Come funziona oggi il capitalismo? Chi sono i suoi protagonisti? Con quali strumenti e logiche operano? Cerchiamo delle risposte con la lettura del libro di Alessandro Volpi, “I padroni del mondo. Come i fondi finanziari stanno distruggendo il mercato e la democrazia” (Laterza, Roma-Bari 2024). Sta emergendo una società capitalista finanziarizzata in cui pochi grandi gestori patrimoniali possiedono e controllano sempre di più i nostri sistemi e le nostre strutture fisiche più essenziali, fornendo i mezzi più basilari di funzionamento e riproduzione sociale.
Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio, per farsi coraggio, si ripete: «Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene». Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio. Dal film L’Odio di Mathieu Kassovitz
Volendo ragionare sulla struttura e gli attori del capitalismo odierno, a cominciare da quello statunitense che è il centro egemonico di questa formazione sociale ormai globale, credo che si possano identificare due tipologie di soggetti strategici fondamentali. Da un lato, c’è un gruppo formato in modo maggioritario da esponenti di un capitalismo dinastico (dinastie con almeno due o tre generazioni di accumulazione del capitale alle spalle) che è stato via via rinforzato da nuovi arrivi – i Gates, i Bezos, i Musk, e gli Zuckerberg e altri esponenti del “capitalismo delle piattaforme” – nell’ultima generazione. Insieme questi due gruppi di grandi capitalisti costituiscono quell’0,1% o 1% della popolazione mondiale che esercita il controllo sulle global corporations industriali e finanziarie e che secondo il premio 2001 Nobel Joseph Stiglitz “controlla il 90% della ricchezza mondiale”1. Dall’altro lato, ci sono delle strutture finanziarie “corporate” privatizzate di relativa recente formazione – i fondi finanziari -, solo in parte controllate dal primo gruppo, che sono state magistralmente descritte dall’economista e docente di storia contemporanea all’Università di Pisa Alessandro Volpi nel libro “I padroni del mondo. Come i fondi finanziari stanno distruggendo il mercato e la democrazia”, Laterza, Roma-Bari 2024.
Non mi dilungo troppo sulla prima tipologia di soggetti – i capitalisti dinastici e gli imprenditori di successo di prima generazione -, rimandando per l’analisi delle loro logiche di comportamento e forme di organizzazione economiche e politiche ad una serie di articoli che ho scritto nel recente passato2. Si tratta di un gruppo che ha esageratamente beneficiato dal sistema neoliberista di regolazione del processo di accumulazione del capitale che ha consentito loro di rafforzare il proprio dominio economico, politico e culturale sulla società americana e sul mondo, costruendo monopoli, eludendo e non pagando le tasse (con un uso smodato di consulenti, paesi a fiscalità “agevolata” e di veri e propri paradisi fiscali “legali” e illegali che hanno un onere normativo molto leggero, un onere informativo molto limitato e accordi fiscali molto favorevoli) e facendo stagnare i salari. È parlando di loro che possiamo dire che negli ultimi decenni è riemersa con forza una società «patrimoniale» in cui la ricchezza, in particolare la ricchezza dinastica ereditata (6 su 10 americani più ricchi sono eredi di fortune trasmesse loro da antenati e genitori ricchi3), è il determinante cruciale delle loro possibilità di vivere in modo separato dal resto delle persone e della società4. Questi ultra-ricchi parlano di risolvere la crisi climatica o di porre fine alle disuguaglianze, ma ciò a cui sono realmente interessati è sopravvivere o sfuggire a chiunque sia più povero di loro5. Gli economisti dell’Università di Berkeley, Emmanuel Saez e Gabriel Zucman6, hanno calcolato che i tagli fiscali da 1,5 trilioni di dollari della prima amministrazione Trump hanno aiutato le 400 dinastie miliardarie più ricche negli Stati Uniti (quelle della «lista Forbes 400») a pagare nel 2018 un’aliquota fiscale media del 23%, mentre la metà inferiore delle famiglie americane ha pagato un’aliquota del 24,2%. Nel 2018, per la prima volta nella storia moderna degli Stati Uniti, il capitale è stato tassato meno del lavoro. Dal 1980, la quota della ricchezza americana di proprietà delle 400 dinastie americane miliardarie è più che quadruplicata mentre la quota di proprietà della metà inferiore della popolazione americana è diminuita. Le 130 mila famiglie più ricche in America ora possiedono quasi quanto il 90% meno ricco (117 milioni di famiglie). Secondo Saez e Zucman, se l’1% più ricco della popolazione americana pagasse un’aliquota fiscale del 60%, lo Stato federale USA incasserebbe circa 750 miliardi di dollari in più l’anno, sufficienti per pagare asili nido per tutti i bambini, un programma di infrastrutture e molto altro7.
Venendo a quelli che Volpi definisce come “i padroni del mondo”, si tratta di fondi finanziari speculativi – a cominciare dalla “triade” composta da Vanguard, Black Rock e State Street – che oggi sono più forti dei singoli Stati, decisivi nella tenuta delle monete (in particolare, del dollaro) e del debito pubblico8, e proprietari di enormi quote di economia reale (banche e imprese industriali e commerciali). Ancora marginali all’inizio del nuovo millennio, hanno cavalcato le crisi (quelle finanziarie del 2008 e 2011, la crisi pandemica da CoVid-19 e la successiva fase inflattiva) che hanno travolto molti dei grandi operatori che dominavano il mercato finanziario, e hanno beneficiato dell’operato dei governi e delle banche centrali (sia della fase del “quantitative easing” sia di quella di rialzo dei tassi, entrambe determinate da FED e BCE), e hanno sfruttato, accelerandolo, il processo in corso dagli anni ’80 di smantellamento degli Stati sociali e di privatizzazione dei beni comuni della società (ossia il trasferimento di beni, imprese e servizi dal pubblico al privato). Il libro di Volpi spiega come sia stata possibile questa enorme concentrazione del capitalismo che è arrivata a cancellare l’idea stessa del mercato (per questo Volpi auspica una separazione tra mercato e capitalismo – pp. 123-124). Traccia un quadro chiaro dei numeri di questo monopolio e ricostruisce le storie dei protagonisti di questa incredibile scalata di potere.
