Quasi sette italiani su dieci (il 66%) ritengono che i conflitti in corso in Ucraina e in Medio Oriente siano colpa dell’Occidente, il 71,4% che l’Unione Europea è destinata a disgregarsi senza riforme radicali e il 68,5% che le democrazie liberali non funzionino più. Sono per molti versi sorprendenti alcuni dei dati che emergono dal 58° Rapporto sulla situazione sociale del Paese, realizzato come ogni anno dal Censis e presentato il 6 dicembre nella sede del Cnel. Un rapporto che fotografa un Paese provato culturalmente, economicamente e socialmente, ancora incapace di volare un po’ più in alto della quotidianità e sempre meno disposto a credere agli ideali di un tempo, quello europeista in primo luogo. «Gli italiani galleggiano, nonostante tutto e come sempre». Sbarcano il lunario, «ma è alto il rischio che, dopo la vigorosa ripresa post-pandemia, le prospettive di crescita si vadano rapidamente annuvolando», mentre «resta l’antico vizio di una scarsità di direzione, di un’assenza di traguardi e di coraggio per affermarli». Insomma, una narrazione, supportata da dati e analisi sulla fragilità socio-economica del paese, che contraddice quella ottimistica promossa dal governo Meloni e che certifica il fallimento di tutta la classe dirigente che si è avvicendata al governo negli ultimi 30 anni.
Il 58° rapporto della Fondazione Censis sulla situazione sociale del Paese (FrancoAngeli, Milano 2024), come già quello dell’anno precedente (si veda il nostro articolo qui) in cui si descriveva un Paese “sonnambulo”, intorpidito, in preda ad un senso di impotenza e pieno di preoccupazioni, fotografa un’Italia impaurita, solitaria tra le pareti domestiche1, pessimista, immobile, quasi totalmente diffidente nei confronti della politica (l’84,4% degli italiani è convinto che ormai i politici pensino solo a sé stessi). Un paese che non ha molta fiducia nel futuro e soprattutto nella possibilità di accrescere il proprio stato sociale. “Ci flettiamo come legni storti e ci rialziamo dopo ogni inciampo, senza ammutinamenti. Ma la spinta propulsiva verso l’accrescimento del benessere si è smorzata”, si legge nel rapporto. L’Italia sembra essere intrappolata in una crisi senza uscita, incapace di reagire e di avere idee e un progetto di futuro condiviso, nonostante che il governo continui a vantarsi di ottimi risultati e di record raggiunti (il record degli occupati e del turismo estero, ma anche il record della denatalità, con soli 380 mila nati nel 2023, del debito pubblico, arrivato al 134,8% rispetto al PIL, e dell’astensionismo elettorale). Una crisi che non può certo essere imputata all’azione del governo Meloni nell’ultimo biennio (anche se ci ha messo del suo), ma che rappresenta il fallimento di tutta la classe dirigente, almeno dell’ultimo trentennio.
Le trasformazioni incalzano e la società italiana «è molto più meticcia di quanto si dica, avvezza a mescolare valori e significati, persone e comportamenti». Una società aperta porta con sé dei rischi, per le istituzioni collettive e per la vita privata, rischi che al momento l’Italia «non sembra disponibile ad assumersi ma che, allo stesso tempo, non può permettersi di non correre, se vuole crescere e non più galleggiare» e guarire da quella che il Censis definisce la “sindrome italiana” della “continuità nella mediocrità”.
