Ad un anno dall’attacco di Hamas e di altre fazioni palestinesi alle postazioni militari e agli insediamenti civili israeliani confinanti con Gaza, il quadro della situazione mediorientale è sempre più cupo. Interrogarsi in questo momento sul futuro della Palestina sembra un esercizio piuttosto futile, dato che anche gli specialisti faticano a prevedere le conseguenze di una possibile ulteriore escalation del conflitto mediorientale, nel caso Israele attaccasse l’Iran. Ciò nonostante chiedersi quali sono le prospettive e come si muovono le forze in campo è necessario se si vuole operare con la volontà di favorire un cambiamento dell’attuale, tragica, realtà.
Il principale protagonista, dal punto di vista militare, sono oggi ovviamente Israele e il suo governo. Ci si chiede se Israele, al momento, stia vincendo o perdendo. È indubbio che sulla sua azione pesino tutte le contraddizioni storiche del sionismo, l’ideologia che si è posta a base della costituzione dello Stato di Israele. Il sionismo storicamente sia costutuito contemporaneamente e contraddittoriamente sia come movimento di liberazione nazionale che come progetto di colonizzazione. Dare vita allo Stato degli ebrei, come nell’800 erano sorti gli stati degli italiani, dei tedeschi, dei polacchi, ecc. sembrava la soluzione ideale per risolvere il problema storico dell’antisemitismo. Il guaio era che questo Stato nazionale, a differenza dei tedeschi, degli italiani, dei polacchi, andava costituito sulla terra di un altro popolo, negando la sua sovranità e la sua stessa identità.
Il sionismo non è mai stata l’ideologia maggioritaria del popolo ebraico. L’antisionismo è stato fondamentalmente una elaborazione critica nata all’interno delle comunità ebraiche insediate nell’Europa centro-orientale di lingua yiddish, ma anche radicato tra le comunità dell’Europa occidentale. Per i sionisti la costituzione di uno Stato degli ebrei avrebbe fatto di questo popolo una realtà equiparabile agli altri e quindi non più minoranza aliena all’interno di altri Stati-nazione. Il sionismo, come tutte le ideologie nazionaliste è stato attraversato da correnti diverse che andavano dall’estrema destra all’estrema sinistra.
Per un lungo periodo è stato dominato dalla componente laburista, la quale si è costruita la narrazione della “terra vuota”, anche se nella realtà ha consapevolmente perseguito sia la pratica della pulizia etnica al momento della fondazione di Israele, sia quella della cancellazione della memoria stessa dell’esistenza dei palestinesi sulle terre nelle quali è stato costituito lo Stato di Israele. La destra sionista, la cui ispirazione ideale erano i movimenti fascisti emersi in Europa tra le due guerre mondiali, ha invece sempre confessato, più o meno apertamente, la realtà della natura coloniale dell’insediamento in Palestina. Era convinta che le comunità arabe non avrebbero mai accettato pacificamente la nascita dello Stato ebraico e pertanto solo la forza poteva essere la sua condizione di esistenza.
Nella realtà i comportamenti concreti dei sionismi di destra e di sinistra non si sono mai discostati molto ma il secondo, in alcuni momenti della sua storia, ha valutato più problematicamente gli effetti della presenza fisica della popolazione palestinese sulla realtà israeliana e ha dovuto accettare delle ipotesi di compromesso. La destra ha invece sempre affermato, senza infingimenti, la natura aggressiva, espansiva e fondamentalmente razzista del progetto sionista. Solo l’uso indiscriminato e brutale della violenza contro tutti i nemici reali o potenziali è la condizione di esistenza dello Stato di Israele. Nel ricorso a questa violenza non può esistere alcun vincolo esterno, che siano le Nazioni Unite viste anch’esse come un nemico da colpire (benché siano all’origine della stessa legittimità dello Stato di Israele) né quel sempre più fantomatico “diritto internazionale” a cui si richiamano, secondo le convenienze, i Paesi occidentali.