Il potere monopolistico dei fondi finanziari
Fra gli anni ’70 e ’80 sono nati dei fondi finanziari negli Stati Uniti che a partire dai primi anni 2000 hanno accumulato degli enormi patrimoni. Coloro che avevano fondato queste snelle organizzazioni avevano scelto, in origine, di presentarle come “fondi passivi”, ossia come dei fondi “che si limitavano a replicare alcuni indici scelti con grande cura, potendo promettere ai clienti, proprio per l’abbattimento dei costi di gestione consentito dalla natura passiva, un servizio quasi gratuito” (pag. 6). Riuscendo a tenere bassi i costi per i risparmiatori – grazie alle intuizioni del fondatore di Vanguard, John “Jack” Bogle, che hanno portato a puntare sulla replicazione dell’andamento di alcuni indici (veri e propri algoritmi) senza un intervento diretto del gestore, creando strumenti come gli ETF (exchange traded fund) – si sono presentati come gli interpreti di una nuova finanza “democratica” (in realtà, una colossale operazione di marketing: «Il più grande inganno del diavolo è far credere che non esiste», diceva, parafrasando Baudelaire, il perfido Kayser Soze nel film “I soliti sospetti”), allargando la platea di coloro che potevano avere accesso ai mercati finanziari (pag. 118). Inizialmente, hanno fatto fatica ad affermarsi, ma dopo i fallimenti dei grandi colossi finanziari tradizionali, travolti da crisi finanziarie come quella del 2008, sono riusciti a diventare sempre più attraenti, riuscendo anche a stabilire strette relazioni con la politica (ad esempio, Volpi cita il rapporto intimo fra il fondatore di Black Rock, Larry Fink, e il segretario del Tesoro, Timothy Geithner, durante la crisi del 2008 – pag. 120). L’enorme potere che questi soggetti hanno acquisito certifica l’incapacità di buona parte della politica di svolgere un qualsiasi ruolo di interposizione e controllo, per cui questi grandi monopoli privati assumono ruoli e dimensioni pubbliche.
Recentemente il CEO di Black Rock Larry Fink ha ribadito che “lavoriamo con entrambe le amministrazioni e stiamo dialogando con entrambi i candidati”. Alcuni veterani della società di gestione patrimoniale hanno ricoperto ruoli di alto livello nel Tesoro dell’amministrazione Joe Biden. Il Tesoro di Trump, d’altro canto, era gestito dall’ex direttore informatico di Goldman Sachs, Steven Mnuchin, che aveva fatto fortuna come gestore di hedge fund. Uno dei principali finanziatori delle campagne presidenziali di Trump, nel 2024 e nel 2020, è il miliardario CEO del fondo immobiliare Blackstone, Stephen Schwarzman, che nel 2022 è stato proclamato l’amministratore delegato più pagato nel settore dei servizi finanziari degli Stati Uniti. Schwarzman è un mega-donatore del Partito Repubblicano ed è stato il finanziatore numero uno di Wall Street per le campagne politiche nel ciclo elettorale del 20209. In un articolo recente, Volpi ha provato ad interpretare la sfida tra Harris-Walz e Trump-Vance alle presidenziali USA come uno scontro tra il capitalismo finanziario della “triade” (apparentemente schierato con il partito democratico) e quello che ne vuole indebolire il monopolio (Musk, Mellon e altri miliardari che hanno finanziato a piene mani la campagna di Trump).
Nessun controllo politico-istituzionale è stato esercitato anche sulla loro struttura proprietaria, caratterizzata da frequenti e oscure partecipazioni incrociate che non consentono di capire chi realmente decida al loro interno. “Black Rock è posseduto per il 14% da Vanguard, il 6,7% dalla stessa Black Rock e per un altro 4,5% da State Street. Segue poi una decina di fondi più piccoli. Vanguard è posseduta per il 13,5% da Black Rock, per il 9,5% da Vanguard e per il 3% da State Street cui si aggiungono altri fondi di minori dimensioni. State Street Corporation è posseduta per il 12,6% da Vanguard, per l’8,1% da Black Rock e per il 5% da State Street. In altre parole, i tre più grandi soggetti economici e finanziari del pianeta sono posseduti gli uni dagli altri in una sequenza che non permette di comprendere chi sia il vero proprietario, al di là delle figure dei vari Ceo, talvolta ancora identificati con i ‘padri’ fondatori” (pag. 8). Poi, questi tre fondi possiedono azioni di altri fondi (ad esempio, come il Berkshire Hathaway di Warren Buffett e Capital Research and Management), banche (JP Morgan Chase, Wells Fargo, Citigroup, Morgan Stanley, Goldman Sachs, Bank of America, UBS) e assicurazioni (come United Health Group, Elevance Health, Prudential Financial e Centene Corporation) che a loro volta sono azionisti della “triade”. Data questa totale mancanza di trasparenza (facilitata spesso anche dalla domiciliazione nei paradisi fiscali), Volpi si domanda se questa è democrazia e libero mercato, per concludere che “siamo di fronte ad una opacissima autocrazia” (pag. 8).
