I paesi europei e l’Unione Europea sono da anni impegnati in una corsa alla militarizzazione delle loro economie. Secondo le indicazioni politiche delle èlite che governano (o ambiscono a governare) l’UE, le spese militari – spese per forze armate, acquisizione di armamenti, infrastrutture militari e realizzazione di operazioni militari – sono destinate a subire una forte accelerazione. L’obiettivo esplicitamente dichiarato è di creare un muscolare complesso militare-industriale (una definizione coniata dal generale Dwight Eisenhower nel suo “discorso di addio” al termine della sua presidenza, nel quale ammoniva sugli effetti economici distorsivi e sui pericoli autoritari sulla natura delle istituzioni, delle culture politiche e della società, con una possibile erosione della democrazia) integrato a livello europeo, in un periodo in cui viene prevista una sostanziale stagnazione delle economie dell’UE (anche perché non si sono ancora riprese dalle conseguenze della pandemia di CoVid-19 e soffrono degli effetti della guerra in Ucraina e del rialzo di inflazione e tassi di interesse). È chiaro che questa accelerazione, anche nel contesto di un prossimo ritorno alla disciplina fiscale del Patto di stabilità, sarebbe destinata ad avvenire a scapito di altri tipi di spesa pubblica (istruzione, servizi sanitari e sociali, protezione ambientale, infrastrutture civili, ricerca, etc.). Cerchiamo di analizzare i dati disponibili e la possibile struttura di questo complesso militare-industriale. Quello che emerge dalle analisi è che in termini economici, un’Europa più militarizzata è un “cattivo affare” che comunque troverebbe ancora difficoltà a risolvere i conflitti attuali, mentre una maggiore spesa potrebbe contribuire a fomentare nuove corse agli armamenti, destabilizzando ulteriormente l’ordine internazionale.
“Questa congiunzione tra un’immensa struttura militare e una grande industria degli armamenti è nuova nell’esperienza americana. L’influenza totale – economica, politica e persino spirituale – si fa sentire in ogni città, in ogni sede statale, in ogni ufficio del governo federale. […] Nei consigli di governo, dobbiamo vigilare contro l’acquisizione di un’influenza ingiustificata, ricercata o meno, da parte del complesso militare-industriale. Il potenziale per un disastroso aumento di potere fuori luogo esiste e persisterà. Non dobbiamo mai lasciare che il peso di questa combinazione metta in pericolo le nostre libertà o i processi democratici. Non dovremmo dare nulla per scontato. Solo una cittadinanza vigile e informata può costringere l’enorme apparato di difesa industriale e militare a integrarsi adeguatamente con i nostri metodi e obiettivi pacifici, in modo che la sicurezza e la libertà possano prosperare insieme”. Dwight D. Eisenhower, “Discorso d’addio alla nazione“, 17 gennaio 1961.
I dati del riarmo europeo
Per ragionare sulle dimensioni del riarmo europeo occorre partire da un’analisi dei dati disponibili. Iniziamo analizzando quelli offerti dall’ebook Economia a mano armata 2024. Spesa militare e industria delle armi in Europa e in Italia, realizzato da Greenpeace e Sbilanciamoci e pubblicato nell’aprile 2024, e dal rapporto Arming Europe. Military expenditures and their economic impact in Germany, Italy, and Spain di Greenpeace, pubblicato nel novembre 2023 (ma ripubblicato in italiano nell’ebook). Si veda anche il nostro recente articolo sull’Economia di guerra, basato sull’analisi dei dati dell’ultimo rapporto SIPRI (Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma) sulle spese militari nel mondo.