Le conseguenze di un ceto medio che si sfibra: paure, astensionismo e identità
Nel medio periodo, i principali indicatori economici, ovvero il PIL, i consumi delle famiglie, gli investimenti, le esportazioni, l’occupazione, tendono a ruotare intorno a una linea di galleggiamento, senza grandi scosse, né in alto, né in basso. E mentre anche il corpaccione del ceto medio si sfibra – dato che i redditi lordi pro-capite sono diminuiti del 7% tra il 2003 e il 20232 e tra il secondo trimestre del 2014 e il secondo trimestre del 2024 la ricchezza netta pro-capite è diminuita del 5,5% – fermenta «l’antioccidentalismo e si incrina la fede nelle democrazie liberali, nell’europeismo e anche nell’atlantismo». Si incrina la narrazione dell’Occidente come la casa della democrazia e dei diritti, mentre solo il 31% degli italiani è d’accordo con il richiamo della NATO sull’aumento delle spese militari fino al 2% del prodotto interno lordo (PIL). Più del 70% degli intervistati si rende conto dell’arroganza dell’Occidente, che pretende di imporre il libero mercato e la “democrazia” liberale al resto del mondo. Una percentuale analoga è convinta del prossimo sfasciarsi dell’Unione Europea. Più del 66% degli intervistati attribuisce agli USA e all’Occidente la gran parte della responsabilità per i conflitti in Ucraina e Medio Oriente e il 51,1% è persuaso che l’Occidente sia destinato a soccombere economicamente e politicamente dinanzi all’ascesa di paesi del Sud del Mondo come la Cina e l’India.
Questo mentre, secondo il rapporto, è in atto una mutazione morfologica della nazione: l’Italia si colloca al primo posto fra tutti i paesi dell’Unione europea per numero di cittadinanze concesse, 213.567 nel 2023 e quasi 1,5 milioni di nuovi cittadini italiani, che prima erano stranieri, negli ultimi 10 anni (più di 2 milioni negli ultimi 20 anni)3, un dato che si accompagna a quello che indica nel 38,3% la quota di italiani che si sente minacciata dall’ingresso nella Penisola dei migranti4. Minacciata sotto diversi aspetti, in primo luogo quello della sicurezza che è stata ormai trasformata da questione sociale in una questione essenzialmente penale. Tuttavia, se nel 2023 in effetti i reati sono aumentati del 3,8% rispetto all’anno precedente (non per effetto diretto dell’immigrazione, naturalmente), in dieci anni, dal 2013 al 2023, gli omicidi volontari sono diminuiti da 502 a 341 mentre le rapine sono scese nel decennio da 43.754 a 28.067 (-35,9%) e i furti nelle abitazioni da 251.422 a 147.660 (-41,3%). Quasi 1,7 milioni di persone detengono regolarmente un’arma da fuoco e cresce il mercato della sicurezza privata5.
Una società che ristagna, in cui il ceto medio si sfibra e sfilaccia (con porzioni crescenti “obbligate a sostenere il costo fiscale del welfare, ma spesso costrette a fronteggiare le avversità della vita tramite risorse proprie”) e che si è risvegliata dall’illusione che il destino dell’Occidente fosse di farsi mondo, non è più immune al rischio di un allontanamento dai rituali della vita pubblica (il 55,7% degli italiani considera inutili le manifestazioni di piazza e i cortei di protesta) e di de-mobilitazione politica attraverso l’astensionismo elettorale6 e di cadere nelle e coltivare le trappole della guerra identitaria per il riconoscimento di diritti e risorse. Le questioni identitarie sostituiscono le istanze delle classi sociali tradizionali e assumono una centralità inedita nella dialettica socio-politica. Ora si ingaggia una competizione a oltranza per accrescere il valore sociale delle identità individuali etnico-culturali, religiose, di genere o relative all’orientamento sessuale, secondo una ricombinazione interclassista. La rivalità delle identità e la lotta per il riconoscimento implicano l’adozione della logica «amico-nemico»: il 57,4% degli italiani si sente minacciato da chi porta abitudini contrastanti con il proprio stile di vita, come il velo integrale, il 38,3% si sente minacciato dall’ingresso nel Paese dei migranti, il 29,3% prova ostilità per chi è portatore di una concezione della famiglia divergente da quella “tradizionale”, il 21,8% vede il nemico in chi professa una religione diversa, il 21,5% in chi appartiene a una etnia diversa, il 14,5% in chi ha un diverso colore della pelle, l’11,9% in chi ha un orientamento sessuale diverso. Il “razzismo silente” dei comportamenti molecolari della vita quotidiana è una conseguenza quasi fisiologica di questa narrazione7, come lo è la deriva verso il penalismo securitario delle questioni sociali, per cui si chiede il pugno duro: il 75% degli italiani vorrebbe pene severe per chi occupa abusivamente le case e il 63,4% per quei reati oggi considerati minori, come i furti in metropolitana o sugli autobus. “In una società in crisi prevale l’incertezza sul futuro, tra rischi globali emergenti e rischi sociali tradizionali, i singoli tendono a rinserrarsi in sé stessi, a creare comunità chiuse, a individuare capri espiatori cui attribuire la colpa delle proprie paure. E sono proprio gli stranieri che, in quanto diversi e ultimi arrivati, si prestano più degli altri a diventare vittime di pregiudizi e discriminazioni”.
