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La strada stretta dei banchieri centrali: domare l’inflazione senza produrre dolorosi effetti collaterali

di Alessandro
Scassellati

Nei Paesi ricchi l’inflazione è tornata a livelli che non si vedevano da 40 anni e ora le banche centrali stanno decidendo di intervenire attraverso un rialzo dei tassi di interesse e la fine delle politiche non convenzionali di quantitative easing. Un percorso pieno di incertezze ed insidie. La terapia d’urto di Paul Volcker e della FED negli anni ’80 ha dato gambe al neoliberismo, svuotando la produzione industriale americana e potenziando in modo permanente sia Pechino sia Wall Street. Ora, Jerome Powell, come Christine Lagarde, deve fare scelte difficili per cercare di seguire una rotta che consenta un “atterraggio morbido”, una normalizzazione delle politiche monetarie senza arrestare la ripresa economica globale o provocare shock finanziari, disoccupazione e una recessione generale.

L’inflazione è tornata

Lo spettro dell’inflazione sta di nuovo scuotendo il mondo, dopo un lungo periodo di letargo durante il quale politici e banchieri centrali sono stati a lungo preoccupati per la deflazione dei prezzi e la debolezza della crescita della domanda aggregata (data dalla somma dei consumi, degli investimenti privati e della spesa pubblica). Il 2021 è stato un anno segnato da un’inflazione del 5,8% nella zona OCSE, che riunisce i Paesi più sviluppati. Livelli così alti non si vedevano da 25 anni in Europa. In Italia questo aumento ha toccato il 3,7%, a novembre, su base annua.

Pertanto, sono riemersi vecchi dibattiti sul modo migliore per ripristinare la stabilità dei prezzi. Politici e banchieri centrali dovrebbero intervenire sui freni monetari e fiscali, riducendo la spesa e aumentando i tassi di interesse – l’approccio ortodosso per combattere l’inflazione? Dovrebbero invece muoversi nella direzione opposta abbassando i tassi di interesse, un percorso seguito dalla banca centrale turca sotto la direzione del presidente Recep Tayyip Erdoğan? Oppure i politici dovrebbero forse cercare di intervenire in modo più diretto, attraverso il controllo dei prezzi o reprimendo le grandi imprese con potere di determinazione dei prezzi, come hanno sostenuto alcuni economisti e storici negli Stati Uniti?

I rimedi ortodossi contro l’inflazione hanno spesso effetti collaterali costosi e dolorosi (come fallimenti delle attività economiche e aumento della disoccupazione) e non sempre hanno prodotto gli effetti desiderati abbastanza rapidamente. Talvolta i controlli sui prezzi hanno funzionato, ad esempio in tempo di guerra.

In ogni caso, la questione del modo migliore per controllare l’inflazione è tornata nell’agenda della politica economica e l’opinione è divisa su come affrontarla. Il punto di vista mainstream sottolinea la necessità di politiche monetarie più restrittive e considera giustificati tassi di interesse più elevati e una minore erogazione di liquidità, anche se frenano la fragile ripresa economica in atto in molti Paesi1.

Altri sostengono che le banche centrali debbano essere “pazienti”, evitare di farsi prendere dal panico e pensare in modo “creativo”, perché l’inflazione odierna è transitoria, riflette strozzature temporanee nell’offerta, incertezze della domanda e cambiamenti nel mercato del lavoro, e presto si correggerà. Questa rimane, per ora, la posizione di Christine Lagarde, la presidente della BCE, che predica pazienza e non intende prendere misure, ma per questo viene definita la “signora dell’inflazione” dalla stampa tedesca e mette in agitazione l’intera classe politica europea.

Anche Xi Jinping, il presidente cinese, in un discorso virtuale all’apertura del World Economic Forum di Davos 2022, ha messo in guardia Stati Uniti ed Unione Europea contro un rapido aumento dei tassi di interesse che “metterebbe i freni” alla ripresa globale dalla pandemia. Le banche centrali dovrebbero mantenere lo stimolo monetario o rischiare “gravi conseguenze economiche” dagli effetti di ricaduta, con i Paesi emergenti e poveri destinati a sostenere il peso maggiore. In alternativa, Xi sostiene che, mentre stanno emergendo i rischi di inflazione globale, i politici dovrebbero rafforzare il coordinamento delle politiche economiche e sviluppare politiche per evitare che l’economia mondiale crolli di nuovo. “Dobbiamo fare tutto il necessario per cancellare l’ombra della pandemia e promuovere la ripresa e lo sviluppo economico e sociale“, ha affermato Xi. La Cina è tra i molti Paesi in Asia, Africa e Sud America preoccupati per i piani segnalati dalla FED per accelerare una serie di aumenti dei tassi di interesse pianificati quest’anno e iniziare a revocare il suo programma di stimolo di allentamento quantitativo. L’effetto dell’aumento dei tassi di interesse statunitensi, infatti, sarà quello di rendere più costoso il finanziamento di debiti denominati in dollari, accrescendo il rischio che i Paesi indebitati non riescano a rimborsare i prestiti.

Anche la Cina sta attraversando una fase economica delicata, nonostante una crescita del PIL dell’8,1% nel 2021 (il dato migliore dal 2011). I dati dell’Ufficio nazionale di statistica hanno rivelato l’espansione più debole in 18 mesi poiché negli ultimi mesi la pandemia di CoVid-19 e la crisi nel suo settore immobiliare (con la crisi finanziaria del promotore immobiliare Evergrande) hanno colpito la crescita. Nei primi tre trimestri del 2021 l’economia cinese è cresciuta di oltre il 9%, ma dall’estate ha rallentato drasticamente, spingendo la Banca Centrale Cinese a tagliare il tasso di interesse.

Da Paul Volcker a Jerome Powell

Per quanto riguarda l’utilizzo dei rimedi mainstream, nel corso della storia non sono mancati banchieri centrali che hanno cercato di domare l’inflazione attraverso l’aumento dei tassi d’interesse e tra questi Paul Volcker è stato certamente quello che lo ha fatto nel modo più risoluto. Volcker è sato il falco dei falchi dell’inflazione. Nominato presidente della FED da Jimmy Carter nel’agosto del 19792, quando il tasso di inflazione annuo degli Stati Uniti era a due cifre e quando le grandi imprese americane si sono trovate in una situazione sempre meno competitiva, con una enorme capacità produttiva (impianti, macchinari e lavoratori) in eccesso, inutilizzabile in una fase di stag-flation in cui il dollaro si è svalutato, sono schizzati verso l’alto tutti i costi (lavoro, materie prime, energia, regolazione statale, etc.), si sono intensificati sia il conflitto sociale sia la concorrenza sul mercato e i profitti sono precipitati in caduta libera (profit squeeze). Volcker ha somministrato un brutale trattamento alla più grande economia mondiale, spingendo ad un certo punto i tassi di interesse ufficiali al di sopra del 20%, e nel 1979-82 c’è poi stata la depressione economica, con una disoccupazione salita a quasi l’11% negli USA.