Arming Europe è stato realizzato in collaborazione con un gruppo di ricerca guidato da Mario Pianta, professore di Politica economica alla Scuola Normale Superiore di Firenze, e sostiene che i paesi europei hanno da tempo imboccato la “strada della militarizzazione”. Infatti, “negli ultimi dieci anni, le spese militari dei paesi UE della NATO (secondo le definizioni e i dati NATO) sono aumentate di quasi il 50%, da 145 miliardi di euro nel 2014 a una previsione di bilancio di 215 miliardi di euro nel 2023 (misurata a prezzi costanti 2015). Questo totale è maggiore del PIL annuo di un paese come il Portogallo. Con la guerra in Ucraina, si prevede che le spese per il 2023 aumenteranno di quasi il 10% in termini reali rispetto all’anno precedente” (pag. 3). La Commissione Europea stima che la spesa militare complessiva degli Stati membri dovrebbe raggiungere i 290 miliardi di euro l’anno nel 2025. In particolare, tutti e tre i paesi presi in esame hanno aumentato in modo rilevante in valore reale le loro spese militari per acquisizioni di armi e attrezzature nel corso dell’ultimo decennio: la Germania del 42% (portandole a 13 miliardi di euro), l’Italia del 30% (a 5,9 miliardi di euro), la Spagna del 50% (a 4,3 miliardi di euro) (pag. 13). I 23 paesi UE della NATO nel loro insieme spendono ora l’1,8% del PIL per le proprie forze armate, vicino all’obiettivo del 2% fissato da Stati Uniti e NATO (ma ora considerato come il limite minimo1. Le importazioni di armi dell’UE (sulla base dei dati del SIPRI) sono triplicate tra il 2018 e il 2022 e la metà di tutte le importazioni proviene dagli Stati Uniti2. Mentre il 60% degli appalti europei per la difesa è stato speso in importazioni militari da paesi terzi nel periodo 2006-2016, tale cifra è balzata sostanzialmente al 78% dal febbraio 2022 al giugno 2023, secondo la Commissione Europea3.
La spinta alla militarizzazione non viene solo dai singoli paesi, ma viene sostenuta anche dall’Unione Europea, dopo che per decenni non ha svolto alcun ruolo diretto nelle questioni militari. L’UE ha lanciato il Fondo europeo per la difesa (EDF) con 7,9 miliardi di euro per la ricerca e la produzione di nuove armi nel periodo 2021-2027 e il Fondo europeo per la pace (EPF) con 12 miliardi di euro per aiuti militari e forniture al di fuori dell’UE nello stesso periodo4.
Come sottolinea il rapporto Arming Europe, il rilevante aumento della spesa militare e dell’approvvigionamento di armi contrasta nettamente con la stagnazione delle economie dell’UE e avviene a scapito di altri tipi di spesa pubblica (istruzione, servizi sanitari e sociali, protezione ambientale, infrastrutture civili, ricerca, etc.)5. Nel complesso dei paesi UE della NATO, infatti, tra il 2013 e il 2023, il PIL reale è aumentato del 12% (poco più dell’1% annuo in media) e l’occupazione totale del 9%, mentre le spese militari del 46%, quattro volte più velocemente del PIL. Il quadro nel campo dei nuovi investimenti è ancora più drammatico: mentre la formazione di capitale è aumentata del 21%, le acquisizioni di armi sono aumentate del 168% – otto volte più velocemente – in tutti i paesi UE della NATO. In Germania, Italia e Spagna le disparità nei tassi di crescita sono sostanzialmente simili. Le armi stanno assorbendo una percentuale in rapida crescita delle risorse che i paesi dedicano a nuove capacità produttive, nuove tecnologie e nuove infrastrutture, riducendo ulteriormente lo spazio per la spesa pubblica sociale e ambientale (lotta contro i cambiamenti climatici e la distruzione della biodiversità) (Arming Europe, pagg. 15-18).
Gli effetti economici ed occupazionali delle spese militari
Se ci si interroga sull’effetto economico della spesa militare sulla crescita e sull’occupazione in confronto con la spesa pubblica per istruzione, sanità e ambiente, si ha che la spesa militare crea domanda di beni e servizi intermedi per tutte le industrie (anche se una parte di questa domanda va alle importazioni dall’estero, che non aumentano la produzione interna), ma l’effetto moltiplicatore economico ed occupazionale è assai più basso rispetto alla spesa per protezione ambientale, istruzione e sanità6.
In sostanza, in termini economici, la militarizzazione è un “cattivo affare” (Arming Europe, p. 23): “spendere per le armi porta a una minor espansione rispetto alla spesa civile”. L’aumento delle spese militari, come altre spese pubbliche, può fungere da stimolo per l’economia aumentando la domanda del settore pubblico in conformità con i principi keynesiani, ma sta comunque portando l’Europa lungo una traiettoria di minore crescita economica (una sostanziale stagnazione), minore creazione di posti di lavoro e minore qualità dello sviluppo rispetto agli Stati Uniti e a paesi emergenti come Cina e India. Le alternative – maggiori spese per l’ambiente, l’istruzione e la sanità – avrebbero effetti migliori sulla crescita e sull’occupazione e apporterebbero grandi benefici alla qualità della vita e dell’ambiente in Europa.