Alla luce del risultato delle ultime elezioni presidenziali statunitensi, si potrebbe obiettare a Volpi che Donald J. Trump, Elon Musk e Peter Thiel (il miliardario responsabile dell’ascesa di JD Vance alla vicepresidenza) ritengano che capitalismo e democrazia debbono divorziare e che la “democrazia liberale” debba trasformarsi in “democrazia oligarchica” (a questo proposito, si veda il mio articolo qui) se si vuole promuovere l’innovazione e l’accumulazione del capitale. L’attacco è portato direttamente contro il ruolo dello Stato federale. Se ne vogliono scardinare le funzioni. Musk, l’uomo più ricco del mondo che ha investito 132 milioni di dollari nella campagna di Trump, è destinato a guidare il nuovo Dipartimento per l’efficienza governativa (Doge), l’agenzia che, secondo Trump, condurrà un “audit finanziario e delle prestazioni completo dell’intero governo federale e formulerà raccomandazioni per riforme drastiche”. Musk ha proposto di tagliare di 2 trilioni di dollari il budget federale, corrispondente a poco meno di 1/3 di quest’ultimo. L’obiettivo è lo “slash-and-burn”, il fare terra bruciata per arrivare allo “Stato minimo” con la drastica riduzione della burocrazia (almeno 1/3) per “decostruire il deep-State” (a partire dai vertici militari e dell’intelligence), la radicale privatizzazione del sistema del welfare e di altre funzioni regolative e gestionali. Sarà una guerra complicata e difficile da vincere considerati gli evidenti conflitti di interesse in campo e dato che i dipendenti del governo federale godono di forti tutele occupazionali che ostacolerebbero l’approccio di Musk alla riduzione dei costi, rendendolo forse impossibile. In ogni caso, l’approccio Trump-Musk finirebbe per mettere nelle mani dei grandi fondi finanziari i beni, le operazioni e i servizi attualmente gestiti dallo Stato, insieme alla totalità dei risparmi di lavoratori e cittadini.
In pochi anni, Vanguard, Black Rock, State Street e pochissimi altri fondi (come, ad esempio Macquire10), grazie alla straordinaria liquidità raccolta da risparmiatori alla ricerca di una protezione da uno Stato sociale in via di progressivo smantellamento, e quindi disponibili a sottoscrivere polizze sanitarie e pensionistiche, oltre che alla ricerca di rendimenti sempre più elevati che compensassero la stagnazione, se non addirittura l’arretramento, di stipendi e salari, sono diventati azionisti di controllo delle principali società del pianeta, come Apple, Microsoft, Amazon, Meta, Netflix, Tesla, Nvidia, Open Ai, Exxon Mobil, Chevron e dell’88-96% delle società del listino di Wall Street Standard & Poor 500 (il valore azionario era solo il 7% nel 2001, oggi è il 30%; per una lista delle principali società di cui la “triade” detiene rilevanti quote azionarie vedi pp. 86-87). Da “passivi”, i fondi sono diventati “attivi”, per cui esercitano il diritto di voto nelle assemblee societarie (i diritti di voto della “triade” nelle assemblee degli azionisti nelle S&P 500 sono ormai oltre il 33%), spingendo gli amministratori a perseguire la “massimizzazione del valore per gli azionisti” (la cosiddetta “shareholder value orientation”)11.
Allo stesso tempo, questi stessi fondi sono penetrati nelle società pubbliche e nelle tante multiutility (società di servizi) a cui sono affidate proprietà e gestione di monopoli naturali, delle reti e delle infrastrutture che sono vitali per la sovranità di un paese (dalle reti idriche, energetiche e di comunicazione ai “servizi ambientali”, elettricità, gas e autostrade)12. “Con veloci scalate o con partecipazioni strategiche questi soggetti finanziari sono diventati assolutamente rilevanti nella definizione delle scelte in materie dal chiaro impatto pubblico: in sintesi, salute, previdenza, infrastrutture e beni pubblici sono diventati oggetto di pochissimi grandi player, la cui logica è soltanto quella di garantire rendimenti finanziari a breve termine, in sostanza dividendi e remunerazioni obbligazionarie, fidando sulla propria capacità di occupare tutti gli spazi delle decisioni, dalla definizione dei prezzi alle dinamiche produttive e ai principi di erogazione dei servizi e condizionando in modo vincolante una politica che ha deciso di affidarsi ad un simile monopolio in nome di un mercato cancellato dagli stessi fondi monopolisti. È naturale che lungo questo tracciato il culto del dividendo, che deve remunerare il grande azionista e il piccolo risparmiatore, partecipe del fondo, sostituisce ogni altra valutazione in merito a forza lavoro, investimenti, ambiente e costo dei servizi” (pp. 5-6).
Secondo Volpi, oggi ci troviamo davanti ad uno sterminato potere economico-finanziario che costituisce “un vero cartello, dai confini sconosciuti alla storia contemporanea, che possiede le Borse [come la Chicago Mercantile Exchange], determina i prezzi, ha partecipazioni decisive nel sistema produttivo globale e garantisce i rendimenti a milioni di risparmiatori dipendenti per la loro stessa esistenza dai pochissimi membri di tale cartello. Lo stesso cartello controlla le agenzie di rating [Fitch, Moody’s e Standard & Poor’s], che decidono le sorti dei debiti pubblici degli Stati, gran parte della stampa economica, le principali banche del pianeta [a cominciare da JP Morgan Chase, la più grande e il braccio bancario della “triade”], le assicurazioni, la farmaceutica [Johnson & Johnson, Pfizer, Bristol Myers Squibb, Merck, AbbVie, AstraZeneca], l’industria militare [Lockheed Martin, Northrop Grumman Corporation, Raytheon, Boeing, Hulliburton], le società hitech [GAFAM], l’intera filiera alimentare e quella dell’energia, compresa quella delle rinnovabili. Passano da tale cartello anche le principali piattaforme turistiche, gli alberghi [Hilton e Marriott], gli airbnb, il gioco d’azzardo e molta parte dell’entertainment [e dello sport professionistico, a cominciare dal calcio]” (pp 6-7). Volpi documenta l’incredibile onnipresenza di questi fondi che in Italia sono tra i maggiori azionisti di Banca Intesa, Unicredit, Mediobanca, Monte Paschi di Siena, Ubi, BPM, Prysmian, Azimut, Atlantia, Leonardo, Autostrade d’Italia, ENEL, Snam, ACEA, Iren, A2A, Hera, Telecom Italia, Ferrari, Stellantis, Delfin (la holding finanziaria della famiglia Del Vecchio) e di tante altre principali società13.
