La Cina è tornata ad essere la “fabbrica del mondo”, la maggiore beneficiaria dei massicci piani di stimolo messi in campo da Stati Uniti e Paesi dell’Unione Europea. La nuova amministrazione Biden in due mesi ha fatto approvare dal Congresso l’American Rescue Plan da 1,9 trilioni di dollari e sta avviando l’iter legislativo per l’approvazione dell’American Jobs Plan da 2,3 trilioni e di un secondo pacchetto da almeno 1 trilione focalizzato sull’aiuto alle famiglie. In contrasto con l’approccio anti-statalista seguito dalla fine degli anni ‘70, Biden sta rilanciando il ruolo positivo dell’intervento pubblico: “il governo non è una forza straniera in una capitale lontana. No, siamo noi, tutti noi, noi le persone.” Nell’Unione Europea, invece, si è capito che i 750 miliardi di euro del Next Generation UE, proposti dalla Commissione il 27 maggio 2020, potrebbero diventare disponibili non prima della fine del 2021.
La Cina è tornata a produrre
La Cina ha superato gli Stati Uniti come primo Paese del commercio mondiale nel 2013 ed è ora la più grande destinazione di esportazione per 33 Paesi e la più grande fonte di importazioni per 65 Paesi. La Cina è il principale fornitore mondiale di beni intermedi per la maggior parte dei settori produttivi. La combinazione di forza lavoro (abbondante, disciplinata e formata), dimensioni del mercato, ampia e articolata catena di fornitura e formidabili dotazioni infrastrutturali e logistiche, rendono imprescindibile e forse insostituibile il mercato cinese per la maggior parte degli operatori economici globali. Durante la pandemia CoVid-19, Pechino ha sfruttato il suo predominio nelle catene di approvvigionamento manifatturiere per donare mascherine e ora vaccini a Paesi stranieri.
Avendo messo per prima sotto controllo la pandemia, anche grazie ad un generoso stimolo fiscale, la Cina è tornata a seguire una strategia “export driven”, cavalcando l’espansione degli stimoli fiscali delle economie dei Paesi ricchi, finanziata a debito ed incentrata sul sostegno dei consumi. I deficit e i massicci piani di stimolo di USA e Unione Europea hanno fornito benzina alla ripresa produttiva cinese già a metà del 2020, consentendo un recupero della competitività che era stata erosa dalla guerra commerciale iniziata da Trump nel 2018.
Gli americani e gli europei bloccati nelle loro case per i lockdowns, non potendo spendere i loro soldi nelle vacanze, nei pasti al ristorante e in altri settori dell’economia delle esperienze, hanno provocato un’ondata di ordini di merci alle fabbriche in Cina. Le famiglie del ceto medio negli Stati Uniti e in Europa, infatti, hanno acquistato console per videogiochi, frullatori, computer. Hanno attrezzato le loro case per il lavoro e l’apprendimento a distanza e le loro cantine o i soggiorni con tapis roulant e altre attrezzature per il wellness. Pertanto, le attrezzature per il wellness spedite tramite container dalla Cina negli USA sono più che raddoppiate tra settembre e novembre 2020, rispetto allo stesso periodo del 2019, secondo un rapporto di Sea-Intelligence, una società di ricerca danese. Le spedizioni di cucine, fornelli e attrezzature da cucina sono quasi raddoppiate nello stesso arco di tempo. Quelle dei disinfettanti sono aumentate di oltre il 6.800%.
Complessivamente, il volume del commercio globale è diminuito solo dell’1% nel 2020 rispetto al 2019. Ma, c’è stato un crollo di oltre il 12% in aprile e maggio, seguito da un’inversione altrettanto drammatica. I volumi totali spediti dall’Asia al Nord America hanno superato i livelli del 2019 di oltre il 7% nel 2020, secondo Container Trade Statistics. In un precedente articolo abbiamo analizzato le difficoltà che da mesi incontra la logistica globale a tenere il passo con le esportazioni di prodotti cinesi verso USA ed Europa.[1]
Nel terzo trimestre, secondo i dati forniti dalle autorità cinesi la crescita economica della Cina è salita al 4,9%, segnalando una ripresa della produzione delle imprese industriali, dell’export, del mercato immobiliare e dei consumi (vendite al dettaglio + 3,3%, vendite di auto +12,8%, mentre i viaggi aerei interni hanno superato i livelli pre-pandemici), e dimostrando che una rapida ripresa economica era possibile quando il virus era messo saldamente sotto controllo.
Le stime del FMI davano la Cina come l’unica economia del G20 che sarebbe cresciuta (del 2%) nel 2020, l’unica in grado di gestire una ripresa a forma di una V in un mondo impantanato nella recessione. L’economia globale, infatti, si sarebbe contratta del 4,4%, la flessione più ampia dalla Grande Depressione. Gli analisti hanno comunque affermato che la forza della ripresa economica cinese rimaneva incerta di fronte alla perdita di posti di lavoro, alla crescita irregolare in tutto il Paese, al debito delle famiglie e delle imprese, nonché al deteriorarsi degli attriti commerciali con gli Stati Uniti ed altri Paesi.
La leadership cinese, anticipando una crescita più lenta e un contesto internazionale più difficile, ha deciso di perseguire una nuova strategia nota come “economia a doppia circolazione“. Il concetto, proposto per la prima volta da Xi Jinping a maggio, mira a ridurre la dipendenza del Paese da mercati e tecnologie internazionali e a promuovere la circolazione (produzione, distribuzione e consumo) e i progressi tecnologici interni. “La globalizzazione sta affrontando un’inversione di tendenza, con un crescente protezionismo e unilateralismo. L’economia mondiale si sta indebolendo mentre il commercio internazionale e gli investimenti, la scienza, la tecnologia … la sicurezza e la politica stanno subendo un profondo cambiamento “, ha detto Xi in un discorso a Shenzhen il 14 ottobre. “Stiamo dando vita ad un nuovo modello di sviluppo con il ciclo economico interno che gioca un ruolo di primo piano. La nostra economia si trova in un periodo critico di trasformazione“.
A fine ottobre, il Comitato Centrale del Partito Comunista ha approvato il 14° piano quinquennale (2021-2025) e ha definito gli obiettivi della strategia per il 2035. Il nuovo piano ha l’obiettivo di cercare di bilanciare la crescita e le riforme per evitare la stagnazione (la cosiddetta trappola del “reddito medio“) in un contesto globale incerto e le tensioni inasprite con gli Stati Uniti. La strategia di “modernizzazione socialista” per il 2035 tende a legare esplicitamente il concetto di “sicurezza” a quello di “sviluppo nazionale”.
Sul piano economico, oltre al modello della “doppia circolazione” (con un focus sulla domanda interna), si punta su uno sviluppo nazionale basato sull’innovazione tecnologica e sull’obiettivo di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2060.