Anche a voler prendere in considerazione lo spauracchio della sedicente invasione culturale a opera dei migranti, i dati del rapporto suggerirebbero semmai altre strade rispetto a quella della chiusura delle frontiere, per esempio quella di una maggiore istruzione di base se si considera che per il 30,3% degli italiani Giuseppe Mazzini è un politico della Prima Repubblica e per il 32% la Cappella Sistina è stata affrescata da Giotto o da Leonardo.
Record di occupazione, ma bassa crescita, bassa produttività, bassa competitività e basse remunerazioni
Le paure nei confronti dei migranti non parrebbero giustificate neanche dal vecchio luogo comune dello “straniero che ruba il lavoro”: a metà anno in corso il numero degli occupati era infatti pari a 23.878.000, con un incremento di un milione e mezzo di posti di lavoro rispetto al 2020 e un aumento del 4,6% sul 2007, seppure permane ancora una forte disparità di genere e una ampia differenza retributiva nel mercato del lavoro tra gli uomini e le donne8.
Ciò a fronte di dati contraddittori circa la produzione: se la manifattura ha fatto registrare un calo dell’1,2% fra il 2019 e il 2023, il raffronto dei primi otto mesi del 2024 con lo stesso periodo del 2023 rivela una caduta del 3,4%. Invece le presenze turistiche hanno raggiunto i 447 milioni nel 2023, con un incremento del 18,7% rispetto al 2013 (a Roma le presenze turistiche nel 2023 hanno superato i 37 milioni e l’overtourism è ormai particolarmente evidente). Ma, in termini di produttività, nel periodo 2003-2023 le attività terziarie hanno registrato una riduzione del valore aggiunto per occupato dell’1,2%, mentre l’industria ha segnato un aumento del 10%, nonostante una struttura produttiva per il 95% costituita da piccole imprese non raggiunga una massa critica di risorse destinate agli investimenti per l’innovazione. L’andamento del PIL e della produttività non è incoraggiante e segnala che siamo tornati (dopo la breve parentesi della ripresa post-pandemica, peraltro eccezionalmente sostenuta dall’indebitamento pubblico) in una condizione di stagnazione economica (caratterizzata da bassa crescita, bassa produttività e bassa competitività).