Sappiamo che la sua strategia fortemente aggressiva ha funzionato. L’inflazione raggiunse il picco nel 1980 e fu uno dei motivi per cui Carter perse la presidenza a favore di Ronald Reagan quell’anno, ma poi iniziò a diminuire rapidamente quando i tassi di interesse altissimi portarono a fallimenti aziendali e massicce perdite di posti di lavoro.

Sappiamo anche che, proprio in coincidenza con la nomina di Volcker, si è sviluppata una potente contro-offensiva, una vera e propria “guerra di movimento” conservatrice, pro-capitalista e anti-governativa, controllata da partiti tradizionali di centro-destra, portata avanti da parte delle forze politiche e culturali anglo-americane più legate e sensibili agli interessi delle grandi imprese che hanno avviato il sistematico smantellamento della struttura sociale dell’accumulazione Fordista-Keynesiana, sostituendo il keynesismo con l’hayekesmo, il neoliberismo, il monetarismo e abbandonando unilateralmente l’impegno per la piena occupazione (nonostante il mandato politico di piena occupazione sancito dall’Humphrey-Hawkins Act del 1978 negli USA) per orientarsi verso la supply-side economics (una dottrina secondo cui la performance economica dipende in gran parte dal mantenimento di basse aliquote fiscali per i ricchi), sposando l’idea di ridurre la disoccupazione attraverso la compressione dei salari invece che attraverso gli investimenti pubblici, recidendo anche il legame tra salari e crescita della produttività3.

Il tasso di inflazione statunitense è stato del 7% in dicembre (il settimo mese consecutivo in cui l’inflazione ha superato il 5%), il più alto degli ultimi 40 anni, ma nel 1982 era in discesa e non in aumento. I prezzi delle auto usate, dei vestiti e delle tariffe aeree hanno registrato forti aumenti. Un duro colpo per l’amministrazione Biden (già in caduta libera nella popolarità) e la FED, che fino a poco tempo fa hanno caratterizzato l’impennata dei prezzi come un fenomeno “transitorio” determinato da problematiche delle supply chains innescate dalla pandemia. Un duro colpo soprattutto per l’amministrazione Biden perché i suoi sforzi per cercare di stimolare l’economia e aumentare l’occupazione è già entrato in crisi (si veda la vicenda del naufragio parlamentare del pacchetto da 3,5 trilioni di dollari denominato Build Back Better) proprio con il riemergere dell’inflazione.

La previsione di John Maynard Keynes, secondo cui, sebbene il capitalismo nella sua spontaneità fosse un sistema imperfetto che manteneva disoccupate grandi masse di lavoratori, l’intervento dello Stato avrebbe potuto riparare questo difetto4, era già stata negata dalla globalizzazione della finanza. Di fronte a uno Stato-nazione, la finanza globalizzata ha indebolito tale Stato a sufficienza da impedirne l’intervento per superare la carenza della domanda aggregata. Ma, l’unico Stato che sembrava avere ancora la capacità di intervenire erano gli USA perché la sua valuta è considerata anche dalla finanza globalizzata “buona come l’oro” e quindi il suo intervento non avrebbe innescato alcun serio esodo della finanza. Ma ora, a quanto pare, anche quella prospettiva è svanita.

Inevitabilmente, si fanno confronti tra l’approccio di Volcker all’inflazione e quello dell’attuale presidente della FED, Jerome Powell, appoggiato dalla Casa Bianca per un secondo mandato.

I tassi di interesse ufficiali negli Stati Uniti sono stati fissati vicino allo zero dall’inizio della pandemia, quasi due anni fa, anche se è probabile che l’economia sia cresciuta di circa il 6% nel 2021 e la disoccupazione è in calo. D’altra parte, l’inflazione attuale negli Stati Uniti e in molte altre economie avanzate differisce in modo significativo dall’inflazione della fine degli anni ’70. Non è né cronica (finora), né guidata dalla spirale prezzi-salari e dalle indicizzazioni, considerando che i salari continuano a ridursi da anni in termini reali. Tra l’altro, l’ILO sostiene che le prospettive per l’occupazione a livello globale non sono buone a causa delle nuove varianti del virus CoVid-19, per cui la disoccupazione rimarrebbe al di sopra dei livelli del 2019 almeno fino al 2023 (l’ILO stima che ci sarebbero l’equivalente di 52 milioni di posti di lavoro in meno a livello globale nel 2022 rispetto all’ultimo trimestre del 2019), mentre i danni causati dalla pandemia nel mercato del lavoro richiederanno anni per essere riparati.

Powell è un repubblicano, ma molti nel suo stesso partito pensano che la fine dello stimolo fornito dal governo e dalla FED (con l’acquisto di oltre 4 trilioni di dollari in titoli del Tesoro USA e altri titoli, portando gli assets ad 8,8 trilioni) dall’inizio del 2020 sia attesa da tempo. È giunto il momento, secondo i critici e i falchi, che inizi ad emulare Volcker poiché altrimenti l’inflazione statunitense continuerà a salire a spirale.

La FED ha previsto tre rialzi dei tassi nel 2022, forse a partire da marzo, e ha accelerato il tasso al quale taglia la spesa per l’acquisto dei titoli di Stato. Powell ha detto alla Commissione del Senato per le banche che ora è l’inflazione l’obiettivo principale della FED – non la promozione di una maggiore crescita dell’occupazione, nonostante che negli USA sono ancora quattro milioni le persone che rimangono disoccupate rispetto a prima della pandemia, o proteggersi da una recessione da coronavirus -, dato che gli aumenti dei prezzi sono ad un massimo di 40 anni e ben oltre l’obiettivo del 2% della FED. Ha detto che pensa che l’inflazione diminuirà entro la metà di quest’anno, ma che la FED è pronta a fare ciò che è necessario per evitare che gli alti tassi di aumento dei prezzi diventino “radicati“. A dicembre, la FED ha deciso di terminare i suoi acquisti di titoli del Tesoro e titoli garantiti da ipoteca entro marzo, e ha segnalato che potrebbe aumentare i tassi di interesse almeno tre volte quest’anno.

