In Italia, come in molti Paesi ricchi, sempre più cittadini esprimono sul piano politico il proprio forte malcontento verso il binomio neoliberismo-globalizzazione, diventato egemone a seguito delle scelte politiche ed economiche «liberali» adottate dalle classi dirigenti occidentali nel corso degli ultimi 40 anni. Vedono che questo binomio non è stato in grado di far materializzare la prosperità tanto promessa e vagheggiata, e che comunque i vantaggi da esso derivanti sono andati e stanno andando in modo sproporzionato ad un ristretto segmento, già ricco e potente, della popolazione – lo 0,1%, l’1%, il 5% o il 10% – e delle grandi imprese monopolistiche globali. Il neoliberismo libertario permette di vivere la vita come la si desidera, senza intrusioni governative, purché si sia ricchi e potenti. Questo mentre le persone normali che lottano collettivamente (ad esempio, con le organizzazioni sindacali) contro l’austerità e per salari, pensioni, diritti sociali e civili e servizi pubblici migliori si trovano di fronte al potere coercitivo del governo dispiegato in tutte le sue forme (dalle norme anti-sindacali e anti-sciopero alla repressione poliziesca e penale). E mentre il governo interviene altrettanto ferocemente nella vita dei poveri, dei migranti e di tutti coloro che chiedono di accedere al welfare pubblico (sempre meno universalistico e sempre più lavoristico, in un mercato del lavoro sempre più «flessibile» e precario), trattandoli come persone immeritevoli della miseria (in denaro e servizi) che ricevono, perché largamente ritenuti privi di «virtù civiche»1. E mentre i costi e le ricadute negative della maggiore apertura (economica, sociale, culturale, migratoria/demografica, etc.) tendono a colpire solo le classi medie e quelle operaie e più povere2, oltre ad ampi segmenti delle piccole e medie imprese nazionali.
Negli ultimi decenni, la globalizzazione neoliberista ha aiutato a sollevare oltre un miliardo di persone dalla povertà, molti di loro in Asia (nel 1981, l’88% della popolazione cinese viveva in estrema povertà, ora meno del 2%), ma la riduzione delle disuguaglianze a livello mondiale è stata generalmente accompagnata dal blocco del cosiddetto «ascensore sociale» e dall’aumento delle disuguaglianze socio-economiche all’interno dei Paesi ricchi dell’OCSE, come di buona parte del resto del mondo. Alla fine del 2019, ad esempio, nell’Unione Europea c’erano oltre 240 milioni di occupati, il numero più alto mai registrato, ma rimaneva ancora alto il tasso di disoccupazione giovanile, c’era all’incirca un 10% di working poor e complessivamente quasi un quarto della popolazione europea – circa 120 milioni – era a rischio povertà o esclusione sociale. La crisi scatenata dalla pandemia, l’ondata inflazionistica e la stretta delle politiche monetarie hanno aggravato ulteriormente la situazione3.
In Italia, non basta il dato positivo del tasso di occupazione al 61,3% per le persone tra i 15 e i 64 anni di età (ma per le donne è al 55%, 14,3 punti percentuali in meno della media UE) a fronte della perdurante stagnazione salariale, della contenuta produttività del lavoro, della bassa qualità lavorativa di giovani e donne e soprattutto del diffuso ricorso a forme di lavoro povero e atipico che determina marcate disuguaglianze retributive e costringe 5,6 milioni di italiani in condizioni di povertà assoluta4. L’assenza di una chiara politica industriale, orientata alla creazione di posti di lavoro di qualità, costituisce una rinuncia a contrastare l’indebolimento dell’economia nazionale e a riqualificare lo sviluppo del Paese in campo tecnologico e ambientale. L’ulteriore liberalizzazione dei contratti a termine e del lavoro occasionale rischia di rafforzare le trappole della saltuarietà, discontinuità e precarietà lavorativa. L’opposizione al salario minimo legale è infine una scelta emblematica di un profondo disinteresse a tutelare i lavoratori meno protetti, impiegati in settori in cui la forza dei sindacati è minima.
In Italia e negli altri Paesi occidentali, in passato i lavoratori potevano aspettarsi che le loro vite migliorassero e che le vite dei loro figli sarebbero state ancora migliori. Ma, dalla fine del secolo XX, la povertà e la disuguaglianza sono aumentate ed è diventato sempre più difficile riuscire a mantenere il «patto generazionale» per cui ogni generazione fa meglio della precedente. L’aumento dei livelli di povertà è caratterizzato meno da un marcato aumento della mobilità verso il basso che da un «declino della mobilità ascendente». La mobilità verso il basso assume la forma dell’incapacità delle persone che lavorano di migliorare la propria condizione. Per chi è in fondo è sempre più difficile rimettersi in piedi e poter «partecipare alla gara»5. Una diventata situazione evidente con la crisi finanziaria globale del 2008-20096.
La minaccia della disoccupazione o dell’occupazione precaria e a bassi salari, sempre presente nelle famiglie povere, si è diffusa anche alle famiglie del ceto medio, dei professionisti. Una laurea universitaria non rappresenta più una garanzia contro la disoccupazione, e un sistema che non è in grado di offrire un futuro adeguato ai giovani con un’istruzione superiore è in grossi guai. Se succede solo ai figli dei poveri, il problema è gestibile; ci sono forze di polizia, tribunali e prigioni. Se succede ai figli dei ceti medi, le cose possono sfuggire di mano. I poveri sono abituati ad essere spremuti, ad avere un lavoro precario e a non avere denaro, ma negli ultimi decenni anche i ceti medi hanno cominciato a sentire la pressione di precarietà lavorativa (ad avere vite precarie), alti prezzi, mancanza di alloggi accessibili, e tasse più elevate e, in molti Paesi occidentali, sono in grande sofferenza ed in rivolta contro l’establishment mainstream. Ma, l’establishment non può sopravvivere senza l’obbedienza e la fedeltà dei milioni di persone appartenenti ai ceti medi che fanno andare avanti il sistema perché sono le «guardie del sistema» stesso: militari e polizia, insegnanti e sacerdoti/pastori, amministratori, funzionari e operatori sociali, tecnici e quadri della produzione e logistica, medici, avvocati, infermiere, lavoratori del trasporto e della comunicazione, giornalisti e vigili del fuoco.
Allo stesso tempo, è riemersa con forza una società «patrimoniale» in cui la ricchezza, in particolare la ricchezza dinastica ereditata (6 su 10 americani più ricchi sono eredi di fortune trasmesse loro da antenati e genitori ricchi), è il determinante cruciale delle possibilità di vita delle persone7. Troppo spesso ricchezza e disuguaglianze dei redditi sono in una relazione simbiotica con i vantaggi sociali intangibili del successo economico, come capitale socio-culturale e accesso alle reti parentali ed amicali, che insieme influenzano i risultati formativi e gli orizzonti lavorativi delle nuove generazioni, contribuendo a trasformare risultati disuguali di una generazione in opportunità diseguali per la generazione successiva, influenzando tutte le life chances degli individui, dall’istruzione all’occupazione, dalla salute alla speranza di vita8. I servizi pubblici sono sistematicamente sotto-finanziati o vengono esternalizzati ad operatori privati, con la conseguenza che spesso i più poveri ne vengono esclusi. Ecco perché in molti Paesi un’istruzione e una sanità di qualità sono diventate un lusso che solo i più abbienti possono permettersi.
I bambini e gli adolescenti sono i soggetti più vulnerabili alle situazioni di povertà ed esclusione sociale, fenomeni che determinano nel presente e nella vita futura una catena di svantaggi a livello individuale in termini di più alto rischio di abbandono scolastico, più basso accesso agli studi superiori e al mondo lavorativo, e più in generale di una bassa qualità della vita. I figli di genitori meno abbienti hanno scarsissime opportunità di carriera nello studio e nel lavoro, soprattutto se da anni collezionano solo lavoretti precari e vivono nelle periferie urbane o in un borgo rurale lontano dai grandi centri metropolitani. Inoltre, il costo degli immobili nelle grandi città è in continua ascesa anche perché da anni in Italia, come in molti altri Paesi, non vengono più realizzati alloggi di edilizia popolare, in presenza di una forte tensione speculativa nel settore immobiliare da parte del capitale finanziario, della rendita, dei ricchi e delle grandi organizzazioni criminali alla continua ricerca di opportunità di re-investimento legittimo del loro denaro. Pertanto, le famiglie più povere vengono spinte fuori dai quartieri centrali verso le sterminate periferie delle aree metropolitane sempre più abbandonate dalle istituzioni, allontanandole anche dalle scuole e dai servizi sanitari migliori.
Più di 500 mila persone sono classificate come «ultra-ricche» nel mondo, con una fortuna minima di oltre 30 milioni di dollari, secondo le ricerche sulla gestione dei grandi patrimoni della banca svizzera UBS. Nel libro distopico La fattoria degli animali scritto da George Orwell nel 1945, i maiali guidano una ribellione contro un agricoltore umano e ottengono il controllo della fattoria, ma alla fine impongono la loro dittatura sugli altri animali sulla base di un unico comandamento: «Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni animali sono più uguali di altri». Nella società profondamente diseguale contemporanea, che rivendica uguali opportunità per i suoi cittadini, l’equivalente di questo comandamento sarebbe: «Tutti i cittadini sono uguali, ma i ricchi sono molto più uguali di chiunque altro» e hanno intenzione di rimanere così.
