Il 57° “Rapporto sulla situazione sociale del paese” della Fondazione Censis (FrancoAngeli, Milano 2023) descrive le molte facce della società italiana con la consueta arguzia interpretativa e ricchezza di dati quantitativi. Ne emerge una fotografia in cui prevale un Paese “sonnambulo”, intorpidito, in preda ad un senso di impotenza e pieno di preoccupazioni, intrappolato nell’emotività (affetto da “una ipertrofia emotiva mossa da scosse emozionali che tramutano tutto in emergenza e conducono a spasmi apocalittici e fughe millenaristiche”). Ma anche un paese in cui è presente e viva una società favorevole a nuove istanze di benessere psicofisico e di equità e, soprattutto, che è molto più aperta dei governanti sul fronte dei diritti civili e sociali e della accettazione della diversità socio-culturale. Nel complesso, il Censis disegna un quadro che contraddice marcatamente la narrazione tranquillizzante e ottimistica che la destra politica ha cercato di accreditare nell’ultimo anno di governo (secondo la quale “per ogni problema c’è un bonus” e un microintervento o un decreto legge), al contempo segnalando inequivocabilmente che c’è poi una società della diversità socio-culturale e dei diritti che la destra non vuole vedere e legittimare, ma solo oscurare e reprimere.
Centrali nell’analisi del Censis sono gli aspetti della psicologia collettiva che hanno un riflesso socio-economico. Per cui al centro dell’analisi ci sono le preoccupazioni e le ansie degli italiani. Che sono tante e in aumento: paura degli effetti del clima (surriscaldamento, siccità, alluvioni), del crollo demografico, delle guerre, della criminalità (in calo), di un futuro in solitudine e di non contare. L’84% degli italiani è impaurito dal clima “impazzito”; il 73,4% teme che i problemi strutturali irrisolti del nostro Paese provocheranno nei prossimi anni una crisi economica e sociale molto grave con povertà diffusa e violenza; per il 73% gli sconvolgimenti globali sottoporranno l’Italia alla pressione di flussi migratori sempre più intensi e non saremo in grado di gestire l’arrivo di milioni di persone in fuga dalle guerre o per effetto del surriscaldamento climatico; il 53,1% ha paura che il colossale debito pubblico (in cammino verso i 3 trilioni di euro) provocherà il collasso finanziario dello Stato.
Il ritorno della guerra ha suscitato nuovi allarmi: il 59,9% degli italiani ha paura che scoppierà un conflitto mondiale che coinvolgerà anche l’Italia; per il 59,2% il nostro Paese non è in grado di proteggersi da attacchi terroristici di stampo jihadista; il 49,9% è convinto che l’Italia non sarebbe capace di difendersi militarmente se aggredita da un Paese nemico; per il 38,2% nella società sta crescendo l’avversione verso gli ebrei.
La “maggioranza silenziosa” si sente più fragile, a causa di quello che viene definito “disarmo identitario e politico” (la non partecipazione attiva alla vita politica), tanto che il 56% (il 61,4% tra i giovani) è convinto di contare poco nella società. Gli intervistati si dichiarano feriti da un profondo senso di impotenza con il 60,8% (il 65,3% tra i giovani) che prova una grande insicurezza a causa dei tanti rischi inattesi. E, infine, si sentono delusi dalla globalizzazione (il 69,3% dice che ha portato all’Italia più danni che benefici) e rassegnati (l’80,1% è convinto che l’Italia sia irrimediabilmente in declino).
Anche il welfare del futuro instilla nell’immaginario collettivo grandi preoccupazioni: il 73,8% degli italiani ha paura che negli anni a venire non ci sarà un numero sufficiente di lavoratori per pagare le pensioni e il 69,2% pensa che non tutti potranno curarsi, perché la sanità pubblica non riuscirà a garantire prestazioni adeguate. D’altra parte, la sanità pubblica, destinataria di promesse di espansione della spesa nella fase più acuta della pandemia, quando aveva assunto una granitica centralità nell’agenda del paese (con la parola d’ordine di ricostruire la “sanità territoriale”), ha visto in breve tempo il tradimento di quelle promesse con la contrazione delle risorse economiche disponibili e del personale1. Oggi, si rivela tutta la profondità del gap esistente tra l’offerta pubblica di prestazioni sanitarie e i reali fabbisogni di cura della popolazione (il “razionamento sanitario” delle liste di attesa sempre più lunghe), con l’obbligo di ricorrere in molti casi alla sanità privata a pagamento intero. I decisori politici non sono consapevoli che il welfare non è solo uno strumento per promuovere solidarietà, coesione sociale, senso di sicurezza, benessere ed equità, ma anche un modo efficace di fare economia perché genera produzione, occupazione e reddito.
Secondo il Censis, il risultato della “ipertrofia emotiva” – alimentata in modo distorto da media, politica, centri studi e corpi intermedi con un “opinionismo dilagante, inteso come la proliferazione di verità soggettive, parziali, faziose, indimostrate, che però si autolegittimano nell’arena pubblica” – è che oggi per gli italiani tutto è emergenza, dunque, alla fine, nulla lo è veramente. Nulla smuove e mobilita i cittadini che sono “sonnambuli”, sprofondati in un sonno della ragione che li rende “ciechi davanti ai presagi”, paralizzati e rassegnati ad un declino inarrestabile, incapaci di pensare e darsi una prospettiva di futuro, inerti dinanzi alla molteplicità delle sfide che la società contemporanea deve affrontare. “La società italiana sembra affetta da sonnambulismo diffuso, precipitata in un sonno profondo del calcolo raziocinante che servirebbe per affrontare dinamiche strutturali, di lungo periodo, dagli effetti potenzialmente funesti”2. Un “sonnambulismo” che “non è solo attribuibile alle classi dirigenti, ma è un fenomeno diffuso nella ‘maggioranza silenziosa’ degli italiani”. Quella del Censis è una fotografia impietosa della società italiana in cui alcuni processi economici e sociali, i cui effetti dirompenti sono largamente prevedibili, sembrano essere rimossi, o comunque sottovalutati, dall’agenda collettiva del Paese. “L’insipienza di fronte ai cupi presagi si traduce in una colpevole irresolutezza”.
