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AAA immigrate/i cercasi. astenersi rifugiati e perditempo

di Stefano
Galieni

La vicenda assume i toni del grottesco e non riguarda soltanto l’Italia. Di fronte al bisogno disperato, da parte dei datori di lavoro, di personale da assumere – ovviamente con i salari più bassi d’Europa – non solo in mansioni poco qualificate ma ormai persino con competenze scarse nel Paese, i governi che si succedono da anni non fanno altro che investire risorse enormi per respingere le persone, esternalizzare le frontiere, rendere complesso ogni tentativo di ingresso legale di persone provenienti da altri paesi, avendo, almeno così appare, come unica prospettiva quella di dimostrare al proprio elettorato che si sta fermando una inesistente “invasione” altrimenti detta “immigrazione incontrollata” se non in maniera più chiaramente razzista, “sostituzione etnica”. Un allarme semplice che ancora funziona in termini di attrattività ma che sta portando l’Italia, insieme ad altri fattori strutturali, ad un vero e proprio collasso economico produttivo. Non si è più in grado di garantire la produzione di beni, merci e servizi. Va detto, ad onore del vero che il governo Meloni, in sordina, è stato il primo che, da anni, ha definito un piano triennale di ingressi per motivi di lavoro, in gran parte stagionale, ma con permessi che poi potranno essere convertiti in documenti che assicurano maggiore stabilità, in base al classico meccanismo premiale, ma si tratta di cifre insufficienti. In 3 anni potranno entrare circa 400mila persone a fronte di una richiesta stimata in circa 3,4 milioni di lavoratrici e lavoratori. Ovvio che una decente politica salariale potrebbe far sì che tante/i inoccupati autoctoni, potrebbero, ma solo in parte, sopperire a tale vuoto, ma di questo neanche a parlarne.

Con questo contributo, proviamo ad uscire parzialmente, dalle argomentazioni politiche ed etiche per cui abbiamo posizioni radicalmente critiche in merito alle politiche migratorie realizzate, da governi di diverso orientamento politico, negli ultimi 30 anni, e atteniamoci a meri dai economici, di quelli che tanto vengono utilizzati da chi pensa di poter governare il neoliberismo. Un terreno scivoloso, perché è evidente che ponendo al centro gli interessi delle imprese, si riduce la forza lavoro, anche quella migrante, a merce funzionale al profitto. Ma si accetti la sfida anche per dimostrare l’assoluta inadeguatezza delle azioni istituzionali finora intraprese. Il primo dato è incontrovertibile, il saldo fra risorse spese dallo Stato per i circa 5.042mln di cittadine/i stranieri regolarmente presenti e benefici in termini di entrate fiscali, soprattutto dovute a lavoro dipendente, è saldamente e da sempre in attivo. A detta del XIII Rapporto della Fondazione Moressa sull’economia dell’emigrazione, presentato il 19 ottobre scorso, le entrate sono state, (dati disponibili relativi all’anno di imposta 2021, di 29,2 mld di euro, a fronte di spese di 27,4. Risultato + 1,8 mld. Secondo il Dossier Statistico sull’Immigrazione di IDOS, del 2023, che considera un numero maggiori di voci, il saldo è ancora maggiore, + 6,1 mld (34,3 entrate, 28,2 uscite).