Se, dopo l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022, non è possibile pensare alla “sicurezza” in termini esclusivamente civili, è anche evidente che la sicurezza non può essere intesa esclusivamente in termini militari7. Si possono adottare politiche che riducono il rischio di tensioni e conflitti internazionali, riducendo al contempo l’importanza del sistema militare. Il concetto di sicurezza umana, adottato dalle Nazioni Unite nella risoluzione 66/290, si basa sulla consapevolezza che la pace e la stabilità possono essere raggiunte o mantenute a lungo termine solo se i bisogni primari delle persone vengono soddisfatti. Questi includono un ambiente sano, la sicurezza sociale e sanitaria, e l’istruzione. Ciò richiede risorse finanziarie, che a loro volta devono essere generate. Ma ogni euro speso per le forze armate non può essere speso altrove e ciò mette a repentaglio la dimensione non militare della sicurezza.
Verso la costruzione di un potente complesso militare-industriale europeo
Nella produzione e nell’approvvigionamento di armi si sviluppano rapporti molto stretti tra i governi e l’industria degli armamenti. Le commesse pubbliche rappresentano la fonte principale di domanda per le aziende – private o statali – che operano nel settore militare (con il conflitto Russia-Ucraina l’Europa sta consegnando all’Ucraina un enorme quantità di armamenti – per un valore di oltre 36 miliardi di euro, comprese le consegne da parte delle istituzioni dell’UE -, per cui ora le scorte esaurite dalle consegne devono essere ricostituite). Queste società sono organizzate in pochi grandi gruppi societari con una forte influenza sul mercato, aumentando il rischio di inefficienze, sprechi, costi eccessivi, prezzi e profitti, collusione e corruzione. La pratica della “porta girevole” è diventata comune, con politici, generali e leader aziendali che spesso si spostano da una posizione di responsabilità nel governo, nelle forze armate o nell’industria (si pensi al caso dell’attuale ministro della Difesa Guido Crosetto per anni consulente del colosso italiano pubblico Leonardo, ma anche a Marco Minniti, già ministro degli Interni e oggi presidente della Fondazione Med-or, nata per iniziativa della Leonardo nel 20218), confondendo i confini, sollevando conflitti di interesse e riducendo ulteriormente la responsabilità pubblica.
Gli Stati proteggono le imprese nazionali – anche quando sono inefficienti – al fine di preservare la capacità di produzione di armi. Le decisioni riguardanti le esportazioni e importazioni di armi sono il risultato sia di considerazioni economiche aziendali che di strategie politiche del governo9. Nel contesto della corsa agli armamenti, la produzione militare enfatizza le prestazioni degli armamenti ad alta tecnologia, portando a grandi sforzi di ricerca sugli armamenti in cui i rischi sono sostenuti dai governi e dalle università piuttosto che dalle aziende. Questo approccio riduce la capacità delle aziende militari di competere con successo nei mercati commerciali dove l’efficienza e l’innovazione in prodotti utili sono importanti.
Nel decennio successivo alla fine della Guerra Fredda, quando in Europa e nel resto del mondo si sono verificate limitate riduzioni delle spese militari10, le imprese industriali militari hanno consolidato i loro processi a livello nazionale ed europeo e si sono internazionalizzate attraverso fusioni, joint venture e programmi di collaborazione11. Le aziende statali sono state in gran parte privatizzate, quotate sui mercati azionari e gestite con una maggiore enfasi sul profitto e sulla logica finanziaria12. Essendoci stati molti anni di domanda nazionale insufficiente, i produttori europei sono diventati sempre più dipendenti dalle esportazioni verso paesi al di fuori dell’UE e della NATO per mantenere le proprie competenze e linee di produzione.
Dai primi anni 2000, le spese militari mondiali sono raddoppiate (raggiungendo 2.440 miliardi di dollari nel 2023). Gli Stati Uniti rappresentano la quota maggiore, con un’accelerazione delle spese militari a causa delle guerre in Afghanistan e Iraq e dal 2022 con la guerra in Ucraina. Inizialmente, i membri UE della NATO hanno continuato a ridurre gradualmente le loro spese militari prima di aumentarle nell’ultimo decennio. La Cina e il resto del mondo (compreso il Regno Unito) hanno costantemente aumentato la propria spesa. Nel 2022, gli Stati Uniti rappresentavano il 38% delle spese militari mondiali, i membri UE della NATO il 12%, la Cina il 14% e la Russia il 3,4%. Il resto del mondo rappresentava un terzo della spesa mondiale. Dal 2014, i membri UE della NATO hanno aumentato le loro spese per la difesa del 48% in termini reali (a 215 miliardi di euro). Allo stesso tempo, gli Stati Uniti hanno aumentato la spesa del 3%, la Cina del 62% e la Russia del 17%.