Nel 2022, i primi 10 fondi del pianeta hanno registrato attivi per 44 mila miliardi di dollari e tre soli – Black Rock, Vanguard e State Street – ne gestiscono circa la metà (pari ad un quinto del PIL mondiale, ma con solo 35 mila dipendenti). Da sola, Black Rock gestisce 11,5 trilioni di dollari di asset (pari a 5 volte il PIL italiano e a un terzo di quello USA), rendendola la più grande società di investimento sulla Terra14. Gli stessi 10 fondi detengono ormai il 30% delle prime 500 società mondiali (non quelle cinesi, però, dato che i fondi USA non sono riusciti ad entrare in Cina – pp. 85; 146-148) (pp. 77; 80). “I giganti della finanza sono in grado di fare i prezzi dei mercati attraverso gli strumenti della finanza derivata (le scommesse) che creano in maniera pressoché infinita. Con tali strumenti riescono a garantire alti rendimenti ai risparmiatori che affidano loro i propri risparmi e, con queste risorse, comprano porzioni decisive della proprietà delle imprese e delle società, di cui manipolano i titoli così da ottenere dividendi sempre più rilevanti. In tal modo i grandi fondi operano una radicale concentrazione del potere economico e sostituiscono, in gran parte, la finanza all’economia e alla produzione, trasformando i profitti in rendimenti finanziari. In ultima analisi sono tali fondi a decidere i prezzi e, di conseguenza, a scegliere cosa deve continuare ad essere oggetto della produzione e a quali condizioni. L’apparente democraticità delle gestioni patrimoniali svuota le politiche economiche e fa appassire i sistemi di Welfare” (pag. 79).
Rispetto all’inflazione e al debito pubblico, Volpi arriva anche ad essere “complottista”: “I grandi fondi generano l’inflazione, alimentando la speculazione sui prezzi [ad esempio, su petrolio, gas e materie prime agricole]. La Bce alza i tassi e non compra più il debito degli Stati. I grandi fondi, che hanno generato la speculazione, accettano di comprare a tassi elevati, quindi con alte remunerazioni, e solo se possono entrare nei servizi pubblici e nelle imprese e nelle banche italiane più remunerative” (pp. 90; 97; 104-108; 134-135). “I crescenti deficit pubblici non faranno altro che ampliare il ruolo dei mercati privati nel favorire la crescita economica”, ha affermato di recente Fink. Però, in questo grande casinò dell’economia, nota Volpi, “c’è chi perde sempre: il mondo del lavoro che prima paga il conto dell’inflazione, poi subisce i danni dei tassi alti e infine non conosce aumenti retributivi perché, quando i tassi scendono, bisogna tutelare i profitti” (pag. 188).
L’Europa ha un peso limitato rispetto alla assoluta centralità degli Stati Uniti. Questo è uno dei grandi crucci che Mario Draghi ha espresso nel suo rapporto sulla competitività europea: vorrebbe che si creassero dei “campioni finanziari europei”, specializzati anche nel venture capital (per finanziare le start up innovative), per evitare il drenaggio dei risparmi europei verso gli USA da parte della “triade” e degli altri fondi finanziari statunitensi (in proposito si veda il mio articolo qui). Le prime 10 società europee che si occupano di risparmio gestito (spesso partecipate da fondi statunitensi) hanno attivi per poco meno di 13 mila miliardi e quelle che gestiscono più di mille miliardi sono solo 5. La francese Amundi, controllata dal Crédit Agricole, gestisce da sola quasi 2 mila miliardi. L’unica italiana tra le prime 10 è Generali (nona) con meno di 800 miliardi di asset gestiti e in gran parte con fondi finanziari internazionale come azionisti (pp. 81-82).
L’accumulazione attraverso la destrutturazione e distruzione dello Stato sociale
Una delle principali preoccupazioni di Volpi è quella di chiarire quali sono i meccanismi attraverso i quali i fondi finanziari stanno distruggendo lo Stato sociale (inteso come una serie di servizi pubblici gratuiti e universali, erogati in base al reddito, dalla sanità, all’istruzione, alle pensioni, che facevano crescere il reddito reale dei lavoratori), rendendo i cittadini dei soggetti finanziari. Si tratta di un modello politico-sociale riconducibile al neoliberismo permeato da teorie dello “Stato minimo” (anti-socialdemocratiche in Europa e anti-New Deal negli USA) e da politiche di austerità e di radicale deregolazione statale e privatizzazione del sistema di welfare, per cui “esiste un legame evidente fra l’idea che serva una continua riduzione del gettito fiscale, per consentire ai mercati di scatenare le proprie doti salvifiche, e la brusca contrazione della spesa pubblica. Senza entrate infatti è difficile mantenere lo Stato sociale a meno di non supplire al minor gettito con il ricorso all’indebitamento pubblico” (pag. 3) sempre più costoso e difficilmente sostenibile (soprattutto in tempi di inflazione), che in Italia ha quasi raggiunto i 3 mila miliardi di euro (138% del PIL), un livello che dovrà essere drasticamente ridotto per la fine della deroga al Patto di stabilità europeo15. Uno schema che gli economisti neoliberisti chiamano “affamare la bestia”16.
Si tagliano le tasse (con la “guerra alle tasse”), soprattutto ad alcune categorie e fasce di reddito (a quelle basse si danno dei bonus o si taglia il cuneo fiscale una tantum, però si riduce o abbandona la progressività17), per lasciare ai cittadini più risorse ma, con minori entrate pubbliche, si indeboliscono i conti dell’INPS e si rende più difficile mantenere la spesa per i servizi essenziali che così tornano ad essere a pagamento, come accadeva negli anni ’50. Di fatto, con la fine dell’universalismo e della gratuità dei servizi pubblici e la privatizzazione, si obbligano i cittadini a “comprare” i servizi essenziali sul mercato. Se i servizi non sono più coperti dallo Stato attraverso la spesa pubblica e vengono privatizzati, “i cittadini e le cittadine devono dotarsi di assicurazioni private che coprano i servizi non più garantiti dallo Stato stesso” (pag. 35).
