, escludendo l’idroelettrico. Dodici grandi acciaierie hanno frenato la produzione dopo che il governo, in ritardo sui suoi obiettivi ambientali, ha proibito loro di bruciare carbone. Diversi produttori di ceramica e vetro hanno ridotto la produzione per evitare perdite, mentre la provincia sudoccidentale cinese dello Yunnan ha imposto limiti alla produzione di alcune industrie pesanti, inclusi produttori di fertilizzanti, cemento, prodotti chimici e fonderie di alluminio a causa della carenza di energia. La situazione è talmente peggiorata che la Cina ha chiesto alla Russia di aumentare la quantità di elettricità che arriva tramite linee di trasmissione che possono trasportare 7 miliardi di chilowattora all’anno. Trovare nuove fonti di importazione del carbone potrebbe essere più facile a dirsi che a farsi, con la Russia che si concentra sul soddisfare le esigenze energetiche dell’Europa, le piogge che interrompono la produzione dall’Indonesia e le difficoltà nell’autotrasporto che ostacolano le importazioni dalla Mongolia.[↩]
- Una crisi energetica analoga a quella cinese sta vivendo anche l’India. I produttori di energia elettrica indiani stanno cercando di assicurarsi le forniture di carbone mentre le scorte hanno toccato minimi critici dopo un’impennata della domanda di energia da parte delle industrie e le importazioni sono rallentate a causa dei prezzi globali record, spingendo le centrali elettriche sull’orlo del baratro. I dati del governo mostrano che oltre la metà delle 135 centrali elettriche a carbone dell’India ha scorte di carburante inferiori a tre giorni, molto al di sotto delle linee guida federali che raccomandano forniture di almeno due settimane. L’India è in competizione con acquirenti come la Cina, il più grande consumatore di carbone del mondo, che è sotto pressione per aumentare le importazioni in mezzo a una grave crisi energetica. I prezzi del carbone dei principali esportatori hanno recentemente raggiunto i massimi storici, con i prezzi australiani che sono aumentati di circa il 50% e i prezzi delle esportazioni indonesiane del 30% negli ultimi tre mesi.[↩]
- È esattamente il dilemma che sta vivendo il Brasile, Paese che ha dal 2020 ha attuato una politica fiscale relativamente espansiva e dove oggi la principale preoccupazione congiunturale sul fronte macroeconomico è l’aumento dell’inflazione che, avendo superato l’obiettivo di politica monetaria, spinge la Banca Centrale brasiliana (BCB) ad aumentare progressivamente il tasso d’interesse ufficiale. Il tasso d’inflazione è attualmente vicino al 10%, rispetto al target del 3,75%. Un fenomeno che ha numerose cause: l’aumento dei prezzi dei beni industriali, dovuto ai maggiori costi di input, le restrizioni dell’offerta e la maggiore domanda di beni, anche dovuta al calo di quella di servizi. Quest’ultimo fattore dovrebbe attenuarsi con il progresso nelle vaccinazioni (circa il 70% della popolazione è stato vaccinato), anche se potrebbe emergere un problema di inflazione nel settore dei servizi. Infine, vi sono state pressioni sui prezzi di generi alimentari, carburanti ed energia elettrica, dovute a fattori quali il deprezzamento del tasso di cambio, gli elevati prezzi delle materie prime e le condizioni meteorologiche avverse. Lo scorso 22 settembre la BCB ha aumentato il tasso ufficiale (Selic) dell’1%, portandolo al 6,25%, e ha ipotizzato che aumenterà il Selic di altri 2 punti percentuali entro la fine di quest’anno. Secondo l’autorità monetaria, questa manovra dovrebbe essere sufficiente per riportare l’inflazione vicino all’obiettivo già nel 2022. La conseguenza di questa misura anti-inflazionistica sarà un aumento del tasso d’interesse reale, che indebolirà la domanda d’investimenti delle imprese in Brasile. Questo fattore si aggiunge al disincentivo che viene dalla situazione d’incertezza del contesto politico. Nell’ottobre 2022 si terranno le elezioni presidenziali e al momento tra i probabili candidati forti ci sono solo l’attuale presidente Jair Bolsonaro, conservatore di estrema destra, e l’ex-presidente Luiz Inàzio ‘Lula’ da Silva del Partito dei lavoratori (PT) di sinistra. La campagna elettorale sarà molto dura e polarizzante, con effetti negativi sugli investimenti anche di aziende straniere (gli IDE, in calo già dal 2020). Se i Paesi ricchi iniziassero ad aumentare i tassi ufficiali, il Brasile dovrebbe alzare ulteriormente i tassi d’interesse o subirebbe una consistente uscita di capitali che farebbe deprezzare la valuta brasiliana e aumentare l’inflazione, spingendo comunque la BCB a rafforzare la politica anti-inflazionistica. Anche in assenza di cambiamenti nel contesto monetario internazionale, c’è la possibilità che potrebbe aumentare la percezione del rischio Paese e gli investitori finanziari potrebbero iniziare a disinvestire dal Paese e a chiedere un più alto premio al rischio per rimanere. In Brasile, allora, la valuta nazionale si deprezzerebbe e i tassi d’interesse aumenterebbero, e questo causerebbe un rallentamento dell’economia e un peggioramento degli indicatori di sostenibilità del debito. Inizialmente le pressioni sul premio al rischio potrebbero essere causate dal contesto politico difficile o da scelte di politica fiscale preoccupanti, o considerate tali dai mercati. Successivamente, però, ulteriori aumenti del premio al rischio sarebbero giustificati da una situazione fiscale effettivamente diventata meno sostenibile.[↩]
- Questi Paesi a basso reddito non hanno scelto casualmente di tagliare la spesa sanitaria. Per decenni, il FMI ha concesso loro dei prestiti, ma sappiamo che le condizioni coercitive legate a questi prestiti hanno richiesto il congelamento dei salari del settore pubblico. A questi Paesi è stato chiesto di contenere o tagliare i salari, col risultato di avere un minor numero di medici, insegnanti e infermieri. In pratica, questo ha significato che questi Paesi non hanno potuto spendere di più per la salute e l’istruzione senza cadere venire penalizzati dal FMI. Due dei Paesi più colpiti dall’Ebola, Sierra Leone e Guinea, hanno programmi del FMI che prevedono un calo dei bilanci sanitari. Nel 2019, il Cameroun ha speso il 23,8% del suo budget per il pagamento del debito, rispetto al 3,9% delle entrate del Paese speso per la salute.I Paesi che stanno cadendo in difficoltà nel debito includono la Tunisia, che ha visto sconvolgimenti politici, così come lo Zambia e il Ghana. Lo Zambia è stato il primo Paese africano ad essere inadempiente sul debito lo scorso anno durante la pandemia e ora deve destinare il 44% delle sue entrate annuali del governo ai creditori.[↩]