Il presidente del consiglio Draghi ha definito le aperture decise per il 26 aprile come un rischio calcolato, qualcuno ha osservato che non c’erano gli elementi per calcolare quel rischio, tutti i rischi per la salute impliciti in quella decisione. Il rischio calcolato in realtà comprende anche le conseguenze economiche sociali e politiche della pandemia, le reazioni sociali, le manifestazioni di scontento ed il rischio di rivolte che ne derivano.
L’unico modello che sembra essere vincente è la riduzione dei contagi grazie a misure di chiusura molto rigide a cui si applica una campagna di vaccinazione intensa e capillare, sino ad arrivare alla possibilità di isolare i cluster del contagio ed al conseguente tracciamento, in Italia non accade, non è accaduto. La strategia che ha alternato diversi gradi di chiusura diversificata per territori, le zone colorate, dopo la pausa estiva dello scorso anno, non è più riuscita ad isolare il contagio, mentre la disponibilità dei vaccini non è stata quella necessaria, grazie all’azione inadeguata della Commissione Europea nella trattativa con le case farmaceutiche. Nel frattempo sono arrivati segnali contraddittori sulle possibili conseguenze del vaccino Astrazeneca, con una successione prescrizioni differenti. Il singolo cittadino si è trovato a dover interpretare segnali contraddittori, più o meno motivato ad approfondire le conoscenze, a capire le spiegazioni che gli veniva fornite da diverse fonti sulla natura della pandemia. Ognuno di noi si è trovato in una situazione a rischio di contagio, con possibili conseguenze sulla propria salute, sino a quella estrema della morte, con impatti più o meno gravi sulla propria attività lavorativa.
Tutti i riferimenti in base ai quali ognuno organizza la propria vita sono stati messi in discussione, mentre la base di conoscenza su cui fare affidamento è particolarmente precaria, dove si esaltano la differenza tra le diverse basi culturali. Ogni rapporto sociale, economico ed istituzionale è messo sotto tensione, viene sottoposto a verifica il livello di coesione sociale, la coerenza tra i diversi livelli di intervento istituzionali ed in ultima analisi le garanzie e d i supporti che lo stato è in grado di fornire. Il tutto avviene ovviamente non nel chiuso dei confini nazionali, a partire dalle scelte del PNRR, la cui definizione sta giungendo al termine; lo stato, chiamato ad operare come garante in ultima istanza della coesione sociale del paese, ha l’autonomia che gli è concessa nel contesto della gestione che l’Unione Europea e la BCE fanno dell’emergenza pandemica.
Se è vero che – come dicevamo in un precedente articolo – “Con l’arrivo dei vaccini, a parte pregresse posizioni novax, si è aperto il dibattitto pubblico sul bilanciamento tra rischi individuali, comunque siano ridotti, e benefici collettivi”1. Ognuno alla fine è solo – una condizione evocata dalla poesia di Salvatore Quasimodo ‘Ed è subito sera’2 – nel dover valutare veri o presunti rischi, facendo ricorso al proprio patrimonio culturale, facendo un bilancio tra un ragionamento più o meno condiviso nella propria rete di relazioni e la tempesta di notizie che si scatena a ridosso di messaggi istituzionali non sempre coerenti. Ci troviamo di fronte alle scelte che opera il sistema sanitario, le cui risorse sono assorbite dall’intervento sul Covid-19, che ci escludono da cure ed interventi necessari, talvolta drammaticamente necessari. Altro effetto della pandemia, non direttamente economico, è la chiusura delle scuole con le conseguenze ed i rischi del caso, non solo sui livelli di apprendimento, ma sull’equilibrio psicologico e relazionale dall’infanzia all’adolescenza, a cui si aggiungono limitazioni più o meno strette ad attività sociali e possibilità di incontro.
Se esiste un problema di risorse cognitive, di patrimonio culturale, per orientarsi e prendere decisioni nella condizione in cui la pandemia ci ha precipitati, si pone la necessità anzi si apre una occasione per cominciare a ribaltare il livello di ignoranza – in particolare su argomenti di ordine scientifico ma non solo – di gran parte della popolazione italiana. Ciò è particolarmente vero per chi è nella fase di formazione della propria personalità e del proprio patrimonio culturale. La cesura netta nelle attività scolastiche ed educative – imposta dalle misure prese contro la diffusione del contagio – non ha avuto come contraltare una mobilitazione solidale per aprire un ragionamento un confronto condiviso sulle basi biologiche della pandemia, sulle sue conseguenze psicologiche, sociali ed economiche. Ci si è concentrati sul mantenere la regolarità delle attività normali delle istituzioni scolastiche non si è pensato alla necessità di stravolgerle almeno in parte, prendendo coscienza di ciò che stava e sta accadendo.