Il governo Meloni aveva promesso una risalita del PIL dell’1%, ma l’ISTAT riporta solo lo 0,5% per il 2024 (era dello 0,7% nel 2023), una crescita che non basta, per cui la legge di bilancio è stata costruita su delle previsioni a dir poco irrealistiche (anche in considerazione della recessione dell’economia tedesca alla quale molte filiere industriali italiane sono strettamente dipendenti), con una crescita del PIL superiore all’1%, costringendo comunque ad un taglio sulla spesa pubblica. Ciò dimostra che da una parte nei nuovi lavori ci sono sempre più dei “lavoratori poveri” (il 9,9% dei lavoratori dipendenti è a rischio di povertà) e precari (come quelli nel turismo e ristorazione, settori che non offrono contratti nazionali di lavoro di qualità, e nei quali le retribuzioni e l’insieme delle condizioni lavorative sono tra le peggiori), per cui gli occupati aumentano ma guadagnano sempre meno, soprattutto se si considera che da un lato l’economia sommersa si avvicina rapidamente ai 200 miliardi e ai 3 milioni di unità di lavoro e, dall’altro, che la gran parte della ricchezza reale si sposta verso una piccola minoranza di ricchi sempre più ricchi e di un ceto economico medio-alto di fatto esentato dalla tassazione progressiva (si veda il nostro articolo qui)9. Dall’altra, che i nuovi posti di lavoro non riescono a riattivare un mercato dei consumi interni reso asfittico a seguito della continua e prolungata (da oltre 30 anni) compressione delle retribuzioni (salari e stipendi; costo del lavoro) per favorire le esportazioni, un modello basato su salari bassi e domanda esterna che anche Mario Draghi ha definito di recente “non più sostenibile”. L’effetto della stagnazione economica sarà un aumento ulteriore della povertà – già oggi 8,5 milioni (14,5%) di italiani sono in povertà relativa e 5,7 milioni (9,7%) in povertà assoluta -, erodendo il già debole potere di acquisto delle famiglie (sul tema della povertà si veda il nostro articolo qui). Con le ovvie conseguenze, in un Paese che invecchia rapidamente, sul sistema del welfare (sempre meno basato sui diritti esigibili e sempre più intossicato e frammentato dalla politica dei bonus categoriali), per cui anche il risparmio previdenziale è diventato un miraggio con il 75,7% degli intervistati che pensa che non avrà una pensione adeguata quando lascerà il lavoro. La percentuale, nel caso dei giovani, raggiunge l’89,8%, e diventa una certezza. Non a caso cresce il mercato della previdenza complementare privata.
Tuttavia non è solo il turismo il settore che potrebbe generare occupazione. Sono diverse le figure professionali che si fa fatica a trovare, vale a dire artigiani, agricoltori, operai specializzati, e poi infermieri e ostetrici, farmacisti e personale medico, e ancora idraulici ed elettricisti. Manodopera spesso offerta dal lavoro degli immigrati stranieri (oltre 2,4 milioni hanno un lavoro regolare su 5,3 milioni di presenze straniere, pari al 9% della popolazione).
La crisi involutiva del welfare pubblico
Per quanto riguarda la sanità, spicca il dato per cui al 62,1% degli italiani è capitato almeno una volta di rinviare un check up medico, accertamenti diagnostici o visite specialistiche perché la lista di attesa negli ambulatori del Servizio sanitario nazionale – che ormai versa in una crisi conclamata – era troppo lunga e il costo da sostenere nelle strutture private era considerato troppo alto (tuttavia nel periodo 2013-2023 si è registrato un balzo in avanti del 23% in termini reali della spesa sanitaria privata pro-capite, pari nell’ultimo anno a oltre 44 miliardi di euro, contro i 131 miliardi di spesa pubblica, cresciuta solo del 7,6% nello stesso decennio10). Una persona su due, per pagare una prestazione sanitaria (in intramoenia o nel privato puro), è dovuta ricorrere ai propri risparmi, tagliando altre spese o accettando una drastica riduzione del tenore di vita (il 25,8% degli italiani entra in difficoltà a causa di spese impreviste pari a 600 euro). Ma con la messa in discussione dell’universalità della tutela della salute, cresce rapidamente anche il mercato delle polizze sanitarie o mutualistiche integrative private controllato da grandi gruppi finanziari nazionali ed internazionali (si veda il nostro articolo qui). Si è ormai aperta l’era di una sanità moltiplicatrice di disuguaglianze sociali e anche territoriali. In media in Italia le famiglie hanno difficoltà a raggiungere una farmacia (13,8% pari a 3,6 milioni) o ad accedere a un pronto soccorso (50,8% ovvero circa 13 milioni); e nel caso dei comuni fino a 2000 abitanti tali problematiche riguardano rispettivamente il 19,8 e il 68,6% dei nuclei familiari. Dati impressionanti che dovrebbero, questi sì, fare paura.