Sono state soprattutto le risposte dell’establishment (l’insieme più o meno coeso di dirigenti economici, militari e politici) – o meglio, la loro mancanza – alle questioni delle fratture strutturali economiche e sociali che hanno creato i maggiori problemi a livello sia nazionale sia euro-americano negli ultimi anni. Un numero crescente di cittadini è insoddisfatto, e sempre più spesso indignato, per le crescenti disuguaglianze e per il modo in cui la globalizzazione economica è stata fatta avanzare dalle classi dirigenti nazionali. Queste, negli ultimi 40 anni, si sono apertamente schierate dalla parte del capitale (sempre più oligopolistico o monopolistico), favorendone la mobilità incontrollata (con la deregolamentazione dei mercati finanziari, ondate di delocalizzazioni produttive, accordi free-trade, l’entrata della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio, l’accordo NAFTA, l’Europa di Maastricht, etc.), e contro il lavoro, rendendo quest’ultimo sempre più mercificato, «flessibile», precario, insicuro, non sindacalizzato. Inoltre, il numero di cittadini di origine straniera non di pelle bianca e non di fede cristiana è cresciuto fino a livelli storicamente senza precedenti in Europa e negli USA, ma istituzioni, politici e partiti tradizionali hanno prestato poca attenzione a garantire che venissero messe in campo le necessarie politiche e capacità istituzionali per l’accoglienza, l’inte(g)razione interculturale e l’emancipazione in modo da accompagnare e gestire i cambiamenti e le tensioni sociali e culturali che erano in atto (ad esempio, attraverso un’espansione nei servizi di istruzione e programmi di intercultura e di riqualificazione per adulti).
Poco si è riflettuto anche su come sarebbero stati protetti i sistemi di welfare o su come si potesse realizzare l’integrazione nel mercato del lavoro e negli altri ambiti sociali, dando mano libera alle forze di mercato, al perseguimento dell’interesse individuale (con l’esaltazione dell’individualismo metodologico) e alla crescita delle disuguaglianze, e su come si potesse mantenere la coesione sociale, la «fraternità», ossia la solidarietà, la partecipazione e lo spirito comunitario che sono necessari per una sana democrazia e per qualsiasi serio sforzo collettivo.
Gli anni 2020, sono iniziati con il CoVid-19 e poi sono stati caratterizzati finora da un’escalation dei conflitti (Ucraina, Sudan, Israele-Palestina, etc.), dall’accelerazione della crisi climatica e dall’aumento del costo della vita e dei tassi di interesse. Mentre miliardi di persone in tutto il mondo vivono in condizioni di estrema povertà, senza acqua potabile, assistenza sanitaria adeguata, alloggi dignitosi o istruzione per i propri figli, i miliardari del mondo hanno aumentato la loro ricchezza di oltre 3mila miliardi di dollari solo negli ultimi tre anni. I miliardari diventano più ricchi, mentre le classi lavoratrici fanno i salti mortali per arrivare a fine mese (con i prezzi dei beni essenziali che aumentano, mentre i salari rimangono stagnanti o si svalutano in termini reali) e i poveri vivono nella disperazione. Questo è lo stato sfortunato attuale dell’economia mondiale9.
Studi e dati recenti sulle disuguaglianze economiche e sul fisco “regressivo” in Italia
Due studi recenti certificano che le disuguaglianze economiche in Italia sono cresciute a favore dell’1% e del 5% più ricco, che oltre a godere di un reddito maggiore paga meno tasse come quota del proprio reddito rispetto al resto del 95-99% dei contribuenti (per chi guadagna oltre i 500 mila euro l’aliquota “effettiva” è solo al 36%).
Nei giorni scorsi è stato pubblicato un primo documento di ricerca di un gruppo di analisti del Servizio Analisi Statistiche della Banca d’Italia in cui vengono presentati i primi risultati dell’analisi dei conti distributivi sulla ricchezza in Italia. Il progetto di ricerca viene condotto nell’ambito del programma Distributional Wealth Accounts (DWA) realizzato in collaborazione tra Banca Centrale Europea (BCE) e Banca d’Italia10. Lo studio disaggrega la popolazione italiana in tre gruppi:
- il gruppo al di sotto della mediana, ossia il 50 % più povero;
- il gruppo “centrale” o “intermedio”, che corrisponde alle famiglie la cui ricchezza netta è compresa tra il 50° e il 90° percentile (il “ceto medio”);
- il 10 % più ricco.
Le principali risultanze della ricerca sono essenzialmente tre:
- le famiglie meno abbienti (50% del totale) detengono principalmente abitazioni11 e depositi (17% del totale), mentre quelle più ricche (10% del totale) diversificano maggiormente, detenendo anche quote significative di azioni, partecipazioni e attività reali destinate alla produzione e di altri strumenti finanziari complessi12;
- il 5% delle famiglie italiane più ricche possiede circa il 46% della ricchezza netta totale. I principali indici di disuguaglianza sono rimasti sostanzialmente stabili tra il 2017 e il 2022, dopo essere aumentati tra il 2010 e il 2016;
- in Italia e in Francia, la concentrazione della ricchezza è inferiore a quella media dell’area dell’euro, mentre è maggiore in Germania (dove il 5% possiede il 48% della ricchezza)13.
La composizione del portafoglio delle famiglie per classe di ricchezza ha subito significative variazioni fra il 2010 e il 2022. In un periodo caratterizzato da una generale flessione dei prezzi degli immobili, il peso delle abitazioni è sceso dal 55,8 al 50,2% a livello aggregato; tuttavia, per le famiglie più povere è cresciuto di quattro punti percentuali. La riduzione del peso dei titoli di debito è stata particolarmente accentuata per il 10% più ricco, con un calo di oltre sette punti percentuali, a fronte di un rilevante aumento del peso di azioni, assicurazioni ramo vita e quote di fondi comuni. L’aumento del peso dei depositi ha accomunato tutte le classi di ricchezza considerate, ma in maniera più forte quella centrale (50-90%).
Interessante anche l’evoluzione dell’ammontare e delle quote di ricchezza e debito detenuti dalle tre classi di famiglie per alcuni principali strumenti. Nel 2010 circa la metà del patrimonio abitativo era detenuta dalla classe centrale; nel 2022 tale percentuale era scesa al 45%, soprattutto a vantaggio del 10% più ricco; la quota di abitazioni posseduta dalle famiglie del 50% più povero è rimasta stabile nel tempo attorno al 14% del totale. I depositi sono aumentati di circa il 40% tra il 2010 e il 2022, soprattutto per le famiglie appartenenti al 10% più ricco, la cui quota è salita di sei punti percentuali, raggiungendo la metà del totale; si è invece ridotta in maniera sensibile la quota di depositi detenuta dalle famiglie del 50% più povero.
Le attività non finanziarie non residenziali, che riguardano investimenti in società di persone di piccole dimensioni (fino a 5 addetti), alla fine del 2022 erano possedute per circa due terzi dal 10% più ricco, mentre le famiglie della classe intermedia ne detenevano il 28%. Dal 2010 si sono osservate una riduzione della quota posseduta dalle famiglie più ricche di circa 7 punti percentuali e un rilevante aumento per la classe centrale. In tutto il periodo analizzato, le azioni e altre partecipazioni detenute dalla classe più ricca rappresentano oltre il 95% del totale, con un massimo di quasi il 98% attorno al 2016. Sul fronte delle passività, invece, le famiglie più povere pesavano nel 2022 per quasi un terzo del totale, all’incirca quanto quelle della classe centrale.
Tra il 2010 e il 2016 il valore mediano della ricchezza netta è sceso da quasi 200mila euro a poco più di 150mila; il calo del valore medio è stato molto più contenuto (attestandosi intorno ai 365mila euro). Nello stesso periodo l’indice di Gini, una misura sintetica del grado di disuguaglianza della distribuzione14, è aumentato da 0,67 a 0,71, e la quota di ricchezza netta posseduta dal 5% più ricco delle famiglie è passata dal 40 al 48%. Vi ha corrisposto un calo delle quote detenute da tutte le altre classi della distribuzione.
Dal 2017 la ricchezza netta mediana è restata sostanzialmente stabile (circa 155mila euro, mentre nell’area dell’euro era sopra i 140.000 euro nel 2022) e l’indice di Gini è leggermente calato. È interessante notare, sia per l’indice di Gini che per la quota di ricchezza detenuta dal 5% più ricco, la lieve crescita nel corso del 2021 e la successiva riduzione nel 2022. Tale andamento è collegato a quello dei prezzi delle attività finanziarie detenute dalle famiglie più ricche, in particolare azioni, quote di fondi comuni e riserve tecniche di assicurazione. Alla fine del 2022, il 5% più ricco delle famiglie italiane deteneva il 46% della ricchezza netta complessiva mentre il 50% più povero ne possedeva meno dell’8%.