Le persone regolarmente contrattualizzate risultano essere (dicembre 2022), 2.400 mila 154 miliardi di euro di PIL (il 9,6% di quello complessivo) è il contributo derivante dal lavoro migrante. E questo, va reiterato, malgrado l’immensa evasione contributiva e fiscale, dovuta non certo a chi lavora ma da chi continua a tenere centinaia di migliaia di persone occupate senza contratto. Il mercato del lavoro, nonostante i venti di guerra, è in ripresa dopo la flessione che si è registrata con la pandemia. Il tasso di occupazione delle donne e degli uomini provenienti da altri Paesi è superiore a quello degli italiani (60,6% contro 60,1%) ma questo è dovuto alla differenza di età media che fa crescere fra i primi il numero di persone in condizione di lavorare. Le persone straniere in possesso di un contratto risultano essere il 10,3% rispetto alla totalità del mondo del lavoro, una percentuale che però sale vertiginosamente, fino al 28,9% se si tratta di personale non qualificato. C’è un’interpretazione politica ad avviso di chi scrive radicalmente scorretta di questi dati. Presi in quanto tali vengono utilizzati per dire che la manodopera straniera costituisce il male interpretato marxiano “esercito industriale di riserva” di cui il sistema economico liberale usufruisce per poter produrre dumping salariale e, soprattutto per poter in ogni momento, sostituire la manovalanza autoctona con quella immigrata. Da questo assioma si trae la richiesta di “aiutarli a casa loro per il loro bene” (sistema di cooperazione poi inesistente o ancora coloniale), sia per far risalire l’occupazione e i salari degli autoctoni. Questo non corrisponde al vero sia perché la manodopera di cui avrebbe bisogno il sistema produttivo italiano non è neanche parzialmente garantita da quella proveniente da altri Paesi – abbiamo già indicato i dati – sia perché la perdita di potere d’acquisto dei salari italiani, la più alta nell’UE dagli anni Novanta, è dovuta a scelte politiche ed economiche orientate sull’accumulazione di profitto, sulla finanziarizzazione dell’economia, sulla delocalizzazione delle imprese, sulla frantumazione dei contratti collettivi di categoria. In realtà ogni persona che non occupa un ruolo apicale nel sistema economico / finanziario, fa teoricamente parte dell’immenso esercito industriale di riserva, autoctoni e non, immersi certamente in una rigida gerarchia sociale ma in cui, più che la cosiddetta “guerra fra poveri”, si esplica, in maniera crudele, il dominio contro chiunque possa essere considerato povero. Il presente è insomma caratterizzato da un corto circuito di portata esiziale fra scelte politiche, esigenze economiche dell’imprenditoria rispettosa delle regole e utilizzo di tale contraddizione di chi non può o non vuole produrre un reale cambiamento nei percorsi occupazionali. In alcuni casi si tratta di scelte legare alla volontà di mantenere alto il profitto evadendo anche gli obblighi fiscali, in altri la questione risulta essere più complessa. Un esempio fra tutti: Dopo il fallimento del già citato provvedimento di emersione del 2020 che, nell’84% dei casi ha riguardato lavoratrici e lavoratori che si occupano di cura alla persona e che tutt’ora non risultano completati, con l’ultimo decreto flussi, si è aperto all’ingresso di circa 9900 persone da inserire in tale settore. Peccato che, a causa del crollo verticale di ogni sistema di welfare, il numero di famiglie che ha urgente bisogno di personale in casa per la cura delle persone anziane o disabili, sia in continua crescita e che, non usufruendo di sostegno statale, in molte case lavorino persone, soprattutto donne, in nero, pagate per un numero di ore corrispondente a meno della metà di quelle lavorate. Una forma di sfruttamento legata anche al fatto che molte famiglie non hanno un reddito sufficiente per stipulare contratti regolari alle persone alle loro dipendenze, rendendo invisibili buona parte delle lavoratrici. L’ultimo Rapporto Assindatcolf 2023 “Occupazione nel settore delle collaborazioni domestiche: caratteristiche, evoluzione e tendenze recenti” ha fotografato la situazione odierna attraverso i dati dell’Istat evidenziando i cambiamenti e l’insicurezza di questo settore lavorativo. Secondo l’indagine solo il 44,2% degli occupati nel settore lavora 50 settimane l’anno. Quasi un quarto invece – il 23,2% – non supera le 20 settimane. Sul piano retributivo, il 26,5% degli occupati riceve meno di 3mila euro l’anno, e solo il 14,6% supera i 13mila euro nei 12 mesi. E parliamo di quella zona grigia di chi è almeno parzialmente contrattualizzato. Secondo l’Istat il tasso di irregolarità, nonostante un calo sensibile era considerato nel 2020 del 51,7%, a fronte del 24,4 di quello nel comparto agro industriale e del 15,3% nella ristorazione. Le assunzioni derivanti dalla regolarizzazione del 2020 risultano essere fra le 66 mila e le 88 mila, ma si tratta per lo più di contratti a tempo determinato già non più in essere.