È in questo contesto che si è determinata una rapida transizione “dai modelli sociali del Welfare a forme di privatizzazione dei servizi essenziali, a cominciare dalla sanità, che implica la trasformazione della cittadinanza in fruitrice dei prodotti della finanza globale. In altre parole, la scomparsa della dimensione pubblica conduce all’affermazione di strutture privatizzate che sono finanziate dai risparmi dei singoli, indirizzati verso fondi sempre più grandi che tendono a sostituire gli Stati. I cittadini, così, attraverso il risparmio diventano soggetti finanziari che affidano le loro sorti a gestori in grado di monopolizzare la liquidità disponibile. La sanità e la previdenza ‘complementari’ assumono una rapida e crescente centralità in un simile panorama e modificano la natura dei loro destinatari che devono consegnarsi alle ‘strategie’ dei gestori dei fondi per provvedere alla propria salute e alla propria pensione” (pp. 3-4). Soprattutto, se vivono in un paese come l’Italia dove le pensioni non sono state rivalutate dal 1996 al 2023 (con gli over 65 che sono aumentati di 2,5 milioni) e la spesa sanitaria pubblica, già molto più bassa rispetto agli altri grandi paesi europei, subirà ulteriori riduzioni nei prossimi anni, passando dal 6,7% del PIL nel 2023 al 6,3% nel 2024 fino al 6,2% nel 2025. Sono circa 11 milioni gli italiani che dispongono di una polizza sanitaria, in larga parte riconducibile ai contratti collettivi di categoria che hanno spinto il mondo del lavoro italiano in tale direzione18. Polizze assicurative e sanità e previdenza “complementare” sono “vendute” da fondi di investimento che in Italia (pronti presto ad accaparrarsi anche quote del Tfr, il trattamento di fine rapporto) sono in larghissima parte gestiti dalle banche e hanno bisogno di una vasta gamma di “prodotti finanziari”, in grado di soddisfare le richieste di rendimento di diverse tipologie di clienti. “Tali prodotti sono generati con grande fantasia dai principali fondi internazionali che si pongono così al vertice di una catena dove sono presenti anche banche e fondi pensione di natura istituzionale: un’’industria della finanza’ che, fidando su una domanda in crescita costante, comprende grandi produttori di titoli, grandi rastrellatori di risparmi e grandi organizzazioni, come nel caso dei sindacati, che partecipano alla raccolta e alla destinazione dei medesimi risparmi. Qui emerge in tutta evidenza il citato legame tra privatizzazione e finanziarizzazione” (pp. 35-36). Per cui, alla fine, i fondi comuni, le compagnie di assicurazione e i fondi pensione italiani (come le Casse di previdenza), proprio per assicurare maggiori rendimenti, investono pochissimo o per nulla in Italia, ma comprano per la maggior parte titoli del debito di altri paesi, azioni e obbligazioni estere messe in circolazioni dai grandi fondi finanziari internazionali (magari emesse dalle grandi società americane di cui sono tra i principali azionisti).
Il progressivo smantellamento del welfare negli ultimi 20 anni, indotto dal taglio fiscale e dalle privatizzazioni di servizi e imprese pubbliche, ha favorito “lo spostamento di risorse verso fondi finanziari che le hanno utilizzate per diventare i pivot decisivi dell’intero sistema economico mondiale, approfittando anche delle debolezze della stessa politica, fin troppo accecata dalla religione del mercato. Lo smantellamento degli Stati sociali si è accompagnato infatti alla convinzione che proprio i mercati finanziari fossero il luogo dove poter creare i redditi e la ricchezza che economie della produzione non riuscivano più a generare nelle parti del mondo guidate dal cosiddetto capitalismo maturo. Privatizzazione e finanziarizzazione si sono così saldate su più piani: i cittadini risparmiatori sono approdati attraverso i fondi alla finanza e la finanza si è sostituita all’economia reale moltiplicando gli strumenti disponibili, venduti agli stessi cittadini risparmiatori. Tramite questi strumenti un numero sempre più limitato di fondi è riuscito a determinare i prezzi dei beni, operando sulle principali Borse del mondo continue e colossali scommesse che hanno fruttato rendimenti decisamente alti, tanto da attrarre volumi di risparmio in costante crescita. In questa nuova dimensione, i prezzi non erano più il portato dell’offerta e della domanda reali ma diventavano il risultato, predeterminato, di un mostruoso gioco d’azzardo a senso unico” (pp. 4-5).
In questo modo, la finanza acquista una centralità nella vita quotidiana di milioni di persone, rendendo determinante il ruolo dei grandi fondi finanziari che gestiscono migliaia di miliardi di euro e dollari di risparmi, possiedono larga parte delle imprese dell’economia reale e sono in grado di condizionare le sorti del pianeta in misura maggiore delle politiche. Di recente, il Guardian ha pubblicato un articolo dal titolo “Taglia e brucia: il private equity è fuori controllo?”, sottolineando come “dai club di calcio alle compagnie idriche, dai cataloghi musicali alle case di cura, il capitale [finanziario] privato si è infiltrato in quasi ogni aspetto della vita moderna nella sua infinita ricerca di massimizzare i profitti. … Non è solo che centinaia di milioni di noi interagiscono ogni giorno con almeno un’azienda di proprietà di private equity. Sempre più persone, soprattutto quelle relativamente povere, possono trascorrere quasi tutta la loro vita in sistemi di proprietà di una o dell’altra società di private equity: i finanzieri sono i loro proprietari di casa, i loro fornitori di elettricità, il loro passaggio per andare al lavoro, i loro datori di lavoro, i loro medici, i loro esattori”. I fondi finanziari possiedono sempre di più il mondo fisico e finanziario che ci circonda, per cui tutte le nostre vite fanno ora parte dei loro portafogli di investimento.