In mancanza di un ampio e generoso sistema di welfare pubblico, “crescere i figli, affrontare un problema di salute, gestire le fragilità della vecchiaia o la condizione di non autosufficienza di un familiare [quasi 3 milioni di persone, per il 62,3% anziane] sono eventi ordinari e straordinari della vita di ognuno che oggi fanno paura: non solo per gli sconvolgimenti che provocano nella quotidianità, ma anche perché possono colpire duramente le risorse economiche delle famiglie coinvolte”. “Infatti, per il 65% degli italiani, in questo momento, le spese di welfare (sanità, scuola, assistenza, formazione, sostegno a familiari disoccupati o precari, trasporto, ecc.) pesano molto o abbastanza sul bilancio della loro famiglia e, in particolare, per il 15,1% molto e per il 50,8% abbastanza. Sono peraltro spese con impatto sociale regressivo, perché pesano molto o abbastanza su tutti i livelli di reddito, con un di più su quelli bassi (66,3%) e medio-bassi (67,8%) rispetto a quelli medio-alti (il 59,6%) e alti (55,2%)”.
Peggiorano le disuguaglianze territoriali – tra aree metropolitane/urbane (dove vive il 52,7% della popolazione italiana), piccoli centri (30,4%) e aree interne (22,6%, con circa 13,3 milioni di abitanti in 3.833 comuni), soprattutto in relazione alla dotazione dei servizi – e quelle sociali e di questo sono ben consapevoli gli italiani: l’85,5% è convinto che sia molto difficile salire nella scala sociale, questo anche grazie al fatto che l’ascensore sociale si è fermato oramai ai nati nei primi anni ’70 e i rapporti tra le classi sociali nella composizione sociale sono tornati ad esercitare una loro importante influenza di condizionamento nelle life chances degli individui (si veda il nostro articolo qui).
La triste condizione dei giovani
L’incertezza resa ormai normalità influisce pesantemente sulle giovani generazioni che hanno uno scarso peso demografico e grandi difficoltà a farsi ascoltare e a farsi capire dagli adulti. Il 58,1% dei giovani tra i 18 e i 34 anni si sente fragile, il 56,5% si sente solo, il 51,8% dichiara di soffrire di stati d’ansia o depressione, il 32,7% di attacchi di panico, il 18,3% di disturbi alimentari. Un giovane su tre è stato in cura da uno psicologo e il 16,8% assume sonniferi o psicofarmaci. In molti fuggono dal paese per cercare un’alternativa. Dal 2013 al 2022 sono espatriati circa 352 mila giovani tra i 25 e i 34 anni, e più di un terzo erano laureati (più di 132 mila). Il numero degli emigranti in possesso di laurea è passato dal 30,5% del totale nel 2013 al 50,6% nel 2022, una fuga di cervelli giovani che impoverisce il paese.