Prevedere tale scenario era ovvio: chi arriva è in gran parte giovane, pesa meno sul sistema sanitario e – purtroppo – sovente non è inserito in quello formativo ma affrontare la normalità sembra impossibile, di fronte all’eterna sindrome emergenziale. Sin dai primi anni Novanta, quando la crescita degli arrivi era prevalentemente dovuta a ragioni economiche e presupponeva l’ingresso nel mondo del lavoro, non si è stati capaci, per errori, scelte politiche timide, rivelatesi spesso errate, difficoltà a comprendere la dimensione strutturale del cambiamento sociale in atto, di produrre un complesso di norme funzionali quantomeno ad un incontro, alla luce del sole, fra domanda e offerta di manodopera e ad impegnare in tal senso risorse ed investimenti. Negli ultimi decenni poi l’incrociarsi perenne fra migrazioni forzate da cause contingenti e quelle più strettamente connesse a scelte, anche individuali, di inserimento nel mercato del lavoro italiano non è quasi mai stato affrontato con i dovuti strumenti Tale approccio permane negli aspetti normativi vetusti, ancora in vigore, dal T.U. 286/98 modificato dagli interventi apportati dalla cd “Bossi Fini” del 2002 con cui si lega in maniera indissolubile la sussistenza di un contratto di lavoro all’ottenimento di un permesso di soggiorno. Invece di rivedere la “legge madre” si è preferito, negli ultimi venti anni, accumulare e mescolare, interventi di stampo dichiaratamente proibizionista (cd pacchetti sicurezza, circolari amministrative, rimpatri coatti e/o volontari, tentativi mai andati a buon fine di relocation in altri paesi UE), con misure atte a regolarizzare numeri limitati di persone, spesso unicamente in base ad una sottostima delle presunte esigenze del mercato del lavoro, che si sono tradotte o nei cd decreti flussi quanto in quelle che sono state definite “sanatorie” o interventi per “emersione dal lavoro nero” come quello realizzato nel 2020, attivati per collaboratrici familiari e lavoratori del comparto agroindustriale, il cui risultato non è stato all’altezza delle aspettative.

Almeno fino al 2011, il numero degli ingressi “regolari”, aveva una sua consistenza, spesso attraverso una formula e farraginosa secondo cui lavoratrici e lavoratori già presenti nel Paese ma “illegalmente” potevano uscire dall’invisibilità mediante una chiamata nominativa, tornare nel paese di provenienza e poi rientrare in Italia previa una serie di garanzie. Il crollo è iniziato con il decreto flussi del 2014, relativo all’anno precedente che ha permesso l’ingresso di 47650 persone di cui il 63% fatte entrare unicamente per lavoro stagionale. Peggio ancora nell’anno successivo in cui gli “stagionali” sono calati al 49,1% a fronte di soli 35 mila ingressi regolari. Si tenga conto che il meccanismo stesso del decreto flussi è stato e continua ad essere lento, pieno di insidie burocratiche e di ostacoli e per ciò inadeguato sia alle prospettive di chi intende lavorare che alle esigenze delle aziende. Dal 2016 al 2021 (quindi comprendendo il calo connesso alla pandemia) i decreti flussi si riducono a poco più di 30 mila persone, in gran parte provenienti da Paesi con cui sono stati stipulati accordi bilaterali per garantire eventuali rimpatri; di queste quasi la metà delle quote è riservata a lavoratrici / tori stagionali. Anche la cd categoria degli stagionali meriterebbe una trattazione a se stante. Si tratta per lo più di persone impiegate in agricoltura che, una volta entrate in Italia, sono riuscite