Un segnale di grande ottimismo hanno mandato anche i mercati finanziari con offerte per 3 trilioni di dollari (pari al PIL del Regno Unito) pervenute per partecipare all’offerta pubblica iniziale (IPO) di Ant Group (il “braccio tecnofinanziario” di Alibaba che gestisce la più grande piattaforma di pagamenti e altri servizi finanziari della Cina) da 37 miliardi di dollari alle Borse di Shanghai e Hong Kong (l’IPO più grande del mondo). Un’operazione che però è stata sospesa due giorni prima del debutto, bloccata dopo che i regolatori finanziari cinesi hanno deciso di sottoporre a un più attento esame il modello di business della redditizia attività di microfinanza online della società (imponendo più elevate riserve di capitale) per contribuire a contenere potenziali rischi finanziari e frenare l’aumento dei livelli di debito. Un duro scontro tra lo Stato cinese e la finanza privata, in particolare con Jack Ma (pochi mesi dopo Alibaba è stato multato dai regolatori cinesi per tattiche anticoncorrenziali e abuso di posizione dominante, con una sanzione per 2,3 miliardi di euro, pari al 4% dei ricavi).
In ogni caso, è diventato chiaro che anche per gli investitori stranieri, il mercato azionario ed obbligazionario cinese è semplicemente diventato troppo grande per essere ignorato, soprattutto visti i rendimenti più elevati offerti e l’intenzione politica di offrire agli investitori stranieri un accesso più ampio al mercato cinese.
Nel 2020, la Cina è stata l’unica grande economia a evitare la contrazione, registrando una crescita del 2,3%, e nel 2021 è vista in crescita dell’8,4%, secondo le ultime proiezioni del FMI. La previsione è molto al di sopra del prudente target fissato marzo dal primo ministro Li Keqiang di una crescita al di sopra del 6%, con l’obiettivo di creare 11 milioni di nuovi posti di lavoro.
Nel primo trimestre del 2021 la Cina ha registrato un aumento del PIL del 18,3% rispetto ai primi tre mesi del 2020. Si tratta della crescita più elevata mai registrata nel Paese in 30 anni di rilevazioni, ma è dovuta al rimbalzo che ha seguito il crollo dell’economia cinese nei primi tre mesi del 2020 (-6,8%) a causa della prima ondata della pandemia da CoVid-19, quando la Cina era totalmente in lockdown.
In ogni caso, le esportazioni cinesi sono aumentate del 31%, mentre le importazioni del 28%. Anche i consumi interni hanno ripreso a crescere e dopo il Capodanno cinese, ricorso lo scorso 1° febbraio, ristoranti e centri commerciali (+75,8%) e in genere tutta l’attività aperta al pubblico ha ripreso a funzionare normalmente.
A marzo la produzione industriale cinese ha segnato un aumento del 14,1% su base annua. A livello congiunturale, ovvero rispetto al precedente mese di febbraio, la produzione industriale ha segnato un aumento dello 0,6%. Le vendite al dettaglio segnano un +34,2% nello stesso mese, poco al di sopra del 33,8% registrato per i mesi di gennaio e febbraio scorsi, e molto al di sopra delle attese di un +28%. Gli investimenti fissi hanno segnato una crescita del 25,6% nei primi tre mesi del 2021, in rallentamento rispetto al 35% di crescita del periodo gennaio-febbraio, ma lievemente al di sopra di una previsione di crescita del 25%. Si attenuano i timori di carattere sociale: l’indice di disoccupazione delle aree urbane – che non comprende, però, i dati su decine di milioni di lavoratori migranti – è sceso al 5,3% a marzo, contro il 5,5% di febbraio scorso.
Nonostante i dati confermino la ripresa della Cina, l’Ufficio Nazionale di Statistica di Pechino ha invitato alla cautela. “Lo scenario internazionale è complicato da elevate incertezze e instabilità“, ha dichiarato il portavoce e “le fondamenta della ripresa economica interna non sono ancora solide.”
Il governo federale degli Stati Uniti spende
Dopo quasi due settimane di tese trattative, il 25 marzo 2020 al Senato americano è stato raggiunto un accordo per il Cares Act, un pacchetto di stimolo da 2,35 miliardi di dollari. Per giorni la minoranza democratica aveva bloccato l’approvazione della legge, accusando i repubblicani e l’amministrazione Trump di volere misure troppo generose con le grandi imprese, senza porre condizioni sul salvataggi in relazione ai riacquisti di azioni proprie, agli emolumenti del top management e alla salvaguardia dei posti di lavoro. I democratici chiedevano anche che le risorse pubbliche andassero anzitutto ai lavoratori, alle famiglie e al sistema ospedaliero. Invece, i repubblicani si opponevano a mettere maggiori risorse per i sussidi di disoccupazione, poche ore prima che il Dipartimento del Lavoro annunciasse di aver registrato quasi 3,3 milioni di nuove richieste di indennità di disoccupazione al 21 marzo.
Il compromesso bipartisan (la legge è stata approvata dal Senato con 96 voti a zero il 25 marzo e due giorni dopo dalla Camera con un voto a voce) ha previsto di stanziare 293 miliardi di rimborsi fiscali per i cittadini americani, fino a 1.200 dollari a persona e 500 dollari per ogni minore (oltre 150 milioni di famiglie con un reddito annuale sotto i 75 mila dollari) con accredito immediato sul conto corrente fino al 31 luglio; 268 miliardi per espandere le tutele sulla disoccupazione; 25 miliardi per l’assistenza alimentare ai più bisognosi; 510 miliardi nella forma di prestiti e garanzie alle imprese tra i 500 e i 10 mila dipendenti per evitarne il fallimento (utilizzato come collaterale dalla FED per arrivare fino a 4,5 trilioni di prestiti); 349 miliardi di prestiti a fondo perduto per piccole e medie imprese che si impegnano a non licenziare i propri lavoratori; 100 miliardi per gli ospedali; 150 miliardi di trasferimenti agli Stati federati e alle autorità locali; infine, 50 miliardi per l’assistenza internazionale.
Per 4 mesi i sussidi di disoccupazione sono stati estesi anche ai lavoratori della gig economy, ai liberi professionisti e ai lavoratori licenziati che continuavano ancora ad ottenere un’assicurazione sanitaria dai loro datori di lavoro, ma senza ricevere uno stipendio. Uno dei punti critici nei negoziati ha riguardato 510 miliardi di dollari per prestiti garantiti e sovvenzioni alle grandi corporations, compresa la disputa su quanto essere generosi con le compagnie aeree. Metà degli aiuti alle imprese erano sotto forma di prestiti agevolati, mentre l’altra metà in sovvenzioni (in gran parte a fondo perduto) per coprire circa 750 mila buste paga dei dipendenti fino ad ottobre. Le compagnie aeree che avrebbero ricevuto fondi non avrebbero potuto licenziare i dipendenti o modificare i contratti collettivi prima del 30 settembre. Inoltre, la legge ha previsto restrizioni su riacquisti di azioni, dividendi e retribuzioni dei dirigenti e ha consentito al governo di acquisire azioni nell’ambito del pacchetto di salvataggio.
Il 2020 si è chiuso con un accordo bipartisan tra Repubblicani e Democratici al Congresso USA (20-21 dicembre) per un pacchetto da 892 miliardi di dollari di nuovi aiuti (con una legge di 5.593 pagine!) che ha incluso pagamenti diretti di 600 dollari per adulti e minori, per individui che guadagnano fino a 75 mila dollari all’anno, e un supplemento di indennizzo di disoccupazione di 300 dollari a settimana (per 11 settimane a cominciare dalla fine di dicembre).
