La vittoria di Trump nelle elezioni statunitensi del 5 novembre ha suscitato, come è naturale, un ampio dibattito nel quale si sono registrate a sinistra opinioni molto diverse che sono variamente rimbalzate sui siti e sulle reti sociali. Per parte mia ho avanzato qualche riflessione in proposito nel mio articolo della scorsa settimana. Vorrei ora riprendere alcuni temi di carattere generale che mi sembrano sollevati non solo dal successo di quella che è, a tutti gli effetti, una destra radicale ed estrema nel maggiore paese capitalista del mondo ma dall’ascesa di tendenze analoghe in molti paesi europei e non solo.
Un primo tema di discussione riguarda l’opportunità o meno di utilizzare la categoria di “fascismo” per definire questa galassia di forze politiche e sociali. Dare una risposta adeguata a questo interrogativo richiederebbe anche ripercorrere l’analisi e le definizioni che del fascismo hanno dato le principali tendenze comuniste, socialiste e marxiste (anche nel confronto con altre correnti ideologiche) a partire dai primi anni ’20, quando il fascismo si è affermato in Italia come forza politica di tipo nuovo.
Nel tentativo di definire adeguatamente questo fenomeno che, con la vittoria del nazismo in Germania, non poteva più essere ricondotto ad una specificità italiana e magari alla natura arretrata del suo capitalismo, si sono cimentate le diverse correnti. Si possono richiamare in proposito le tesi degli austro-marxisti, in particolare Otto Bauer, che dovettero fare i conti con la sconfitta subita in un Paese che aveva un movimento operaio particolarmente forte e sviluppato, quelle di Trotsky e della cosiddetta opposizione di destra del Partito Comunista Tedesco, guidata da Brandler e Talheimer. Quest’ultimo autore di numerosi articoli e saggi di analisi del nazismo ancora di notevole interesse. Sia Trotsky che l’opposizione comunista tedesca utilizzarono in particolare, seppure con conclusioni diverse, il concetto marxiano di “bonapartismo”, derivato dall’analisi della vicenda storica di Napoleone III. Ulteriori tentativi di analisi sono stati impostati da intellettuali non necessariamente impegnati nell’azione politica, come Adorno, Marcuse, Lucacs, Bloch e altri. In tempi più recenti si sono cimentati sulla questione anche Nicos Pulantzas (in “Fascismo e dittatura”) e Ernesto Laclau, al tempo non ancora post-marxsista.
I partiti comunisti, attraverso il Comintern e dopo diversi anni di dibattito, arrivarono a definire il fascismo come la dittatura terroristica aperta della parte più sciovinista, xenofoba e imperialista del capitale finanziario. Questa definizione piuttosto rigida e limitata è stata notevolmente modificata ed arricchita dalla riflessione dei comunisti italiani come emerge sia dagli scritti di Gramsci prima della prigionia, quando prendeva le distanze dal rigido schematismo bordighiano, e poi nei Quaderni del carcere. Mentre da parte sua Togliatti, pur nelle costrizioni teoriche imposte dall’affermazione dello stalinismo, articolava un’analisi assai più ricca nelle “lezioni sul fascismo” tenute a Mosca all’inizio del 1935. Testi che nel primo caso vennero pubblicati nel dopoguerra e nel secondo ancora più tardi quando le trascrizioni vennero recuperate dagli archivi moscoviti.
Nella riflessione dei comunisti italiani veniva meglio definita la natura di “regime reazionario di massa”, nel quale si intrecciavano gli aspetti di dittatura aperta, repressione violenta del movimento operaio, con altri di modernizzazione capitalistica. Il fascismo veniva inquadrato come una modalità di risposta non solo alle spinte rivoluzionarie emerse in Europa dopo l’ottobre russo ma anche come tentativo di dare soluzione alle nuove contraddizioni emerse dallo sviluppo del capitalismo nella sua fase imperialistica.