a restarci, o in condizioni di irregolarità o, in alcuni casi, ottenendo nuovi contratti legati soprattutto alla filiera circolare del comparto agro industriale o per cui sono stati predisposti specifici meccanismi di conversione dei permessi di soggiorno. La permanenza nel Paese di molte e molti di loro – una parte consistente ha coperto la nicchia economica dei servizi di cura alla persona ed è quindi prevalentemente femminile – resta indisturbata ma in una sorta di limbo giuridico / lavorativo. Risultano fondamentali per i comparti che ricoprono, quindi raramente finiscono con l’essere intercettate/i, ricevendo o decreti di espulsione, di allontanamento se non finendo nei centri permanenti per i rimpatri (CPR) ma non godono di alcun reale diritto. In caso di problemi di salute possono rivolgersi ai pronto soccorso come STP (Stranieri Temporaneamente Presenti), non hanno accesso ad un medico di base né possono aprirsi un conto corrente, stipulare contratti di locazione, prendere una patente di guida. In pochi anni è stato creato un vero e proprio esercito di invisibili, di cui tanto la politica quanto l’informazione sembra non volere tenere minimamente conto. Questo ha determinato la creazione di un consistente grumo di forza lavoro invisibile, costosa in termini di assistenza alla fine dovuta, ma che non potendo essere regolarizzata neanche può contribuire nella fiscalità generale al PIL.

Dal 2011 si è poi tentato, ad avviso di chi scrive, forzando molto la mano, di creare una separazione netta fra richiedenti asilo e/o protezione e migranti per ragioni economiche. Si tratta di una categorizzazione semplificatoria e approssimativa che non tiene conto di numerose variabili. Chi era giunto in Italia in anni precedenti vedeva il nostro Paese come luogo in cui stabilirsi, dove trovare occupazione, da cui inviare rimesse alle famiglie rimaste in patria. Da almeno il 2012 e poi, via via in maniera sempre più evidente, l’Italia è divenuta unicamente o quasi paese di transito. Chi chiedeva asilo cercava di non lasciare le proprie impronte e quindi farsi identificare da noi per evitare di essere poi essere rimandati qui in osservanza al regolamento Dublino e questo indipendentemente dalle ragioni per cui giungevano in Europa. Richiedenti asilo, bisognosi di protezione o persone in fuga da crisi ambientali o economiche cercavano e cercano di spostarsi verso altri paesi UE dove maggiori sono le prospettive di impiego e di costruirsi un futuro, minori i rischi di finire nelle filiere dello sfruttamento e del lavoro nero. Il corto circuito che si è andato a creare, causato anche dal Regolamento Dublino legittimato, negli anni, una disparità di trattamento fra chi fuggiva per ragioni economiche, in cerca quindi semplicemente di un lavoro e chi chiedeva protezione umanitaria, internazionale o asilo, obbligando anche i primi ad accettare per poter entrare in UE di dover rientrare nella categoria degli asilanti. Le ragioni per cui si emigra dal proprio paese di origine sono molteplici e i trattati internazionali obbligherebbero a vagliare caso per caso ma, di fatto, il respingimento è stato attuato verso chi proviene da paesi ritenuti sicuri (Tunisia, Nigeria, Albania, Marocco, Egitto ed altri) rifiutato, laddove c’è stato modo di procedere ad identificazione, per chi proviene da altri Stati considerati in condizioni di guerra o di rischio. Una simile condizione ha prodotto quello che con estrema sintesi, i ricercatori Enrico Di Pasquale e Paola Tronchin