Questo anche se prevale una grande incertezza su quello che potrà succedere nel corso del 2022 perché mentre la variante Omicron del CoVid-19 contribuirà a sopprimere la domanda e ad aumentare i colli di bottiglia dell’offerta (con il caos delle supply chains globali e della logistica, una vera “trombosi del capitalismo delle reti”) e quindi farà aumentare il prezzo delle merci, il costo del petrolio greggio, fortemente aumentato nel 2021, è già sceso nelle ultime settimane, il che significa che gli americani hanno rincominciato a pagare meno per fare il pieno di carburante alle pompe. Allo stato attuale delle cose, secondo molti osservatori sembra che il tasso principale dell’inflazione statunitense possa aver raggiunto il picco, ma è probabile che il tasso principale, che esclude energia e cibo, rimanga ancora alto nel corso del 2022.

Anche così, Powell non sta minimamente considerando di diventare il nuovo Volcker, perché sa bene che non potrebbe farlo senza innescare una gigantesca crisi finanziaria, non solo negli Stati Uniti, ma anche nel resto delle economie dei Paesi ricchi e in quelle emergenti e povere.

Volcker era un grande uomo in ogni senso della parola (era alto 2,04 metri), ma il suo approccio tenace nell’affrontare l’inflazione ha avuto diversi effetti collaterali, di cui quattro meritano di essere menzionati, anche per sottolineare i rischi che corre l’economia globale se Powell decide di procedere in modo rapido e deciso.

Tanto per cominciare ridurre l’inflazione così rapidamente ha avuto un impatto devastante sul settore manifatturiero americano. Molte comunità nel Mid-West erano company-towns e sono state azzerate dal punto di vista economico-produttivo quando le attività industriali sono state chiuse o trasferite all’estero in Paesi con costi di manodopera più bassi (dal Messico alla Cina). Solo attraverso un gigantesco programma di armamenti orchestrato dall’amministrazione Reagan è stato possibile uscire dalla depressione, mentre tra il 1976 e il 1986 il disavanzo commerciale americano è aumentato di quasi 23 volte, una tendenza alla quale ha contribuito in gran parte un dollaro estremamente forte che ha accompagnato alti tassi di interesse (fino al 19-21%). Dalla deindustrializzazione della “rust belt” sono scaturiti una miriade di gravi problemi – economici, sociali, fisici e mentali. Anche problemi politici, perché senza la distruzione del tessuto industriale in Ohio e Pennsylvania Donald Trump non sarebbe mai arrivato alla Casa Bianca nel 2016.

Alcune delle grandi e piccole imprese americane sopravvissute al monetarismo di Volcker trasferirono le loro operazioni a sud in Messico, ma molte altre esternalizzarono le produzioni in Cina, dove il programma di riforma economica di Deng Xiaoping stava appena iniziando. Si potrebbe sostenere che era solo questione di tempo prima che la Cina – con le sue zone economiche speciali e le sue grandi aziende statali e private – emergesse come superpotenza manifatturiera, ma non c’è dubbio che il Volckerismo abbia dato una mano a Pechino. Pochi nell’establishment politico americano avrebbero immaginato quattro decenni fa che la Cina sarebbe passata così rapidamente dalla produzione a basso costo (la “fabbrica del mondo”) alla posizione attuale in cui è il rivale degli Stati Uniti nei settori hi-tech come l’intelligenza artificiale.

Oggi, nessuno considera la Cina un Paese arretrato, mentre sta prevalendo la prospettiva, definita durante gli anni dell’amministrazione Trump, che l’ascesa della Cina rappresenta la maggiore minaccia economica per l’egemonia statunitense. Una prospettiva che sta causando crescenti tensioni geopolitiche, soprattutto nell’area Indo-Pacifica5. La pandemia ha avuto origine in Cina, ma quando quel Paese supererà gli Stati Uniti come grande potenza economica globale, il mondo cadrà in una “trappola di Tucidide” e tenderà inesorabilmente alla guerra? Si tratta di un pericolo reale perché non è da escludere che, per perpetuare la propria egemonia e riconquistare la coesione interna e la posizione dominante nel “blocco occidentale”, le classi dirigenti americane decidano di scatenare una guerra contro quello che già oggi considerano non solo un “competitore strategico”, ma un avversario i cui interessi sono completamente in disaccordo con quelli degli Stati Uniti e le cui ambizioni a lungo termine possono essere raggiunte solo a spese della prosperità americana.

Il terzo effetto collaterale della repressione dell’inflazione statunitense nei primi anni ’80 è stata la crisi del debito latinoamericano. I Paesi che si erano pesantemente indebitati in dollari nella seconda metà degli anni ’70 con le banche statunitensi (impegnate nel riciclaggio dei petrodollari dei Paesi arabi) hanno scoperto che i prestiti non erano rimborsabili quando i tassi di interesse americani sono aumentati vertiginosamente e la recessione globale che ne è scaturita ha soffocato le loro esportazioni.

Molti Paesi emergenti e poveri si trovano oggi in una posizione analoga: hanno preso in prestito miliardi di dollari ai bassi tassi di interesse che hanno prevalso dopo la crisi finanziaria globale del 2008-2009 (grazie alle politiche di quantitative easing delle banche centrali americana ed europea) e hanno utilizzato i futuri proventi delle esportazioni come garanzia. Il Fondo Monetario Internazionale afferma che almeno 40 dei paesi a reddito più basso del mondo sono in difficoltà nel servizio del proprio debito, quindi un aumento degli interessi simile a quello di Volcker sarebbe rovinoso per loro. Per questo il Fmi consiglia di mantenere i nervi saldi e di essere pazienti. La Banca Mondiale ritiene sostiene che gran parte dell’economia globale sia destinata ad avere seri problemi dal momento che molti Paesi stanno lottando per far fronte alla triplice minaccia di Covid-19 (nei Paesi più poveri del mondo i tassi di vaccinazione sono ancora inferiori al 10%), inflazione, soprattutto per quanto riguarda il cibo6 e tassi di interesse più elevati. Nelle sue previsioni semestrali, la Banca ha affermato di aspettarsi un “pronunciato rallentamento” della crescita nei prossimi due anni, con le parti più povere del mondo particolarmente colpite. David Malpass, presidente della Banca Mondiale, ha chiesto un’azione per ridurre i debiti dei Paesi poveri e si è detto “molto preoccupato” per le cicatrici permanenti allo sviluppo economico causate dalla pandemia, prevedendo un rallentamento della crescita globale dal 5,5% nel 2021 al 4,1% quest’anno e al 3,2% nel 2023.