I DWA permettono anche di studiare l’indebitamento delle famiglie per classe di ricchezza. In particolare è interessante osservare il rapporto tra debiti e attività per le famiglie del 50% più povero, che hanno maggiore necessità di finanziamento per far fronte alle proprie esigenze di spesa. Per tale gruppo di famiglie il rapporto è salito rapidamente tra il 2010 e il 2014, per poi riportarsi nel 2016 ai livelli iniziali; dal 2018 in poi è tornato a crescere leggermente, ad eccezione del temporaneo crollo durante la crisi pandemica.
Le risultanze dello studio sulla distribuzione della ricchezza della Banca d’Italia vanno lette insieme a quelle di uno studio congiunto da parte di ricercatori della Scuola Superiore Sant’Anna e dell’Università di Milano-Bicocca, pubblicato sul Journal of the European Economic Association, sulle disuguaglianze economiche e fiscali in Italia. Lo studio afferma che queste sono in aumento con i ricchi che in proporzione pagano meno tasse di chi fa fatica ad arrivare a fine mese15.
Nel complesso il sistema fiscale italiano appare “blandamente progressivo” per il 95% più basso della distribuzione del reddito, con un’imposizione fiscale che sale dal 40% (per chi guadagna meno di 15mila euro, il 30% più povero) al 50% (per chi guadagna fino a 60mila euro, la soglia del 10% più ricco), ma poi scende. Il sistema “diventa addirittura regressivo” per il 5% dei contribuenti più ricchi (oltre gli 82mila euro) con un’aliquota effettiva che scende fino al 36% per chi guadagna oltre i 500 mila euro annui. Il sistema fiscale è addirittura sempre regressivo se si considera la distribuzione del patrimonio invece che quella del reddito. Lo studio conferma anche che esistono importanti differenze in relazione alla tipologia di reddito prevalente: sono i lavoratori dipendenti a pagare più imposte, seguiti dai lavoratori autonomi, dai pensionati e, infine, da chi percepisce soprattutto rendite finanziarie e locazioni immobiliari.
I ricercatori hanno stimato che dal 2004 al 2015, mentre il reddito nazionale reale si riduceva del 15%, la metà più povera degli italiani perdeva il 30% dei suoi introiti. La quota del reddito nazionale spettante al 10% più ricco, all’1% più ricco e allo 0,1% più ricco è stata in costante aumento dopo la crisi del 2008. All’interno del 50% più povero, ad essere più colpiti sono stati i giovani tra i 18 e i 35 anni, che hanno perso circa il 42% del loro reddito. La disuguaglianza di genere risulta significativa per ogni classe di reddito e raggiunge valori estremi nell’1% più ricco della distribuzione, dove le donne guadagnano circa la metà degli uomini. Anche gli abitanti delle regioni meridionali sono stati sempre più esposti a crescenti livelli di disuguaglianza.
Lo studio certifica che la metà più povera degli italiani detiene meno del 17% del reddito nazionale e vive con meno di 13 mila euro all’anno16. Invece l’1% più ricco del Paese detiene circa il 12% del reddito nazionale, cioè una media di 310 mila euro all’anno, ottenuti soprattutto da redditi finanziari, profitti societari e redditi da lavoro autonomo, in gran parte derivante dal ruolo di amministratori societari. Per i quali paga meno tasse del 99% della popolazione. Solo una ridottissima parte dei redditi dei più ricchi è ottenuta grazie ai redditi da lavoro dipendente. In particolare, i “super-ricchi”, 50 mila italiani che compongono lo 0,1% più ricco del Paese e detengono il 4,5% del reddito nazionale con entrate medie superiori al milione di euro annuo, cifra che potrebbe essere raggiunta dal 50% più povero soltanto risparmiando l’intero reddito per 76 anni.
La minore incidenza fiscale per i redditi più elevati è spiegata principalmente da fattori come:
- l’effettiva regressività dell’IVA (che grava meno sui cittadini abbienti che risparmiano di più);
- il minor peso dei contributi sociali per i redditi superiori ai 100 mila euro;
- la maggiore rilevanza per i contribuenti più ricchi delle rendite finanziarie e dei redditi da locazioni immobiliari, tassati con un’aliquota del 12% o del 26%.
In conclusione, lo studio mette in luce la necessità di avviare una profonda e seria discussione sullo stato attuale del sistema fiscale italiano con l’obiettivo di un rafforzamento della funzione redistributiva della leva fiscale. L’evidenza di una regressività che favorisce solo le fasce di reddito più elevate sottolinea l’urgenza di riforme mirate che non penalizzino i redditi più bassi, ma mirino a correggere gli squilibri presenti riducendo le disuguaglianze e promuovendo una distribuzione del carico fiscale in modo proporzionato (spostando la tassazione dal lavoro su profitti, interessi, rendite finanziarie). C’è la necessità di una riforma fiscale in chiave più giusta e inclusiva, capace di sostenere una crescita economica sostenibile e di garantire benefici tangibili per l’intera società17.
Per ridurre drasticamente la povertà sono necessarie riforme radicali. Queste includono una massiccia ridistribuzione del reddito e della ricchezza; un ridimensionamento della finanza; mettere al lavoro un gran numero di persone per fare le molte cose che devono essere fatte e pagare loro un salario reale dignitoso (in due anni di alta inflazione i salari hanno perso il 15% del potere d’acquisto); adottare programmi universali che sostengano tutti i lavoratori (e non solo i poveri); e pagare queste misure con un sistema fiscale realmente progressivo che tassa in particolare coloro che accumulano quantità di reddito e ricchezza eticamente insopportabili ed economicamente distruttive. Fare tutto ciò richiederebbe un chiaro impegno ideologico nei confronti di forti principi socialisti o socialdemocratici e il coraggio di adottare e difendere tali misure di fronte alla feroce opposizione che sicuramente genererebbero. La mancata adozione di tali misure significherà che continuerà, senza fine, l’incessante produzione di povertà.
Disuguaglianze globali
In contemporanea con l’apertura (15 gennaio) del 54° annuale meeting del World Economic Forum di Davos (il “club dei globalisti”), il cui tema quest’anno è “Ricostruire la fiducia” in un sistema iniquo e frammentato che ha perso credibilità, l’organizzazione non-governativa Oxfam ha presentato il rapporto Inequality Inc. (la versione italiana del rapporto, Disuguaglianza. Il potere al servizio di pochi, qui), sulla disuguaglianza economica globale18. Le principali risultanze sono:
- i cinque uomini più ricchi del mondo – Elon Musk, Bernard Arnault, Jeff Bezos, Larry Ellison e Mark Zuckerberg – hanno più che raddoppiato le loro fortune portandole a 869 miliardi di dollari dal 2020 (+464 miliardi di dollari, ovvero +114%), mentre il 60% più povero del mondo – quasi 5 miliardi di persone (che hanno maggiori probabilità di essere donne, popoli razzializzati e gruppi emarginati in ogni società), – ha perso ricchezza (-0,2% in termini reali)19;
- la disuguaglianza economica è drammaticamente aumentata dopo la pandemia di CoVid-19: i miliardari del mondo sono 3,3 trilioni di dollari più ricchi rispetto al 2020, e la loro ricchezza è cresciuta tre volte più velocemente del tasso di inflazione, nonostante la stagnazione del tenore di vita di milioni di famiglie di lavoratori in tutto il mondo;
- 7 su 10 delle più grandi aziende del mondo hanno un miliardario come amministratore delegato o principale azionista (da un rapporto medio di 20 a 1 tra la retribuzione del CEO e quella di un impiegato di livello medio nel 1965 si è passati all’attuale rapporto di 312 a 1) e l’1% più ricco del mondo possiede il 43% di tutte le attività finanziarie globali20;
- a livello globale la disuguaglianza è una questione di genere: gli uomini detengono una ricchezza superiore di 105.000 miliardi di dollari a quella delle donne, che pure oramai sono quasi lo stesso numero degli uomini; una differenza che è equivalente a 4 volte la dimensione dell’economia statunitense; per una donna che lavora nella sanità o nel sociale ci vogliono 1.200 anni per guadagnare quanto in un anno percepisce, in media, il CEO di una delle 100 imprese più grandi della lista Fortune;
- il divario tra ricchi e poveri è destinato ad aumentare e porterà il mondo a incoronare il suo primo trilionario entro un decennio;
- se le tendenze attuali continueranno, la povertà nel mondo non sarà sradicata prima di altri 229 anni.