Il fascismo fu un insieme, non sempre coerente dal punto di vista ideologico, di temi diversi e anche contrastanti finalizzati in ogni caso a rafforzare il dominio capitalistico sulla società, cancellando i principi fondamentali dello stato liberale che, almeno in Italia, non aveva saputo gestire il passaggio dalla politica per le élite alla politica di massa.
Ora non c’è dubbio che molti degli elementi di contesto sociale, politico e ideologico da cui trasse forza il fascismo per imporsi non sono più presenti. Certamente non siamo in presenza di una spinta rivoluzionaria alla quale il capitalismo debba rispondere con la violenza e la “dittatura terroristica aperta”. È altresì evidente però che stiamo attraversando una crisi dell’assetto prodotto dalla vittoria delle tendenze neoliberiste contro quelle socialdemocratiche e comuniste negli anni ’80 e dall’apparente trionfo finale del capitalismo determinato dal crollo sovietico del decennio successivo.
Neoliberismo e globalizzazione capitalistica, garantite dal predominio statunitense in quanto unica potenza globale, sono stati i due pilastri del trentennio successivo. Il concatenarsi di una serie di crisi (economico-finanziarie, sociali, politiche) ha determinato la messa in crisi di quell’assetto che sembrava ormai dominare incontrastato e promettere un futuro di democrazia e prosperità per tutto il mondo. L’emergere di un conflitto tra stati del cosiddetto sud globale e blocco occidentale è una delle ricadute della crisi di quell’assetto capitalistico.
L’ascesa dell’estrema destra trova il suo fondamento negli scricchiolii e nelle contraddizioni di questa struttura in parte rinnovata del capitalismo che ha dominato oltre un trentennio e dalle conseguenze che da esso sono derivate sul contesto sociale.
È riscontrabile quindi, a mio parere, un nesso evidente tra elementi di crisi strutturale e reazione sul terreno della sovrastruttura politica e ideologica. Non convince invece la tesi secondo la quale l’ascesa della destra sarebbe solo l’effetto della reazione alle politiche dei vari governi del centrosinistra. Questo è in parte vero, nella misura in cui il centrosinistra ha aderito ad una visione solo più morbida e contrattata dello stesso paradigma neoliberista e globalizzatore sul quale hanno puntato le classi dominanti.
Appare insostenibile, se non a prezzo di una torsione evidente della realtà utile solo a puntellare una specifica strategia politica, la tesi secondo la quale la destra non avrebbe una sua “forza autonoma”. La destra esisterebbe solo in quanto riflesso dell’azione delle politiche del centrosinistra. Su questa ipotesi ha scommesso per diversi anni lo stesso Melenchon in Francia con la formula dei “fachés pas fachos”. Ovvero che gli elettori della Le Pen fossero in gran parte arrabbiati ma non fascisti. La scorsa settimana in un discorso di notevole interesse (a prescindere che si condividano o meno molte delle sue tesi, e io sono fra quelli che dissentono su diversi punti) ha dichiarato di avere abbandonato quel tipo di analisi, riconoscendo che in realtà molti di coloro che votano a destra non lo fanno solo per ragioni genericamente di protesta, ma perché si riconoscono nelle tesi e nell’ideologia propugnata dal Rassemblement National.
D’altra parte è difficile sostenere che in Italia, dove la destra si è riorganizzata a partire dalla crisi dei grandi partiti di massa e, tranne un breve momento nel quale il Movimento 5 Stelle è riuscito a beneficiare della crisi del berlusconismo, ha sempre avuto altissimi livelli di consenso, si possa parlare di una destra senza “forza autonoma”. La destra ha sempre riassorbito la crisi di uno dei suoi partiti attraverso lo spostamento elettorale interno piuttosto che con la fuoriuscita di voti verso l’altro campo. In questi due anni, nonostante molte delle politiche del governo Meloni si siano mosse in direzione contraria alle roboanti e demagogiche promesse degli anni scorsi, il consenso resta molto alto e sembra quasi inattaccabile dalle concrete vicende politiche. D’altra parte nel caso della presidenza di Reagan si parlò di un “effetto Teflon”.