Nei Paesi emergenti e in quelli più poveri, l’inflazione ha raggiunto il tasso più alto dal 2011 e molti governi stanno ritirando gli interventi di sostegno per contenere le pressioni inflazionistiche, ben prima che la ripresa economica sia completa. I paesi in difficoltà di indebitamento includono la Tunisia e il Libano, che hanno visto sconvolgimenti politici, così come il Ghana e lo Zambia che è stato il primo Paese africano a fare default sul debito nel 2020 durante la pandemia e ora deve destinare il 44% delle sue entrate annuali del governo ai creditori, mentre il Ghana spende circa il 37% del suo bilancio nazionale per il pagamento degli interessi sul debito. Nel 2019, il costo del servizio del debito estero in 64 paesi ha superato quello speso per l’assistenza sanitaria. Il Cameroun ha speso il 23,8% del suo budget per il pagamento del debito, rispetto al 3,9% delle entrate del Paese speso per la salute.

Inoltre, occorre ricordare che nel 2021, ondate di caldo, incendi, siccità, uragani, inondazioni, tifoni e altri disastri hanno messo a nudo le implicazioni del cambiamento climatico nel mondo reale, soprattutto nei Paesi poveri. Il vertice sul clima della Cop26 a Glasgow ha offerto per lo più discorsi retorici, lasciando il mondo sulla buona strada per subire un devastante riscaldamento di 3°C in questo secolo. La siccità sta già determinando un pericoloso aumento dei prezzi dei generi alimentari e gli effetti del cambiamento climatico continueranno ad aggravarsi. A peggiorare le cose, la spinta aggressiva alla decarbonizzazione dell’economia sta portando a investimenti insufficienti nella capacità di estrazione dei combustibili fossili prima che vi sia una fornitura sufficiente di energia rinnovabile. Questa dinamica genererà prezzi dell’energia molto più elevati nel tempo. Inoltre, i flussi di rifugiati climatici verso gli Stati Uniti, l’Europa e altre economie avanzate aumenteranno proprio mentre quei Paesi stanno chiudendo i loro confini.

Infine, ma non meno importante, l’era Volcker ha alterato gli equilibri dell’economia statunitense, rendendo l’industria più debole e la finanza più forte (sulle caratteristiche del capitalismo americano vedi qui e qui). Dalla fine degli anni ’70 e dall’inizio degli anni ’80 in poi, la forza trainante dell’economia americana non è stata il suo settore manifatturiero ancora significativo, ma le sue banche e i suoi operatori finanziari (fondi pensione, fondi comuni di investimento, fondi negoziati in borsa, hedge funds, private equity funds, etc.).

Bassi tassi di interesse, quantitative easing, bolle speculative e inflazione

Man mano che l’economia è diventata sempre più finanziarizzata, Wall Street ha raggiunto una serie di nuovi record e in gran parte ha smesso di essere un canale per fornire capitali alle imprese in crescita, ma invece è arrivata a servire solo se stessa7. Keynes una volta disse che era improbabile che il lavoro venisse fatto bene se la speculazione fosse stata l’obiettivo principale dei mercati finanziari, e le sue parole non sono mai state più vere di oggi.

Un recente rapporto Oxfam (Inequality Kills) sostiene che i 10 uomini più ricchi del mondo hanno visto la loro ricchezza globale raddoppiare a 1,5 trilioni di dollari dall’inizio della pandemia globale a seguito di un aumento dei prezzi delle azioni e degli immobili che ha ampliato il divario tra ricchi e poveri. Insieme possiedono più ricchezza dei 3,1 miliardi di persone più povere, considerando che i dati della Banca Mondiale mostrano che 163 milioni di persone in più sono state spinte al di sotto della soglia di povertà mentre i super ricchi hanno beneficiato dello stimolo fornito dai governi in tutto il mondo per mitigare l’impatto del virus. Oxfam prevede che entro il 2030 3,3 miliardi di persone vivranno con meno di 5,50 dollari al giorno8.

Per oltre un decennio bassi tassi di interesse e “politiche non convenzionali” hanno promosso l’effervescenza dei mercati azionari che avrebbe dovuto avere un effetto espansivo per le economie reali, facendo aumentare la domanda aggregata attraverso maggiori spese da parte di coloro che si sentivano più ricchi a causa delle “bolle” finanziarie. Ma, i ricchi risparmiano una percentuale più alta dei loro redditi rispetto ai poveri (anche se il 10% più ricco degli americani è responsabile della metà dei consumi nazionali, secondo la Moody’s Analytics), per cui stagnazione salariale e disuguaglianze crescenti hanno creato una contraddizione strutturale. Più disuguale è la società, tanto maggiore è l’investimento necessario per tenere in movimento la macchina economica, mentre tanto minori sono i redditi disponibili per acquistare la maggiore produzione derivante dall’investimento di capitale. Quindi, se non si interviene per ridurre le disuguaglianze e la stagnazione salariale, il consumo dipende sempre più solo dal debito privato, mentre il risparmio dei ricchi viene sempre più impiegato nella speculazione finanziaria per generare rendita piuttosto che espansione della produzione di servizi e beni di consumo e durevoli.

Quando il modello neoliberista fu inizialmente implementato nei primi anni ‘80, il processo di generazione di reddito e domanda aggregata era ancora robusto e le disuguaglianze di reddito erano molto più basse. Inoltre, l’economia ha avuto spazio per l’inflazione dei prezzi degli assets e per la crescita del credito poiché i prezzi degli assets e l’indebitamento erano entrambi relativamente bassi all’inizio del periodo. Quelle condizioni iniziali favorevoli hanno consentito all’economia di potersi espandere tra il 1980 e il 2007 – gli anni della cosiddetta “Grande Moderazione” – nonostante gli effetti stagnanti della politica neoliberista. Tuttavia, dopo la crisi del 2007-2008 tali condizioni si sono esaurite in modo tale che l’inflazione del debito e dei prezzi degli assets non è riuscita più colmare adeguatamente il divario strutturale della domanda.