Alessandro Scassellati
- Negli USA, pur tenendo conto delle partecipazioni indirette in fondi pensione e comuni, il 10% più benestante dei residenti americani costituisce l’80% di coloro che posseggono azioni di corporations americane. L’1% più ricco di loro ne possiede il 40%.[↩]
- Sui temi relativi all’accumulazione del capitale, al processo di globalizzazione, e al ruolo delle élites capitalistiche e degli Stati-nazione si vedano i miei articoli: Accumulazione del capitale e globalizzazione. Il ruolo dei capitalisti e degli Stati-nazione, «Transform! Italia», 17 novembre 2021, https://transform-italia.it/accumulazione-del-capitale-e-globalizzazione-il-ruolo-dei-capitalisti-e-degli-stati-nazione/; Capitalismo dinastico, politica e accumulazione di capitale negli Stati Uniti, «Transform! Italia», 25 agosto 2021, https://transform-italia.it/capitalismo-dinastico-politica-e-accumulazione-di-capitale-negli-stati-uniti/; Far pagare le tasse alle global corporations e ai ricchi, «Transform! Italia», 9 giugno 2021, https://transform-italia.it/far-pagare-le-tasse-alle-global-corporations-e-ai-ricchi/. Si vedano anche L. Khalili, How to Get Rich, «London Review of Books», 23 September 2021, https://www.lrb.co.uk/the-paper/v43/n18/laleh-khalili/how-to-get-rich; L. Khalili, In clover – What does McKinsey do?, «London Review of Books», 15 December 2022, https://www.lrb.co.uk/the-paper/v44/n24/laleh-khalili/in-clover.[↩]
- In Germania, le dinastie industriali più ricche (Quandt, Flick, Porsche, etc.) – che controllavano imprese come BMW, Porsche, Volkswagen, Daimler-Benz, BASF, Bayer, Krupp, Rheinmetall e altri giganti industriali che negli ultimi 80 anni sono stati il motore del modello economico tedesco – fecero fortuna aiutando, favorendo ed essendo favorite dal Terzo Reich di Hitler (ad esempio, oltre ad impossessarsi di imprese di proprietà di imprenditori ebrei, hanno utilizzato il lavoro forzato e schiavistico). Dopo la guerra, grazie al clima politico della Guerra Fredda, queste dinastie capitalistiche sono sfuggite a un attento esame e all’epurazione.[↩]
- Sul tema della nuova società patrimoniale si veda T. Piketty, Capital in the Twenty-First Century, Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, MA 2014; edizione italiana, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014.[↩]
- Il fenomeno dei paradisi fiscali è strettamente legato a quello della «secessione privata dalla società» – fenomeno di segregazione sociale (con le «comunità recintate», le isole private, i super-yacht e tanti privilegi esclusivi dei super-ricchi) – che il filosofo politico Michael J. Sandel (Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato, Feltrinelli, Milano 2013; Democracy’s discontent. America in search of a public philosophy, Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, MA 1998) definisce «sky-boxification of society», utilizzando la metafora delle cabine di lusso per i vip negli stadi di baseball, mentre i poveri stanno sotto il sole o la pioggia – da parte delle imprese globali e dei ricchi che le controllano, che ha ridotto le basi fiscali degli Stati in tutto il mondo e limitato la loro capacità di ridistribuire i benefici economici derivanti dall’integrazione commerciale e di intervenire direttamente nell’economia per sostenere la domanda aggregata.[↩]
- E. Saez e G. Zucman, The triumph of injustice. How the rich dodge taxes and how to make them pay, W.W. Norton, New York 2019; Progressive wealth taxation, «Brookings Papers on Economic Activity», 2019, https://www.brookings.edu/wp-content/uploads/2019/09/Saez-Zucman_conference-draft.pdf.[↩]
- Negli USA nel 1966, il picco della crescita americana del dopoguerra, la percentuale massima della tassazione del reddito era dell’83% e fino agli anni ’70 era al 70%, mentre la riforma fiscale di Reagan del 1986 aveva stabilito solo due aliquote, 14% e 28%, più un’addizionale del 5% in alcuni casi, eliminando una serie di deduzioni e di tassazioni agevolate, come quella sui capital gain. Solo con la presidenza Clinton l’aliquota più alta era risalita al 39,6%, reintroducendo però le deduzioni, mentre con Trump è scesa al 37%.[↩]
- Il debito mondiale è stimato intorno ai 310 mila miliardi di dollari, di cui circa 100 mila sono costituiti da debiti pubblici (93% del PIL globale). Si tratta di cifre record, quasi raddoppiate rispetto al 2015. Per pagare gli interessi sul solo debito pubblico serve una quantità di risorse finanziarie pari al 15-17% del PIL globale. I grandi fondi statunitensi stabilizzano l’enorme debito pubblico USA – 33,4 mila miliardi di dollari, pari a circa il 131% del PIL, con il deficit di bilancio che è cresciuto fino a 1.833 miliardi di dollari per l’anno fiscale 2024 – con acquisti di titoli federali.[↩]
- Blackstone è il più grande gestore di asset alternativi al mondo e il più grande locatore commerciale sulla Terra. La società di investimento possiede e gestisce oltre 300 mila unità abitative in affitto negli Stati Uniti. Blackstone ha sfrattato i proprietari di case in numerosi Stati, contribuendo a una crescente crisi di senzatetto, che è cresciuta del 12% nel 2023. Il Guardian ha riassunto in modo succinto quanto sia diventata potente Blackstone: “Blackstone è il più grande locatore commerciale della storia. Negli ultimi due decenni, ha preso silenziosamente il controllo di condomini, case di cura, alloggi per studenti, archi ferroviari, studi cinematografici, uffici, hotel, magazzini logistici e data center. Blackstone non possiede solo immobili, possiede tutto, o almeno è così che può sembrare quando inizi a esaminare la sua sconcertante gamma di risorse. Se indossi Spanx, ti sei mai abbinato a qualcuno su Bumble, hai soggiornato in un hotel Hilton