Per alcuni giorni il presidente Trump si è rifiutato di firmare il pacchetto di aiuti e spese, sostenendo che era “una disgrazia” perché insufficiente per aiutare le persone comuni. Trump richiedeva di portare il sussidio per gli adulti a 2 mila dollari e a 600 dollari per i minori. Misure che la Camera dei Rappresentanti, controllata dai Democratici, aveva approvato con un voto bipartisan, ma Mitch McConnel, il leader della maggioranza repubblicana al Senato, si è opposto e non ha permesso un voto sulla legge, fornendo un’anteprima del tipo di trattamento ostruzionistico che avrebbe destinato all’entrante amministrazione Biden se i Repubblicani avessero continuato a controllare il Senato.
Trump ha dovuto ingoiare anche il voto a maggioranza di due terzi sia della Camera sia del Senato che ha annullato il suo veto sulla legge sulla Difesa Nazionale da 740 miliardi di dollari. Non era mai accaduto prima, nei quattro anni di presidenza Trump, che il Congresso ribaltasse una sua decisione (il sesto veto annullato negli ultimi 100 anni), con il Senato che ha votato il giorno di Capodanno. A motivare il veto del presidente era il fatto che la legge limitava il ritiro di soldati USA da Afghanistan e Europa e non aboliva la cosiddetta Section 230, che garantisce l’immunità alle aziende Big Tech e social media per la diffusione di contenuti inappropriati e violenti. La legge, inoltre, ha introdotto per la prima volta una norma che consente di cambiare nome alle basi militari intitolate a generali confederati della Guerra di Secessione.
Il nuovo pacchetto di aiuti comprendeva anche miliardi per piccole imprese, assistenza alimentare, sussidi agli agricoltori, distribuzione di vaccini, industria dei trasporti e assistenza sanitaria. Prorogava una moratoria sui pignoramenti e forniva 25 miliardi di dollari in aiuti per il pagamento di affitto e bollette. Erano state anche risolte le controversie sull’autorità di prestito pandemico della FED (non impedendo la creazione di nuovi programmi di prestito d’emergenza per imprese e governi statali e locali dopo il 31 dicembre) e altre questioni che avevano costretto il prolungamento dei negoziati per mesi, mentre sono rimasti fuori due degli elementi più controversi nei negoziati: le protezioni legali per le imprese dalle cause dei dipendenti per il contagio da coronavirus, che erano state richieste dai repubblicani, e gli aiuti finanziari diretti per i governi statali e locali sostenuti dai democratici. Ma, l’accordo aiutava indirettamente i governi statali e locali fornendo miliardi per scuole, test sul coronavirus e altre spese.
Il secondo più grande stimolo economico nella storia degli Stati Uniti, dopo il Cares Act da 2,3 trilioni di dollari approvato a marzo, è stato legato a una legge di spesa di 1,4 trilioni di dollari che finanzia i programmi governativi fino a settembre 2021. L’accordo è arrivato mentre sono stati approvati e iniettati i primi vaccini, con la pandemia che aveva accelerato, infettando più di 214 mila persone ogni giorno, con più di 317 mila americani che erano già morti.
Nel frattempo, dall’inizio della pandemia i ricchi sono diventati molto più ricchi: solo 651 miliardari americani hanno guadagnato 1 trilione di dollari di ricchezza. I mercati azionari hanno raggiunto livelli record. Nel 2020 sono state lanciate più offerte pubbliche iniziali di azioni (IPO) che in oltre due decenni. Un’ondata di IPO hi-tech ha portato enormi quantità di denaro a investitori, fondatori e dipendenti della Silicon Valley.
Eppure, allo stesso tempo, più di 20 milioni di americani sono rimasti senza lavoro, 8 milioni sono caduti sotto la soglia della povertà povertà, 19 milioni sono finiti a rischio di sfratto e 26 milioni soffrivano la fame. Gli economisti mainstream hanno parlato di una ripresa “a forma di K” – i più ricchi hanno raccolto maggiori guadagni, mentre la metà inferiore è continuata a scivolare verso la povertà.
La nuova amministrazione Biden
Al momento dell’insediamento della coppia Biden-Harris in un Capitol Hill circondato da 25 mila soldati della Guardia nazionale (20 gennaio 2021) per evitare una nuova insurrezione del “popolo trumpiano”, gli Stati Uniti avevano superato la soglia dei 400 mila morti e dei 24 milioni di contagiati da CoVid-19, e dovevano ancora recuperare 10 milioni di posti di lavoro per tornare ai livelli pre-pandemici.
L’economia ha subito una contrazione del 3,5% nel 2020 (la maggiore dal 1946), nonostante una crescita del 4% nel 4° trimestre. Questo, mentre la Cina è cresciuta del 6,5% nell’ultimo trimestre e del 2,3% nel 2020, con un incremento degli occupati di oltre 11 milioni. Il tasso di disoccupazione complessivo negli USA era al 6,7% e circa 19 milioni di americani facevano ancora affidamento sul sussidio di disoccupazione.
Da subito, Biden ha proposto un piano per il “salvataggio” economico – l’American Rescue Plan – con uno stimolo da 1,9 trilioni di dollari (che insieme ai 900 miliardi di aiuti approvati da Trump alla fine del 2020, equivalgono nel 2021 a un sostegno economico pari all’11-12% del PIL). L’OCSE ha rivisto al rialzo del PIL USA dal 3,2 al 6,5% nel 2021.
Il piano è stato approvato dal Congresso (al Senato 50 a 49 e 220 a 211 alla Camera) suddiviso in tre segmenti: 400 miliardi per affrontare il coronavirus, inclusi vaccini e test; 1.000 miliardi in aiuti diretti alle famiglie con un reddito fino a 80 mila dollari, compreso un assegno da 3.600 dollari per ogni figlio/a destinato a ridurre della metà la povertà infantile; e 400 miliardi in aiuti a comunità (Stati e amministrazioni locali) e imprese.
Ha previsto 300 dollari a settimana in un sussidio federale di disoccupazione esteso fino a settembre; assistenza nel pagamento degli affitti e per il ricovero delle persone senza fissa dimora; congedo retribuito di emergenza; e finanziamenti per la riapertura delle scuole.
Biden ha anche chiesto al Congresso di aumentare il salario minimo federale a 15 dollari l’ora, ma questa misura, appoggiata da Bernie Sanders, ma avversata dall’American Chamber of Commerce, non è passata.
Inoltre, l’amministrazione Biden ha ottenuto un grande successo nella politica vaccinale, trattenendo negli USA il grosso della produzione di Pfizer, Moderna e Johnson&Johnson e arrivando a distribuire 100 milioni di vaccini in 59 giorni, nonostante le vaccinazioni fossero gestite dagli Stati e dalle amministrazioni locali. Il 19 marzo gli USA avevano vaccinato il 23% della popolazione, con l’obiettivo di arrivare al 50% il 14 maggio, al 70% il 24 giugno e al 90% il 4 agosto. In pratica, entro il 4 luglio (festa dell’indipendenza) il Paese dovrebbe essere in condizione di tornare ad una quasi-normalità. Il vaccino CoVid-19 ha fornito un esempio di come il finanziamento statale e la politica industriale possano rendere possibile il rapido sviluppo di tecnologie salvavita.