Mai prima d’ora nella storia umana così pochi hanno posseduto così tanto. Mai prima d’ora nella storia umana si è verificata una tale disuguaglianza di reddito e ricchezza21. Mai prima d’ora nella storia abbiamo avuto concentrazioni di proprietà così grandi. Mai prima d’ora nella storia abbiamo visto una classe di miliardari con così tanto potere politico. E mai prima d’ora abbiamo visto questo livello senza precedenti di avidità, arroganza e irresponsabilità da parte della classe dirigente. Il potere aziendale e monopolistico, come mostra il rapporto di Oxfam, è una macchina implacabile che genera disuguaglianza. Consente alle mega corporations di controllare i mercati, stabilire i termini di scambio e trarre profitto senza timore di perdere affari. Lungi dall’essere un fenomeno astratto, questo ha un impatto su di noi in molti modi: influenzando i (bassi) salari che riceviamo, gli alimenti che mangiamo e che possiamo permetterci e i farmaci a cui possiamo accedere. Lungi dall’essere casuale, questo potere è stato affidato ai monopoli dai governi, in un passaggio dalla democrazia all’oligarchia plutocratica, trasformando, di fatto, la disuguaglianza economica in disuguaglianza politica22.
“Le persone in tutto il mondo lavorano di più e per orari più lunghi, spesso per salari miseri in posti di lavoro precari e non sicuri”, afferma il rapporto. “In 52 Paesi, i salari reali medi di quasi 800 milioni di lavoratori sono diminuiti. Questi lavoratori hanno perso complessivamente 1,5 trilioni di dollari negli ultimi due anni, equivalenti a 25 giorni di salario perso per ciascun lavoratore”.
Rispecchiando le fortune dei super ricchi, si afferma anche che i profitti aziendali sono aumentati notevolmente nonostante la pressione sulle famiglie a causa della crisi del costo della vita. Si rileva che 148 delle più grandi aziende del mondo insieme hanno incassato 1,8 trilioni di dollari di profitti netti totali nell’anno fino a giugno 2023, un aumento del 52% rispetto agli utili netti medi nel 2018-21. Tra luglio 2022 e giugno 2023, per ogni 100 dollari di profitto generati da 96 tra le imprese più grandi al mondo 82 dollari sono fluiti agli azionisti sotto forma di dividendi o buyback azionari.
Spremendo i lavoratori (precarizzazione dei contratti di lavoro e bassi salari23, evadendo o eludendo le tasse24, privatizzando lo Stato (mercificando e segregando – in base a genere, classe, razza, casta ed età – l’accesso a servizi vitali come l’istruzione, l’acqua e l’assistenza sanitaria) e stimolando il collasso climatico (con l’1% più ricco del mondo che emette tanto inquinamento da carbonio quanto i due terzi più poveri dell’umanità e con molti dei miliardari globali che posseggono, controllano e traggono profitto da processi produttivi ad alta intensità di carbonio), le aziende stanno favorendo la disuguaglianza e agendo al servizio dell’erogazione di ricchezza sempre maggiore ai loro ricchi proprietari.
Il rapporto di Oxfam esorta a fare una scelta fondamentale: tra una nuova era di supremazia miliardaria, controllata da monopolisti e finanzieri, o un potere pubblico trasformativo fondato sull’uguaglianza e la dignità. Per porre fine alla disuguaglianza estrema, va rivitalizzato il ruolo dello Stato: i governi devono ridistribuire radicalmente il potere e le risorse dei miliardari e delle multinazionali alle persone comuni. Regolamentare mercati e grandi aziende (rompere i monopoli), dare potere ai lavoratori (promuovendo e rafforzando i sindacati) e alle comunità, aumentare radicalmente le tasse sui ricchi e sui profitti delle corporations, e far nascere e crescere imprese cooperative non orientate alla massimizzazione del profitto.
Oxfam chiede un’imposta sul patrimonio (chiesta su La Stampa del 14 gennaio anche dall’ex ministro del governo Monti, Elsa Fornero, insieme a “tolleranza zero contro gli evasori”) tra l’1% e il 2% sulla ricchezza netta superiore a 1 milione di euro per ristabilire l’equilibrio tra lavoratori e dirigenti aziendali e proprietari di aziende super-ricchi25. Tale imposta sui milionari e miliardari potrebbe fruttare miliardi di dollari per gli erari nazionali ogni anno. Soldi che potrebbero essere investiti in servizi pubblici e infrastrutture. Attualmente, le imposte sulla ricchezza sono minime rispetto alla tassazione sul reddito da lavoro.
Oxfam ha anche affermato che il più recente indice Gini – che misura la disuguaglianza – ha rilevato che la disuguaglianza del reddito globale è ora paragonabile a quella del Sud Africa, il Paese con la più alta disuguaglianza al mondo. L’1% più ricco del mondo possiede il 59% di tutte le attività finanziarie globali – comprese azioni e obbligazioni, oltre a partecipazioni in imprese private.
Aleema Shivji, amministratore delegato ad interim di Oxfam, ha dichiarato: “Questi estremi non possono essere accettati come la nuova norma, il mondo non può permettersi un altro decennio di divisione. La povertà estrema nei Paesi più poveri è ancora più elevata di quella pre-pandemia, ma un piccolo numero di uomini super-ricchi stanno correndo per diventare il primo trilionario del mondo entro i prossimi 10 anni. Questo divario sempre più ampio tra i ricchi e gli altri non è casuale, né inevitabile. I governi di tutto il mondo stanno facendo scelte politiche deliberate che consentono e incoraggiano questa concentrazione distorta della ricchezza, mentre centinaia di milioni di persone vivono in povertà. Un’economia più giusta è possibile, un’economia che funzioni per tutti noi. Ciò che serve sono politiche concertate che offrano una tassazione più giusta e sostegno a tutti, non solo ai privilegiati”.
Nella sua introduzione al rapporto in lingua inglese, il senatore americano Bernie Sanders intravede alcuni segnali di speranza: “I lavoratori negli Stati Uniti e in tutto il mondo stanno rendendo chiaro che sono stufi di essere derubati e sfruttati. Non stanno più a guardare e non consentono alle grandi aziende di realizzare profitti da record mentre rimangono sempre più indietro. Stanno reagendo e molti di loro stanno ottenendo sostanziali aumenti dei salari, dei benefici e delle condizioni di lavoro. Ecco la semplice verità: se restiamo uniti nella nostra comune umanità, ci sono enormi opportunità davanti a noi per creare una vita migliore per tutti. Possiamo garantire l’assistenza sanitaria come diritto umano a ogni uomo, donna e bambino. Possiamo combattere il cambiamento climatico, salvare il pianeta e creare decine di milioni di posti di lavoro ben retribuiti nel settore dell’energia verde. Possiamo utilizzare i progressi tecnologici e la produttività dei lavoratori per migliorare la nostra vita. Possiamo eliminare la povertà e aumentare l’aspettativa di vita. Possiamo fare tutto questo e molto di più se siamo pronti a riunire le persone a basso reddito e i lavoratori di tutto il mondo per costruire un movimento internazionale che affronti l’avidità e l’ideologia della classe miliardaria e ci porti verso un mondo basato sulla giustizia economica, sociale e ambientale”.
Crescita delle disuguaglianze economiche e ascesa delle destre reazionarie
Dopo anni di tagli brutali alla spesa da parte dei governi, appare più importante che mai l’avvertimento di John Maynard Keynes che la cattiva economia – ossia un insieme di politiche economiche che strutturano il mercato per ridistribuire il reddito verso l’alto e per lasciare che i mercati finanziari speculativi dettino cosa succede alle economie nazionali e alle vite dei cittadini – produce disuguaglianze ed estremismo politico. Il senso di frustrazione e di fallimento che prova chi vive perennemente in condizioni di precarietà economica, chi cerca un lavoro senza trovarlo, chi vede evaporare in un momento i risparmi di una vita, chi combatte ogni giorno per la sopravvivenza contro altri che combattono la stessa battaglia, tutto questo è ciò che alimenta la crisi sociale e politica oggi come negli anni Trenta del secolo scorso.
Dato che le classi politiche mainstream finora non hanno saputo dare risposte adeguate e voluto cambiare lo status quo, non sono intervenute sulle crescenti disuguaglianze, non hanno evitato la riduzione di reddito e lavoro (divenuto sempre più precario e malpagato), non hanno cercato di modificare un sistema economico/finanziario iniquo, non hanno smesso di tagliare le spese per scuole, ospedali, infrastrutture, servizi e welfare al cittadino, un crescente numero di cittadini in difficoltà si è sentito abbandonato dai governi, partiti politici tradizionali mainstream, e altre istituzioni (come i sindacati). È alienato, arrabbiato e protesta per la perdita sia della tradizionale sovranità dei loro Stati nazionali sia del controllo sulle proprie vite personali, lavorative, professionali, come conseguenza di precarietà, bassi redditi, disoccupazione e indebitamento, nonché per tanti privilegi, scarsa trasparenza e innumerevoli conflitti di interessi che legano i responsabili politici alle grandi imprese, alle grandi lobbies economiche e finanziarie, ai ricchi. Ricorrenti grandi scandali per corruzione, evasione ed elusione fiscale hanno alimentato la percezione che élites politiche, ricchi e grandi interessi economico-finanziari giocano con regole diverse rispetto al resto della cittadinanza, senza un sufficiente controllo pubblico e una vera legittimità democratica.