o in un resort Centre Parcs, hai visitato Legoland, Madame Tussauds, il London Dungeon o un parente anziano in una casa di cura Southern Cross, hai incontrato un’azienda che forma, o ha recentemente formato, parte dell’impero Blackstone”. Sebbene BlackRock e Blackstone siano aziende diverse, hanno storie sovrapposte e BlackRock possiede il 6,56% di Blackstone, il che la rende il secondo maggiore azionista. Il maggiore azionista di Blackstone è Vanguard, che ha una quota del 9,05%. Il quarto maggiore è State Street, che possiede il 4,12%. In agosto, Schwarzman ha organizzato una festa di inaugurazione della sua casa per 200 persone nella villa neoclassica francese da 27 milioni di dollari a Newport, Rhode Island. È stato un evento modesto rispetto alla grande festa che ha organizzato nella sua tenuta di Palm Beach, in Florida, per il suo 70° compleanno, nel 2017. Quella festa in abito da sera è stata di per sé un seguito al suo 60° compleanno multimilionario, nel 2007, che è diventato un simbolo del tipo di eccesso di Wall Street che ha portato alla crisi finanziaria globale. La festa di Palm Beach, che secondo alcuni resoconti è costata più di 10 milioni di dollari, ha visto gondole veneziane, cammelli arabi, acrobati mongoli e una torta gigante a forma di tempio cinese. Gwen Stefani ha fatto una serenata a Schwarzman mentre Jared Kushner, Ivanka Trump e diversi membri del gabinetto di suo padre guardavano.[↩]
- L’australiano Macquarie è il più grande gestore patrimoniale al mondo in termini di proprietà di infrastrutture. Afferma che ogni giorno qualcosa come cento milioni di persone in tutto il mondo utilizzano le sue infrastrutture e nella maggior parte dei casi pagano per utilizzarle. Ma praticamente nessuno di loro ha idea che Macquarie controlla tali asset. Ed è progettato in questo modo.[↩]
- Una visione resa famosa da Milton Friedman e da Michael C. Jensen, un altro economista premio Nobel e docente all’Harvard Business School, secondo i quali l’unica responsabilità sociale di un’azienda è quella di aumentare i profitti per gli azionisti, per cui i managers dovrebbero sempre prendere delle decisioni per massimizzare i profitti. In un famoso articolo sul New York Times Magazine il 13 aprile 1970, Friedman ha sostenuto che, poiché l’amministratore delegato è un “dipendente” degli azionisti, deve agire nel loro interesse, dando loro il massimo rendimento possibile (“the business of business is business”). Se agisce diversamente, ad esempio donando fondi aziendali a una causa ambientale o a un programma antipovertà, deve ottenere tali fondi da clienti (attraverso prezzi più alti), lavoratori (attraverso salari più bassi) o azionisti (attraverso rendimenti più bassi). Quindi, secondo Friedman, finisce per imporre semplicemente una “tassa” su altre parti e utilizza i fondi per una causa sociale di cui non ha alcuna competenza specifica. Sarebbe meglio consentire a clienti, lavoratori e investitori di usare quei soldi per fare i loro contributi di beneficenza se lo desiderano. La normalizzazione della supremazia degli azionisti e dei mercati finanziari fu consolidata durante la presidenza Reagan attraverso le modifiche apportate alle leggi federali sulle imposte sul reddito e a quelle sugli strumenti finanziari, compresa un’attenuazione delle norme antitrust. Queste modifiche hanno promosso l’ascesa degli investitori attivisti, che sono entrati nei consigli di amministrazione e nei comitati esecutivi delle corporations, e hanno liberato gli amministratori delegati (CEO) dalla necessità di dover perseguire altri obiettivi – a cominciare dall’aumento dei salari in relazione all’aumento della produttività – che non fossero la massimizzazione del profitto per gli azionisti. Le performances dei CEO sono state in gran parte legate alle stock options (il diritto di acquistare azioni ad un prezzo fisso in una data futura) e ad altri bonus, incentivandoli anche ad utilizzare i riacquisti di azioni (i buy-backs, consentiti dalla Securities and Exchange Commission a partire dal 1982) per aumentare quotazioni e utili delle azioni (riducendone il numero sul mercato) e, a loro volta, le retribuzioni da portare a casa. È così che è rapidamente ed enormemente aumentata la disuguaglianza: si è passati da un rapporto medio di 20 a 1 tra la retribuzione del CEO e quella di un impiegato di livello medio nel 1965 all’attuale rapporto di 312 a 1. Allo stesso tempo, i licenziamenti in massa e i tagli dei salari dei dipendenti sono stati spesso salutati con entusiasmo dagli operatori finanziari perché tagliavano i costi e causavano rialzi dei prezzi delle azioni.[↩]
- In riferimento all’Italia, Volpi analizza il caso della privatizzazione di Telecom, ora TIM, e le vicende relative alle battaglie per la vendita della rete delle telecomunicazioni (pp. 43-53) nelle quali sono coinvolti fondi come Vanguard, Black Rock, Macquire (già presente in Autostrade per l’Italia e in Open Fiber, la rete concorrente di TIM), KKR (Kohlberg Kravis Roberts & Co), Banca di investimenti norvegese, Fondo pensionistico canadese, con anche il coinvolgimento diretto di Cassa Depositi e Prestiti (che gestisce il risparmio postale italiano). Per fondi come Vanguard, Black Rock e State Street si tratta di una battaglia di una guerra globale che li vede controllare oltre il 20% dei colossi delle telecomunicazioni mondiali a partire da T Mobile, Verizon, Comcast e At&T. Volpi ricostruisce anche le vicende relative alla privatizzazione di Autostrade per l’Italia (pp. 53-56) dove, accanto a Cassa Depositi e Prestiti, si trovano i fondi Blackstone e Macquarie. Ci sono poi i casi delle partecipate dallo Stato italiano o dalle amministrazioni locali – Poste Italiane, Ferrovie dello