L’Italia descritta dal Censis è un paese dalle mille meraviglie, se ammirato dall’alto delle lussuose terrazze cittadine o degli strapiombi sul mare, ma invischiato in tutte le sue arretratezze, se vissuto dal basso. Prevale quello che viene definito “l’arrangiamento istintivo” rispetto a un “disegno razionale” (basato su studio, competenze ed impegno) dove ormai quel “meccanismo di promozione e mobilità sociale si è usurato“. In sostanza, “tra vitalità disperse e un confronto pubblico giocato su emozioni di brevissima durata, la società italiana trascina i piedi“, “cammina raso muro”.
Ci sono “molte scie, nessuno sciame” o “una direzione, pochi traguardi”. Emerge una società che non riesce ad avviare un nuovo ciclo e che cerca di sostituire “il modello di sviluppo costruito a partire dagli anni ’60 nel quale si rivendicava il lasciar fare“3 o “il riconoscimento delle identità e dei diritti collettivi” con un nuovo modello “confuso” che punta più sul “lasciar essere, l’autonoma possibilità – specie per le giovani generazioni – di interpretare lavoro, investimenti, coesione sociale, senza vincoli collettivi“. “Poco o nulla si dice, in termini strutturali, sul come e quando rinnovare università e scuola; rilanciare ricerca e innovazione; tutelare parametri salariali e sicurezza del lavoro; immaginare un nuovo equilibrio tra equità e sostenibilità dell’impianto fiscale. In ogni ambito della vita e delle responsabilità collettive, se la direzione della crescita, del profitto, della mobilità si mostra in evidenza, la perdita di spinta di processi, soggetti, interventi sociali oscura l’affermazione e l’applicazione di traguardi condivisi”.
Un paese con un crollo demografico e forti distanze tra le generazioni
Nel 2050, l’Italia avrà perso complessivamente 4,5 milioni di residenti (come se le due più grandi città, Roma e Milano insieme, scomparissero). Si prevede una diminuzione di 9,1milioni di persone con meno di 65 anni (in particolare, -3,7 milioni con meno di 35 anni) e di un contestuale aumento di 4,6 milioni di persone con 65 anni e oltre (in particolare, +1,6 milioni con 85 anni e oltre) 4.
Gli effetti dell’”inverno demografico” saranno anche sul mondo del lavoro: si stimano quasi 8 milioni di persone in età attiva in meno nel 2050, con un impatto molto serio sull’economia. “Una scarsità di lavoratori che avrà inevitabili impatti sulla struttura dei costi del sistema produttivo e sulla capacità di generare valore del settore industriale e terziario”. Nel nuovo contesto del mercato del lavoro caratterizzato dalla decrescita demografica, aumenterà anche la competizione tra aziende medio-grandi nell’attrarre e trattenere i lavoratori, utilizzando anche lo strumento del welfare aziendale.
Il numero delle famiglie è destinato ad aumentare perché saranno di dimensioni più piccole: il numero medio dei componenti delle famiglie scenderà dai 2,31 del 2023 ai 2,15 nel 2040. Le coppie con figli diminuiranno fino a rappresentare nel 2040 solo il 25,8%. Aumenteranno le famiglie unipersonali fino a 9,7 milioni (il 37%). Tra di esse, quelle costituite da anziani nel 2040 diventeranno quasi il 60% (5,6 milioni). Secondo le stime, nel 2040 il 10,3% degli anziani continuerà ad avere problemi di disabilità. Gli anziani rappresentano oggi il 24,1% della popolazione complessiva e nel 2050 saranno 4,6 milioni in più: raggiungeranno un peso del 34,5% sul totale della popolazione. Gli anziani di domani saranno sempre più senza figli e sempre più soli. Saranno in prevalenza donne: se oggi, tra le donne che vivono da sole, il 63,6% ha più di 64 anni, nel 2040 si arriverà al 71,7%, contro il 40,4% di uomini anziani sul totale degli uomini soli.
Mentre solo un terzo degli anziani di oggi pensa che sul piano economico stia vivendo una condizione peggiore di quella dei propri genitori, la consapevolezza di una vecchiaia più problematica viene richiamata dal 75,4% dei rispondenti più giovani (dai 18 ai 34 anni). Le difficoltà legate a una mancata o insufficiente risposta ai bisogni assistenziali, o dipendenti dalla carenza di relazioni sociali, potrebbero risultare perciò più rilevanti per la popolazione degli anziani di domani, che vivranno da soli in misura maggiore di oggi. Inoltre, erano 1,9 milioni gli anziani con gravi limitazioni funzionali nel 2021: il 13,7% del totale degli anziani e il 63,1% del totale delle persone con limitazioni in Italia. Le stime per il 2040 mettono in luce che una quota non indifferente (pari al 10,3%) continuerà ad avere problemi di disabilità legati a tali limitazioni, e aumenterà il loro peso sul totale (67,2%). Rimane quindi sul tappeto il tema ineludibile del bisogno assistenziale (l’intreccio di servizi socio-sanitari domiciliari, famiglie, caregiver, cooperazione sociale e terzo settore) legato agli effetti epidemiologici dell’invecchiamento, con il peso delle malattie cronico-degenerative, aggravato, ancora una volta, dall’impatto delle dinamiche demografiche.