Certamente nessun soggetto è arrivato preparato ad affrontare questa situazione, nelle basi del funzionamento della società e negli strumenti specifici necessari a prevenirlo e ad affrontarlo, ma questo implica un processo di apprendimento e di acquisizione di strumenti operativi, cognitivi ed organizzativi assolutamente nuovi; se per fare questo si va incontro a difficoltà straordinarie, si tratta di una strada che dobbiamo percorrere se vogliamo trasformare una condizione di crisi, in particolare nel processo di formazione e crescita, in una fase di apprendimento, di condivisione delle esperienze e delle conoscenze, di maturazione quindi individuale e collettiva, di rottura dell’isolamento e del senso di impotenza. Si tratta di realizzare concretamente un principio di partecipazione che ci rende tutti cittadini e non sudditi, a partire, come stiamo dicendo, dall’intero sistema di educazione e formazione alla vita in tutte le sue fasi e declinazioni.
Se la scuola, generalmente intesa, è il luogo sociale dove si deve svolgere questo ribaltamento del vivere la pandemia (sindemia, infodemia) come costrizione, limitazione di relazioni e attività, è tutta la società che dovrebbe essere chiamata ad apprendere e partecipare, ma qui sta il problema – che è anche una ovvietà – e cioè che la società in cui viviamo non è per nulla basata sulla partecipazione, la condivisione delle conoscenze, del potere mentre è fondata sull’esclusione e la diseguaglianza in ogni dimensione della sua organizzazione. Le risposte alla pandemia nelle sue manifestazioni sanitarie, economiche e sociali piovono necessariamente tutte dall’alto, peraltro in modo non sempre coerente ed efficace, scatenano un insieme confuso e contraddittorio di rivendicazioni per nulla solidali, ognuno per sé, per lo più senza alcun riferimento concreto ed ideale qualsiasi di bene comune; ognuno parcellizzato nella condizione in cui viveva e sgomitava per farsi largo anche nella condizione pre-pandemica. È questa la condizione che alimenta la narrazione della ‘dittatura sanitaria’.
Vediamo allora manifestarsi una sorta di Vandea, i blocchi stradali per condizioni particolari, mentre fatica ad esprimersi concretamente chi si mobilita e fa programmi per una società della cura contro una società, il cui motore è il profitto, ma che si esprime come società della paura, dell’ignoranza e dell’egoismo.
Certo non mancano reti e momenti di riflessione e condivisione di conoscenze, di cui facciamo parte, si mobilitano i lavoratori dello spettacolo, i lavoratori della logistica, il cui sistema è ancora più essenziale per far funzionare il sistema economico nella pandemia, la popolazione ed i sindaci della Val di Susa contro il massacro del proprio territorio; tuttavia queste ed atre mobilitazioni e movimenti non raggiungono quella soglia critica necessaria per ribaltare il senso di questo periodo, per fare i conti in questa che non è una emergenza destinata a passare con i rapporti sociali in cui viviamo da sempre e da cui questa ‘emergenza’ trae origine; significa riconoscere nei caratteri assunti dalla società nella pandemia i caratteri di sempre e cogliere l’occasione per comprenderli collettivamente reagendo e lottando in modo solidale.
L’insieme delle tecnologie, delle reti dei dispositivi digitali che, come abbiamo imparato a riconoscere in questi mesi, costituiscono ormai il sistema nervoso, la condizione per il proseguimento ed il coordinamento di ogni attività, da quella della formazione, alla logistica, all’amministrazione, alla sanità, alla produzione – una vera e propria matrice della società i cui siamo che ci costringe a vivere passivi e parcellizzati – può essere allora lo strumento, per nulla neutro, di questo possibile ed auspicabile ribaltamento della gestione della crisi pandemica, nel nome della condivisione delle conoscenza e delle esperienze concrete di ogni soggetto sociale, della cooperazione solidale e della partecipazione, per la diffusione di una critica radicale e concreta, attraverso la connessione dei nodi dispersi che la praticano.
Ancora una volta riconosciamo la necessità, ma anche la possibilità di una liberazione, di un processo di liberazione che concretamente costruisce nel suo procedere le condizioni del suo affermarsi. Ed è bello e giusto affermarlo a ridosso di questo secondo strano 25 aprile, ma se 76 anni fa il Monte Rosa scese a Milano, oggi da ogni città, borgo e paese deve partire la lotta di liberazione, unendo le metropoli alle valli, alle vette.
- https://gliasinirivista.org/democrazia-e-diritto-alla-salute/?fbclid=IwAR1Uy86pmuq_9WdOSzQnqTTOu_6k8x1Sy5OikpdEBs7io9ECjFNw5poR6wU.[↩]
- Ognuno sta solo sul cuore della terra/ trafitto da un raggio di sole/ ed è subito sera.[↩]