I produttori europei hanno rappresentato il 12,7% (19,9% se includiamo le aziende del Regno Unito) del valore delle vendite di armi da parte delle 100 principali aziende della difesa nel 2020; nel 2021 le prime tre società militari europee erano BAE (Regno Unito), Leonardo (Italia) e Airbus (Francia-Germania-Spagna) (rispettivamente al 6°, 13° e 14° posto tra le 100 principali aziende produttrici di armi al mondo nel 2022). Tra le prime 100 aziende del settore industriale delle armi nel mondo, SIPRI include 26 aziende con sede in Europa con un fatturato complessivo che ha raggiunto i 121 miliardi di dollari nel 2022 (+0,9%), che rappresentava il 20% del totale delle entrate delle prime 100 aziende produttrici di armi. Le società transeuropee Airbus, MBDA e KNDS sono state tra le principali fonti di crescita dei ricavi delle armi in Europa, in gran parte grazie alle consegne a fronte di ordini di lunga data.
La struttura attuale del complesso militare-industriale europeoL’industria europea della difesa comprende numerose grandi società multinazionali, società a media capitalizzazione e oltre 2 mila piccole e medie imprese (molte delle quali operano anche sul mercato civile). L’Agenzia Europea per la Difesa (EDA) – attualmente presieduta da Josep Borrel e istituita nel 2004 come l’agenzia intergovernativa specializzata dell’UE dedicata alla capacità di difesa e alle questioni industriali, che promuove la collaborazione tra gli Stati membri dell’UE e l’industria della difesa – stima il suo fatturato a 84 miliardi di euro nel 2021; l’occupazione diretta nel settore è stimata in 196 mila posti di lavoro altamente qualificati e oltre 315 mila posti di lavoro indiretti. Il nucleo centrale industriale della difesa europea è situato nell’Europa occidentale (Francia, Germania, Italia, Spagna, Regno Unito), dove sono state sviluppate e mantenute forti basi industriali in grado di produrre quasi l’intero portafoglio di sistemi d’arma in tutti i settori13. Le loro industrie sono le più grandi d’Europa e producono prodotti tecnologicamente avanzati altamente competitivi. Sebbene tutti abbiano anche un forte profilo di esportazione, un’elevata percentuale delle attrezzature prodotte viene acquistata dalle forze armate dei loro paesi d’origine. Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito ospitano molte delle 26 principali aziende europee della difesa, i cosiddetti “prime contractor” o “system integrator” che contano su una supply chain articolata settorialmente e stratificata, con subfornitori di 1°, 2° e 3° livello e oltre 2 mila piccole e medie imprese coinvolte14. Tutte le principali aziende paneuropee della difesa sono, almeno in parte, possedute da stakeholder di questi paesi, e il coinvolgimento diretto dello Stato non è raro. I paesi principali guidano anche importanti programmi di sviluppo europei come Eurofighter, A400M, Tornado e, più recentemente, Tempest e FCAS15. Insieme, le sette società con sede nel Regno Unito – BAE Systems (6° posto); Rolls-Royce (25° posto); Babcock International Group (40° posto); Serco Group (64° posto); Atomic Weapons Establishment (66° posto); QinetiQ (70° posto); Melrose Industries (87° posto) – detenevano la quota più elevata del totale delle entrate derivanti dalle armi in Europa (7,0%; 41,8 miliardi di dollari). I ricavi aggregati delle armi delle cinque società tra le prime 100 con sede in Francia – Thales (17° posto); Dassault Aviation Group (23° posto); Naval Group (29° posto); Safran (34° posto); CEA (47° posto) – sono diminuiti del 3,9% nel 2022, a 26 miliardi di dollari. Nella Top 100 figurano tre aziende transeuropee – Airbus (14° posto); MBDA (32° posto); KNDS (44° posto) – e i loro ricavi combinati legati alle armi sono aumentati del 9,6% raggiungendo i 19,7 miliardi di dollari. I ricavi complessivi derivanti dalle armi delle due società classificate con sede in Italia – Leonardo (13° posto) e Fincantieri (46° posto) – sono diminuiti del 5,6% nel 2022. Nel complesso, i ricavi dalle armi delle