Per questo si è discusso a lungo del fenomeno della “stagnazione secolare“, di cui aveva parlato Lawrence Summers nel 2013. Lo “scenario giapponese” caratterizzato da una domanda debole, indicata da una combinazione di bassa inflazione, enormi livelli di debiti pubblici e privati, e ultrabassi tassi di interesse reali e nominali, sembra essere divenuto strutturale e quindi è probabile che persista, nonostante l’attuale vampata inflazionistica9. In queste condizioni, lo spazio per una risposta di politica monetaria convenzionale o non convenzionale è apparso fin da subito poter essere assai limitato in presenza della nuova crisi economica globale legata agli effetti del coronavirus CoVid-19.

L’ex governatore della Banca d’Inghilterra, Sir Mervyn King, in una conferenza durante l’incontro annuale del FMI a Washington nell’ottobre 2019, aveva affermato che siamo dentro “l’era della Grande Stagnazione” e che le idee di fondo che hanno portato alla crisi del 2008 non erano state sostanzialmente messe in discussione. “Un’altra crisi economica e finanziaria sarebbe devastante per la legittimità del sistema democratico di mercato“, aveva detto. “Attenendoci alla nuova ortodossia della politica monetaria e fingendo di aver reso sicuro il sistema bancario, stiamo avanzando da sonnambuli verso quella crisi.”

I manuali di economia dicono che i tassi di interesse bassi stimolano gli investimenti privati perché abbassano il costo del prestito. Questo è certamente il caso, ma un percorso ancora più forte attraverso il quale hanno operato i tassi di interesse bassi negli ultimi anni è stato quello di stimolare le bolle dei prezzi degli assets. Quando la “bolla delle dot-com” negli Stati Uniti è crollata all’inizio di questo secolo, il presidente della FED Alan Greenspan ha abbassato i tassi di interesse, il che ha stimolato una nuova bolla, la bolla immobiliare negli USA. Questo, aumentando artificialmente la ricchezza di molti individui, ha dato impulso alla spesa per consumi, ma anche agli investimenti in alloggi e altri progetti che hanno inaugurato un nuovo boom.

La politica dei tassi di interesse bassi della FED e delle altre banche centrali, in breve, ha operato non solo per il suo effetto diretto di abbassare il costo del denaro, ma anche, in modo significativo, stimolando una bolla speculativa dei prezzi degli assets, in cui il prezzo di un asset aumenta molte volte più del suo “vero valore“, cioè ciò che i suoi guadagni scontati nel corso della sua vita garantirebbero10. Questo accade perché mentre tutti si aspettano che il prezzo dell’asset alla fine crolli, coloro che detengono l’asset credono che aumenterebbe ancora per un po’ di tempo. Sperano di venderlo entro quel tempo e intascare le plusvalenze. E questa domanda alimentata dalla speculazione per l’asset viene aiutata se i tassi di interesse vengono mantenuti bassi.

Ma, i tassi di interesse bassi possono incoraggiare la speculazione non solo nei mercati degli assets, ma anche nei mercati delle materie prime. Ed è proprio quello che è successo soprattutto negli Stati Uniti, perché dopo il crollo della bolla immobiliare gli speculatori sono diventati particolarmente cauti nei confronti della speculazione sul mercato degli assets. La speculazione può sorgere non solo in quei beni che per un motivo o per un altro possono essere temporaneamente scarsi o dove possono esserci strozzature temporanee e i cui prezzi, quindi, dovrebbero aumentare immediatamente; sorgerebbero anche in materie prime dove la domanda è inelastica (cioè non scende troppo quando i prezzi salgono) così che anche se non ci sono strozzature nell’offerta, si possono creare scarsità artificiali per realizzare un profitto. E la domanda diventa particolarmente anelastica quando il credito è facilmente disponibile (perché allora le persone prendono denaro in prestito per mantenere la domanda).

Una volta che si verificano tali aumenti di prezzo, segue la domanda di aumenti salariali, per compensare i lavoratori per le perdite di reddito reale dovute all’aumento dei prezzi. Pertanto, un’intera spirale prezzo-salario può essere avviata anche quando non ci sono grosse strozzature di alcun tipo nell’offerta che minaccino il boom. E una volta iniziata una tale spirale inflazionistica, allora lo stimolo dell’economia deve per forza essere fermato, come sta per accadere negli Stati Uniti adesso.

Il petrolio è un candidato ovvio per un tale aumento artificiale dei prezzi e non sorprende che i prezzi della benzina negli Stati Uniti a novembre 2021 siano stati superiori a quelli di novembre 2020 fino al 58%, che è stato il più alto in qualsiasi mese dal 1980. L’aumento nel 1980 era arrivato quando si era verificato il secondo shock petrolifero; l’attuale aumento del prezzo del petrolio (e del gas) si è tuttavia verificato senza che vi siano stati aumenti di prezzo imposti dai Paesi OPEC e OPEC+. In effetti, l’amministrazione statunitense ha preso in considerazione l’utilizzo delle proprie scorte di petrolio per mantenere bassi i prezzi del petrolio.

La speculazione sulle merci è stata generalmente ignorata nella definizione delle politiche economiche nei Paesi ricchi. È dato per scontato che tassi di interesse bassi stimolerebbero la domanda aggregata provocando bolle dei prezzi degli assets e possibilmente aumentando direttamente gli investimenti, riducendo i costi di finanziamento; il fatto che i tassi di interesse bassi potrebbero anche incoraggiare la speculazione sulle merci in modo che il conseguente aumento dei prezzi possa portare a un calo della domanda aggregata invece di aumentarla, è stato appena riconosciuto. Eppure questo sta emergendo come conseguenza di una politica dei tassi di interesse bassi, che renderebbe molto più difficile qualsiasi intervento statale per innalzare il livello della domanda aggregata.

Il capitale finanziario globalizzato si oppone all’intervento fiscale di qualsiasi governo per stimolare la domanda, sebbene sia più tollerante all’intervento attraverso la politica monetaria, poiché ciò funziona attraverso le decisioni dei detentori di capitali e quindi non ha l’effetto di delegittimare il sistema scavalcandoli. Ma, se anche la politica monetaria diventa infruttuosa negli Stati Uniti, dal momento che dà luogo all’inflazione molto prima che il sistema abbia incontrato grossi colli di bottiglia dal lato dell’offerta, allora il sistema rimane senza strumenti per rilanciare l’attività e superare la disoccupazione di massa.