Il dato di fatto, ineludibile, è che oggi Israele costituisce la punta più avanzata e aggressiva della crescita a livello globale dell’estrema destra e del neofascismo, inglobando tendenze religiose fondamentaliste sempre più influenti nel governo di Netanyahu. Queste dispongono ormai nei coloni di uno squadrismo armato che costituisce classicamente una delle forme organizzative tipiche del fascismo.
Dal punto di vista militare, Israele sembra essere onnipotente anche se la sua forza strabordante è fortemente condizionata dal sostegno illimitato fornito dagli Stati Uniti. Se questi chiudessero i rubinetti delle loro forniture, il predominio israeliano inizierebbe subito a traballare. Il limite del ricorso indiscriminato all’uso della violenza come strumento di regolazione dei propri rapporti con il resto del mondo è che questa forza deve essere sempre agibile al massimo livello.
Il militarismo israeliano va di pari passo con la crescita esponenziale del razzismo e del fondamentalismo religioso. Una miscela che difficilmente è indirizzabile solo verso l’esterno ma che inevitabilmente agisce anche all’interno della società israeliana. Israele doveva essere lo stato-rifugio per gli ebrei, quello dove potevano vivere finalmente in sicurezza e in questo modo anche fare progressivamente declinare, fino a scomparire, l’antisemitismo. Nei fatti oggi lo Stato ebraico è quello dove muoiono più ebrei per effetto della permanente condizione di violenza esistente ed è anche la principale causa dei rigurgiti di antisemitismo nel mondo.
Al momento è molto difficile pensare che si possa realizzare quella svolta profonda che sarebbe necessaria per trasformare Israele in uno stato che riconosce pari diritti ai propri cittadini a prescindere dall’appartenenza etnica e religiosa, come dovrebbe essere normale in tutti gli Stati che si definiscono democratici. Uno Stato che non occupi illegalmente territori non propri e che non si proponga di perseguire un progetto di sterminio e di pulizia etnica della popolazione palestinese con cui dovrebbe convivere. Anche nei settori più avvertiti del mondo ebraico, nel quale cresce il rifiuto ad essere associati ad Israele e alle sue politiche, emergono dubbi crescenti sulla natura e le finalità del progetto sionista. Un progetto che, come ricordavamo, non è mai stato maggioritario nel mondo ebraico, fino a che i nazisti non hanno messo in opera il loro progetto di sterminio. Anche dopo la tragedia che ha colpito il popolo yiddish, la grande maggioranza degli ebrei in Europa, in Medio Oriente e poi in Unione sovietica avrebbe preferito recarsi altrove piuttosto che in Israele. Solo i pregiudizi antiebraici presenti in diversi paesi occidentali e le manipolazioni opportuniste delle leadership sioniste hanno costretto molti ebrei nel mondo a diventare israeliani.
Se questo è il quadro piuttosto fosco che presenta la realtà politica israeliana, non migliore è quello che emerge dalla realtà palestinese. A un anno di distanza dall’azione dell’ottobre 2023 si possono leggere valutazioni opposte. In alcuni casi fra i simpatizzanti di Hamas si cerca di presentare quell’operazione come un successo e l’inizio di una nuova fase della resistenza palestinese. In pratica il movimento islamista avrebbe ottenuto di fermare l’estensione dei cosiddetti accordi di Abramo che avrebbero messo la parola fine alla ricerca di una soluzione palestinese e riportato la Palestina all’attenzione dell’opinione pubblica globale. L’altro elemento più o meno dichiarato, a giustificazione della natura indiscriminata della violenza esercitata nei confronti dei civili israeliani dell’azione militare del 7 ottobre 2023, consiste nella legittimità di mettere concretamente in discussione la narrazione sionista di Israele come unico luogo sicuro degli ebrei. Un bilancio che contrasta con la condizione drammatica nella quale si trovano i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania.