Tutto ciò tende a confermare che la destra, soprattutto nelle sue posizioni estreme, è in grado di intervenire sulla crisi dell’assetto capitalistico neoliberista e sulle sue ricadute sociali, facendo leva su meccanismi psicologici profondi. Una visione sostanzialmente tribale del mondo e della società, nella quale ognuno si colloca all’interno di un insieme collettivo da difendere nei confronti di chi non ne fa parte, o per dirla in modo più elegante, una concezione etnonazionalista, si coniuga ad una visione gerarchica della società (la rivista del fascismo italiano si intitolava “Gerarchia”) nella quale la differenza fra ricchi e poveri è dato naturale e legittimo frutto delle diverse capacità e meriti. Questa visione, che viene ovviamente adottata dai ricchi pro-domo loro, è anche assorbita da settori molti più ampi della società. Tribalismo, spirito gerarchico e antistatalismo sono risorse politiche potenti e che agiscono nel lungo periodo anche se solo in determinate congiunture tendono a diventare predominanti.
Un altro elemento importante che caratterizza l’ascesa dell’estrema destra è dato dalla rilevanza del conflitto amico-nemico come principio regolatore della lotta politica. Il trumpismo è un processo continuo di costruzione del nemico e della trasformazione dell’avversario in nemico. L’immigrato ovviamente per primo, le élite culturali separate però da quelle economiche, fino ai transgender che quando diventano nuotatori o pugili, per fare esempi concreti, seminerebbero il terrore fra i genitori e le ragazze. Si deve notare che non c’è un esatto parallelismo con la costruzione del nemico che viene operata dalle forze politiche del centro-sinistra. In questo caso il nemico è quello che opera sul terreno direttamente politico: il berlusconismo, il fascismo, ecc. Il nemico in una certa misura diventa astratto perché opera nello spazio politico che per molti elettori è altro dalla propria condizione di vita quotidiana. Il nemico della destra è presente nella società, può essere ovunque e questo conflitto (vero o più spesso presunto) viene rappresentato nella sfera della politica.
Tutto questo comporta, da parte dell’estrema destra, una concezione del potere come strumento necessario a far fronte a minacce esistenziali e in quanto tale non subordinato ad alcun limite che non sia quello della volontà popolare, così come è interpretata dalla destra stessa. Anche quando in realtà, la volontà popolare esprime orientamenti esattamente opposti (come nel caso dell’aborto negli Stati Uniti).
Il populismo di sinistra (Laclau, Mouffe) ha cercato di riformulare il concetto di amico-nemico elaborato dal filosofo della politica (nazista) Carl Schmitt come strumento necessario per aggregare un “popolo” altrimenti disperso in tanti rivoli non comunicanti tra loro. Questa individuazione del nemico, adottata da Podemos, ha funzionato relativamente, in una prima fase, così come ha favorito il successo dei 5 Stelle contro “la casta”, ma ha dimostrato la sua fragilità perché non sufficientemente radicato nell’insieme delle relazioni sociali delle persone, così come era invece per il nemico di classe.
Resta però un problema aperto e irrisolto per la tendenza della sinistra socialliberale a contrapporre al meccanismo di consenso su cui è costruito il “blocco sociale reazionario”, che unisce tre elementi chiave (la dimensione ideologica, la difesa degli interessi materiale, la contrapposizione al nemico) una retorica dei valori che risulta debole sul piano ideologico, inefficace nella difesa degli interessi materiali anche per ché pesano gli stretti legami con settori delle classi dominanti e incapace di legare i due elementi ad una visione conflittuale della società.
Questi elementi di analisi ancora parziali e provvisori sono la premessa necessaria per la costruzione di una strategia politica che unisca insieme lo scontro aperto col “blocco sociale reazionario” e la costruzione necessariamente conflittuale con la gran parte delle forze della sinistra socialliberale di un “blocco sociale alternativo” potenzialmente maggioritario.
Franco Ferrari