hanno definito “ i vasi non comunicanti della politica migratoria italiana” (Immigrazione 10/10/2023). Da una parte gli approdi, peraltro in quantità tale da non poter giustificare alcun allarme sociale, soprattutto da Tunisia, Libia e gli arrivi via terra dalle aree balcaniche, dovute a richieste di asilo mal gestite, anche a causa dell’assenza di una politica comune europea, dall’altra la pressante richiesta di manodopera proveniente dal mondo imprenditoriale, soprattutto della piccola e media impresa. Due contesti che potrebbero incontrarsi ma che vengono affrontati con strumenti divaricanti e privi di sbocco. L’apertura dei canali di ingresso legali avrebbe un duplice obiettivo. Risponderebbe a una esigenza del mondo economico: secondo le previsioni Unioncamere – Excelsior, nei prossimi quattro anni serviranno almeno 3,4 milioni di lavoratori, in parte dovuti al pensionamento degli occupati attuali e in parte alla crescita economica (compresa quella trainata dagli investimenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza), su cui torneremo. Gli ingressi previsti sono inferiori rispetto al fabbisogno complessivo consistente e crescente. Gli ingressi per lavoro potrebbero rappresentare un’alternativa agli sbarchi, siano essi spontanei o gestiti dai trafficanti, ma questo andrebbe – se dichiarato esplicitamente – ad erodere il consenso delle forze politiche di governo che hanno fatto della “fortezza Europa e della lotta contro l’immigrazione un proprio punto identitario. Eppure la leva delle esigenze di manodopera sembra influire più di quanto dichiarato pubblicamente: nel 2022 il decreto flussi permetteva l’ingresso di 69700, oltre il doppio dell’anno precedente, anche se per circa il 60,3% si trattava di ingressi per lavoro stagionale. Per il 2023 si è passati a 122705, (68,5% stagionali) ma, finalmente, come scrivevamo all’inizio, si è ridefinita una programmazione su base triennale che complessivamente, i cambiamenti sono possibili, dovrebbe permettere l’ingresso complessivamente a circa 409 mila persone, che aumenterebbero di altre 165 mila nel 2026. La maggior parte delle persone ammesse ad entrare in Italia dovrebbe provenire da quei Paesi con cui sono in vigore accordi bilaterali di riammissione che, in caso di variazione delle esigenze imprenditoriali, potrebbero quindi dover tornarsene a casa. Dato interessante è che, in base alle prospettive del governo, nei prossimi 3 anni dovrebbe esserci una seppur lieve flessione degli ingressi legati unicamente a lavoro stagionale che nel 2026 potrebbero scendere al 56.7%. Il decreto flussi emanato recentemente, con le inevitabili polemiche dovute al “click day” i pochi momenti in cui è realmente possibile, mediante piattaforma telematica, garantire ingressi regolari, sono la fotografia emblematica di una sistema Paese che non intende fare i conti con la necessità di rivedere l’intera gestione del mercato del lavoro. Di fatto, al di là dei proclami, tutte le forze politiche e sociali si sono rese conto di aver bisogno vitale di manodopera in grado di fare non solo “i lavori che gli italiani non vogliono più fare” (le mansioni più faticose e meno retribuite), ma anche quelli che “non possono più fare” (in quanto occorre all’economia personale anche qualificato, possibilmente con buone capacità nel campo dell’informatica e del digitale), quindi più giovane, ma non possono dirlo pubblicamente perché dovrebbero rivedere radicalmente la propria identità fondata sul “prima gli italiani”.