Questo ha contribuito a creare un’apertura politica per la «destra sociale» populista e reazionaria che non solo punta il dito contro il migrante, il perfetto «capro espiatorio» divenuto il simbolo del nemico da cui ci si dovrebbe difendere, trasformando la paura in odio26, ma in alcuni casi ha assunto, seppure in modo distorto e spesso strumentale, posizioni che erano state della sinistra socialdemocratica e comunista, compresa la difesa dello stato sociale, dell’interventismo governativo e dei valori laici, rivendicando più attenzione agli interessi dei settori medio-piccolo borghesi (PMI, imprese a basso tasso di innovazione tecnologica, artigiani, piccoli commercianti, agricoltori, tassisti e professionisti tradizionali) penalizzati dal processo di globalizzazione, e arrivando a raggiungere anche i lavoratori e altri elettori disillusi ed alienati che in un’epoca precedente avrebbero votato per politici e partiti socialdemocratici o comunisti.
L’ascesa globale di un nazionalismo conservatore (e in alcuni casi apertamente reazionario) sembra avere l’obiettivo di creare forme più statalizzate di capitalismo nazionale e «comunità nazionali» dirette da leaders carismatici indiscutibili che ambiscono a difendere valori nazionali tradizionali speciali, controllare i confini contro i virus dell’immigrazione non bianca, del multiculturalismo e dell’influenza «straniera» (dagli attivisti dei diritti umani ai migranti musulmani, dai terroristi alla grande finanza, dall’Unione Europea al miliardario finanziere e filantropo «globalista» ebreo ungherese naturalizzato americano George Soros, fautore della «società aperta» auspicata dai filosofi-economisti neoliberisti austriaci Karl Popper e Friedrich August von Hayek27. Una deriva che è rapidamente divenuta una minaccia, perché rappresenta la ricetta per la repressione domestica, il capitalismo clientelare (il cosiddetto crony capitalism), la corruzione massiccia, l’implosione dello Stato di diritto, l’erosione dei diritti individuali e sociali di cittadinanza, l’ascesa di razzismi e conflitti internazionali.
Tra l’altro, con i nazionalisti conservatori e reazionari, così come avveniva con i politici mainstream, le questioni che riguardano davvero la maggioranza della popolazione, i milioni di lavoratori – la riduzione del lavoro stabile, ben pagato e di qualità, le disuguaglianze sociali, la vecchiaia in povertà, l’insicurezza e lo sfruttamento del lavoro, i problemi abitativi, la negazione dei diritti sociali – sono onnipresenti, vengono agitate, ma non vengono realmente agite e affrontate, perché anche questi «uomini nuovi» non mettono in discussione il paradigma economico neoliberista, il modo disumanizzante in cui il capitalismo opera. Non considerano questo il problema, ma la soluzione (come lo era per Clinton e altri governanti progressisti globalisti degli anni ’90), ancorché declinata in una logica territoriale «sovranista» (perché ritengono che solo nella nazione ci possa essere solidarietà).
Ciò risulta evidente dalle politiche economiche nazionali che finora hanno perseguito una volta saliti al potere: nuova detassazione per i ricchi, ulteriori deregolamentazioni (anche in campo ambientale) e privatizzazioni, tagli generalizzati ai capitoli di spesa sociale per trasferire le disponibilità alla spesa militare e securitaria, nessun vantaggio diretto per la classe lavoratrice se non la promessa di una reindustrializzazione da parte delle imprese private incentivate da protezionismo, sussidi e detassazione degli utili.
Gli economisti dell’Università di Berkeley, Emmanuel Saez e Gabriel Zucman28 hanno calcolato che i tagli fiscali da 1,5 trilioni di dollari dell’amministrazione Trump hanno aiutato le 400 dinastie miliardarie più ricche negli Stati Uniti (quelle della «lista Forbes 400») a pagare nel 2018 un’aliquota fiscale media del 23%, mentre la metà inferiore delle famiglie americane ha pagato un’aliquota del 24,2%. Nel 2018, per la prima volta nella storia moderna degli Stati Uniti, il capitale è stato tassato meno del lavoro. Dal 1980, la quota della ricchezza americana di proprietà delle 400 dinastie americane miliardarie è quadruplicata mentre la quota di proprietà della metà inferiore della popolazione americana è diminuita. Le 130 mila famiglie più ricche in America ora possiedono quasi quanto il 90% meno ricco (117 milioni di famiglie). Secondo Saez e Zucman, se l’1% più ricco della popolazione americana pagasse un’aliquota fiscale del 60%, lo Stato federale USA incasserebbe circa 750 miliardi di dollari in più l’anno, sufficienti per pagare asili nido per tutti i bambini, un programma di infrastrutture e molto altro.
Questo modo di procedere sul piano economico, insieme alla rimozione della questione sociale dal dibattito politico, è particolarmente pericoloso perché favorisce chi ha già privilegi e punisce i ceti già deboli, allargando le disuguaglianze e contribuendo all’ulteriore ascesa dell’estrema destra. Un circolo vizioso, perché l’ascesa dei nazionalisti di destra non potrà essere interrotta finché non ci sarà una rottura con le politiche neoliberiste orientate al libero mercato che – come Karl Polanyi ha sostenuto – distruggono la società e inaspriscono gli squilibri nell’economia globale29.
Si tratta di tentativi di sostituire l’ideologia della «globalizzazione felice» o del «globalismo» – che secondo i sostenitori di queste posizioni politico-culturali vorrebbe annullare i princìpi delle identità nazionali (i suprematisti bianchi parlano di “grande sostituzione della razza bianca”), l’esistenza stessa dei confini e sancire il diritto umano di emigrare – per dare vita a forme autoritarie, «illiberali», regressive e ciniche («realistiche») di neoliberismo nazionale attenuate da politiche sociali assistenziali tese a lenire le sofferenze di segmenti molto limitati del corpo sociale nazionale.
Da questo punto di vista, il populismo nazionalistico conservatore, se non proprio reazionario, autoritario e razzista, rappresenta il volto politico del neoliberismo in crisi. Risposte illusorie e pericolose ai guasti economici ed istituzionali che aggravano la crisi dei ceti medi e popolari, invece che arrestarla. La crisi e la stagnazione economica hanno spremuto il centro delle società, aumentando le fila dei quasi poveri, ma hanno anche svuotato il centro della politica, poiché gli elettori hanno smesso di credere che i principali partiti di centro e della sinistra progressista (liberal) abbiano risposte adeguate ai loro bisogni. L’affermarsi dei nazionalisti «populisti» della «destra sociale» rappresenta il tentativo di ri-politicizzare in termini populistici società che si sentono esauste ed impotenti di fronte ad un capitalismo globalizzato e globalizzante, tentando di riaffermare il primato della politica e dell’economia pubblica su economia e gestione tecnocratica.
Gli «uomini nuovi» del campo della destra reazionaria, ciascuno sostenuto dal proprio «movimento» o «partito personale» privo sia di una vera dottrina sia di un compiuto progetto politico – quasi sempre definiti come «populisti» dai politici e dai media mainstream perché adottano uno stile politico basato su un contatto diretto con «il popolo» (anche se solo con il «loro» popolo, mentre per loro «gli altri» non contano nulla) – cercano di far credere che il ripristino di uno Stato nazionale governato con pugno di ferro (con «i pieni poteri»), dotato di tutti i suoi attributi di sovranità interna ed esterna, capace di chiudere i suoi confini ai migranti, di imporre alla popolazione leggi finanziarie e di mercato più dure e di respingere tutti gli accordi di cooperazione internazionale sul clima, sia l’unico modo per migliorare la situazione sociale della stragrande maggioranza della popolazione. Se le principali minacce diventano i migranti, i nemici «delle nostre origini giudaico-cristiane», George Soros o le importazioni cinesi, questi leader sostengono che sia possibile una nuova politica pro-capitalista su base nazionale (favorita da protezionismo e processi di onshoring e friend-shoring) che si pone l’obiettivo di tenere fuori il proprio Paese dalle istituzioni e dai flussi non graditi di capitale, merci e, soprattutto, persone – migranti economici, profughi, richiedenti asilo e rifugiati di pelle non bianca, quelli che Trump ha definito «animals» provenienti da «shithole countries» – in modo da implementare la propria versione nazionale di neoliberismo conservatore, etnico, razzista, reazionario e autoritario. Un conservatorismo essenzialmente neofascista che cerca di unire il dinamismo capitalista con i valori e le gerarchie reazionarie tradizionali30.