Seppure l’89,9% degli over 65 è proprietario della casa in cui vive5, il 65,3% degli anziani ritiene che la pensione percepita da sola non sia in grado di garantire il benessere nella terza e quarta età. L’84,6% dei longevi ritiene che per garantirsi una vecchiaia serena sia fondamentale disporre di altre fonti di entrata alternative e/o integrative di reddito, e investire i propri risparmi. Oggi il 41% degli anziani risparmia regolarmente e il 28% di tanto in tanto. Del resto, gli anziani spesso continuano a garantire un supporto economico a favore dei familiari più giovani, figli e nipoti. Nell’ultimo anno lo ha fatto il 42% degli anziani.
I 18-34enni sono poco più di 10 milioni, pari al 17,5% della popolazione totale, mentre nel 2003 superavano i 13 milioni, pari al 23% della popolazione: in vent’anni abbiamo perso quasi 3 milioni di giovani. E le previsioni per il futuro sono fortemente negative: nel 2050 i 18-34enni saranno poco più di 8 milioni, appena il 15,2% della popolazione. I giovani sono pochi, esprimono un leggero peso demografico, quindi inesorabilmente contano poco e spesso rimangono silenziosi (“con il risultato che il loro disagio resta imbrigliato nella sfera individuale ed emotiva, sfociando spesso in stati di ansia e di paura, e in comportamenti di rifiuto o di fuga” come il non voto e il non lavoro e non studio – Neet, e l’espatrio). Ad esempio, solo l’11,1% dei 7.786 sindaci hanno meno di 34 anni.
La distanza esistenziale dei giovani di oggi dalle generazioni che li hanno preceduti sembra abissale. Si è bloccato l’ascensore sociale che da sempre garantiva un maggiore benessere nel passaggio da una generazione all’altra; hanno visto infrangersi il mito del progresso inteso come crescita inarrestabile dell’economia e dei consumi, convinzione sostituita adesso dalla consapevolezza che occorre adottare stili di vita più rispettosi dell’ambiente; e il loro posizionamento sociale sembra piuttosto dettato dal rapporto, più o meno stretto e funzionale, con i dispositivi e le piattaforme digitali.
In effetti, la grande maggioranza degli italiani riconosce che i giovani, in questo momento, sono la generazione più penalizzata di tutte: lo pensa il 57,3% del totale, mentre il 30,8% vede danneggiato soprattutto chi oggi è in età lavorativa e l’11,9% pensa invece che siano lasciati indietro soprattutto gli anziani.
Un paese caratterizzato da una diversità di modelli familiari
Le famiglie in Italia sono complessivamente 25,3 milioni. Quelle tradizionali, composte da una coppia, con o senza figli, sono il 52,4% del totale. Nel frattempo, tutte le altre tipologie non convenzionali stanno aumentando, e non sembra essere lontano il momento in cui i nuovi format familiari supereranno quelli tradizionali: il 33,1% delle famiglie è composto da persone che vivono da sole, e nel 20,9% dei casi (5,3 milioni) si tratta di single, ovvero di persone sole non vedove, cioè persone che vivono da sole per scelta o comunque senza un partner; il 10,7% delle famiglie (2,7 milioni) è di tipo monogenitoriale, in quanto è composta da un genitore solo con figli (nel 2009 la quota era dell’8,7%). Si tratta generalmente di nuclei formati a seguito di separazioni o divorzi, e nella grande maggioranza dei casi il genitore che vive con i figli è la madre.
Il numero dei matrimoni si riduce (ne erano stati celebrati 246.613 nel 2008, solo 180.416 nel 2021) e oggi esistono 1,6 milioni di famiglie (l’11,4% del totale) costituite da coppie non coniugate. Dal 2018 al 2021 sono state celebrate 8.792 unioni civili (all’inizio del 2022 in Italia risultavano 17.453 cittadini residenti uniti civilmente).
I cittadini stranieri oggi sono presenti in 2,6 milioni di nuclei familiari (il 9,8% del totale), e 1,8 milioni di famiglie (il 7,0% del totale) sono composte esclusivamente da cittadini stranieri.
Oggi sembra giunta a maturazione una nuova stagione di rivendicazioni nel campo dei diritti civili, come dimostrano le opinioni espresse dagli italiani in merito ad alcune questioni dirimenti che faticano a trovare un riconoscimento ufficiale per via legislativa: il 74,0% degli italiani si dice favorevole all’eutanasia, con percentuali trasversali al corpo sociale, che arrivano all’82,8% tra i giovani e al 79,2% tra i laureati; il 70,3% degli italiani (quota che sale al 77,1% tra le donne e al 75,1% tra i giovani) approva l’adozione di figli da parte dei single; il 65,6% si schiera a favore del matrimonio egualitario tra persone dello stesso sesso, con percentuali che arrivano al 79,2% tra i giovani e raggiungono un significativo 45,4% di favorevoli anche tra gli anziani; il 54,3% della popolazione si esprime per l’adozione dei figli da parte di persone dello stesso sesso, con percentuali che vanno da un massimo pari al 65,5% tra i giovani a un minimo del 41,4% tra gli anziani; rimane invece minoritaria, pari al 34,4% delle opinioni, la quota di italiani favorevoli alla gestazione per altri (Gpa), la forma di procreazione assistita in cui una donna si assume l’obbligo di provvedere alla gestazione e al parto per conto di altri senza assumersi la responsabilità genitoriale.