L’American Jobs Plan
Biden ha presentato un piano di investimenti – l’American Jobs Plan – da 2,3 trilioni di dollari in spese e agevolazioni fiscali (crediti e agevolazioni) che rappresenta un cambiamento essenziale per il modo in cui gli Stati Uniti – o quanto meno i Democratici – pensano di rimettere in moto l’economia, contrastare il cambiamento climatico e rafforzare la care economy, l’economia informale legata alla cura delle persone in casa. Un piano che indica che l’amministrazione Biden sia convinta che il sostegno all’economia da parte dello Stato federale debba andare oltre misure temporanee anti CoVid-19 per sostenere una trasformazione che metta PIL e occupazione su un percorso di rigenerazione e crescita strutturale più sostenuta.
Biden ha proposto (31 marzo) di coniugare la necessità di ricostruire le infrastrutture americane antiquate con la spesa straordinaria di circa 2,3 trilioni di dollari per combattere il cambiamento climatico, una combinazione che, per la sua dimensione e portata, rappresenta un cambiamento politico enorme, un’inversione delle politiche seguite in più di mezzo secolo. “Questo non è un piano che armeggia intorno ai bordi. È un investimento che si fa una volta in una generazione in America, a differenza di qualsiasi cosa abbiamo visto o fatto da quando abbiamo costruito il sistema autostradale interstatale e la corsa allo spazio decenni fa“, ha detto Biden svelando il programma a Pittsburgh.
Ferrovie, metropolitane, ponti, aeroporti, porti, canali interni, dighe, reti elettriche, acquedotti, autostrade e altre infrastrutture pubbliche americane sono certamente inadeguate, in molti casi decrepite ed obsolete, realizzate in gran parte durante il New Deal (attraverso il Work Projects Administration pensato anche per affrontare la disoccupazione cronica dell’America) e gli anni del boom del Fordismo-Keynesismo. Nel 1956 il presidente Eisenhower firmò il Federal-Aid Highway Act, inaugurando quello che è stato definito il più grande progetto di lavori pubblici della storia (l’Interstate Program). Essendo nel pieno della Guerra Fredda, per giustificare l’enorme spesa necessaria per attuare il National Interstate and Defense Highway Act, Eisenhower sostenne che era stato progettato per “consentire una rapida evacuazione delle aree bersaglio” in caso di attacco nucleare e ottenere rapidamente munizioni da una città all’altra.
La metà del sistema interstatale è stata aperta alla fine del 1966 e sostanzialmente completata negli anni ’80. Ora comprende 46.876 miglia. Eisenhower aveva dichiarato: “Più di ogni singola azione del governo dalla fine della guerra, questo cambierà il volto dell’America“. Il governo federale ha pagato il 90% del costo con l’aiuto di una tassa sulla benzina, mentre gli Stati hanno pagato l’altro 10%. Il Highway Trust Fund, messo in piedi nel 1956 per finanziarie le opere è andato in rosso dal 2008. Il Fondo è alimentato da una tassa del 18,4% per gallone sulla benzina e da una tassa del 24,4% sul diesel, ed entrambe non sono state aumentate in quasi tre decenni. Ciò rende il carburante economico negli USA. Gli automobilisti tedeschi pagavano 6,12 dollari per gallone di carburante nel 2019, contro 2,87 negli Stati Uniti. In Gran Bretagna, le tasse rappresentano il 63% del prezzo del carburante alla pompa, contro il 19% negli Stati Uniti.
Il Paese, dunque, ora ha sicuramente bisogno di adeguare il suo patrimonio di infrastrutture, basti pensare che non esiste una sola ferrovia ad alta velocità negli USA (i lavori della prima linea, la Dallas-Houston, realizzata dall’italiana ex Salini-Impregilo, ora Webuild, dovrebbero finire nel 2026), mentre la Cina nell’ultimo decennio ha realizzato 35 mila km di nuove linee divenendo il leader del “club del Tav” che comprende Giappone, Francia, Spagna, Germania, Italia e ora anche Marocco.
Un rapporto del 2017 dell’American Society of Civil Engineers (ASCE) ha dato al Paese un voto D+ per l’infrastruttura generale, citando 2.170 dighe a rischio elevato, 56.007 ponti strutturalmente carenti (9,1% del totale della nazione) e 1 trilione di dollari di potenziamenti necessari per sistemi idrici potabili nei prossimi 25 anni.
L’ASCE stimava che entro il 2020 occorresse come minimo, un investimento di 2 trilioni di dollari per affrontare la notevole manutenzione arretrata e la pressante necessità di modernizzazione. Un sottosviluppo delle infrastrutture pubbliche che è il risultato di mezzo secolo di paralisi di Washington, di avversione del Congresso al “big government”, del dogma delle basse tasse (quella sulla benzina è rimasta immutata dal 1993) e di una filosofia centrata sull’auto che trionfa sul trasporto pubblico sovvenzionato dallo Stato. Di conseguenza, l’America spende una quota significativamente minore del suo PIL in infrastrutture rispetto a mezzo secolo fa (ad esempio, il contributo alla spesa in conto capitale delle infrastrutture idriche è sceso dal 63% nel 1977 al 9% nel 2014).
Un maxi-piano, quello di Biden, che però, oltre ad avere impatti ambientali e sociali elevati, potrebbe portare ad una maxi-privatizzazione nella gestione delle infrastrutture di trasporto (dai ponti alle autostrade) se si dovesse basare sugli investimenti privati in alternativa a quelli degli Stati e delle municipalità, e che potrebbe generare, grazie ai pedaggi, ritorni di capitale che potrebbero essere molto interessanti per gli investitori privati nel medio-lungo termine.
Allo stesso tempo, c’è l’impegno a combattere il cambiamento climatico. La filosofia ispiratrice proposta di Biden sostiene che il futuro di posti di lavoro di buona qualità consista nella transizione verso un’economia che non sprigioni più anidride carbonica mediante la combustione di carbone, petrolio e gas. Il piano prevede la costruzione di linee elettriche per fornire maggiore energia rinnovabile, la costruzione di stazioni per la ricarica di veicoli elettrici, la chiusura di pozzi di petrolio e gas per ridurre le emissioni e la bonifica delle miniere di carbone dismesse.
Il danaro è destinato anche alla costruzione di un milione di nuove unità abitative a basso costo e a basso consumo energetico e all’efficientamento energetico delle strutture esistenti. Centinaia di miliardi di dollari sarebbero indirizzati alle “industrie ad elevata crescita del futuro”, come la produzione di batterie elettriche avanzate.
Durante la campagna elettorale, Biden ha promesso di “costruire un’economia più resiliente e sostenibile”, che metta gli Stati Uniti sulla strada per raggiungere emissioni nette zero entro la metà del secolo, e di creare, nel frattempo, “milioni di posti di lavoro ben retribuiti”. Il pacchetto di infrastrutture, oltre ai 600 miliardi di dollari destinati alla (ri)costruzione di strade e autostrade (almeno per 20 mila miglia), di ponti, di ferrovie e stazioni per la ricarica di veicoli elettrici, comprenderà un programma di incentivi per la sostituzione di milioni di auto a carburante fossile con i veicoli elettrici nei prossimi dieci anni.