Le carenze formative: una “fabbrica di ignoranti”
Se chi si laurea viene attratto altrove, in generale l’istruzione colpita da tagli e asservita agli interessi privati si mostra incapace di garantire le conoscenze fondamentali. Benché i laureati siano aumentati fino a 8,4 milioni (il 18,4% della popolazione con almeno 25 anni), l’Italia è diventata una “fabbrica degli ignoranti”. I traguardi di apprendimento in italiano e in matematica sono spesso sotto le aspettative per tutti i cicli di istruzione11. Le carenze formative si traducono, inevitabilmente, nel rapporto con la realtà: “mentre si discute di egemonia culturale, per molti italiani si pone invece il problema di una cittadinanza culturale ancora di là da venire (del resto, per il 5,8% il “culturista” è una “persona di cultura”). Nel limbo dell’ignoranza (con più della metà della popolazione italiana che non legge neanche un libro all’anno) possono attecchire stereotipi culturali, convinzioni irrazionali e pregiudizi antiscientifici: “il 20,9% degli italiani asserisce che gli ebrei dominano il mondo tramite la finanza, il 15,3% crede che l’omosessualità sia una malattia, il 13,1% ritiene che l’intelligenza delle persone dipenda dalla loro etnia, per il 9,2% la propensione a delinquere avrebbe una origine genetica (si nasce criminali, insomma), per l’8,3% islam e jihadismo sono la stessa cosa”. Ancora: “il 57,4% degli italiani si sente minacciato da chi vuole radicare nel nostro Paese regole e abitudini contrastanti con lo stile di vita italiano consolidato” e “il 38,3% si sente minacciato da chi vuole facilitare l’ingresso nel Paese dei migranti”. “L’assenza di solidi riferimenti storici e l’incapacità di contestualizzare gli eventi nel tempo e nello spazio può portare alla riscrittura cospirazionista della storia. L’ignoranza è una minaccia anche per la democrazia, se per i cittadini diventa difficile decodificare le proposte politiche, riconoscendo quelle fondate su presupposti falsi o con fini manipolatori. Se il disarmo culturale impedisce l’esercizio del pensiero critico, ci si espone irrimediabilmente al vento delle demagogie, quando l’offerta di risposte semplici e rassicuranti può apparire convincente a chi percepisce il mondo come insondabile e minaccioso”.
Ciechi dinanzi ai presagi
Insomma, il rapporto Censis ci dice che restiamo “ciechi dinanzi ai presagi”. Siamo all’interno di una crisi demografica, per cui nel 2050 avremo quasi 8 milioni di persone in età lavorativa in meno. “Intrappolati nel mercato dell’emotività: per l’80% degli italiani il Paese è in declino, per il 69% più danni che benefici dalla globalizzazione, e adesso il 60% ha paura che scoppierà una guerra mondiale e secondo il 50% non saremo in grado di difenderci militarmente”. Secondo il Censis, c’è un declino morale che sembra causa e conseguenza del declino reale. Di fronte a questa situazione occorrerebbe un’iniezione di fiducia che non può che ripartire dai valori umani e sociali. Cioè, da una ripresa della politica, dalla rinascita della scuola, dalla fiducia nel futuro degli italiani in fatto di benessere globale. L’individuo cresce solo se cresce tutto il Paese: proprio il contrario di quello che ci fanno credere coloro che vorrebbero dividere l’Italia e accrescere le distanze tra le classi sociali. Lo sviluppo economico, sociale e del benessere personale matura nelle società capaci di aprirsi al nuovo, che sanno spezzare il recinto, accogliere innesti e correre nuovi pericoli e nuove sfide di futuro. La questione italiana oggi si gioca tutta su questo terreno.
Alessandro Scassellati
- Dopo l’esperienza traumatica della pandemia, è sempre più evidente il ritorno alla convivialità e alla frequentazione dei luoghi pubblici. Il 58,8% degli italiani incontra gli amici durante il tempo libero almeno una volta alla settimana. Il dato sale tra i giovani, con punte intorno al 90% tra chi ha dai 15 ai 19 anni, mentre è evidente una rarefazione delle relazioni tra le persone anziane. Aumenta la partecipazione ai concerti, con oltre 28 milioni di presenze (+70,1% rispetto al 2019). La casa invece può diventare il luogo della solitudine. Nel 2023 le persone sole hanno superato gli 8,8 milioni (+18,4% dal 2013). I vedovi (3,1 milioni) costituiscono il 34,8% delle persone sole, i single (celibi e nubili o separati e divorziati) sono il 65,2% (5,8 milioni).[↩]