In merito al riconoscimento della cittadinanza italiana ai minori stranieri, il 72,5% degli italiani si dice favorevole all’introduzione dello ius soli, ovvero la cittadinanza per i minori nati in Italia da genitori stranieri regolarmente presenti, e il 76,8% si esprime a favore dello ius culturae, ovvero la concessione della cittadinanza agli stranieri nati in Italia o arrivati in Italia prima dei 12 anni che abbiano frequentato un percorso formativo nel nostro paese.
Un paese di emigrazione: espatriati ed esuli in fuga verso l’altrove
L’Italia continua a essere un paese di emigrazione (sono più di 5,9 milioni gli italiani attualmente residenti all’estero) più che di immigrazione (sono 5 milioni gli stranieri residenti nel nostro paese). I 5.933.418 italiani residenti all’estero (pari al 10,1% dei residenti in Italia) hanno registrato un incremento del 36,7% negli ultimi dieci anni (ovvero quasi 1,6 milioni in più). Ad espatriare di più sono i giovani. Nell’ultimo anno le iscrizioni all’Aire per espatrio sono state 82.014, di cui il 44% (la quota più elevata tra le classi di età considerate) da parte di italiani di 18-34 anni, per un totale di 36.125 giovani che hanno scelto di cercare altrove la propria strada, definitivamente o per un periodo transitorio. Tra loro cresce il peso dei laureati sugli expat 25-34enni, passando dal 33,3% del 2018 al 45,7% del 2021. Un drenaggio di competenze che non è inquadrabile nello scenario di per sé positivo e auspicabile della circolazione dei talenti, considerato che il saldo migratorio dei laureati appare costantemente negativo per l’Italia6.
Se si aggiungono anche i minori al seguito delle loro famiglie (13.447), l’espatrio delle nuove generazioni di italiani ha sfiorato nell’ultimo anno le 50.000 unità, il 60,4% di tutti gli iscritti per espatrio. Le mete predilette rimangono il Regno Unito (il 16,4% delle partenze dell’ultimo anno), poi Germania (13,8%), Francia (10,4%) e Svizzera (9,1%).
Un paese che non può fare a meno degli stranieri
Il mercato del lavoro non può fare a meno degli stranieri. Nei prossimi tre anni saranno ammessi in Italia attraverso il “Decreto flussi” 452.000 cittadini stranieri, un numero decisamente più alto rispetto al passato.
I lavoratori stranieri sono 2.374.000 e rappresentano il 10,3% del totale degli occupati. Di questi, 2.068.000 (l’87,1%) sono lavoratori dipendenti. Tra i lavoratori dipendenti stranieri, il 22,5% (465.000) è occupato a tempo determinato e il 24,4% (579.000) ha un lavoro part time. Tra gli stranieri occupati, il 29,9% svolge lavori per cui non è necessaria alcuna qualifica professionale, contro il 9,5% degli occupati italiani, e solo l’8,2% è impiegato in professioni tecniche e qualificate, contro il 37,3% degli italiani. Il 48,2% degli stranieri che lavorano è in possesso al massimo della licenza media (tra gli italiani la quota è del 27,4%), mentre l’11,5% è in possesso di un titolo terziario (tra gli italiani la quota sale al 25,8%). E il 61,4% degli stranieri laureati svolge lavori di livello più basso rispetto al titolo conseguito.
Sono gli stessi cittadini italiani che dichiarano per il 72,8% del totale che i migranti svolgono lavori necessari che gli italiani non vogliono fare, con percentuali che arrivano al 76% nelle regioni del Sud.
Oltre 5 milioni di residenti, l’8,5% del totale; il 45,6% ha meno di 35 anni; circa 85mila nati da almeno un genitore straniero (un neonato ogni 5); oltre un milione di minori; quasi 900mila studenti (il 10,6% del totale degli iscritti): l’immigrazione è già una realtà, cresciuta in maniera silenziosa senza che ci fossero particolari problemi per la sicurezza del paese. Se non ci fossero gli stranieri oggi l’Italia avrebbe poco meno di 54 milioni di abitanti.
Il rallentamento dell’economia nell’incerto scenario globale
Il contesto economico generale sta nuovamente scontando la presenza di vari fattori di incertezza, a partire dalla persistenza di alta inflazione e alti tassi di interesse, oltre a una situazione politica internazionale tutt’altro che positiva. Il segno negativo davanti alla variazione del PIL nel secondo trimestre dell’anno (-0,4%) e poi la stagnazione dell’economia registrata nel terzo trimestre (0,0%) certificano una nuova fase di incertezza, che peraltro ancora non incorpora gli effetti del conflitto in Medio Oriente. Tra il primo e il secondo trimestre di quest’anno si sono ridotti dell’1,7% gli investimenti fissi lordi (in particolare nelle costruzioni: -3,3%), ma sono aumentate le esportazioni7.
Molte delle attese di ripresa e rafforzamento del sistema produttivo italiano all’interno delle transizioni/conversioni energetica e digitale si sono riversate, in questi anni, sulle potenzialità del PNRR, che secondo le stime raggiungerà alla fine del 2023 una percentuale di completamento effettivo pari al 50%, contro una previsione del 74% della spesa. Ritardi, difficoltà e forti elementi di criticità fanno crescere i dubbi sulla capacità operativa di attuarlo e portarlo a termine.