Soprattutto, il piano per l’occupazione e le infrastrutture di Biden e l’aumento dell’aliquota della tassazione sui cittadini con un reddito superiore ai 400 mila dollari (dal 37 al 39,6%), sulle plusvalenze realizzate sugli investimenti finanziari (dal 20 al 43,4%) e sulle società (dal 21 al 28%, ma probabilmente al 25%) – anche cambiando il codice fiscale per chiudere le scappatoie che consentono alle aziende di spostare i profitti all’estero, introducendo un’aliquota minima da applicare a tutti i profitti aziendali nel mondo (facendo aumentare quella USA dal 10,5% al 21%) e rafforzando la caccia ai paradisi fiscali -, oltre che il ricorso al debito, per pagare tutto ciò (senza quindi aumentare le imposte sui carburanti), contrasta con la deferenza verso i mercati privati iniziata dai Repubblicani con l’elezione di Ronald Reagan nel 1980 – il quale nel suo discorso inaugurale aveva affermato che “il governo non è la soluzione al nostro problema; il governo è il problema” – e alimentata attraverso cicli di tagli fiscali e deregolamentazione, sia dia Repubblicani sia dai Democratici. Questi ultimi, sotto l’insegna della “responsabilità di bilancio” e della globalizzazione commerciale, con Bill Clinton, dopo aver perso la maggioranza al Senato e alla Camera nel 1994, prima hanno tagliato il welfare sociale (con il Personal Responsibility and Work Reconciliation Act del 1996) e deregolamentato il settore finanziario (con l’abolizione nel 1999 del Glass–Steagall Act del 1933), poi con Barack Obama, nonostante avessero una ampia maggioranza al Congresso, hanno esitato ad espandere la spesa pubblica nella recessione del 2008, implementando uno stimolo sottodimensionato, di soli 800 milioni di dollari, invece che di almeno il doppio, per poi tornare a politiche di austerità di bilancio (avendo perso il controllo del Congresso nel 2010). Trump è stato responsabile sia di un ritorno a politiche di deficit spending (con il complesso militare-industriale quale maggiore beneficiario) sia della riduzione delle tasse di 1,5 trilioni di dollari del Partito Repubblicano nel 2018, sotto la quale i benefici sono arrivati in modo schiacciante alle grandi corporations e al 20% più ricco, nonostante le sue promesse di salari più alti per i lavoratori.
Queste politiche neoliberiste tecnocratiche hanno lasciato milioni di persone disoccupate quando avrebbero potuto trovare lavoro. Hanno minato la posizione di contrattazione dei lavoratori quando avrebbero potuto chiedere condizioni e retribuzioni migliori. Hanno reso più difficile la mobilitazione del lavoro organizzato. Hanno tenuto basso il salario minimo senza consentire di innalzare lo standard di vita di milioni di lavoratori ad un livello decente. Hanno fornito pochi incentivi per dare priorità agli investimenti che fanno aumentare la produttività del lavoro. E tutto ciò ha svantaggiato in modo sproporzionato i lavoratori afro-americani (soprattutto gli uomini) e ha fatto grandemente aumentate le disuguaglianze sociali e territoriali all’interno degli USA.
L’intervento dello Stato in economia e la competizione per l’egemonia globale con la Cina
In contrasto con l’approccio anti-statalista seguito dalla fine degli anni ‘70, Biden ha rilanciato il ruolo positivo dell’intervento pubblico: “il governo non è una forza straniera in una capitale lontana. No, siamo noi, tutti noi, noi le persone.” E’ un cambiamento di orientamento politico importante, frutto di un compromesso interno al Partito Democratico tra l’ala progressista neoliberista[2] e quella democratico-socialista di Sanders e Ocasio-Cortez (raggiunto prima delle elezioni con la stesura di una piattaforma politica di 110 pagine), che si basa sull’idea che l’intervento statale può innescare un percorso di crescita più inclusivo e più sostenibile (almeno sul piano economico). Se gli Stati Uniti sono disposti a parlare di politica industriale e di intervento dello Stato in economia, questo cambia la narrativa – il “pensiero unico” – contro cui le forze progressiste e di sinistra in America, Europa e nel mondo si sono battute da quasi quattro decenni.
Questo anche se è ancora troppo presto per sapere se il compromesso tra le due ali del Partito Democratico reggerà nel tempo e quindi se la frenesia della spesa da parte dell’amministrazione Biden rappresenta un cambiamento ideologico permanente o un espediente politico momentaneo, provocato da una delle peggiori crisi economiche, politiche e sanitarie della storia moderna. Anche perché solo una parte degli investimenti saranno effettivamente effettuati dallo Stato federale (che a differenza dello Stato cinese, ad esempio, non controlla grandi imprese statali). Molti saranno affidati direttamente alle imprese, utilizzando agevolazioni fiscali, sgravi e incentivi, per cui è assai probabile che alla fine, sommando gli strumenti di credito fiscale, molte grandi corporations continueranno a non pagare tasse sui loro profitti, nonostante l’eventuale aumento dell’aliquota. La realizzazione di questo tipo di programmi basati sulla collaborazione pubblico-privato avviene quasi sempre a scapito dei presunti obiettivi “pubblici“, mentre i soggetti privati raccolgono i benefici degli sgravi fiscali e di altri vantaggi destinati a indurre la loro partecipazione. Potrebbe trattarsi dell’ennesimo tentativo fatto da oltre un decennio di indurre il cavallo (l’economia reale delle imprese e famiglie) a bere (investire e consumare) e rimettersi in movimento (far crescere una domanda aggregata troppo debole).
In ogni caso, la stampa mainstream parla dei “100 giorni più vitali da FDR” e di un nuovo New Deal.[3] Un’azione riformatrice di governo che viene sostenuta dalla Federal Reserve. Dal marzo del 2020, con il nuovo round di quantitative easing, la FED ha ampliato il proprio bilancio di 3,6 trilioni di dollari, all’incirca lo stesso importo di quando ha ampliato il proprio bilancio durante la crisi finanziaria del 2008. La FED garantisce tassi di interesse bassi e ha annunciato una maggiore tolleranza a scostamenti dell’inflazione dall’obiettivo di medio periodo (oltre la soglia del 2%) almeno fino al 2023, privilegiando l’obiettivo della piena occupazione rispetto alla bassa inflazione. Quello che ufficialmente non viene detto è che una ripresa dell’inflazione, insieme alla leva degli incentivi fiscali, viene considerata necessaria per spingere verso l’investimento in nuova produzione e nuovi servizi l’enorme ricchezza liquida accumulata dai ceti medio-alti nel 2020, non spesa per paura o in attesa dell’uscita dalla pandemia di CoVid-19.
Al cuore del “piano Biden” c’è un grande piano per l’occupazione, sorretto da una politica industriale autarchica “investing in America first” e “Buy American”: un trattamento preferenziale negli appalti pubblici per i prodotti made in USA; sussidi alle industrie nazionali per favorire il reshoring in settori strategici come semiconduttori, farmaceutica e tecnologie della comunicazione digitale; esclusione delle società straniere dagli appalti pubblici. Nel documento sulla ripresa economica pubblicato dal team di transizione di Biden si riecheggiava la promessa di Trump di ripristinare la potenza industriale degli Stati Uniti con l’idea di “mobilitare la produzione e l’innovazione americane per garantire che il futuro sia fatto in America“. Si afferma “l’importanza di portare a casa catene di approvvigionamento critiche” e ci si impegna a “costruire una solida base industriale“.