E viene da pensare che se, tanto verso coloro che sono stabilmente in Italia ma non hanno potuto ancora emergere da condizioni di illegalità amministrativa, quanto per chi arriva – per i primi la cifra stimata è di 600 mila persone – invece che investire risorse per improbabili e peraltro inefficaci misure di rimpatrio o di trattenimento e comunque di esclusione, quanto sarebbe più remunerativo, in termini di investimento economico e sociale, prevedere meccanismi di regolarizzazione permanente? Isolando questo aspetto prettamente economico occorre pensare anche al lungo periodo, non basta un triennio. Gli scenari demografici ad oggi immodificabili – occorrerebbero misure a lungo termine che il sistema Paese non sembra in grado di produrre e i cui effetti si vedrebbero non prima di 20 anni – stanno portando sempre più verso una tendenziale parità numerica fra chi lavora e chi è in pensione. Un contesto insostenibile e non basta certo portare sempre più in avanti l’età pensionabile per risolvere il problema. Viviamo, in Italia più che nel resto d’Europa – il nostro è tornato ad essere paese di emigrazione – in quello che viene definito “inverno demografico” a cui neanche l’immigrazione economica programmata potrà sopperire. Gli indicatori demografici spiegano bene la diversa tendenza: tra gli stranieri vi sono 11,0 nati ogni mille abitanti e 2,0 morti; tra gli italiani, 6,3 nati e 13,0 morti per mille abitanti. Significativo anche se insufficiente, il numero di stranieri “naturalizzati” italiani: 133 mila nel 2022, per un totale di 1,4 milioni negli ultimi 11 anni. E da ultimo: il numero di cittadine/i straniere/i regolarmente presenti nel Paese si conferma stabilizzato intorno ai 5 milioni ad inizio del 2023, pari all’8,6% del totale. Se qualcuno arriva molte/i se ne vanno o, addirittura, tornano nel paese di origine perché l’Italia si è rivelata una opportunità mancata. I numeri sono incontrovertibili: in Italia, il rapporto tra ingressi per lavoro e popolazione residente (11,3 ogni 10 mila abitanti) rimane inferiore rispetto alla media Ue (27,4). Il primo canale d’ingresso in Italia, infatti, rimane il ricongiungimento familiare (38,9% del totale). In termini più chiari, coloro che emigrano alla ricerca di una occupazione decente si rivolgono verso altri lidi, nei paesi UE con salari più alti ed elevata mobilità sociale, ma anche verso nuove mete come la Cina o i Paesi del Golfo. In Europa, i Paesi che attualmente registrano il maggior numero di immigrati per motivi di lavoro sono Polonia, Spagna e Germania, dove si è investito o si comincia a farlo, in accoglienza, formazione, autonomizzazione delle persone arrivate. In Italia si cerca – affrontando costi enormi e difficoltà burocratiche inconcepibili – di ricostruire quantomeno il nucleo familiare originario. L’età media degli stranieri è poi di 35,3 anni, contro i 46,9 degli italiani, una forbice destinata ad allargarsi in maniera costante e a cui non è possibile reagire negando diritti a chi magari è nata/o e cresciuta/o in Italia. Si torna quindi all’annosa questione riguardante coloro che arrivano per chiedere asilo e/o una forma di protezione. Finché si continuerà a considerare costoro estranei per affrontare i problemi prima esposti o, peggio ancora, fino a quando si continuerà ad incrementare le risposte atte a scoraggiare le partenze, ad accusare chi viola le frontiere, ad evitare persino i soccorsi, si compiranno non solo crimini verso chi ne paga le conseguenze, ma anche veri e propri atti di autolesionismo politico ed economico.

Una visione sensata e di portata europea, della questione potrebbe portare finalmente ad uscire da una logica emergenziale nata nel secolo precedente, con cui si negava il carattere strutturale e non straordinario delle migrazioni in atto, sia di quelle motivate da ragioni economiche quanto quelle indotte da conflitti, dittature, discriminazioni, o causate dai disastri ambientali che hanno reso interi Paesi inabitabili. Se Italia ed Europa, invece di ricercare forme sempre più raffinate per liberarsi di chi arriva in quanto costretto alla fuga, provasse a valutare individualmente le competenze delle donne e degli uomini parcheggiati nei centri di prima e di seconda accoglienza, si potrebbe poter formare e infine reperire almeno una parte della manodopera richiesta, da introdurre nel mercato del lavoro però con piena dignità. Una spesa pro capite che sarebbe nettamente inferiore a quella realizzata per un’accoglienza priva di sbocchi e che si tradurrebbe in tempi brevi in un investimento. Occorrerebbero percorsi formativi di inserimento che andrebbero concordati in ambito europeo. L’UE potrebbe investire di più in tale direzione – togliendo risorse ai sistemi securitari di respingimento e di controllo delle frontiere e destinandoli a veri e propri programmi integrati in cui, va detto sin dall’inizio, l’uomo o la donna beneficiari di tali iniziative dovrebbero poi poter liberamente scegliere anche in quale Paese poter trovare una propria collocazione, temporanea o definitiva. L’Italia, per tornare appetibile, dovrebbe innalzare i salari e rivedere molte normative sul lavoro ma da tali riforme trarrebbero beneficio tutte/i, migranti e autoctoni.

