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L’esistenza minore dei palestinesi

di Alì
Rashid

Inutile cercare buone notizie provenienti dalla Palestina. Ogni giorno si allunga l’elenco dei soprusi e ogni giorno i soprusi acquistano maggiore legittimità negli occhi di chi li fa. Vano il tentativo di raccontare settant’anni di inesorabile annientamento di un popolo, la sua terra e la sua storia di fronte alla prepotenza e al trionfo dei coloni conquistatori.

Di fronte all’eloquenza delle immagini che filtrano, mi sono chiesto sempre come sia stato e sia possibile il capovolgimento della verità tanto da trasformare in aggressori gli aggrediti o metterli sullo stesso piano.

Forse il motivo non va ricercato in ciò che accade anche se parzialmente è sotto i nostri occhi, ma nel velo che poniamo o viene posto sulla proiezione della nostra coscienza costruita con l’incorruttibile sostanza della dignità umana. Il ruolo delle grande potenze, l’efficienza di una poderosa industria dei sensi condiziona i nostri schemi interpretativi e solo col tempo e a cose fatte ci interrogheremo su come sia stato possibile tutto questo. Gli esempi non mancano.

Le immagini che arrivano dalla Palestina mettono davanti gli occhi dei vedenti il contrasto radicale tra due realtà, due storie, nonché condizioni, angosce e prospettive.

Sulla parte preponderante dello schermo appare uno Stato trionfante e sicuro di sé, che si è fatto forza in tutti questi anni dell’immagine della vittima per eccellenza della persecuzione e della vessazione di un tragico passato. Arrogante e soddisfatto delle sue conquiste, incurante e impermeabile alla sofferenza che ha inflitto e infligge, circondato e sostenuto dal peggio e dal lato buio di ciò che la cultura occidentale ha prodotto, animato da un delirio di superiorità razziale e di dominio che nasconde a malapena l’angoscia latente che il meccanismo di potere si possa inceppare…

Dopo settantatré anni lo Stato di Israele ha perso molto delle sua pseudo vivacità culturale a favore di un’omogeneità selettiva nella quale prevalgono le tendenze religiose e nazionaliste contro ogni altro da sé (palestinesi in modo particolare), che pure non riesce a nascondere le divisioni interne sulla base delle provenienza etnica o del tipo e grado di religiosità di ogni gruppo. Uno stato etico (l’opposto dello stato di diritto) dove la cittadinanza si misura sull’appartenenza al “popolo scelto” e ad un esercito forte e moderno che devasta, umilia e impone la superiorità della tecnica ad ogni ragionevolezza. Un straripante nichilismo che non risparmia nessuno e mette in imbarazzo anche i suoi più volonterosi sostenitori.

Dall’altra parte, in piccolo angolo dello schermo conquistato ad altissimo prezzo di sangue, dentro il più grande carcere a cielo aperto del mondo, appare una moltitudine di tutte le età senza voce, la sua immagine viene disegnata da una “gioiosa” macchina di guerra ramificata in tutto il mondo. Il tiro al piccione, la precisione degli armi, la distruzioni dei palazzi, il commento diplomatico e misurato accompagnato dall’arcaico e atroce volto di Hamas, nascondono il tragico destino dietro il recinto della prigione che si trasforma giorno dopo giorno in una fossa comune. Le ronde dei coloni che inseguono una popolazione inerme, bruciano le case, tagliano gli ulivi e rubano l’acqua. Un popolo disperso in tutti gli angoli della terra, buona parte della quale vive da lunghissimi anni nei campi dei profughi. Tutti sottoposti a svariati regimi di discriminazione.

All’inferno di Gaza sono finiti tutti gli abitanti delle un tempo floride città della costa meridionale della Palestina, espulsi dopo la caduta della città di Lud e il massacro di Ramla nel 1948 per mano delle bande armate sioniste nell’operazione militare “le-taher”, ovvero “pulire”; di Ascalan, porto antico sul Mediterraneo, nodo importante dei traffici marittimi in tutte le epoche. Da lì insieme al porto di Tiro e Akka sono partiti i primi fenici per colonizzare le sponde occidentale del Mediterraneo, lì sono arrivati i popoli del mare per invadere l’Egitto in concomitanza della XVII dinastia dando il nome di Palestina alla parte meridionale della terra di Canan. A due passi da dove si insediò Abramo e sua moglie ospitati dal Re cananeo di Gerusalemme Melchisedec (Almalek al sadek) raffigurato nei mosaici romano-bizantini della basilica di san Vitale a Ravenna, prima ancora che nascesse la sua stirpe che diede secoli dopo i discendenti e cugini ebrei e musulmani. Lì sbarcarono le truppe più barbare e sanguinarie delle crociate per dare il via al regno di Ascalan che si estendeva fino alla Giordania. A due passi dal confine settentrionale di Gaza giacciono le rovine della città di Magdel, dalla quale proveniva Maria Maddalena. Il suo nome in arabo significa “telaio”. In tutte le epoche ha rappresentato la città leader del tessile insieme a Damasco e Safad in alta Galilea. Persino i disegni del ricamo nelle città dell’altra sponda mediterranea portano ancora l’impronta cananea di Magdal.

Le pianure fertili a nord e est di Gaza erano l’habitat ottimale per la colcoltivazione del sesamo, fonte di ricchezza, benessere e primi processi di trasformazione: il suo olio veniva esportato in tutto la regione. Il pesce sotto sale di Gaza, conservato in botti di legno sotto terra, era considerato molto pregiato e richiesto in tutta le regione. Oggi la flotta è accatastata da anni sulla spiaggia perché i pescherecci non possono andare oltre le 3 miglia in mare profondo.