Alessandro Scassellati
- Prevale il pregiudizio ideologico che il vero problema dei poveri e dei disoccupati non sia la mancanza di opportunità di lavoro con salari e condizioni decenti ma, piuttosto, il proprio comportamento, la mancanza di virtù civiche di base e il desiderio di trovare soluzioni ai propri problemi. Il modello ideologico applicato è quello che venne creato in Inghilterra a partire dal XVI secolo quando venne promulgata una feroce legislazione sul lavoro (le Poor Laws) per spingere i vagabondi – coloro che erano normodotati ma non lavoravano, e quindi poveri – al lavoro. Lo scopo delle punizioni imposte era quello di costringere i poveri a entrare nel mondo del lavoro retribuito nelle miniere o negli opifici. Venne messo in piedi un sistema di assistenza sociale che forniva ai poveri “meritevoli” – i malati, gli anziani, i disabili, per esempio – quanto basta per evitare che morissero per strada o si ribellassero. Escludeva coloro che erano ritenuti in grado di lavorare – i poveri considerati “immeritevoli” – che potevano essere costretti a entrare nel mondo del lavoro retribuito o puniti per non conformità. L’idea che gli aiuti dovessero essere diretti ai poveri “meritevoli” e consistere in un minimo indispensabile persisterà nei successivi quattro secoli fino ad oggi, così come la convinzione di punire i poveri “immeritevoli” (compresi i bambini orfani o abbandonati, che venivano internati nelle workhouses per lavorare almeno 12 ore al giorno, affinché fossero abituati al costante lavoro). La (contro)rivoluzione neoliberista di Thatcher e Reagan postulava che i problemi economici fossero causati dallo stato sociale. Si opponeva a tutte le forme di welfare e sosteneva che i poveri dovessero essere costretti a lavorare. Uno degli effetti è stata l’introduzione di sistemi di workfare con il compito di costringere le persone povere ad entrare ai livelli più bassi del mercato del lavoro, proprio come avevano fatto le workhouses e le Poor Laws inglesi.[↩]
- World Inequality Report, Global wealth inequality: the rise of multimillionaires, 2022, https://wir2022.wid.world/category/chapter-4/.[↩]
- La produzione perpetua di forme di povertà in continua evoluzione è una parte inevitabile della distruzione creativa che caratterizza il capitalismo. La forma della povertà cambia, perché il capitalismo è dinamico e in costante cambiamento, ma la povertà rimane. La produzione di povertà non è solo una parte inevitabile ma anche necessaria del capitalismo: riguarda in gran parte il rapporto che le persone hanno con i mezzi di produzione (non hanno un lavoro o il lavoro che hanno è mal pagato, part-time o irregolare). Le politiche di emergenza attuate durante la prima fase della pandemia da CoVid-19 hanno dimostrato che il mantenimento della povertà è anche e soprattutto una scelta politica. Infatti, se i governi adottassero una misura di reddito minimo attraverso salari dignitosi e adeguate prestazioni sociali, chiunque potrebbe permettersi di accedere a beni e servizi di qualità. Da questo punto di vista, il ruolo dello Stato dovrebbe essere quello di garantire un’equa redistribuzione che elimini gli squilibri di reddito e ricchezza, colmando il divario di disuguaglianza e generando finanze sostenibili attraverso sistemi fiscali equi e progressivi.[↩]
- Poco più di 2 milioni e 180mila famiglie nel 2022 vivevano in condizioni di povertà assoluta, non disponendo di risorse mensili sufficienti ad acquistare un paniere di beni e servizi essenziali per vivere in condizioni dignitose. L’incidenza della povertà a livello familiare è passata in un anno dal 7,7% all’8,3%, mentre quella individuale è cresciuta dal 9,1% al 9,7%. In questa situazione, l’abolizione del reddito di cittadinanza lascerà oltre 500mila famiglie senza aiuti contro l’indigenza.[↩]
- Secondo Eurostat, ad esempio, le persone in condizione di povertà assoluta erano 75 milioni nell’Unione Europea nel 2017, un numero enorme, quasi pari agli abitanti di tutta la Germania, mentre 120 milioni di persone (il 22,5% del totale della popolazione europea) erano in condizione di povertà relativa o a rischio di esclusione sociale.[↩]
- La crisi del 2008-2009 ha dimostrato il vuoto dell’affermazione secondo cui i mercati possono autoregolarsi, producendo e distribuendo beni e servizi in modo più efficiente che se sono regolamentati. Inoltre, la crisi ha reso evidenti e ampliato le enormi disuguaglianze sociali ed economiche tra ricchi e poveri. Disuguaglianze che sono via via cresciute dai primi anni ’80 in poi come conseguenza di un mercato lasciato operare liberamente senza freni, di un crescente peso della finanza nell’economia, nella politica, nei territori locali e nella vita delle persone/famiglie (sempre meno risparmiatrici e sempre più debitrici), della rescissione del legame tra salari e crescita della produttività e di un sempre più striminzito ruolo imprenditoriale e redistributivo dello Stato nazionale impegnato a seguire politiche economiche supply-side il cui scopo era quello di alzare il tasso di crescita ridistribuendo ricchezza e reddito dai poveri ai ricchi.[↩]
- Sul tema della nuova società patrimoniale si veda T. Piketty, Capital in the Twenty-First Century, Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, MA 2014; edizione italiana, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014.[↩]
- Ad esempio, gli uomini americani ricchi tendono a vivere più a lungo della media dei cittadini di qualsiasi altro Paese e ora vivono 15 anni in più degli americani poveri che hanno una speranza di vita pari a quella degli uomini di Paesi come Sudan e Pakistan.[↩]
- La ricchezza continua ad essere concentrata nel Nord del mondo. Solo il 21% dell’umanità vive nei Paesi del Nord del mondo, ma questi Paesi ospitano il 69% della ricchezza privata e il 74% della ricchezza miliardaria mondiale (UBS Global Wealth Report 2023 e lista Forbes dei miliardari mondiali). I governi si trovano nell’impossibilità di rimanere a galla dal punto di vista finanziario e devono affrontare enormi debiti e costi crescenti per l’importazione di carburante, cibo e medicinali. I Paesi a reddito medio-basso sono destinati a pagare quasi mezzo miliardo di dollari al giorno in pagamenti di interessi e debiti da qui al 2029. Ciò sta provocando una nuova ondata di politiche di austerità (tagli alla spesa pubblica).[↩]
- Gli aspetti metodologici sono stati sviluppati da un expert group creato nel 2015 e coordinato, a partire dal 2019, dalla BCE e dalla Banca d’Italia. Le nuove statistiche sperimentali trimestrali dei conti distributivi sulla ricchezza (DWA) sono compilate dalla BCE combinando informazioni distributive provenienti dall’indagine armonizzata Household Finance and Consumption Survey (l’indagine armonizzata sui bilanci delle famiglie dei Paesi dell’area dell’euro) con gli aggregati macroeconomici dei conti finanziari e delle attività non finanziarie delle famiglie. Le serie prodotte, che la BCE ha diffuso al pubblico come statistiche sperimentali dall’8 gennaio 2024 per 20 Paesi e il complesso dell’area dell’euro, partono dal 2009 (dall’anno successivo allo scoppio della crisi finanziaria dei mutui subprime), sono aggiornate a cadenza trimestrale e hanno l’obiettivo di garantire per ciascun Paese la disponibilità di statistiche utili a guidare l’azione dei policymakers. Tra le metodologie utilizzate c’è quella della “World’s Billionaires List” di Forbes, per i patrimoni delle persone più ricche. I DWA sono pubblicati per l’area euro, per tutti i Paesi dell’area euro (ad eccezione della Croazia) e per l’Ungheria. I Paesi inclusi sono quindi: Austria, Belgio, Cipro, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Slovacchia, Slovenia, Spagna e Ungheria. Il dataset complessivo è disponibile sul sito della Banca Centrale Europea al seguente link.[↩]
- I dati macroeconomici di contabilità nazionale indicano come la metà della ricchezza degli italiani sia rappresentata dalle abitazioni. La percentuale varia tuttavia fortemente in base alla ricchezza: le abitazioni raggiungono il 75% della ricchezza per le famiglie sotto il 50%, si attestano al 67% per quelle del gruppo centrale (50-90%) mentre scendono al 36% per quello appartenente alla classe più ricca (10%). Per cui, alla fine del 2022 le famiglie del 50% più povero detenevano una ricchezza media di circa 60mila euro, legata soprattutto (per l’80%) al valore dell’abitazione di proprietà.[↩]
- Per le famiglie del 10% più ricco, quasi un terzo della ricchezza è rappresentato da capitale di rischio legato alla produzione (azioni, partecipazioni e attività reali destinate alla produzione) e un quinto da fondi comuni di investimento e polizze assicurative.[↩]
- Ma, a differenza della situazione in Francia, dove la fascia più povera ha visto un modesto aumento della sua quota di reddito, in Italia si osserva l’opposto, con la fascia più povera che diventa sempre più svantaggiata.[↩]