Un sistema così strutturato è destinato ad implodere. Le proposte da avanzare per modificare una condizione che danneggia autoctoni e persone straniere che lavorano, dovrebbero tenere conto di alcuni fattori non presi finora in considerazione. Intanto i cd migranti economici, o coloro che comunque riescono ad inserirsi regolarmente nel mercato del lavoro garantiscono un imprescindibile impatto fiscale positivo. Dopo la pandemia il numero di contribuenti immigrati è tornato a crescere, raggiungendo i 4,3 milioni (10,4% del totale), che nel 2022 hanno dichiarato redditi per 64 miliardi di euro e versato 9,6 miliardi di Irpef. Rimane alto il differenziale di reddito pro-capite tra italiani e immigrati (circa 8 mila euro annui di differenza), conseguenza diretta della concentrazione occupazionale e di un vero e proprio migrant gap. Al saldo positivo fra entrate e servizi di welfare già citato, si aggiunge il fatto che buona parte della popolazione immigrata è, o sta per entrare, in età lavorativa, con un bassissimo impatto sulle principali voci di spesa pubblica come sanità e pensioni. Un secondo aspetto, su cui da anni IDOS indaga con puntualità, è quello dell’imprenditoria migrante, spesso è ancora formata da imprese familiari o riconducibili ad unico proprietario / lavoratore. Nel 2022 c’è stato un aumento di tale imprenditoria calcolato in 761 mila imprese registrate, il 10,1 del totale. Una realtà in espansione da oltre 10 anni (+ 39,7%  dal 2012) rilevata in particolar modo nelle regioni del Centro Nord, in settori come le costruzioni, il commercio, la ristorazione. Con una enorme lentezza, causata da numerosi fattori, in primis le difficoltà a regolarizzare facilmente e legalmente la propria presenza in Italia, un futuro più prospero, anche dal punto di vista della crescita del PIL, potrebbe realizzarsi unicamente se venissero garantiti maggiori diritti nell’ingresso nel mondo del lavoro a chi è già o a chi arriva in Italia, dando impulso ad ogni forma di inserimento socio economico si riesca a realizzare. Si tratterebbe di ridivenire paese attrattivo in cui poter garantire tanto agli autoctoni ormai costretti – soprattutto se con titoli di studio – a fuggire dal Meridione verso il Nord se non verso altri paesi europei, quanto a chi arriva sulle nostre coste per vie tortuose e forzate, possibilità di accesso tanto al lavoro regolare, subordinato o autonomo ma legale. Occorrerebbero salari più alti, in linea con la media UE, ridefinizione in merito agli obiettivi, cosa e come si produce, piani di ristrutturazione a medio e lungo periodo per disegnare una strategia significativa per il futuro. L’immigrazione, certo con i suoi tempi e con le tante difficoltà da affrontare, cesserebbe di essere percepita e affrontato come emergenza ma diventerebbe elemento strutturale in un contesto in cui come le merci e i capitali, anche le persone circolano e ridefiniscono, sulla base delle migliori opportunità, il luogo in cui produrre ricchezza. La stessa dicotomia assurda fra migrante economico e richiedente asilo, perderebbe centralità, si rafforzerebbe la logica per cui, chi arriva è accolto e si inserisce non in quanto funzionale ai comparti economici da riempire a bassi salari, ma perché possa godere di una qualità di trattamento tale da determinare quello che manca all’intero Paese, da decenni, la ripresa di una mobilità sociale che è essa stessa motore di crescita positiva dell’economia e della convivenza. E da ultimo, a nostro avviso, non si tratta tanto di reiterare tentativi, peraltro falliti, di far entrare, con ingressi speciali, persone migranti ad alta qualifica. Cercare di sottrarre energie intellettuali e professionali a Paesi che invece ne necessitano, manterrebbe inalterata, quando non accrescerebbe, la dinamica che dai tanti Sud porta verso l’occidente, rendendo anche vano il diritto a non dover migrare. Si rivelerebbe senz’altro più proficua per l’intero Paese, la disponibilità