È il settore del turismo che ha registrato un rilevante incremento del fatturato (la stima del valore diretto ed indiretto del settore è stimato in 255 miliardi, pari al 13% del PIL), soprattutto in relazione al flusso di turisti stranieri che hanno raddoppiato la spesa (benché il valore rimanga ancora inferiore del 9% in termini reali rispetto al 2019 pre-Covid). Nel giro di dieci anni, tra il 2012 e il 2022, il numero dei posti letto disponibili nelle strutture di ospitalità è cresciuto nel complesso del 9,2%, fino a superare i 5,2 milioni. Ma l’aumento dei posti letto non si è distribuito uniformemente tra il comparto alberghiero e gli esercizi extra-alberghieri. È avvenuta una ristrutturazione dell’industria alberghiera, con l’aumento degli esercizi con un più alto numero di stelle, cioè hotel di alta gamma riposizionati su un’offerta di servizi di ospitalità più ampia e con più elevati standard qualitativi. Allo stesso tempo, la riduzione di alberghi e pensioni di fascia bassa è stata compensata dall’espansione del mercato delle locazioni brevi, come provato dal forte incremento degli alloggi in affitto gestiti in forma imprenditoriale8. Si tratta di un fenomeno fortemente stimolato dalle piattaforme per le prenotazioni online, che mettono in contatto diretto affittuari e viaggiatori. Un fenomeno che riguarda in modo particolare i centri storici nelle città d’arte, tenuto conto che il 45,8% dei viaggiatori stranieri venuti in Italia per le vacanze nel 2022 lo ha fatto per ragioni culturali o per visitare appunto una città d’arte.
Ma, il Censis nota che il “patto faustiano” tra le grandi città (in particolare, le città d’arte) e il turismo (e i suoi ritorni in termini economici) ha assunto ormai il profilo allarmante dell’overtourism: nel 2022 gli esercizi alberghieri ed extra-alberghieri hanno registrato 25,8 milioni di arrivi, di cui 9,5 milioni da parte di viaggiatori nazionali e 16,3 milioni da parte di viaggiatori esteri. Roma ne ha accolti oltre 7 milioni, Milano e Venezia più di 4 milioni ciascuna. Il totale dei pernottamenti che si riferiscono ai dieci grandi comuni ha raggiunto, sempre nel 2022, i 72 milioni, in progressivo avvicinamento agli 82 milioni registrati nel 2019, prima della pandemia. In termini di pressione sul perimetro delle dieci città, è come se ci si confrontasse, nel caso degli arrivi, con una popolazione insistente pari a tre volte la popolazione residente e, nel caso delle presenze, con una popolazione insistente pari a otto volte quella residente.
Il Censis parla di “città porose”: piene di gatti e cani domestici (anche di fauna selvatica, talvolta), attraversate quotidianamente da flussi intensi di pendolari e turisti; città dai confini mobili, permeabili, porosi appunto, ma senza riuscire a “contenere” al meglio tali flussi, vale a dire senza esprimere reali processi di innovazione urbanistica. Con il rischio di diventare frequentemente teatro di fenomeni di inselvatichimento e degrado (nella produzione di rifiuti, nel traffico, nell’accesso alle reti e ai servizi, nei reati, nella qualità della vita). Già oggi nelle grandi città metropolitane affittare un alloggio (o anche solo una stanza se si è studenti universitari fuorisede) costa il 9,1% in più rispetto al 2022. La messa a reddito delle proprietà immobiliari nel circuito turistico riflette una logica da rentier e determina la difficoltà di trovare una casa in affitto o in proprietà a prezzi accessibili. In molte realtà urbane questo ha portato al progressivo spostamento della popolazione residente, soprattutto da parte dei più giovani e delle famiglie con redditi più bassi, dai centri storici verso le periferie o i comuni limitrofi, dando vita all’espansione disordinata dello sprawl urbano, al consumo di suolo e al pendolarismo di massa.
Se le grandi aree metropolitane stanno diventando luoghi troppo pieni, nel paese ci sono ampie aree della penisola sottoposte ad un’accelerazione dei fenomeni socio-economici-demografici di rarefazione e svuotamento delle risorse materiali ed immateriali (desertificazione produttiva e dei servizi, spopolamento, invecchiamento, ecc.). Le “aree interne” sono “territori fragili”, distanti dai centri principali di offerta dei servizi essenziali e troppo spesso abbandonati a loro stessi, che coprono complessivamente il 60% dell’intera superficie del territorio nazionale, il 52% dei Comuni e il 22% della popolazione (circa 13 milioni di persone). Da anni esiste una Strategia nazionale di intervento dotata di fondi propri (591 milioni di euro), ai quali se ne aggiungeranno altri del PNRR (830 milioni) che punta a potenziare servizi e infrastrutture sociali di comunità e a diffondere servizi sanitari di prossimità.