- L’indice di Gini, uno degli indicatori di disuguaglianza maggiormente utilizzati, varia generalmente tra zero (perfetta equidistribuzione) e uno (massima concentrazione). Acciari ed altri (Acciari, Paolo, Facundo Alvaredo e Salvatore Morelli, “The concentration of personal wealth in Italy 1995-2016“, Stone Center on Socio-Economic Inequality Working Paper, n. 36, 2023.) stimano per l’Italia un indice di Gini della ricchezza netta (coerente con gli aggregati di contabilità nazionale) pari a 0.76 nel 2016, superiore di 5 punti percentuali a quello dei DWA. Il dato si riferisce tuttavia alla ricchezza netta individuale e non a quella familiare. La metodologia proposta si basa principalmente sullo sfruttamento di dati amministrativi sugli importi dichiarati ai fini dell’imposta di successione.[↩]
- Il rapporto combina diverse fonti di dati, quali dichiarazioni dei redditi, indagini campionarie di Istat e Banca d’Italia, stime sulla distribuzione del patrimonio netto. Il reddito nazionale netto così individuato, corretto per l’evasione fiscale (le mancate entrate tributarie sono state stimate nel 2021 in 73,2 miliardi; quelle contributive in 10,4; la somma fa 83,6 miliardi, il 3,1% in meno rispetto al 2020), è stato poi distribuito a livello individuale. Così è stato possibile identificare le fasce di reddito che hanno perso di più negli ultimi anni. Oltre a distribuire l’intero reddito nazionale, lo studio distribuisce a livello individuale anche l’ammontare delle tasse e imposte raccolte dallo Stato (Irpef, Irap, Imu, imposte sugli interessi, dividendi e tutte le transazioni finanziarie, imposte sui consumi, contributi sociali, oltre ad ulteriori imposte minori.[↩]
- Il 23,75% dei contribuenti italiani dichiara redditi da negativi a 7.500 euro lordi l’anno e paga un’imposta media di 16 euro l’anno; il successivo 18,84% che dichiara tra 7.500 e 15 mila euro paga un’Irpef media di 250 euro. In totale il 42,6% dei dichiaranti (25,23 milioni di italiani) paga solo l’1,73% dell’Irpef che ammonta in totale a 175,4 miliardi. C’è poi il successivo 13,5% che dichiara tra 15 e 20 mila euro e paga il 5,65% dell’Irpef con un’imposta media di 1.271 euro. Quindi il 56% della popolazione paga l’8% dell’Irpef, con un grande differenziale nord-sud: il gettito Irpef pro-capite del nord è di 3.660 euro l’anno contro i 3.244 euro del centro e i 1.820 euro del sud. Le persone con un reddito Irpef superiore ai 100 mila euro netti (circa 4500 euro lordi al mese) rappresentano solo l’1,2% dei contribuenti e versano tasse pari al 10% del totale delle tasse pagate dai cittadini. In sostanza, il 44% dei contribuenti Irpef paga il 92% del totale. Il gettito Iva al nord ha un pro capite di 3.034 euro; il centro versa anche grazie alla massiccia presenza pubblica 2.796 euro per cittadino, mentre il sud versa appena 677,56 euro pro capite.[↩]
- Inutile dire che la riduzione delle disuguaglianze non rappresenta un tema cui il presente governo attribuisca centralità d’azione. Il suo primo anno è stato caratterizzato da politiche del lavoro incapaci di ridimensionare il fenomeno della povertà lavorativa. Da una riforma fiscale che riduce l’equità e l’efficienza del sistema impositivo italiano. E dall’abbandono dell’approccio universalistico alla lotta alla povertà in nome di una visione categoriale e in favore di interventi che, lungi dal correggere le note criticità del reddito di cittadinanza, inaridiscono lo schema di reddito minimo.[↩]
- Il rapporto è stato compilato utilizzando i dati della società di ricerca Wealth X e della rivista Forbes.[↩]
- Per quanto riguarda l’Italia, Oxfam afferma che negli ultimi 20 anni c’è stato un allargamento della distanza tra il 10% più ricco e il 50% più povero dei suoi cittadini, con la quota in mano ai più ricchi cresciuta del 3,8% mentre quella della metà più svantaggiata calava di 4,5 punti. A fine 2022 il 20% più ricco deteneva quasi il 69% della ricchezza nazionale. Il successivo 20% era titolare del 17,7% della ricchezza nazionale, mentre il 60% più povero deteneva appena il 13,5%. Nel solo 2023 i multimilionari con oltre 5 milioni sono passati da 80.880 a 92.710 e quelli con patrimoni superiori a 50 milioni sono aumentati di 690 unità, a 5.395, accumulando 79 miliardi di dollari in termini reali.[↩]
- In Medio Oriente, l’1% più ricco detiene il 48% della ricchezza finanziaria; in Asia, l’1% più ricco possiede il 50%; e in Europa, l’1% più ricco possiede il 47%. Per le mega corporations gli ultimi due decenni sono stati straordinariamente redditizi e gli ultimi anni sono stati ancora migliori: le aziende più grandi hanno registrato un aumento dell’89% dei profitti nel 2021 e nel 2022. Nuovi dati mostrano che il 2023 è destinato a frantumare tutti i record come il più redditizio finora. L’82% di questi profitti viene utilizzato a beneficio degli azionisti, che sono in gran parte tra le persone più ricche di ogni società, a scapito dei lavoratori e della gente comune.[↩]
- Nel 2023, economisti di spicco a livello mondiale, tra cui Jayati Ghosh e Thomas Piketty, si sono riuniti con ex dipendenti delle Nazioni Unite, del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale per chiedere la definizione di obiettivi chiari per la riduzione della disuguaglianza. Oxfam sostiene l’idea, proposta da Joseph Stiglitz, secondo cui ogni Paese dovrebbe mirare a una situazione in cui la disuguaglianza sia ridotta al punto in cui il 40% più povero della popolazione abbia all’incirca lo stesso reddito del 10% più ricco, noto come indice di Palma di 1. “Ridurre le disuguaglianze” è anche il decimo obiettivo del programma dell’ONU per lo sviluppo sostenibile (l’Agenda 2030) che, entro il 2030, si impegna a livello internazionale a far crescere il reddito del 40% più povero della popolazione oltre la media nazionale, adottando politiche, fiscali, salariali e di protezione sociale più eque. Il piano di azione prevede un controllo e una regolamentazione dei mercati e delle istituzioni finanziarie globali per limitare (e auspicabilmente annullare) la forbice di reddito e ricchezza tra Paesi e gruppi sociali all’interno di una medesima comunità statuale.[↩]
- Settore dopo settore, si osserva ovunque una maggiore concentrazione del mercato. A livello globale, nel corso di due decenni, tra il 1995 e il 2015, 60 aziende farmaceutiche si sono fuse in sole 10 gigantesche aziende globali “Big Pharma”. Due società internazionali ora possiedono più del 40% del mercato globale delle sementi. Le aziende “big tech” dominano i mercati: tre quarti della spesa globale in pubblicità online sono pagati a Meta, Alphabet e Amazon; e oltre il 90% delle ricerche online globali viene effettuato tramite Google. L’agricoltura ha visto un consolidamento in Africa. L’India si trova ad affrontare una “crescente concentrazione industriale”, soprattutto da parte delle cinque aziende più importanti. La concentrazione monopolistica spinge per il continuo aumento dei prezzi di energia, cibo e farmaci. Poche centinaia di global corporations, e da sole tre società di Wall Street – BlackRock, Vanguard e State Street Global Advisors – controllano asset per oltre 20 trilioni di dollari e sono i principali azionisti del 96% delle società S&P 500. Sono i veri players che costituiscono il motore del processo di globalizzazione economica, una forma di neoimperialismo, esercitando il monopolio della proprietà intellettuale (la brevettazione di innovazioni tecnologiche, genoma degli esseri viventi, farmaci, software, marchi e procedure aziendali), della produzione e della circolazione. L’esito è di alimentare un potere economico che estrae rendite e profitti dai lavoratori, dai consumatori e dai governi.[↩]
- Secondo il rapporto Oxfam, solo lo 0,4% delle oltre 1.600 aziende più grandi e influenti del mondo si impegna pubblicamente a pagare ai propri dipendenti un salario dignitoso e a sostenere il pagamento di un salario dignitoso nelle loro catene del valore.[↩]
- L’aliquota fiscale legale sul reddito delle società è stata più che dimezzata nei Paesi OCSE dal 1980 (passando dal 61% al 42%). È anche calato il prelievo sui capital gains, per cui le plusvalenze sono tassate ad un’aliquota del 18% (media su 123 Paesi). Un’aliquota di gran lunga inferiore all’aliquota massima dell’imposta sui redditi da lavoro che si attesta a circa il 31%, in media tra le più grandi economie del mondo. In un Paese su cinque le plusvalenze sono ancora oggi esentate da imposizione. La pianificazione fiscale aggressiva, l’abuso dei paradisi fiscali e gli incentivi si traducono in aliquote fiscali molto più basse, e spesso vicine allo zero per i super ricchi e le global corporations. La ricchezza offshore è un fenomeno di ampia portata, non di per sé illegale, ma che, essendo maggiormente esposto all’evasione fiscale, può causare ingenti perdite alla collettività e allo stesso tempo inasprire le disuguaglianze economiche, rendendone più difficile la rilevazione. Un aspetto di cui si occupa l’Eu tax observatory, un laboratorio di ricerca finanziato dall’Unione Europea, dal cui lavoro di analisi emerge che i cittadini dell’UE detengono oltre 2mila miliardi di dollari offshore. Solo in Italia parliamo di quasi 198 miliardi, pari al 9,8% del PIL.[↩]