a garantire ingressi legali, investire in formazione e, in tale maniera costruire solide alleanze sociali, politiche ed economiche con i paesi di provenienza che dovrebbero poter garantire il ritorno in patria, la circolazione libera in aree anticamente caratterizzate per fungere da ponte fra Paesi come il bacino euro – Mediterraneo e la Mezzaluna fertile. Come già affermato si tratterebbe di trasformare viaggi forzati che spesso si trasformano in tragedie, in progetti di vita che porterebbero beneficio tanto ai paesi ospitanti – aumenterebbero consumi e PIL – quanto a quelli, per ora di emigrazione, con un flusso delle rimesse adeguato anche a promuovere ulteriori cambiamenti. In definitiva si potrebbe arrivare a preconizzare un movimento stabile di persone che scelgono dove fermarsi, in quali attività provare ad impegnarsi, quale futuro pensare per le proprie prossime generazioni, rendendole soggettività attive di un cambiamento di cui risentirebbe positivamente l’intero circuito economico / finanziario. Tre sarebbero gli effetti provocati da simile prospettiva: l’emigrazione cesserebbe di essere considerata come questione di ordine pubblico di cui è oggi unico competente il ministero dell’Interno e si getterebbero poi le basi per una migliore ripartizione delle risorse sia all’interno dei Paesi ospitanti che in quelli di provenienza. Ma è il terzo elemento di cui è impossibile non tenere conto. I progetti del Pnrr richiedono oramai azioni rapide. Già da tempo da Bruxelles si è sotto osservazione in quanto molti piani presentati di governi italiani, appaiono imprecisi, indefiniti, e pieni di contraddizioni. Gli interventi previsti, per cui si dovrebbero ricevere le risorse necessarie, in materia di rimessa in sesto del territorio, di avviamento di aree di sviluppo, di intervento in aree del Paese considerate degradate potrebbero portare ad aver bisogno, secondo gli analisti di 375 mila lavoratrici e lavoratori. Una parte di costoro, soprattutto nei cantieri, non è disponibile nel mercato interno del lavoro e dovrebbe poter giungere da altri Paesi attraverso una modifica strutturale delle leggi in vigore. Non bastano alcune trovate come l’emendamento che autorizza l’ingresso rapido di 10 mila lavoratori nei cantieri per aziende coinvolte nel Pnrr. Si tratta di persone da far entrare, al di fuori del decreto flussi, per rispondere, in maniera insufficiente, al fabbisogno denunciato dall’Ance. L’Associazione nazionale costruttori edili che nel marzo scorso chiedeva 64.400 lavoratori necessari per la realizzazione di oltre 64 miliardi di euro di investimenti aggiuntivi del Pnrr. E non si tratta unicamente di operai ma anche idraulici ed elettricisti oltre a una quota di assistenti sociosanitari ovvero badanti. Ma tali investimenti hanno dei costi. Il governo attuale ha preferito invece programmare anche tagli al “fondo migranti”, in particolare all’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati, in favore del rafforzamento delle spese per la “sicurezza”. Scelte di questo tipo, dettate unicamente dal bisogno di propaganda, per quanto apparentemente e dal punto di vista delle risorse reali tolte, poco significative, sono il segno, quanto le politiche proibizioniste, la campagna per la reclusione dei richiedenti asilo, l’esternalizzazione tanto delle frontiere che dei luoghi di trattenimento, non si voglia guardare al futuro.

Guardare in prospettiva, pensando non ad una campagna elettorale, ma ad un Paese da salvaguardare in un’ottica di rispetto delle convenzioni internazionali imporrebbe non solo modifiche a tale impianto con carattere unicamente palliativo. Occorrerebbero scelte politiche epocali, di segno radicalmente diverso, capaci di segnare una profonda inversione di rotta. Non timide concessioni che, magari, tanto in Italia quanto nel resto del continente, prima o poi si dovranno compiere.

Stefano Galieni

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