Piuttosto che fare affidamento su nuove barriere commerciali difensive come ha fatto Trump, i piani di Biden dipendono dall’incoraggiare, attraverso incentivi fiscali, gli investimenti delle aziende in fabbriche negli Stati Uniti, e dagli investimenti pubblici in infrastrutture ed energie alternative. L’American Jobs Plan ha una durata di 8 anni ed è un vero e proprio programma di politica industriale per finanziare settori innovativi (5G, semiconduttori, energie rinnovabili, batterie elettriche) e modernizzare anche quelli tradizionali. Include 621 miliardi di dollari per ricostruire infrastrutture, come ponti, autostrade e porti, e uno storico investimento di 174 miliardi di dollari nel mercato dei veicoli elettrici che fissa l’obiettivo di costruire una rete di ricarica a livello nazionale entro il 2030. Altri 700 miliardi per stimolare la domanda e l’innovazione nella produzione nazionale in settori come le forniture mediche, le biotecnologie, la microelettronica, la robotica e l’intelligenza artificiale. A queste risorse si aggiungerebbe una parte di quelle per il budget militare (715 miliardi) che verrebbero indirizzate negli stessi settori per produrre nuovi sistemi di difesa, integrando modernizzazione militare e rinnovamento economico interno.
La focalizzazione del programma è sulla creazione di posti di lavoro rappresentati dai sindacati (il 9 marzo, la Camera controllata dai Democratici ha approvato il PRO Act – Protecting the Right to Organize – la proposta di legge più significativa a sostegno della sindacalizzazione dei lavoratori dagli anni ’30, che non avrà un percorso facile al Senato) e su progetti per mitigare il cambiamento climatico. Al Congresso viene chiesto anche di investire 400 miliardi di dollari nell’ampliamento dell’accesso all’assistenza community-based a prezzi accessibili per gli americani anziani e le persone con disabilità. Nel piano sono inclusi 213 miliardi di dollari per costruire e ammodernare case ecosostenibili insieme a centinaia di miliardi per sostenere la produzione statunitense, rafforzare la rete elettrica del Paese, estendere la banda larga ad alta velocità a livello nazionale e rinvigorire i sistemi e le tubature di distribuzione dell’acqua potabile.
Il piano costituisce una parte dell’agenda “Build Back Better” che l’amministrazione intende introdurre. Un secondo pacchetto legislativo da 1 trilione di dollari focalizzato sull’aiuto alle famiglie dovrebbe essere presentato entro la fine aprile ed include l’espansione della copertura assicurativa sanitaria e degli asili e dei benefici fiscali per i figli, nonché congedo familiare e per malattia retribuito. Una parte importante della piattaforma politica della sinistra del Partito Democratico per combattere l’ideologia neoliberista dell’individualismo metodologico – alla cui base c’è sempre l’affermazione di Margaret Thatcher che “non esiste una cosa come la società. Ci sono singoli uomini e donne e ci sono famiglie” – e rilanciare su nuove basi l’idea della solidarità sociale e di un welfare pubblico.
Riuscire a far passare al Senato questi programmi di spesa da 3 trilioni di dollari e gli incrementi nella tassazione per ricchi, capital gain e grandi imprese non sarà facile. Ma, Biden ha la possibilità di giocare la carta della competizione per l’egemonia globale tra USA e Cina. D’altra parte, Jake Sullivan, il consigliere di Biden per la sicurezza nazionale, nel 2020 ha scritto che la mancanza di investimenti interni è una “minaccia più grande per la sicurezza nazionale rispetto al debito nazionale degli Stati Uniti“.[4] Non a caso, Sullivan e Biden parlano di voler realizzare quella che chiamano una “politica estera per la classe media“.[5] Il loro programma è di fondere le azioni della politica estera degli Stati Uniti con quelle della politica interna: mettere in atto una politica che contemporaneamente risolleva la classe media, oscura la Cina nell’arena economica e geopolitica globale e mantiene il ruolo dell’America come “nazione indispensabile”.
Da questo punto di vista, la nuova Guerra Fredda con la Cina, inaugurata in modo aggressivo e unilaterale da Trump, offre a Biden una potente giustificazione ideologico-politica per generare, galvanizzare e consolidare il sostegno interno per il tipo di investimento necessario per rendere l’economia americana più produttiva, innovativa, attraente e competitiva. Ci sono questioni critiche che ormai modellano la politica degli Stati Uniti nei confronti della Cina che sono diventate bipartisan, come il commercio bilaterale, i diritti di proprietà intellettuale, il trasferimento tecnologico, la sicurezza informatica, la conformità della Cina alle regole della WTO, e le politiche della Cina nei confronti di Hong Kong, Taiwan, delle minoranze interne (Uiguri, tibetani, nepalesi) e delle controversie territoriali marittime nei Mari Cinesi Meridionale ed Orientale. Il 21 aprile la Commissione per le relazioni estere del Senato Uniti ha approvato lo “Strategic Competition Act del 2021” con 21 voti a 1, definendo la piattaforma bipartisan del Congresso per “contrastare la Cina“.
Biden e la sua amministrazione possono sostenere che la migliore politica di contenimento della Cina sia investire nelle capacità fondamentali degli Stati Uniti: istruzione, infrastrutture e ricerca e sviluppo. Che competere con Pechino richiede l’implementazione di politiche di investimento interno simili a quelle che negli anni anni ’50 e ’60 hanno portato gli astronauti americani ad atterrare sulla luna, quando gli Stati Uniti avevano una economia manifatturiera ancora in rapida crescita.
Nel dopoguerra e per diversi decenni gli Stati Uniti hanno avuto l’economia più sofisticata e tecnologicamente avanzata del mondo, una condizione che non ha solo alimentato un’impressionante crescita economica, ma ha anche dato alle forze militari statunitensi importanti vantaggi rispetto al rivale sovietico. Quando il lancio dello Sputnik nell’ottobre 1957 suscitò il timore che gli Stati Uniti potessero perdere il proprio vantaggio scientifico, tecnologico e militare, vennero messi in campo ambiziosi investimenti pubblici nelle infrastrutture, politiche industriali e nell’istruzione superiore con iniziative come il National Defense Education Act del 1958 – il cui scopo ufficiale era quello di “assicurare manodopera qualificata di qualità e quantità sufficiente per soddisfare le esigenze di difesa nazionale degli Stati Uniti” -, la revisione del sistema scolastico con l’introduzione dei “curricoli a spirale” (in linea con la pedagogia della psicologia cognitiva sviluppata da Jerome Bruner) e il successivo programma Apollo del 1961 produssero un nuovo rinascimento dello sviluppo scientifico e ingegneristico e assicurarono che l’URSS avrebbe seguito gli Stati Uniti nella maggior parte delle aree di attività scientifica e nella “conquista” della luna e che quindi lo spazio non fosse “governato da una bandiera di conquista ostile“.
Il piano “Build Back Better” di Biden rilancerebbe la produzione statunitense, nella speranza che il Paese arrivi a dominare i mercati di esportazione legati alle tecnologie dell’energia pulita. Un salto tecnologico che dovrebbe consentire all’economia americana di riguadagnare un sostanziale vantaggio competitivo sull’economia cinese.
Governare la nuova Guerra Fredda
Il vero rischio di questa impostazione politica è quello di trasformare la competizione con la Cina in un conflitto duro e duraturo a tutto campo, inquadrando la Cina come una minaccia globale, un nemico implacabile, simile all’Unione Sovietica, per cui la concorrenza bilaterale non è più limitata alla sicurezza e alle questioni economiche, ma include tecnologia e, sempre di più, valori e ideologia.