Il movimento islamista palestinese si è presentato, ormai da alcuni decenni, come una forza in grado di perseguire una strategia migliore di quella di Al Fatah per dare soluzione alla condizione di oppressione nella quale vive il popolo palestinese. Hamas ha unito l’uso politico della componente religiosa e lo sviluppo di una rete di strutture di assistenza sociale, alla critica della corruzione dell’Autorità nazionale palestinese. Si è anche battuto per far fallire gli accordo di Oslo, i cui limiti e difetti sono emersi in misura crescente col passare del tempo, in questo convergendo con la destra israeliana.
L’obbiettivo proposto da Hamas era inizialmente la creazione di uno stato arabo-palestinese, con una forte impronta islamica, su tutto il territorio della Palestina storica. Questa prospettiva è poi stata allontanata nel tempo per accettare una qualche forma di compromesso, compresa la costituzione di uno stato palestinese nei territori occupati da Israele nella guerra del 1967.
L’opportunità per una soluzione politica che poteva essere utilizzata dopo la vittoria di Hamas nelle elezioni svoltesi nei territori palestinesi è stata respinta da Israele, dalle potenze occidentali e alla fine anche dall’Autorità nazionale palestinese. Israele ha poi alimentato opportunisticamente la contrapposizione tra Hamas e Fatah per giustificare il rifiuto a qualsiasi ipotesi di trattativa. Il risultato che ne è emerso è stato la divisione sempre più profonda del movimento nazionale palestinese e l’incapacità di formulare una prospettiva chiara.
L’ANP, secondo una valutazione condivisa dalla grande maggioranza degli osservatori, si è rinchiusa nella difesa di quei pochi spazi (territoriali ed economici) resi disponibili dall’occupazione israeliana, sempre più aggressiva e violenta, prestando il fianco alle accuse di opportunismo, corruzione e persino di collaborazionismo con gli occupanti. Il risultato è che ha perso la gran parte del consenso di cui disponeva, è del tutto ininfluente sullo sviluppo degli eventi e non è in grado di rappresentare nemmeno uno strumento di difesa minima della popolazione palestinese dalla violenza crescente delle bande fasciste di coloni, spalleggiati dall’esercito.
Per quanto riguarda Hamas, l’ipotesi strategica era che la violenza dovesse rimanere la condizione per qualsiasi possibile trattativa. In questo ha applicato una versione speculare della concezione sionista secondo la quale solo l’uso della forza è la condizione per potere ottenere una prospettiva migliore. I massacri effettuati dagli israeliani a Gaza, il ricorso alla fame e alla distruzione di qualsiasi struttura che consenta una qualche condizione di esistenza umana, e di cui non si vede la fine, dovrebbero essere il prezzo necessario per perseguire un percorso di liberazione dello Stato palestinese. Al momento di questa prospettiva non vi è alcuna traccia. L’asse della resistenza, egemonizzato dagli islamisti, si è dimostrato finora incapace di frenare la brutalità israeliana.
Le fazioni palestinesi hanno sottoscritto un accordo, mediato dalla Cina, sulla base della riaffermazione della prospettiva dei due Stati (Israele e Palestina) coesistenti sul territorio della Palestina storica. Questa convergenza è certamente un fatto positivo ma finora, come per altri accordi precedenti, non ha sortito effetti concreti. Un movimento di liberazione che resta diviso e manca di una prospettiva politica chiara e realistica e di una leadership riconosciuta in grado di perseguirla con il necessario consenso interno e credibilità internazionale, non ha molte prospettive di successo. Lo stesso ricorso alla violenza, soprattutto quando diventa indiscriminato, a fronte di un nemico militarmente molto più forte e privo di qualsiasi remora morale, non sembra essere in grado di offrire una soluzione che dovrebbe necessariamente considerare la convivenza permanente tra arabi e ebrei.
Se la realtà palestinese e mediorientale viene egemonizzata dall’etnonazionalismo razzista o dal fondamentalismo religioso in conflitto fra loro è sempre più difficile intravedere una via d’uscita che non sia catastrofica e regressiva. Solo il riemergere di forze laiche, progressiste, internazionaliste e democratiche in tutta la realtà mediorientale, oggi purtroppo incerte, divise e marginali può accendere qualche luce di speranza.
Franco Ferrari