Stato, Snam, Terna, Saipem, Leonardo, Enav, Ita (ex Alitalia), ENI, ENEL, A2A, IREN, ACEA, Hera e Italgas – in gran parte quotate in Borsa e in cui sono già presenti o stanno per entrare nell’azionariato (come in FS) i grandi fondi finanziari internazionali (pp. 57-76). È venuta avanti una “economia mista” pubblico-privata assai diversa da quella del passato: i soci “industriali” sono sostituiti da soci “finanziari”, “dove le dinamiche dell’investimento a medio e lungo termine sono sostituite da una sorta di ‘trimestralizzazione’ degli utili che devono remunerare in forma immediata gli azionisti. Tra cui lo Stato, che utilizza i dividendi solo per trovare le risorse necessarie a realizzare sempre più difficili leggi di bilancio, a prescindere da qualsiasi altra idea di politica industriale o tariffaria” (pag. 61). Per cui nelle multiutility, ad esempio, si cancella qualsiasi dimensione pubblica nei settori più vicini ai bisogni dei cittadini perché diventa assai difficile aumentare la qualità del servizio e il volume degli investimenti rispetto a quelli che sono partoriti dalle tariffe pagate dagli utenti (pp. 68; 75). Insomma, prevalgono le finalità finanziarie, ossia l’inseguimento dei dividendi, sulle logiche industriali.[↩]
- In Italia, Black Rock è uno degli investitori più presenti a Piazza Affari. Il mega-fondo vanta quote in tutte le 40 blue chip del Ftse/Mib per un valore aggregato di 24,8 miliardi di euro.[↩]
- Black Rock ha un enorme flusso di nuove risorse che i clienti le affidano: solo nel terzo trimestre del 2024 sono affluiti in Black Rock ben 221 miliardi di dollari e da inizio anno la raccolta di nuovo denaro è stata di 360 miliardi, dieci volte il livello della manovra di bilancio del governo italiano. Nel 2023 il gruppo ha prodotto un utile operativo di 6,6 miliardi su 17,8 miliardi di ricavi e un utile netto di 5,7 miliardi. Sono livelli di profittabilità operativa che viaggiano oltre il 40%. Nel triennio 2019-2021 la marginalità operativa correva a livelli del 46% sui ricavi. Solo negli ultimi 5 anni si sono cumulati profitti netti per oltre 25 miliardi di dollari. E ogni anno viene girato agli azionisti un dividendo sopra i 750 milioni di dollari. Il titolo Black Rock capitalizza 157 miliardi di dollari e negli ultimi 20 anni ha dato un rendimento totale, tra apprezzamento del titolo e dividendi, del 1.320% con un rendimento medio annuo del 15% negli ultimi 20 anni. Per cui, 10mila dollari investiti nell’azione Black Rock 20 anni fa oggi varrebbero 142 mila dollari. Quanto a Fink, solo come piccolo socio ha in portafoglio lo 0,2% del capitale e le sue 340 mila azioni personali valgono 340 milioni di dollari.[↩]
- È evidente che con il ripristino del Patto di stabilità – la strada dell’austerità scelta dall’Unione Europea, insieme a quella della costruzione di una economia di guerra – e con la decisione della BCE di non acquistare più i titoli di Stato e di inasprire le condizioni per le banche che usano come garanzia gli stessi titoli del debito pubblico, sarà molto complicato tenere in piedi una spesa pubblica decente e capace di garantire i servizi fondamentali. Si prevedono pesanti sacrifici: ridurre dello 0,4% l’anno il rapporto deficit/PIL per riportarlo al 3% comporterebbe un taglio della spesa annua di 13 miliardi per un rientro quadriennale o di 7 per un rientro settennale.[↩]
- Secondo gli economisti neoliberisti e la loro “trickle down economics”, una politica che prevede meno tasse per tutti, e soprattutto per coloro con i redditi più alti, dovrebbe promuovere una forte crescita in grado di dare nuovo, e significativo, gettito. Una cosa che non si è mai verificata.[↩]
- In Italia, il sistema fiscale continua a colpire redditi da lavoro, beni e consumi materiali, con l’effetto di determinare una pressione gigantesca, e spesso insostenibile, su quella parte della società, a iniziare dai lavoratori dipendenti, che sta impoverendosi. I redditi da capitale sono tassati solo con un’aliquota del 26%. È il 40% dei contribuenti che sorregge, da solo, il 100% del sistema fiscale. C’è un’evasione superiore ai 100 miliardi all’anno. Nei paradisi fiscali ci sono quasi 200 miliardi di euro provenienti dall’Italia. Ci sono crediti non riscossi dall’Agenzia per le entrate per 1.100 miliardi di euro. Oltre il 70% dell’evasione riguarda l’1,3% dei contribuenti più ricchi, quelli che hanno debiti fiscali per oltre 500 milioni di euro. Ora, inoltre, il governo si muove sulla base dell’idea del “fisco amico”, prevedendo sanatorie, condoni e concordati preventivi “collaborativi” (con i lavoratori autonomi e le imprese), e l’introduzione della flat tax Irpef, il taglio dell’Ires e il superamento dell’Irap. Al tempo stesso, si esclude qualsiasi revisione degli estimi catastali e aumento dell’imposta di successione, neppure per i miliardari, o l’introduzione di una patrimoniale.[↩]
- Sono oltre 8 milioni i lavoratori e le lavoratrici che accedono alle polizze attraverso i contratti collettivi a cui è stata riservata la possibilità di garantire ampi margini di minor pressione fiscale rispetto ad altre forme di impiego (pp. 40-41). I fondi finanziari che operano in tale settore sono ormai oltre 300 in Italia e, tuttavia, attraggono ancora solo una parte della spesa privata in sanità. Gli italiani/e spendono infatti per la sanità privata circa 40 miliardi l’anno, ma si tratta per oltre l’85% di una spesa “diretta”, che non è intermediata dai fondi e che proviene quasi interamente dai redditi medio-alti. Sono i redditi medio-bassi che si stanno progressivamente indirizzando verso la spesa sanitaria intermediata dai fondi.[↩]
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Mirabile articolo, Alessandro. Una sola domanda: fino a quando?