Per ora, la lotta contro i cambiamenti climatici è l’unico terreno su cui Stati Uniti e Cina riescono a parlare il linguaggio della cooperazione, come testimonia il documento congiunto (piuttosto generico) che john Kerry, l’ambasciatore per l’ambiente dell’amministrazione Biden, ha concordato in un recente viaggio in Cina. Su invito del presidente Biden, il presidente cinese Xi Jinping partecipa al vertice virtuale multilaterale sul cambiamento climatico organizzato dagli Stati Uniti (22 aprile 2021), dopo che Biden ha riportato il Paese nell’accordo di Parigi del 2015 sulla riduzione delle emissioni globali di carbonio. Il primo incontro tra i Xi e Biden dall’avvento della nuova amministrazione statunitense. Lungo appare, comunque, il percorso per arrivare a definire impegni concreti e misurabili da parte di entrambi i Paesi che sono, insieme all’Unione Europea, i maggiori produttori di gas climalteranti al mondo. La Cina, il principale emettitore di carbonio al mondo, ha promesso di raggiungere il picco delle emissioni entro il 2030 e di diventare a emissioni zero 30 anni dopo.
Bisognerebbe che Biden chiarisse che la concorrenza per il primato tra Cina e Stati Uniti non significa che il conflitto o lo scontro militare sia inevitabile, ossia che questa concorrenza venga gestita solo nell’interesse del complesso militare-industriale e quindi in termini di carri armati, portaerei, missili, droni, testate nucleari, etc.. Il segretario di Stato americano Antony Blinken una volta ha descritto le relazioni Cina-USA come “competitive quando lo dovrebbero essere, collaborative quando lo possono essere e confrontative quando lo devono essere“. Gli USA dovrebbero, quindi, vedere la Cina come un “concorrente strategico” piuttosto che un “nemico a tutto campo“, in modo che l’approccio di interazione degli Stati Uniti con la Cina possa diventare più trasparente, più prevedibile e più disciplinato, che punti su una coesistenza che aumenti la cooperazione sul cambiamento climatico, sulla salute globale sulla limitazione della proliferazione nucleare, anche se le relazioni economiche rimangono tese, seppure tariffe ed embarghi possono essere ridotti o eliminati.
In questo senso, gli accordi e le organizzazioni internazionali e multilaterali – che sia Biden sia XI hanno sempre detto di voler rispettare, rafforzare e generare – possono giocare un ruolo rilevante non solo per evitare lo scontro militare diretto o indiretto, ma anche per aumentare il dialogo e l’ingaggio reciproco e per indirizzare la concorrenza tra USA e Cina in settori di interesse globale, ad esempio spingendo ciascuna parte a fare di più e meglio in campi come le politiche per contrastare i cambiamenti climatici o per la fornitura di aiuti allo sviluppo o per ridurre povertà, fame e disuguaglianze a livello planetario o per rispettare i diritti umani e sociali o per portare avanti progetti globali di investimento o per la regolazione del cyberspazio, dell’intelligenza artificiale, delle biotecnologie e della ricerca sulle modificazioni genetiche degli esseri umani.
D’altra parte, gli Stati Uniti possono competere e al tempo stesso beneficiare dall’economia cinese. Anche nella tecnologia, alcune istituzioni e imprese americane e cinesi collaborano per aprire nuove frontiere e allo stesso tempo competono per quote di mercato.
Per molti Paesi – come per l’Unione Europea alla ricerca di una propria “autonomia strategica” – sarà complicato trovare la quadra tra il mantenimento di strette relazioni tecnologiche ed economiche (le “catene globali del valore”) con la Cina e il loro allineamento diplomatico e di sicurezza militare con gli Stati Uniti. Dovranno fare scelte difficili, capire come fare per poter esprimere il proprio dissenso riguardo a decisioni unilaterali, evitando di essere messi al muro o di rimanere impantanati in conflitti che non sono in grado di controllare o influenzare e da cui hanno tutto da perdere. Al tempo stesso, capire come mantenere aperto il confronto e la ricerca di convergenza. Come bilanciare ed imbrigliare in una trama di relazioni multilaterali sia la Cina sia gli USA con l’obiettivo di promuovere la pace, la sostenibilità, i diritti umani, la democrazia, i flussi commerciali e la diplomazia che previene i conflitti.
Se le dinamiche che scuotono il mondo sono globali – dall’accumulazione capitalistica all’immigrazione, dalla diffusione delle nuove tecnologie ai flussi finanziari, commerciali ed informativi, dai cambiamenti climatici ai modelli di consumo, dalle pandemie alla crescita demografica, dallo strapotere delle piattaforme digitali all’evasione fiscale – sarebbe fondamentale che la concorrenza fra USA e Cina si giocasse all’interno di arene politiche multilaterali che abbiano come obiettivo la promozione di forme costruttive di confronto e cooperazione tese a governare e tenere sotto controllo tali dinamiche.
L’Unione Europea sta ancora a guardare
L’Unione Europea, a differenza di Cina e USA, è ancora alle prese con il tema delle vaccinazioni. “Supponendo che i vaccini diventino ampiamente disponibili nell’estate del 2021 e per tutto il 2022, la crescita del PIL è prevista al 3,9% nel 2022, riportando il PIL europeo ai livelli pre-pandemici“, ha dichiarato il FMI nelle sue ultime prospettive economiche regionali. Se la ripresa cinese e americana sosterrà anche l’economia europea è ancora tutto da vedere ma, di certo, secondo il FMI, “con un duro lavoro sulla produzione e sulla distribuzione dei vaccini, il continuo sostegno e con politiche innovative per combattere le cicatrici economiche, l’Europa può avere una ripresa a V che è più giusta e più resiliente”.
Dal punto di vista economico politico, possiamo solo notare che mentre la Cina ha ricominciato ad essere la “fabbrica del mondo” dall’estate 2020 e negli USA in due mesi l’American Rescue Plan del presidente Biden di 1.900 miliardi di dollari è passato dall’elaborazione all’approvazione ed è stata avviata la discussione sull’American Jobs Plan di 2,3 miliardi, nell’Unione Europea, si è capito che i 750 miliardi di euro in prestiti e sussidi ai Paesi più colpiti dalla sindemia previsti dal programma Next Generation UE (NG-UE) potrebbero diventare disponibili non prima di un anno e mezzo da quando (27 maggio 2020) la Commissione li propose.
A fine marzo 2021, infatti, il piano è stato approvato all’unanimità del Consiglio dei ministri europei, sentito il parere del Parlamento europeo, ma solo 16 dei 27 Parlamenti nazionali avevano approvato la decisione, tra cui quello tedesco. Per completare la ratifica, tuttavia, l’approvazione del parlamento tedesco richiede la firma del presidente della Repubblica. Qui, è intervenuta la Corte Costituzionale tedesca che il 26 marzo ha ingiunto (in via cautelare) al presidente di non firmare. L’ha fatto in risposta ad un ricorso presentato da un gruppo di 2.200 politici, professori militanti conservatori e dell’estrema destra nazionalista (chiamato Bündnis Bürgerville), guidato da Bernd Lucke, uno dei fondatori del partito di destra AfD. Secondo i ricorrenti, il NG-UE violava sia la costituzione tedesca sia i trattati europei. In particolare, il provvedimento sotto attacco era la decisione sulle risorse proprie dell’Unione Europea approvata dal Consiglio il 14 dicembre 2020 (decisione 2020/2053 che ha abrogato la decisione 2014/335).
