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La risoluzione passa ma il fuoco non cessa

di Stefano
Galieni

Una qualche forma di intesa era nell’aria. Dopo alcune proposte realizzate da Paesi diversi e respinte, di volta in volta grazie al diritto/potere di veto dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, si è giunti a un testo per chiedere l’immediato cessate il fuoco a Gaza e che è passato, il 25 marzo, con la sola astensione USA. L’amministrazione statunitense, con l’avvicinarsi delle elezioni, non poteva continuare a sostenere il genocidio che l’Idf e il governo israeliano stanno compiendo nella striscia di Gaza – oltre 32 mila morti, in gran parte donne e bambini – né giustificare la catastrofe politica e umanitaria determinata dai bombardamenti e dalle incursioni israeliane e ha dovuto almeno in parte cedere. Questo ha causato l’ira del governo di Bibi Netanyahu, che prima ha annullato un incontro diplomatico ad alto livello a Washington, poi ha richiesto che una parte della delegazione israeliana abbandonasse il tavolo delle trattative in Qatar, continuando le azioni militari. Per Israele, evidentemente la risoluzione approvata, come le tante in passato, è priva di valore. Il testo era stato presentato dai dieci membri eletti dell’organismo del Palazzo di Vetro, il cosiddetto “E10”, su iniziativa dell’Algeria, che rappresenta i Paesi arabi e africani e che chiede anche il rilascio degli ostaggi israeliani rapiti il 7 ottobre, rappresentando un timido passo in avanti.

Nei dettagli è stata approvata la richiesta di un “un cessate il fuoco immediato per il mese di Ramadan rispettato da tutte le parti che porti ad un cessate il fuoco durevole e sostenibile; il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi, oltre a garantire l’accesso umanitario per far fronte alle loro esigenze mediche e altre esigenze umanitarie” e “che le parti rispettino i loro obblighi ai sensi del diritto internazionale in relazione a tutte le persone che detengono; l’urgente necessità di espandere il flusso di assistenza umanitaria e rafforzare la protezione dei civili nell’intera Striscia di Gaza”. Per garantire tale processo il testo ribadisce la propria “richiesta di eliminare tutti gli ostacoli alla fornitura di assistenza umanitaria su larga scala, in linea con il diritto umanitario internazionale e con le risoluzioni 2712 (2023) e 2720 (2023)”. La risoluzione è in fondo un semplice appello, che per il mese del Ramadan, iniziato l’11 marzo, chiede la restituzione, nello specifico, degli oltre 130 ostaggi israeliani trattenuti a Gaza e sottolinea l’urgente necessità che ampi aiuti salvavita possano raggiungere una popolazione affamata nell’enclave assediata. Ha pesato nella proposta anche il recente rapporto realizzato dalle Nazioni Unite, in cui si parla esplicitamente di “imminente carestia in corso”. Alle immagini di una drammaticità impensabile, il governo di Tel Aviv ha risposto bollando tale relazione come frutto dell’antisemitismo che nell’Onu ha preso piede. Il contrasto col segretario generale Guterres è da tempo noto, ora chiunque provi ad esprimere critiche rispetto all’operato dell’esercito viene bollato come nemico di Israele. All’atto della votazione la Russia aveva proposto un emendamento affinché venisse ripristinata la parola “permanente” invece di “durevole e sostenibile” nel definire le modalità e i tempi di cessazione delle ostilità. Nonostante questo emendamento non sia passato e malgrado l’opposizione dell’ambasciatore russo Vassily Nebenzia, che ha considerato debole tale modifica e tale da rischiare di non fermare la volontà bellica di Israele, per invadere Rafah, da Mosca è giunto un parere favorevole e il testo è stato approvato con 14 voti a favore e un’astensione, quella Usa, che non ha fatto però valere il veto. Soddisfazione è emersa da uno degli artefici di tale percorso, l’ambasciatore algerino Amar Benjama, che ottimisticamente ha affermato che “la risoluzione porrà fine ai massacri che vanno avanti da cinque mesi e che la sua adozione risponde innanzitutto all’aspirazione del popolo palestinese di porre fine al bagno di sangue senza alcuna condizione”.

Forse con maggior realismo, il segretario generale dell’Onu, António Guterres ha affermato su X che “la risoluzione tanto attesa deve essere attuata”; il fallimento del Consiglio “sarebbe imperdonabile”. Ma le ostilità israeliane non sono affatto cessate. Un bombardamento nel campo profughi di Jabalya, un raid a Khan Younis, l’uccisione mirata di un probabile capo militare di Hamas e, forse la scena più straziante, la morte di almeno una dozzina di persone in mare mentre cercavano di prendere i pacchi di aiuti lanciati dal cielo. Tor Wennesland, coordinatore speciale, ha diramato un appello. Informando gli ambasciatori in seno al Consiglio, ha ribadito la frequente condanna da parte delle Nazioni Unite dei brutali attacchi del 7 ottobre da parte di Hamas e di altri gruppi contro le comunità nel sud di Israele, sottolineando che “nulla può giustificare questi atti terroristici”. Ma ha anche dichiarato di essere “sconvolto” dall’immensa portata di morte, distruzione e sofferenza provocata dalla campagna militare israeliana a Gaza, con uccisioni di civili a un ritmo senza precedenti, sottolineando come “Nulla può giustificare la punizione collettiva del popolo palestinese”. Ed ha aggiunto “Le condizioni di pericolo di vita che affliggono gli oltre 1,7 milioni di sfollati interni all’interno di uno spazio sempre più piccolo a Gaza devono essere affrontate immediatamente. Sono estremamente preoccupato per il possibile incubo di più di un milione di persone che potrebbero essere sfollate di nuovo se Israele procedesse con la sua prevista operazione di terra a Rafah”. Wennesland ha “invitato Israele ad adempiere ai suoi obblighi ai sensi del diritto internazionale e a facilitare un accesso umanitario rapido e senza ostacoli dentro e attraverso la Striscia”. Ha osservato che il lavoro umanitario a Gaza è estremamente pericoloso e che i convogli di aiuti continuano a subire attacchi, ribadendo che le Nazioni Unite e i partner umanitari devono essere in grado di fornire assistenza in modo sicuro. “Ciò significa che i luoghi, i movimenti e i lavoratori umanitari devono essere protetti in modo più efficace e che alle Nazioni Unite devono essere concesse le attrezzature di cui hanno bisogno per aumentare la sicurezza del personale”. Il Coordinatore speciale ha anche accolto con favore l’apertura di un corridoio marittimo per fornire ulteriore assistenza umanitaria vitale via mare, ma ha ribadito che “per la consegna degli aiuti su larga scala non esiste un sostituto significativo della consegna via terra”.