Un diverso rapporto con il lavoro
Nonostante il rallentamento dell’economia, l’Italia ha toccato il record dell’occupazione: nel primo semestre 2023 si sono contati quasi 23 milioni 500 mila occupati, con un significativo aumento dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato. Il dato più elevato di sempre. Eppure il sistema produttivo lamenta la carenza di manodopera e di figure professionali. E poi a fronte dei nostri numeri da record rimaniamo il fanalino di coda dell’Unione Europea per tassi di attività, occupazione e disoccupazione. Il tasso di occupazione è pari al 60,1%, aumentato di 2 punti percentuali tra il 2020 e il 2022 (uomini al 69,2%; donne al 51,1%), ma ancora di quasi 10 punti al di sotto del dato medio europeo (69,8%). Se si raggiungesse il dato medio europeo, avremmo circa 3,6 milioni di occupati in più, tanto da compensare il numero delle persone in cerca di occupazione (poco più di 2 milioni nel 2022) e ridurre significativamente il livello di inattività, anch’esso da record se confrontato con gli altri Paesi europei.
Se si guardano le retribuzioni si vede che il divario di genere pesa nelle tasche dei lavoratori. Fatto 100 il salario di un uomo 25-34enne, il salario di una donna della stessa età è pari a 90 tra chi possiede al massimo il titolo secondario di primo grado, a 85 con diploma di scuola secondaria di secondo grado, a 89 con l’istruzione terziaria.
Al tempo stesso, moltissimi danno meno valore al successo lavorativo e desiderano più tempo per curare gli interessi personali, con una maggiore conciliazione lavoro-vita. Per l’87,3% degli occupati mettere il lavoro (sia dipendente sia autonomo) al centro della vita è un errore. “Non è il rifiuto del lavoro in sé, ma un suo declassamento nella gerarchia dei valori esistenziali”, si legge, una forma inedita e contemporanea del tradizionale desiderio di autonomia individuale, che ora si incammina sui sentieri del benessere minuto, soggettivamente inteso, nella persuasione che questa sia la modalità migliore per accedere a una più alta qualità della vita (verso “una nuova soggettività dei desideri a bassa intensità”). Per cui, “il lavoro sembra aver perso il suo significato più profondo, come riferimento identitario, perno centrale della vita, misura del successo personale e dell’affermazione sociale, oltre che mezzo di gratificazione economica”. Sono soprattutto i giovani ad aver cambiato l’attribuzione di senso verso il lavoro. “La migliore generazione dal dopoguerra ad oggi sta spiazzando ogni connessione tra domanda e offerta di lavoro: non è più in cerca di un lavoro, ma di un contesto lavorativo nel quale riconoscersi per costruire un processo di crescita e benessere che meglio si adatta alle proprie personali prerogative”.
Il 62,1% degli italiani avverte il desiderio quotidiano di momenti da dedicare a sé stessi e un plebiscitario 94,7% rivaluta la felicità derivante dalle piccole cose di ogni giorno, il tempo libero, gli hobby, le passioni personali. Rispetto al passato, l’81% degli italiani dedica molta più attenzione alla gestione dello stress e alla cura delle relazioni. Il consumo progressivo non è più la forza vitale che trascina gli italiani e li spinge a lavorare di più per generare più reddito da spendere. Il 74,8% dei lavoratori dichiara esplicitamente di non avere voglia di lavorare di più per poter consumare di più, e non ha intenzione di farsi guidare come in passato dal consumismo. “È il tempo dei desideri minori: non più uno stile di vita all’insegna della corsa irrefrenabile verso maggiori consumi come sentiero prediletto per conquistarsi l’agiatezza, ma una più pacata ricerca nel quotidiano di piaceri consolatori per garantirsi uno spicchio di benessere – magari temporaneo e reversibile – in un mondo ostile”. Un’evoluzione che è frutto di un ripensamento diffuso del senso della vita e delle cose importanti a cui dedicare le proprie energie, ma che è anche l’esito di processi di lunga deriva, come la decrescente redditività degli investimenti sociali – dallo studio al lavoro (con le retribuzione al palo da decenni, il lavoro povero, i mancati rinnovi contrattuali e una scarsa progressione delle carriere) –, con il conseguente ripiegamento sul presente.
Nonostante stipendi tra i più bassi in Europa, gli insegnanti rimangono motivati
Un problema emergente è la percezione di una scuola che rimane troppo distante dal mondo del lavoro (nonostante che da ormai 20 anni prevalga il paradigma educativo dell’alternanza scuola-lavoro), una preoccupazione condivisa dall’85,9% degli italiani e dall’89,1% degli studenti. Tra il 2023 e il 2027, si prevede un fabbisogno occupazionale di quasi 1,3 milioni di laureati o diplomati, con una carenza annua di 8.700 professionisti formati. Questa discrepanza amplifica l’urgenza di riallineare l’educazione con le esigenze del mercato del lavoro.
I giovani italiani stanno diminuendo drasticamente. I 18-34enni, che rappresentavano il 23% della popolazione nel 2003, sono scesi al 17,5% nel 2023 e si prevede un ulteriore calo al 16,4% entro il 2043. La situazione è aggravata dall’alto numero di Neet (non impegnati in studi o lavoro), che in Italia è il 19%, notevolmente superiore alla media europea dell’11,7%. Criticità permangono riguardo al diritto allo studio, alla povertà educativa, alla dispersione scolastica implicita, all’abbandono scolastico e formativo e all’inadeguato numero di giovani laureati. L’intreccio dei loro effetti “produce una dissipazione di capitale umano che oltre ad essere socialmente intollerabile è disfunzionale al mercato del lavoro, dove il mismatch tra domanda e offerta è destinato ad aggravarsi drammaticamente per effetto del calo demografico”.