La persistenza della disoccupazione mantiene il profilo dei salari reali nell’economia mondiale pressoché stagnante, anche se il profilo della produttività del lavoro cresce a livello internazionale, aumentando la quota del surplus economico nella produzione mondiale e spingendo così l’economia mondiale in una crisi di sovrapproduzione ancora più profonda. Se allo stesso tempo non sono disponibili strumenti per innalzare il livello della domanda aggregata, cioè per contrastare la crisi, il capitalismo mondiale è condannato a uno stato di perenne disoccupazione di massa, che può solo minare la sua stabilità politica.

La finanziarizzazione è andata così lontano negli Stati Uniti che la FED ora non può intraprendere il tipo di azione dispiegata da Volcker 40 anni fa perché porterebbe a un crollo forse peggiore di quello del 1929. Il 10 gennaio, Wall Street ha mandato un primo avviso, i mercati finanziari globali sono crollati a causa delle crescenti preoccupazioni degli investitori sul potenziale aumento dei tassi di interesse da parte della FED in risposta alle crescenti pressioni inflazionistiche11.

Powell è quindi intrappolato. Deve rispondere lentamente e con attenzione o rischiare una vera e propria gigantesca svendita con shock nei mercati obbligazionari, creditizi e azionari. Con un accumulo così massiccio di debito privato e pubblico, i mercati potrebbero non essere in grado di digerire costi di finanziamento più elevati12. In caso di panico, la FED e le altre banche centrali si troverebbero nella trappola del debito e probabilmente invertirebbero la rotta. Ciò renderebbe probabile uno spostamento al rialzo delle aspettative di inflazione, con l’inflazione che diventa endemica. In questi giorni, è Wall Street che è al comando, non la FED. E anche per questo Volcker è da biasimare.

Wall Street prevede che la FED comincerà a spingere verso l’alto i costi dei prestiti a marzo, con quattro aumenti di un quarto di punto quest’anno e altri quattro nel 2023, portandoli a poco più del 2%. Questo è molto lontano dal trattamento d’urto somministrato da Volcker, “è una lunga strada” per riportare la politica monetaria alla normalità, ma sarà comunque sufficiente per rallentare la crescita dell’economia statunitense e rendere la vita più difficile ai Democratici nelle elezioni di medio termine di novembre, con il rischio di perdere le maggioranze al Senato e alla Camera dei Rappresentanti, rendendo Biden una “anatra zoppa” negli ultimi due anni del suo mandato13.

La pressione aumenterà anche sulla BCE affinché agisca, aumentando l’incertezza sull’attuazione e gli esiti dei piani europei di ripresa. I giorni del denaro ultra-economico sono finiti, almeno per ora. Finché le banche centrali hanno attuato politiche monetarie non convenzionali, creando un’era del denaro magico, la festa speculativa basata sull’indebitamento è andata avanti. Ma, ora le bolle degli assets e del credito potrebbero sgonfiarsi nel 2022 quando inizierà la normalizzazione delle politiche monetarie. Inoltre, l’inflazione, il rallentamento della crescita e i rischi geopolitici e sistemici potrebbero creare le condizioni per una forte correzione del mercato nel 2022, con una maggiore volatilità dei mercati finanziari e pesanti svalutazioni dei valori delle azioni per renderle più vicine al loro “vero valore“, soprattutto per le cosiddette aziende zombie, ossia quelle tante aziende che negli anni del denaro a costo zero si sono pesantemente indebitate in dollari senza una strategia di accumulazione che non fosse quella legata alla mera speculazione finanziaria. Molte di queste zombie companies rischiano di non essere più in grado di rimborsare o rifinanziare i propri debiti (prestiti a leva, obbligazioni, etc.) e questo potrà avere effetti pesanti sui bilanci di molte banche che, con i tassi di interesse vicini allo zero, si sono trovate già in gravi difficoltà, poiché i margini di profitto sono stati compressi.

Molte di queste grandi corporations (una su 10 nei Paesi emergenti e avanzati) hanno finito per trasformarsi in quelle che la Bank of International Settlements (BIS), la banca centrale delle banche centrali globali, considera imprese zombie, decotte o a bassa produttività, ossia in “imprese che non potrebbero sopravvivere senza un flusso di finanziamenti a basso costo“. Il FMI ha segnalato che dal 2008 è quadruplicato, sia negli USA sia nell’Eurozona, lo stock dei bond con rating BBB, ovvero ancora considerati a livello investment grade, investimenti sicuri, ma di livello basso, mentre sono raddoppiati gli speculative grade, ovvero i junk bond, le obbligazioni spazzatura. Prima della pandemia da CoVid, secondo il FMI, erano da considerarsi a rischio almeno circa 19 mila miliardi di dollari di debito corporate: non sarebbe possibile fare fronte a quasi il 40% del debito societario in otto Paesi principali – Stati Uniti, Cina, Giappone, Germania, Gran Bretagna, Francia, Italia e Spagna – qualora ci fosse una flessione grave quanto quella del 2008. Una ricerca di Bloomberg del 2018 aveva identificato 69 aziende in tutto il mondo che avevano aumentato i loro livelli di debito del 50% o più tra il 2013 e il 2018, avevano almeno 5 miliardi di dollari di debiti e insieme, erano sedute su quasi 1,4 trilioni di obbligazioni e prestiti, la maggior parte dei quali classificati come junk (spazzatura) e in scadenza entro i prossimi 7 anni.

Molto del debito di queste imprese è formato da leveraged loans (“finanziamenti a leva”), crediti super-speculativi erogati da investitori di vario tipo. Finanziamenti che poi vengono rivenduti sul mercato come titoli negoziabili e che spesso vengono “impacchettati”, con ulteriore leva sopra, in cartolarizzazioni chiamate Clo (Collaterized loans obligations). Il mercato dei leveraged loans è raddoppiato negli USA dal 2010, arrivando a 1.300 miliardi di dollari nel 2019, ai quali andavano sommati 267 miliardi di euro dell’Europa. La metà di questi – circa 850 miliardi di dollari – è “impacchettata” in Clo. In sostanza, basta poco, un ulteriore rallentamento della crescita o un aumento dei tassi, per portare molte imprese al default.