Gran parte di Gaza fu distrutta durante l’operazione militare “Piombo fuso” del 2008. Le rovine e le macerie sono ancora lì perché Israele non permette il passaggio del materiale edile necessario per la ricostruzione. Per mancanza di carburante, l’unica e vecchia centrale elettrica spesso è fuori uso e la popolazione rimane al buio e si interrompono tutti i servizi.

Israele dal 1967 continua a sottrarre l’acqua dolce dalla falda di Gaza per irrigare le nuove colonie e insediamenti agricoli ai suoi confini, causando l’infiltrazione di acqua salina e privando la popolazione della acqua potabile. Oltre a trasformarla in carcere a cielo aperto, l’emergenza dei rifiuti e delle acque reflue la trasformano anche in una grande discarica.

Degli attuali 1.800.000 abitanti di Gaza, 1.300.000 prevengono da questi territori e città. Accatastati su una striscia di terra lunga 38 km e larga da 7 a12 km. Non possono uscire dalla loro prigione e tutto quello che entra deve essere autorizzato da Israele.

Quando uno di loro si affaccia alla finestra e guarda oltre il recinto, per sfuggire all’opprimente realtà, rivede il racconto mille volte ripetuto di quello che un tempo eravamo, non gli resta che il suo corpo, la carne viva contro un confine inventato, contro lo sbarramento di fuoco dei cecchini, nella speranza che qualcuno possa raccogliere questo grido di dolore contro l’occupazione, l’ingiustizia, il disprezzo di qualsiasi forma di legalità internazionale, la brutalità e la vessazione quotidiana.

Sono questi i motivi della guerra e di quelle che verranno, perché le ragioni del nostro popolo sono irriducibili, non si possono cancellare. E questo malgrado l’opera incessante dei governi israeliani nel cercare di cancellare la questione palestinese e far passare come oggettiva una narrazione di parte che nobilita il sopruso e che agli occhi dei palestinesi non è che la nakba, la catastrofe, riguarda la “grande storia” come la quotidianità del vivere, stravolgendo così la verità.

A distanza di settantatré anni, l’età d’Israele è inferiore all’età di qualsiasi ulivo in Palestina, la realtà incombe innanzitutto dentro Israele stessa, incapace di formare un governo dopo quattro tornate elettorali. Si prospetta un nuovo governo guidato ancora da un esponente dell’estrema destra e del movimento degli irriducibili coloni e favorevole all’annessione dei territori palestinesi, con il sostegno di un arcipelago di forze di destra insieme al centro destra e alla sinistra. Un nichilismo totale che potrebbe coinvolgere anche un pezzo di elettorato palestinese dentro Israele per qualche scambio.

Questa realtà incombe gradualmente anche sull’opinione pubblica che fino ad adesso ha sorretto incondizionatamente le politiche israeliane. Credo che il dibattito dentro lo stesso partito democratico di Joe Biden metta in evidenza questi cambiamenti. La rete di protezioni che ha garantito successo e impunità per lungo tempo si sta sgretolando. Il popolo palestinese è più unito che mai e si rinnova distanziandosi ancora dai gruppi politici e di potere annichilito dalla propria volontà di autoconservazione. Anche l’adesione al BDS (boicottaggio a Israele) del 18% dei giovani di religione ebraica in America dimostra l’inizio del crollo della torre di menzogne.

Intorno alla solare lotta di Shiekh Jarrah a Gerusalemme contro l’espulsione delle famiglie palestinesi, incominciavano ad apparire di nuovi donne e uomini israeliani di tutte l’età per esprimere solidarietà ai palestinesi e sdegno al razzismo strisciante. Emergevano nuovi volti, linguaggi e prospettive.

L’invasione della Moschea di Gerusalemme da parte dei coloni ebrei di estrema destra appoggiati di Netanyahu e parte della sua coalizione di governo, ha voluto ripotate il conflitto e la sua narrazione ai vecchi schemi nella sua speranza di mantenere il potere e sfuggire al carcere per corruzione.

Sono questi i nuovi protagonisti che promettono pace, vita, conciliazione e futuro a tutti, e non saranno certi politicanti cooptati al ribasso e dal degrado della politica e della cultura, lo dico anche come italiano, a determinare il futuro.

Credo infatti che la rivolta dei palestinesi e l’unità dimostrata andrebbe letta in ultimo analisi anche come messa in discussione di Hamas e ANP (Autorità nazionale palestinese) che ha scavalcato le vecchie rappresentazioni politiche, la loro incapacità di un progetto unitario, di immaginare nuovi scenari e perfino di una buona amministrazione di quel poco che è rimasto. Un profilo politico possibile e che non ha nulla a che vedere con la superiorità militare degli israeliani. Al contrario abbiamo assistito ad un processo di selezione al negativo del gruppo dirigente che paradossalmente tende a confermare gli stereotipi che Israele vuole dare dei palestinesi. Che nella rivolta come nelle resistenza quotidiana si dimostrano ben più dignitosi della loro attuale classe dirigente.

Edward Said nel suo racconto “Dopo l’ultimo cielo” di molti anni fa, scrisse: «Dal 1948 abbiamo un’esistenza minore. Molta parte del nostro vissuto non è stata documentata, molti di noi furono uccisi, fummo colpiti da lutti, azzittiti senza lasciare tracce, l’immagine che ci rappresenta ci diminuisce. Un gruppo umano con tutte le contraddizioni, attivo, simpatico, sensibile, coraggioso, vivace e tenace, ma prigioniero della domanda espressa nell’ultima poesia di Mahmoud Darwish nel settembre 1982 dopo l’invasione israeliana del Libano: “Dove andremo, passate le ultime frontiere? Dove voleranno gli uccelli dopo l’ultimo cielo?”». Abbiamo un’unica destinazione: la Palestina. Questa è la questione palestinese!

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