- Un’imposta progressiva sui grandi patrimoni, una misura su cui Oxfam ha lanciato la raccolta firme #LaGrandeRicchezza, a supporto di un’Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE) “Tax the rich” – lanciata tra gli altri da Thomas Piketty – che punta a raccogliere un milione di firme entro il settembre 2024 per un’imposta europea sui grandi patrimoni per finanziare la riduzione delle disuguaglianze. E “Tax the rich. Le politiche per l’eguaglianza”, è l’ebook di Sbilanciamoci!, curato da Paolo Andruccioli, con le proposte di 40 esperti su come realizzare queste politiche. In Italia, a titolo esemplificativo, una patrimoniale potrebbe essere rivolta al solo 0,1% più ricco della popolazione con un patrimonio netto individuale sopra i 5,4 milioni di euro. Il potenziale gettito stimato è tra 13,2 e 15,7 miliardi di euro all’anno.[↩]
- Lo studioso francese René Girard ha definito nel libro Il capro espiatorio (Adelphi, Milano 2020) il meccanismo socio-culturale della persecuzione e del sacrificio che lo produce: «A causa del dilagante desiderio mimetico, la comunità avvia il processo di vittimizzazione arbitraria procedendo alla formulazione di accuse stereotipate […] attribuendole a particolari soggetti o gruppi». Quando la rivalità interna diviene eccessiva o insorgono ragioni di paura e insicurezza, un sentimento di odio si diffonde a tutta la società e tende a convergere minacciosamente su una sola vittima: è questa che Girard chiama capro espiatorio, un individuo o un animale che deve pagare al posto di altri, non perché sia particolarmente colpevole, ma perché la comunità non può trovare accordo se non unendosi contro qualcuno o qualcosa. Oggi, come ha notato Paola Giacomoni, “l’odio si diffonde senza più censure, è considerato un modo per distanziarsi dal male, da ciò che si avverte come totalmente estraneo, che va avversato, e se possibile eliminato”. L’incertezza, la precarietà socio-lavorativa e le disuguaglianze economiche creano una maggiore competizione sociale e divisioni, che a loro volta favoriscono la frammentazione delle relazioni sociali, l’aumento dell’ansia (paranoia, angoscia e depressione) collettiva, della solitudine (il bowling alone, ossia il “giocare a bowling da soli” evidenziato da Putnam, 1995), della sensazione di catastrofe imminente e di un maggiore stress individuale, e quindi una maggiore incidenza di malattie mentali, disordini alimentari, insoddisfazione e risentimento che portano le persone ad utilizzare strategie di compensazione – uso e abuso di antidepressivi, psicofarmaci, droghe, alcol e comportamenti di dipendenza come shopping compulsivo, gioco d’azzardo, pornografia, dipendenza da smartphone – che a loro volta generano ulteriore stress e ansia individuale e collettiva. Secondo l’Homeless Counting Report, il 42% dei circa 30 mila homeless della San Francisco Bay Area è finita a vivere per la strada per problemi di dipendenza da alcol e droghe, mentre il 37% per malattie mentali. L’OMS prova a misurare il grado di sofferenza psichica collettiva e calcola che oltre 800 mila persone si suicidano ogni anno nel mondo, mentre oltre 300 milioni di persone soffrono di depressione, con un aumento del 18% dal 2005 al 2015, e 260 milioni sono soggetti a disturbi d’ansia e attacchi di panico, con molti che soffrono di entrambi i disturbi, con un costo per l’economia globale stimato in 1 trilione di dollari l’anno in perdita di produttività. Secondo gli studi del National Institute of Mental Health, circa il 20% degli americani sperimenta un disturbo d’ansia nel corso di un anno; oltre il 30% lo sperimenta nel corso della propria vita. Un articolo di Newsweek ha indicato il debito, la diminuzione della proprietà della casa e la diminuzione dei tassi di occupazione come fattori di stress più tangibili tra i millennials. La Geriatric Mental Health Foundation ha osservato che “le paure comuni sull’invecchiamento possono portare all’ansia” – paura di una caduta, dell’isolamento, della dipendenza, della degenerazione. Per gli adulti di mezza età, lo stress di sostenere finanziariamente i figli cresciuti mentre si prendono cura dei genitori anziani può portare ad ansia, depressione e riduzione della salute generale. Questi fattori di stress genericamente distinti sorgono in un contesto complessivo di precarietà finanziaria endemica per i lavoratori: mentre i salari non sono aumentati da decenni, il 78% dei lavoratori americani a tempo pieno vive del solo stipendio (“from paycheck to paycheck”) e il 71% si trova ad affrontare una certa misura di debito.[↩]
- Soros ha preso il nome della sua fondazione dal libro di Karl Popper, The open society and its enemies (1945), in cui Popper ha sviluppato il principio della «tolleranza illimitata». Popper ha sostenuto che per avere il massimo dialogo le opinioni contrarie alle proprie dovrebbero essere contrastate «con argomentazioni razionali».[↩]
- E. Saez e G. Zucman, The triumph of injustice. How the rich dodge taxes and how to make them pay, W.W. Norton, New York 2019; Progressive wealth taxation, «Brookings Papers on Economic Activity», 2019, https://www.brookings.edu/wp-content/uploads/2019/09/Saez-Zucman_conference-draft.pdf.[↩]
- Karl Polanyi (1886–1964), con la teoria del «doppio movimento» – un movimento di de-regolazione (verso il laissez faire) per espandere la portata del mercato, seguito da un contro-movimento che prova a gestire, ri-regolare e stabilizzare il mercato – ha sostenuto che inevitabilmente la società cerca di proteggere sé stessa dai pericoli e dagli effetti distruttivi del libero mercato, cercando di reincorporare il mercato, attraverso la nascita di contro-movimenti sociali e la creazione di nuove strutture politico-istituzionali – che possono essere sia progressive sia regressive, perché disuguaglianze, paura, disordine e angoscia sociale possono far diventare il bisogno di sicurezza, ordine e protezione (che proviene da famiglia, tribù, classe sociale, gruppo etnico, Stato-nazione, religione e cultura) più forte del bisogno di avere fiducia, libertà e democrazia – allorché viene riconosciuto l’impatto negativo della ristrutturazione economica realizzata sotto l’ideologia del laissez faire. John Rawls (1921-2002), il grande filosofo del liberalismo moderno, sosteneva che fosse necessario dare priorità assoluta alle libertà fondamentali delle persone rispetto a reddito e ricchezza. Ma, un numero crescente di persone è oggi disposto a scambiare i diritti democratici per la promessa di avere un’occupazione e un reddito decente. L’idea della «società aperta» viene considerata una minaccia più che una promessa. Dalla rust belt (la «cintura della ruggine» americana) all’ex Germania dell’Est deindustrializzata, le persone si difendono come possono dalle depredazioni del mercato, cercando di mettersi al riparo con quel poco di armamentario ideologico che gli rimane a disposizione. Il «doppio movimento» di Polanyi può essere visto come una metafora per forze socio-politiche che desiderano riaffermare un maggiore controllo sulle dinamiche economico-politiche nei diversi contesti nazionali contro il capitalismo finanziarizzato e le forze politiche che lo hanno imposto. Classi medie in declino e lavoratori impoveriti si stanno semplicemente rivolgendo a quei leader, movimenti e partiti che promettono una qualche protezione dalle brutali scosse telluriche della globalizzazione neoliberista che hanno reso le loro vite più insicure. «È vero che la globalizzazione ha contribuito all’incremento del benessere mondiale. Ma è altrettanto vero che questa crescita complessiva ha anche provocato lacerazioni nel mondo occidentale perché non abbiamo migliorato l’accesso individuale ai common goods, quei beni comuni che fanno sentire ogni persona un cittadino e ogni cittadino una persona. E questo è il problema politico e civile.» – ha riconosciuto Vittorio Colao, uno dei principali manager italiani del capitalismo internazionale, ex CEO di Vodafone ed ex-coordinatore del comitato che ha affiancato il governo italiano nel disegnare la strada del post-pandemia CoVid-19 (P. Bricco, “Il guaio della globalizzazione? Ha creato un mondo piatto”, «Il Sole 24 Ore», 31 dicembre 2018, p. 13).[↩]
- D’altra parte, il cambiamento sociale avvenuto negli ultimi 40 anni, oltre alle crescenti disuguaglianze, ha visto mettere in discussione le norme e gli atteggiamenti tradizionali su religione, sessualità, vita familiare e altro ancora, dall’emergere dei movimenti sociali dei diritti civili, femministi e delle persone LGBTQIA+, mentre la massiccia immigrazione e (specialmente negli Stati Uniti) la mobilitazione di gruppi di minoranza da sempre oppressi come gli afroamericani e i latinos, ha contribuito a sconvolgere gli equilibri socio-demografici e le gerarchie politiche tradizionali, rendendo molti cittadini bianchi (soprattutto maschi) particolarmente nervosi, risentiti e arrabbiati per la perdita di status e potere e per il rischio di diventare gruppo di minoranza entro il 2045.[↩]