A questi elementi di debolezza si aggiungono il fatto che i debiti per comprare azioni (il cosiddetto “margin debt” che funziona come un moltiplicatore dei rialzi quando sul mercato c’è fiducia e dei ribassi quando la fiducia svanisce) sono sui massimi, le valutazioni dei titoli hi-tech sono molto elevate e le famiglie americane non hanno avuto una esposizione così elevata sul mercato azionario.

Se cambia il corso delle politiche monetarie alcuni nodi verranno al pettine e, da questo punto di vista, il 2022 sarà un anno indubbiamente interessante.

Alessandro Scasselati

  1. Negli ultimi mesi, alcune banche centrali – Regno Unito, Norvegia, Nuova Zelanda – hanno già iniziato ad aumentare il costo del denaro.[]
  2. Oltre alla nomina di Paul Volcker alla FED, la presidenza Carter ha avviato la liberalizzazione dell’economia e la deregolamentazione dei prezzi del petrolio e del gas, dei viaggi aerei e degli autotrasporti, questo anche se Carter era ancora persuaso che un ruolo attivo dello Stato avrebbe temperato le storture del mercato, soprattutto nei campi dell’assistenza sanitaria, della tutela del territorio e delle energie rinnovabili.[]
  3. La crisi finanziaria del 2008 ha svelato che “il re è nudo” e ha portato il sistema di regolazione neoliberista e il suo regime di accumulazione basato su bassi salari, compressione dei diritti dei lavoratori, prezzi contenuti e ultra-concorrenziali, massimizzazione del profitto per gli azionisti e soprattutto sull’attività finanziaria, ad un improvviso collasso, facendo esplodere una crisi globale che ha causato un crollo della domanda aggregata e una stagnazione di lungo periodo. Come ha notato Luciano Gallino, ha reso evidente “una grave contraddizione nel sistema capitalistico, perché esso per sopravvivere avrebbe bisogno di consumatori/lavoratori non poveri, bensì relativamente benestanti.”[]
  4. A partire dagli anni ’20-’30, John Maynard Keynes aveva prescritto l’intervento statale e raccomandato una socializzazione complessiva degli investimenti. Riteneva che le fluttuazioni della domanda aggregata dovessero essere gestite, poiché determinano lo stato generale dell’economia, compresi la produzione aggregata e, quindi, l’occupazione. Nel volume The general theory of employment, interest and money del 1936, aveva sostenuto che la crescita dell’occupazione e la prosperità domestica sono i presupposti per la stabilità capitalista, mentre l’instabilità economica deriva dall’inattendibilità della spesa per investimenti privati. Il rinvio della spesa o degli investimenti rappresenta una perdita immediata di entrate e guadagni per le industrie che producono beni di consumo o strumentali. Se si ferma un elemento dell’economia, tutto crolla. Ciò significava che, almeno durante le fasi di rallentamento e recessione del ciclo economico, lo Stato non dovesse solo incentivare e controllare gli investimenti privati, ma anche investire in opere pubbliche e grandi progetti di trasformazione dell’economia e della società. Inoltre, lo Stato doveva facilitare il processo di accumulazione attraverso politiche monetarie e fiscali attive. Keynes aveva evidenziato la necessità di un intervento statale nelle dinamiche economiche per garantire la stabilità del processo di accumulazione, ma l’approccio keynesiano non mirava a limitare o domare il capitalismo, quanto a renderlo più solido, efficace e stabile, aumentando la redditività delle imprese attraverso le iniziative pubbliche.[]
  5. Nel 2022, sul fronte geopolitico, tre sono le minacce da tenere d’occhio. Innanzitutto, la nuova “Guerra Fredda” USA-Cina come alternativa alla ricerca di una convivenza pacifica e risultati vantaggiosi per tutto il pianeta, a cominciare dalla lotta ai cambiamenti climatici. Secondo, la minaccia della Russia di invadere l’Ucraina, a meno che non ci sia un accordo su un nuovo regime di sicurezza regionale che possa prevenire l’escalation e considerando anche che alcune sanzioni occidentali, come il blocco del gasdotto Nord Stream 2, potrebbero esacerbare la carenza di energia dell’Europa. Terzo, l’Iran sta per diventare uno Stato nucleare e, di conseguenza, Israele sta apertamente prendendo in considerazione attacchi contro gli impianti nucleari iraniani. Se ciò accadesse, le conseguenze stagflazionistiche sarebbero probabilmente peggiori degli shock geopolitici legati al petrolio del 1973 e del 1979.[]
  6. Alla fine del 2021, l’indice dei prezzi alimentari della FAO era al livello più alto in un decennio e vicino al picco precedente di giugno 2011, quando molti avvertivano di una crisi alimentare globale causata dalla speculazione sulle materie prime alimentari. Inoltre, l’aumento dello scorso anno è stato improvviso: dal 2015 al 2020 i prezzi dei generi alimentari erano stati relativamente bassi e stabili, ma nel 2021 sono aumentati in media del 28%. Gran parte di questa impennata è stata determinata dai cereali, con un aumento dei prezzi del mais e del grano rispettivamente del 44% e del 31%. Ma anche i prezzi di altri prodotti alimentari sono aumentati: i prezzi dell’olio vegetale hanno raggiunto livelli record durante l’anno, lo zucchero è aumentato del 38% e gli aumenti dei prezzi di carne e prodotti lattiero-caseari, sebbene inferiori, sono rimasti a doppia cifra. L’inflazione dei prezzi alimentari attualmente supera l’aumento dell’indice generale dei prezzi ed è ancora più allarmante dato il significativo calo dei salari dei lavoratori durante la pandemia di CoVid-19, soprattutto nei Paesi a basso e medio reddito. Questa combinazione letale di cibo più costoso e redditi più bassi sta alimentando aumenti catastrofici della fame e della malnutrizione.[]
  7. Uno dei grandi operatori di Wall Street, la Goldman Sachs ha pagato ai suoi 43.900 dipendenti più di 17 miliardi di dollari nel 2021, un aumento del 33% rispetto al 2020 poiché la banca d’investimento ha più che raddoppiato i profitti ante imposte – 27 miliardi di dollari – grazie a frenetici affari conclusi su entrambi i lati dell’Atlantico. L’aumento della retribuzione e dei bonus si aggira in media a circa  403 mila dollari per ogni dipendente, rispetto a circa 328 mila del 2020. È il massimo che la banca ha pagato in salari e bonus dal 2007 al culmine del boom bancario che ha portato alla crisi finanziaria.[]