Nonostante retribuzioni tra le più basse in Europa, gli insegnanti italiani rimangono motivati. Dal 2010 al 2022, gli stipendi dei docenti della scuola secondaria sono diminuiti del 10,7% in termini reali, una contrazione significativamente maggiore rispetto alla media europea. L’Italia deve riscoprire “l’importanza della funzione docente, restituendo agli insegnanti giusta considerazione sociale e compensi adeguati al ruolo da loro svolto, più prossimi ai valori medi europei”. Molti dei nodi critici si trascinano da decenni: supplenze e precariato, bassi stipendi, svalorizzazione del ruolo, femminilizzazione, età elevata (il 57% ha più di 50 anni), squilibri Nord-Sud.
L’istruzione universitaria a distanza sta diventando la nuova normalità. Nel 2021-2022, il 1,9% degli iscritti negli atenei tradizionali seguiva corsi a distanza, mentre il 98% si trovava nelle università telematiche. I corsi di laurea a distanza attraggono prevalentemente studenti di età superiore alla media.
Nonostante gli sforzi, il divario di genere persiste nelle discipline STEM (economiche, statistiche, sanitarie e giuridiche). Nel 2021-2022, solo il 37% degli iscritti alle lauree STEM erano donne, un dato che riflette la necessità di politiche più efficaci per promuovere l’uguaglianza di genere in questi campi.
Studiare a lungo in Italia offre vantaggi significativi in termini di opportunità di lavoro, soprattutto per le donne. Tuttavia, persistono notevoli divari di genere nei livelli sia occupazionali sia retributivi, evidenziando la necessità di ulteriori interventi per garantire l’equità delle opportunità e salariale.
Una società favorevole ai diritti
Se, come abbiamo visto, il Censis fotografa un Paese pieno di paure, allo stesso tempo sottolinea come gli italiani si mostrano molto più a favore di tutti i principali cambiamenti del corpo sociale che riguardano i nuovi diritti civili, la tutela delle diversità/identità, dei singoli individui così come delle nuove forme di famiglie, evidenziando lo scollamento tra paese reale e politica. Il 70,3% degli italiani (quota che sale al 77,1% tra le donne e al 75,1% tra i giovani) approva l’adozione di figli da parte dei single. Il 54,3% è favorevole all’adozione da parte di coppie omogenitoriali. A schierarsi a favore del matrimonio tra persone dello stesso sesso, invece, è ben il 65,6%. Rimane invece minoritaria la quota di italiani (il 34,4%) che approvano la gestazione per altri (Gpa).
Oltre al 72,5% è favorevole all’introduzione dello ius soli, il 76% dice sì allo ius culturae, cioè la cittadinanza per gli stranieri nati in Italia o arrivati in Italia prima dei 12 anni che abbiano frequentato un percorso formativo nel nostro Paese.
In merito al 74,0% degli italiani favorevole all’eutanasia, le percentuali sono trasversali al corpo sociale, e arrivano all’82,8% tra i giovani e al 79,2% tra i laureati.
Da notare, infine, che l’88,7% degli italiani considera la connettività a Internet un diritto dei cittadini al pari della tutela della salute o della previdenza. L’80,8% è convinto che l’accesso al web dovrebbe essere gratuito (solo il 19,2% è contrario). Ne sono particolarmente convinti i giovani (84,5%)9. È stato durante la pandemia che è aumentata la familiarità con Internet e le tecnologie digitali anche tra quanti, come le persone meno istruite e più anziane, ne facevano un uso ridotto.
Tutte posizioni (a parte quella sulla Gpa) che sono in netta controtendenza con quanto sostenuto dalla maggioranza che governa il Paese. E tutti temi che il Parlamento sistematicamente ignora o affossa da anni, atteggiamento alla base della disaffezione dei cittadini alla politica.
Alessandro Scassellati
- Contro la bozza della legge di bilancio del governo Meloni che prevede ulteriori tagli alla sanità pubblica, il 5 dicembre hanno scioperato (con l’85% di adesione degli iscritti ai sindacati) i medici e gli infermieri, aderenti ai sindacati Anaao Assomed, Cimo-Fesmed e Nursing Up. Un movimento di protesta sta montando negli ospedali e questo sciopero sembra essere solo l’inizio di un percorso di mobilitazione. Il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), istituito con la Legge 833 del 23 dicembre 1978, rischia di scomparire, secondo coloro che ci lavorano. Quel servizio a carattere universalistico che introduceva per la prima volta un’assistenza sanitaria universale nella quale il bisogno è la sola condizione richiesta per accedervi, indipendentemente da età, reddito, occupazione ed estrazione sociale sta crollando sotto i colpi di mannaia dei tagli e l’aggirarsi dello spettro del disegno di legge del governo sulla cosiddetta “autonomia regionale differenziata”. Ciò sta accadendo nell’indifferenza anestetizzata di una parte consistente dell’opinione pubblica.[↩]
- A questo proposito il rapporto Censis nota che: “Nell’atmosfera emotiva in cui la società italiana si è immersa, vincono le credenze fideistiche: ogni verità ragionevole può d’improvviso essere ribaltata, sbullonata dal piedistallo della indubitabilità per effetto di una nuova onda emotiva. Agli sforzi raziocinanti di comprensione dei fenomeni e di confronto su ipotesi alternative per favorire la ricerca condivisa di soluzioni praticabili, si sostituisce la proiezione nel prisma dell’eccesso emotivo, che sollecita reazioni paradossali. Così trovano terreno fertile fughe millenaristiche, paure amplificate, l’improbabile e il verosimile, gli spasmi emotivi”. Ma, nota il Censis, “la pandemia, la crisi energetica e ambientale, le guerre ai bordi dell’Europa, l’inflazione, i flussi migratori, l’affermarsi di modelli di sviluppo diversi da quello occidentale, l’aggravarsi dei rischi demografici e dei nuovi bisogni di tutela sociale hanno però messo definitivamente a nudo i bisogni di medio periodo del nostro paese”.[↩]