- Per comprendere la parabola economica italiana basta considerare che il PIL pro-capite era aumentato di quasi 12 mila euro tra il 1963 e il 1983 (+96,7%), di oltre 11 mila euro tra il 1983 e il 2003 (+46,2%), di poco più di mille euro tra il 2003 e il 2023 (+5,8%).[↩]
- L’Italia si colloca al primo posto tra tutti i Paesi dell’Unione Europea per numero di cittadinanze concesse, 213.567 nel 2023. Con un numero molto più alto delle circa 181.000 in Spagna, 166.000 in Germania, 114.000 in Francia, 92.000 in Svezia, le acquisizioni della cittadinanza italiana nel 2022 ammontavano al 21,6% di tutte le acquisizioni registrate nell’UE (circa un milione). E il nostro Paese è primo anche per il totale cumulato nell’ultimo decennio (+112,2% tra il 2013 e il 2022).[↩]
- Mentre il dibattito politico si arrovella sui criteri normativi da adottare per regolare l’acquisizione della cittadinanza, il 57,4% degli italiani ritiene che l’«italianità» sia cristallizzata e immutabile (ossia che esista un “italiano vero”), definita dalla discendenza diretta da progenitori italiani, per il 36,4% è connotata dalla fede cattolica, per il 13,7% è associata a determinati tratti somatici. Prevale una narrazione che vede gli immigrati stranieri “come un pericolo che mette in discussione un concetto di identità nazionale come comunità omogenea, chiusa nei suoi confini, composta da individui che hanno tutti gli stessi tratti somatici”. Questo quando oggi un neonato su cinque (quasi 81 mila) ha almeno un genitore straniero e 931.323 (l’11,6% del totale) sono gli alunni con cittadinanza non italiana iscritti al sistema scolastico nell’anno 2023/2024, una quota che raggiunge il 13,7% nella scuola primaria e il 12,7% nella scuola dell’infanzia.[↩]
- Tra gli italiani aumenta l’insicurezza e il bisogno di sentirsi protetti. L’85,5% possiede almeno un dispositivo per la difesa della propria abitazione e il 50,1% investirà di più nella sicurezza domestica negli anni a venire. Oggi in Italia sono quasi 1,7 milioni le persone che detengono regolarmente un’arma da fuoco. Se si considerano i loro nuclei familiari, si possono stimare in 3,7 milioni (pari al 6,3% della popolazione) le persone che hanno una pistola a portata di mano e potrebbero utilizzarla, per sbaglio o intenzionalmente. Il 43,6% degli italiani pensa che sparare a un malintenzionato che si introduce in casa per rubare dovrebbe essere considerato un atto legalmente legittimo.[↩]
- Un dato allarmante è il tasso di astensione elettorale: alle ultime elezioni europee l’astensionismo ha segnato un record nella storia repubblicana pari al 51,7%. Il dato è terrificante, considerato che alle prime elezioni dirette del Parlamento europeo, nel 1979, l’astensionismo si attestò al 14,3%.[↩]
- Secondo i dati di una recente indagine realizzata dal Censis, il 40,8% degli abitanti del paese è convinto che gli italiani siano razzisti, quota che raggiunge il 47,2% tra i 18-34enni e il 43,9% tra i residenti del Sud. E il 58,5% ritiene che il razzismo sia in crescita: è una percezione che hanno di più le donne (61,4%), gli anziani (60,5%) e i residenti delle regioni del Centro (62,5%). Il 52,2% dei giovani di “seconda generazione” sostiene che gli italiani sono razzisti.[↩]
- Questo risultato record si è ottenuto anche se la distanza tra il tasso di occupazione italiano (siamo ultimi in Europa) e la media europea resta ancora significativa: 8,9 punti percentuali in meno nel 2023. Se il nostro tasso di attività fosse uguale a quello medio europeo, potremmo disporre di 3 milioni di forze di lavoro aggiuntive, e se raggiungessimo il livello europeo del tasso di occupazione, supereremmo la soglia dei 26 milioni di occupati: 3,3 milioni in più di quelli registrati nel 2023. Come sottolinea il rapporto Censis uno dei maggiori ostacoli all’aumento del tasso di occupazione è la disparità di genere