Wennesland è poi entrato anche nel merito di quanto sta avvenendo, in silenzio, in Cisgiordania e ha espresso profonda preoccupazione per le continue violenze e vittime, esortando le forze di sicurezza israeliane a esercitare la massima moderazione. “Sono allarmato dagli attacchi compiuti dai coloni israeliani contro i palestinesi, anche in prossimità delle forze di sicurezza israeliane”, ha detto, aggiungendo che anche gli attacchi dei palestinesi contro gli israeliani devono cessare”. Ha poi toccato il nodo irrisolto rappresentato dall’inarrestabile espansione degli insediamenti israeliani nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme Est, e per la demolizione e il sequestro di strutture palestinesi. “L’impronta degli insediamenti in continua espansione, compresi gli avamposti, rafforza ulteriormente l’occupazione, mentre ostacola gravemente l’esercizio da parte del popolo palestinese del suo diritto all’autodeterminazione”, ha detto, ribadendo che gli insediamenti israeliani “non hanno alcuna validità legale e sono in flagrante violazione del diritto internazionale”. Parole sì, ma raramente pronunciate contro il governo israeliano. Il Coordinatore speciale ha anche espresso preoccupazione per l’economia palestinese in difficoltà, invitando la comunità internazionale a estendere gli sgravi fiscali all’Autorità Palestinese (Anp) e l’Anp a continuare a portare avanti riforme cruciali e ha anche sottolineato l’importanza di mantenere lo status quo nei luoghi santi di Gerusalemme, in particolare durante il Ramadan. “Noto che le preghiere nei Luoghi Santi sono procedute finora con alcuni scontri minimi e accolgo con favore tutti gli sforzi per mantenere la calma. Tutte le parti devono astenersi da passi unilaterali che aumenterebbero le tensioni in questo momento delicato”, ha esortato. Secondo l’alto rappresentante Onu, l’unica soluzione attuabile resta quella dei due Stati e lo ha affermato sottolineando la necessità di contribuire a rafforzare l’Autorità Palestinese per consentirle di governare efficacemente. Ha concluso la sua esortazione dicendo che “In definitiva, qualsiasi soluzione sostanziale per Gaza, e per il più ampio conflitto israelo-palestinese, è politica ed è imperativo stabilire le condizioni per un quadro politico concordato che possa delineare passi tangibili e irreversibili verso la fine dell’occupazione e la creazione di una soluzione a due Stati: Israele e Palestina, di cui Gaza è parte integrante, che vivono fianco a fianco in pace e sicurezza, sulla base delle risoluzioni delle Nazioni Unite, degli accordi precedenti e del diritto internazionale, con Gerusalemme come capitale di entrambi gli Stati”. Parole inaccettabili per Tel Aviv, dopo che numerosi governi avevano deciso unilateralmente di riconoscere Gerusalemme come capitale della sola Israele, contribuendo ad alzare la tensione ben prima del 7 ottobre.

Mentre scriviamo se sul piano militare non si registra nessun sensibile cambiamento nell’azione dell’esercito di Tel Aviv e nell’operato del suo governo che ha dichiarato di fatto di voler entrare a Rafah, al confine con l’Egitto, anche senza alcun appoggio, sul piano politico la risoluzione sembra aver prodotto effetti interessanti. Numerosi Paesi da sempre perfettamente aderenti alle posizioni di Israele, se ne stanno allontanando. A chiedere, con toni diversi, l’applicazione della risoluzione, per alcuni troppo sbilanciata, per altri insufficienti, oltre all’Unicef e ad altre organizzazioni umanitarie, Paesi come il Regno Unito, il Giappone, la Spagna, l’Iran e persino l’Italia. Difficile capire se questo si ripercuoterà anche sulle scelte politiche israeliane. Dopo l’approvazione, il governo ha fatto valere la sua profonda irritazione con ogni mezzo, oggi tenta di mantenere socchiuse le porte del dialogo con i propri alleati naturali consapevole che il Paese rischia l’isolamento. La crisi politica e militare in atto contemporaneamente nel Mar Rosso e in cui anche navi militari italiane sono impegnate, il conflitto in Ucraina sempre più pronto a divenire irrisolvibile, il ruolo delle altre potenze regionali, potrebbero convincere gli Usa, anche, come si diceva all’inizio, con l’approssimarsi delle elezioni, a spingere il proprio partner preferenziale a pensare seriamente a un’interruzione delle ostilità che porterebbe però immediatamente alla crisi l’attuale governo israeliano che sulla guerra ancora si regge. Una simile spinta verrebbe percepita come una vittoria della strategia politica e militare di Hamas e questo Israele non può assolutamente permetterselo.

Stefano Galieni

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