  8. Oxfam sostiene che una tassa una tantum del 99% sui guadagni di ricchezza CoVid-19 dei 10 uomini più ricchi consentirebbe da sola di raccogliere 812 miliardi di dollari che potrebbero pagare abbastanza dosi per vaccinare il mondo intero e fornire risorse anche per affrontare il cambiamento climatico, fornire assistenza sanitaria universale e protezione sociale e affrontare la questione della violenza di genere in 80 Paesi. Anche dopo un prelievo del 99%, i primi 10 miliardari starebbero meglio di 8 miliardi di dollari rispetto a prima della pandemia. Anche il FMI ha sostenuto che per ridurre la disuguaglianza all’interno dei Paesi e tra Paesi serve una tassa sui ricchi. Noi abbiamo affrontato la questione della tassazione dei ricchi e delle cortporations qui e qui.[]
  9. È bene ricordare che ad inizio estate 2019 Mario Draghi, allora ancora presidente della BCE, aveva affermato che “Ci muoviamo a piccoli passi in una stanza buia!”, annunciando che, a seguito della “aumentata e prolungata incertezza” (attribuita a protezionismo e instabilità geopolitica), la BCE aveva deciso di lasciare i tassi a zero ancora fino alla metà del 2020 e di lanciare un nuovo maxi-prestito alle banche, il TLTRO III, ad un tasso d’interesse ribassato che poteva arrivare fino a -0,30%. La BCE intendeva, inoltre, continuare a reinvestire integralmente il capitale rimborsato sui titoli in scadenza nel quadro del programma di acquisto di attività per un prolungato periodo di tempo successivamente al primo rialzo dei tassi “e in ogni caso finché sarà necessario per mantenere condizioni di liquidità favorevoli e un ampio grado di accomodamento monetario.” Draghi non aveva escluso che sarebbero stati necessari ulteriori tagli ai tassi di interesse, misure di mitigazione per contenere eventuali effetti collaterali e uno “stimolo addizionale” da realizzare con una ripresa del programma di acquisto di assets. Il 12 settembre 2019, la BCE ha deciso di impugnare nuovamente il bazooka e far ripartire un pacchetto di stimolo monetario comprensivo di un’abbassamento del tasso di interesse per le banche commerciali, riducendolo a -0,50%, per spingerle a fare prestiti in direzione dell’economia reale (a imprese e famiglie), e di un ritorno all’acquisto di obbligazioni sovrane e private con un quantitative easing 2 da 20 miliardi di euro al mese da novembre “finché sarà necessario”. Denaro fresco che ha contribuito a “guadagnare tempo” per dirla con Wolfgang Streeck (2013) e ad alleggerire il peso dei bond indigesti che le banche e altre istituzioni finanziarie avevano e hanno ancora in pancia. Una garanzia anche per i governi ed imprese private, che hanno potuto beneficiare di costi più bassi per il servizio del proprio debito. Soprattutto, Draghi ha riaperto i rubinetti dell’acqua, tornando ad inondare i Paesi dell’Eurozona con un fiume di denaro, nel disperato tentativo di indurre il cavallo (l’economia reale delle imprese e famiglie) a bere (investire e consumare) e rimettersi in movimento (far crescere una domanda aggregata troppo debole). D’altra parte, da settembre 2019 anche la FED è tornata direttamente sul mercato con le aste repo e term per placare le tensioni sul mercato interbancario overnight. Sempre più liquidità deve essere iniettata nel sistema per facilitare il ri-finanziamento del debito mondiale. Tutto questo è successo prima dell’arrivo della pandemia da CoVid-19 e dei suoi sconvolgimenti economici e sociali che hanno portato governi e banche centrali ad iniettare trilioni di euro e dollari nel sistema economico globale nel tentativo di evitarne il collasso.[]
  10. L’earning yield a Wall Street è sui minimi dalla fine degli anni ‘40. L’earning yield si ricava dividendo gli utili con il prezzo delle azioni: di fatto questo indicatore mostra la redditività delle azioni stesse. Il fatto che sia sui minimi dalla fine degli anni ’40 significa che i prezzi sono saliti più degli utili delle aziende. Anche se i profitti sono cresciuti, i prezzi delle azioni, sostenuti dalla liquidità delle banche centrali, sono cresciuti molto più velocemente.[]
  11. La reazione di Wall Street è arrivata dopo che nella settimana precedente erano trapelati i verbali dell’ultimo incontro della FED di dicembre in cui i membri del consiglio hanno valutato se fosse necessario aumentare i tassi di interesse “prima o a un ritmo più veloce“.[]
  12. Le equity pubbliche e private sono entrambe costose (con un rapporto prezzo/utili superiore alla media); i prezzi degli immobili (sia per l’acquisto delle abitazioni sia per gli affitti) sono alti negli Stati Uniti e in molte altre economie ricche; e c’è ancora una corsa alle azioni meme, ai crypto assets e alle SPAC (società di acquisizione per scopi speciali). I rendimenti dei titoli di Stato restano estremamente bassi e gli spread creditizi – sia high yield che high grade – sono stati compressi, in parte a causa del sostegno diretto e indiretto delle banche centrali.[]
  13. Le disfunzioni politiche stanno aumentando sia nei Paesi ricchi sia in quelli emergenti e poveri. Le elezioni di medio termine statunitensi potrebbero offrire un’anteprima della vera e propria crisi costituzionale – se non della vera e propria violenza politica – che potrebbe seguire il voto presidenziale nel 2024. Gli Stati Uniti stanno vivendo livelli quasi senza precedenti di polarizzazione partigiana, blocco e radicalizzazione, tutti elementi che rappresentano un grave rischio sistemico. I partiti populisti (sia di estrema destra che di estrema sinistra) si stanno rafforzando in tutto il mondo, anche in regioni come l’America Latina, dove il populismo ha una storia disastrosa. Argentina e Venezuela sono sulla strada della rovina finanziaria. La normalizzazione dei tassi di interesse da parte della FED e di altre banche centrali potrebbe causare shock finanziari in questi e altri fragili mercati emergenti come Turchia, Libano, Sri Lanka e Brasile, per non parlare dei numerosi Paesi poveri con indici di indebitamento già insostenibili che potrebbero provocare un nuovo “tsunami del debito”.[]
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