e la differenza retributiva nel mercato del lavoro tra gli uomini e le donne. Secondo i dati INPS, la disparità salariale rispetto alla retribuzione media annua era del 30,2% tra uomini (26.227 euro) e donne (18.305 euro) nel lavoro dipendente del settore privato nel 2022. Tra gli operai il gap salariale è del 40,5%; tra gli impiegati è del 33,7%; tra le posizioni dirigenziali è del 23,2%. Un fattore importante che aggrava il gap retributivo è il maggiore ricorso ai contratti part-time (spesso involontari) tra le lavoratrici, rispetto ai colleghi uomini. Le donne sono spesso costrette ad accettare lavoro part-time anche a causa di un’iniqua distribuzione dei carichi familiari e di cura. Questo riduce il reddito medio annuo delle lavoratrici, le loro opportunità di crescita professionale, di avanzamento di carriera e di avere una pensione adeguata, perpetuando così il ciclo della disuguaglianza economica di genere.[↩]
- Il Censis nota che si profila all’orizzonte un imponente passaggio intergenerazionale di ricchezza. Uno degli effetti nascosti della denatalità che da molti anni preoccupa il paese è che, a causa della prolungata flessione delle nascite, il numero degli eredi si riduce, quindi in prospettiva le eredità si concentrano. Oggi le famiglie della «generazione silenziosa» (i nati prima della Seconda guerra mondiale) e del baby boom (i nati tra il dopoguerra e i primi anni ’60) detengono insieme il 58,3% della ricchezza netta delle famiglie. In attesa ci sono parte della «generazione X»(i nati tra il 1965 e il 1980), i «millennial» e la «generazione Z» (i nati negli ultimi decenni dello scorso secolo e nei primi anni del nuovo millennio). Il rapporto si interroga su quale sarà l’effetto psicologico su coloro che sanno di essere destinatari di un atto di successione. Forse una ridotta propensione al rischio imprenditoriale, compressa dalle aspettative dei potenziali rentier.[↩]
- Al sottofinanziamento del SSN è corrisposto un prolungato blocco delle assunzioni (con un cronico sottodimensionamento degli organici) che ha comportato un drastico peggioramento delle condizioni di lavoro di medici e personale infermieristico costretti a superlavoro, stress e conseguente rischio di burnt-out. C’è stato anche un ricorso a personale con contratti intermittenti, a tempo determinato o come interinali: tra il 2012 e il 2022 le figure sanitarie con contratti non permanenti sono aumentate del 75,4%, con una spesa pari a quasi 3,6 miliardi di euro. “Spesa sanitaria pubblica inadeguata rispetto ai fabbisogni sanitari, approccio aziendalistico, condizioni lavorative logoranti e retribuzioni non sufficientemente gratificanti: ecco l’anatomia della crisi del Servizio sanitario italiano”. Le promesse fatte dalla politica durante la crisi pandemica di potenziare il SSN, soprattutto le strutture della medicina territoriale, non sono state mantenute. Si è tornati alle traiettorie precedenti, con liste di attesa che si allungano, risorse pubbliche che crescono troppo lentamente, personale demotivato e tentato dalla fuga nel privato o all’estero, persistente primato delle logiche dell’aziendalizzazione con tanti e ormai noti effetti negativi sulle performance della sanità.[↩]
- Qualche esempio sui risultati della formazione scolastica e sul livello di cultura generale: “per quanto riguarda il sistema scolastico, non raggiungono i traguardi di apprendimento in italiano: il 24,5% degli alunni al termine delle primarie, il 39,9% al termine delle medie, il 43,5% al termine delle superiori (negli istituti professionali il dato sale vertiginosamente all’80%). In matematica: il 31,8% alle primarie, il 44% alle medie e il 47,5% alle superiori (il picco si registra ancora negli istituti professionali, con l’81%). Il 49,7% degli italiani non sa indicare correttamente l’anno della Rivoluzione francese, il 30,3% non sa chi è Giuseppe Mazzini (per il 19,3% è stato un politico della prima Repubblica), per il 32,4% la Cappella Sistina è stata affrescata da Giotto o da Leonardo, per il 6,1% il sommo poeta Dante Alighieri non è l’autore delle cantiche della Divina Commedia”.[↩]