Lucke e gli altri ricorrenti hanno sostenuto che se l’UE fallisse, il debito europeo per finanziare il programma (che scade nel 2058) dovrebbe essere automaticamente onorato dagli Stati membri, prevaricando così sulle prerogative dei loro Parlamenti nazionali (compreso quello tedesco). Dal punto di vista del fondamento giuridico dell’azione dei ricorrenti, c’era la decisione che include il Recovery Plan ritenuta contraria all’articolo 310 del Trattato sul funzionamento dell’Unione e all’articolo 311 (che apre il capo I del Titolo II, dedicato alle risorse proprie dell’Unione), in particolare nella parte in cui, l’indicata decisione ammette, in via di fatto, una parziale messa in comune dei debiti. Tale ultimo articolo, infatti, dispone che il bilancio dell’Unione sia finanziato integralmente tramite risorse proprie “fatte salve le altre entrate”. L’approvazione è affidata al Consiglio che delibera secondo una procedura legislativa speciale all’unanimità, previa consultazione del Parlamento Europeo. Tuttavia, se la norma sembrava poter costituire una base per l’azione dei ricorrenti a causa del debito comune, mettendo da parte le considerazioni sul richiamo a “fatte salve altre entrate”, va osservato che la stessa norma stabilisce che il Consiglio può istituire “nuove categorie di risorse proprie o sopprimere una categoria esistente”. In ogni caso, la decisione entra in vigore solo dopo l’approvazione degli Stati membri “conformemente alle rispettive norme costituzionali”.
Il richiamo al finanziamento integrale con risorse proprie era alla base dell’azione di Lucke perché, a suo avviso, la decisione approvata dal Consiglio sarebbe risultata non avere una base giuridica e sarebbe stata piuttosto un atto contrario al Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, in violazione della Carta costituzionale tedesca poiché è il Parlamento che deve pronunciarsi sul bilancio nazionale. Detto in altri termini, non sarebbe ammissibile un provvedimento UE che porti nuovo debito sui cittadini tedeschi (tralasciando, però, un aspetto e cioè che anche la Germania si gioverà del NG-UE e del sistema di Recovery and Resilience Facility).
La Corte tedesca si è pronunciata in merito al caso il 21 aprile, bocciando il ricorso. Ma, l’ingiunzione ha prodotto i suoi effetti: ha prolungato i tempi di approvazione del Next Generation UE, giustificando inoltre le tattiche dilatorie utilizzate da quei Parlamenti nazionali – di Polonia, Austria e Olanda – che, per ragioni diverse, non vogliono che l’UE si doti di nuove risorse proprie. Inoltre, il voto sulla Decisione relativa all’incremento delle risorse proprie, che consente di arrivare al NG-UE, sta dividendo la maggioranza parlamentare in Finlandia e nella Repubblica Ceca, non è stato ancora sottoposto al Parlamento in Austra e Ungheria, sta ostacolando la formazione del nuovo governo in Olanda.
Se tutto va bene, dunque, il ciclo di approvazioni nazionali potrebbe concludersi solo nel secondo semestre dell’anno, cui dovrà poi seguire l’azione della Commissione sia per raccogliere i fondi sui mercati finanziari (emettere debito) sia per introdurre nuove tasse europee per coprire il pagamento di debito e interessi.
Questo quando ad inizio aprile lo stimolo di Biden valeva il 25% del PIL USA, mentre l’insieme delle scelte dei governi nazionali e di Bruxelles avevano un impatto del 12% in Francia, dell’11% in Italia e del 9% in Germania. Per ora l’unica certezza è che almeno fino al 2022 sono sospese le regole europee riguardo ai conti pubblici – quelle previste dal Patto di Stabilità relative al limite del 3% per il deficit e agli aiuti di Stato -, per cui i governi possono sostenere le economie nazionali con politiche di bilancio espansive.
In prospettiva, l’obiettivo per un Paese come l’Italia, oberato da un rapporto debito/PIL pari al 160%, è quello di battersi affinché la politica europea possa rendere permanente la limitata capacità fiscale acquisita dall’Unione Europea con il NG-UE, da utilizzare per produrre beni pubblici europei, dalle infrastrutture al “pilastro sociale” e dalla ricerca e innovazione tecnologica alla difesa, e non solo per sostenere i Paesi in difficoltà. Si dovrebbe creare un (anche limitato) bilancio europeo con una funzione stabilizzatrice e propulsiva, gestibile dalla Commissione con l’approvazione del Parlamento Europeo e del Consiglio Europeo dei ministri. Questo favorirebbe anche una discussione positiva sulla riforma dei parametri di Maastricht, necessaria perché quasi tutti i Paesi usciranno dal CoVid-19 con debiti pubblici di molto superiori al 60% del PIL. Occorreranno nuove regole che siano in grado di tenere insieme Paesi strutturalmente sempre più disomogenei, senza dover tornare alle politiche di austerità e alle “svalutazioni del lavoro”.
[1] Scassellati A., L’economia politica della logistica globale, il sistema nervoso del capitalismo, Transform! Italia,
[2] Lo schieramento progressista neoliberista del Partito Democratico è composto da varie correnti mainstream e metropolitane dei nuovi movimenti sociali identitari – ambientalismo, femminismo, anti-razzismo, multiculturalismo e diritti LGBTQ+ -, da un lato, e settori del mondo del business di fascia alta “simbolica” e creativa basato sui servizi, la knowledge class “globalista” di Wall Street, Madison Avenue, Silicon Valley e Hollywood, dall’altro. Fraser N., The end of progressive neoliberalism, Dissent, 2017, https://www.dissentmagazine.org/ online_articles/progressive-neoliberalism-reactionary-populism-nancy-fraser
[3] Hirsh M., The most vital 100 days since FDR, Foreign Policy, https://foreignpolicy.com/2021/04/12/the-most-vital-100-days-since-fdr/
[4] Sullivan J., America needs a new economic philosophy. Foreign policy experts can help, Foreign Policy,
[5] Tra il 2017 e il 2019, Sullivan ha fatto parte di una task-force del Carnegie Endowment for International Peace che ha prodotto un rapporto intitolato “Making US Foreign Policy Work Better for the Middle Class” che sostiene che la globalizzazione non ha giovato ai lavoratori americani e ha raccomandato una serie di nuove priorità di politica estera a beneficio della classe media, inclusa una maggiore attenzione alla riduzione delle disuguaglianze di reddito, un più ampio dibattito sul commercio e una politica estera “meno ambiziosa” che pone fine a guerre lunghe e costose. Il rapporto sostiene che il consenso di lunga data sulla politica estera che ha guidato per decenni le amministrazioni repubblicane e democratiche “ha lasciato troppe comunità americane vulnerabili alla dislocazione economica e si è spinto oltre nel tentativo di effettuare un ampio cambiamento sociale all’interno di altri paesi. La classe media americana vuole un nuovo percorso in avanti” (https://carnegieendowment.org/2020/09/23/making-u.s.-foreign-policy-work-better-for-middle-class-pub-82728).