- Il modello del “lasciar fare” è quello del sommerso, dei fili d’erba, dei distretti industriali, dei cespugli, delle “minoranze vitali” intuito, analizzato e raccontato dal Censis di Giuseppe De Rita dalla metà degli anni ’60 in avanti, mentre tutti si stracciavano le vesti sulla fine del miracolo economico. È utile ricordare che il capitalismo italiano è caratterizzato dal “nanismo” dimensionale: le imprese con meno di 10 addetti rappresentano il 95% del totale; quelle da 10 a 49 addetti sono il 4,3% (dato che sale al 15,8% per il settore industriale), mentre lo 0,5% ha dai 50 ai 249 addetti e lo 0,1% ha più di 250 addetti.[↩]
- Attualmente le donne in età feconda (convenzionalmente, la popolazione femminile di 15-49 anni di età) sono 11,6 milioni, nel 2050 diminuiranno di più di 2 milioni di unità, generando un insormontabile vincolo oggettivo per ogni tentativo di invertire nel breve termine il declino della natalità.[↩]
- Complessivamente, il 72,5% degli italiani, pari a 42,7 milioni di persone, vive in una casa di proprietà. Sette famiglie su dieci (pari a 18,2 milioni) sono proprietarie di casa: 70,1% nel Mezzogiorno; 74,5% al Centro; 69,7% al Nord. Sono le famiglie formate dai più giovani (under 35 anni) soli o in coppia che registrano la minor quota di proprietari.[↩]
- Considerando anche le migrazioni interne, si evidenzia come le regioni del Centro-Nord recuperino ampiamente la “fuga dei cervelli” all’estero grazie all’afflusso continuo e consistente di giovani provenienti dal Mezzogiorno, già laureati in cerca di lavoro, ma anche diplomati che si iscrivono alle università del Centro-Nord per le migliori prospettive occupazionali offerte.[↩]
- Nei primi otto mesi di quest’anno il valore delle esportazioni italiane ha già superato i 400miliardi di euro, segnando un incremento del 2,3% rispetto allo stesso periodo del 2022. A fine anno potrebbe essere superato il livello dello scorso anno (615 miliardi di euro). Più della metà del valore dell’export è realizzato all’interno dell’Unione Europea (216 miliardi di euro nei primi otto mesi), ma l’incremento delle esportazioni dirette verso i Paesi extra-Ue nel periodo considerato è superiore alla media: +5,2%. Nei confronti degli Stati Uniti l’incremento è del 5,6%, il valore esportato in Cina è cresciuto del 30%, per i Paesi Opec l’aumento è del 10,2%. Grande elemento di preoccupazione è rappresentato dalla recessione dell’economia tedesca. L’interscambio tra l’Italia e la Germania ha raggiunto nel 2022 i 168 miliardi di euro, di cui 77,5 miliardi rappresentano l’export italiano verso la Germania e 91 miliardi il valore importato dall’Italia. Il 27,8% delle imprese italiane che esportano in Germania realizza almeno il 10% del proprio fatturato vendendo merci e servizi nel Paese, e il 9,5% almeno il 25% del proprio fatturato, ma queste ultime rappresentano il 65,7% del valore delle merci esportate dalle imprese italiane in Germania.[↩]
- A fronte di una riduzione complessiva dello 0,4% dei posti letto disponibili negli alberghi, si osserva una espansione significativa della ricettività nelle strutture a 5 stelle e 5 stelle di lusso (+45,2%), e in misura più contenuta in quelle a 4 stelle (+13,9%). Per le categorie alberghiere più economiche e di minor pregio si riscontrano invece contrazioni molto nette, che oscillano tra il -24,4% degli hotel a 2 stelle e il -29,1% degli alberghi a una stella. Il comparto extra-alberghiero, invece, è stato contrassegnato nell’ultimo decennio da dinamiche più marcatamente espansive. Nell’insieme, gli esercizi extra-alberghieri registrano una variazione positiva del 17,8%, che con la sola eccezione dei campeggi e dei villaggi turistici, che subiscono un ridimensionamento del 3,3% in termini di posti letto, si propaga su tutte le diverse tipologie: dagli agriturismi (+24,9%) ai bed & breakfast (36,4%), agli altri esercizi ricettivi (ostelli per la gioventù, case per ferie, rifugi alpini, ecc.). Gli alloggi in affitto gestiti in forma imprenditoriale, in particolare, vedono incrementare il numero dei posti letto del 52,9%.[↩]
- Secondo il 46,2% degli italiani il riconoscimento della connessione come un diritto, addirittura da garantire gratuitamente a tutti, andrebbe finanziato con un’adeguata compartecipazione economica da parte dei grandi generatori di traffico sulla rete, come Google e Meta, mentre per il 34,6% bisognerebbe attingere alla fiscalità generale. Il 10,9% è invece contrario al ricorso al fisco e per l’8,3% ciascun utente dovrebbe pagarsi per intero la propria connessione. Il 67,6% degli italiani sostiene che, se le nuove tecnologie saranno facili da usare per tutti, potranno dare un grande contributo alla riduzione delle disuguaglianze sociali. L’85,8% reputa importante che sia diffusa un’informazione scientifica di facile comprensione per tutti sugli effetti delle nuove tecnologie.[↩]