quattro società con sede in Germania nella Top 100 – Rheinmetall (28° posto); ThyssenKrupp (62° posto); Hensoldt (69° posto); Diehl Group (93° posto) – ammontavano a 9,1 miliardi di dollari nel 2022, segnando un aumento dell’1,1% rispetto al 2021. Poi, ci sono la polacca PGZ (71° posto), che ha aumentato le entrate derivanti dalle armi del 14% a 1,6 miliardi di dollari, l’ucraina UkrOboronProm (81° posto), con ricavi diminuiti del 10% a 1,3 miliardi di dollari, la svedese SAAB (39° posto), la norvegese Kongsberg Gruppen (83° posto) e la spagnola Navantia (90° posto). Paesi come Svezia, Norvegia, Paesi Bassi e Grecia ospitano alcune industrie tradizionali di medie dimensioni. Partecipano ai programmi europei di sviluppo congiunto di sistemi d’arma complessi senza poterli guidare – il settore navale sta diventando gradualmente un’eccezione. Questi paesi dipendono fortemente dalle importazioni sia dal resto d’Europa che dagli Stati Uniti. Produttori più piccoli di Paesi come Polonia, Ungheria e Turchia (4 aziende tra le top 100 mondiali) hanno intrapreso traiettorie di crescita ambiziose con notevoli sviluppi tecnologici, per cui vengono considerati come delle stelle nascenti, anche se molte iniziative sono realizzate in partnership con grandi aziende tedesche. Infine, ci sono paesi con solo industrie piccole o di nicchia. Questo gruppo periferico è composto principalmente da paesi dell’ex Patto di Varsavia come Romania, Lituania, Estonia e Bulgaria. Sebbene possano essere competitive in settori di nicchia, le loro aziende non dispongono del vantaggio tecnologico complessivo per competere con il nucleo centrale europeo. Hanno pochi o nessun system integrator. La maggior parte delle aziende si concentra sulla produzione e manutenzione dei componenti. Le differenze nei portafogli industriali si traducono in approcci diversi alla politica industriale e agli appalti. Si possono identificare due approcci: un approccio orientato alle capacità e un approccio orientato all’industria. La linea di demarcazione corre, in generale, tra l’Europa occidentale e quella orientale, e tra le industrie centrali e tradizionali di medie dimensioni da un lato e le stelle nascenti e la periferia dall’altro. Ciò è dovuto a differenze fondamentali che difficilmente cambieranno molto nei prossimi decenni. Gli Stati dell’Europa centrale e orientale tendono a privilegiare lo sviluppo delle capacità rispetto agli interessi industriali per affrontare la pressione sulla sicurezza derivante dalla loro vicinanza geografica alla Russia. Naturalmente, quando stabiliscono partenariati industriali tengono conto anche della loro base industriale nazionale. Tentano di garantire piccole quote di lavoro per le loro aziende nazionali, soprattutto nella manutenzione (per poter operare in modo indipendente), e cercano di trarre vantaggio dai trasferimenti di tecnologia. Nel complesso, tuttavia, danno priorità alla prontezza operativa e allo sviluppo delle capacità rispetto ai guadagni industriali. In termini di cooperazione, preferiscono i prodotti statunitensi rispetto alla partecipazione a progetti di sviluppo europei, noti per ritardi, superamenti dei costi e l’incapacità di fornire i benefici inizialmente promessi in termini di economie di scala e interoperabilità militare (progetti come l’elicottero NH90, l’aereo A400M o l’Eurofighter). Le importazioni da paesi terzi e gli acquisti standardizzati (che spesso vanno di pari passo) sono considerati meno costosi e più efficienti del co-sviluppo europeo. Questa tendenza è rafforzata dal fatto che le loro industrie non sono in grado di contribuire in modo significativo ai progetti europei. In alcuni casi sono stati addirittura esclusi attivamente da tali progetti, come quando la richiesta della Polonia di partecipare al MGCS (Main Ground Combat System) è stata respinta da Germania e Francia. I paesi dell’Europa occidentale e settentrionale con un’industria che costituisce il nucleo centrale del complesso militare europeo e i paesi con un’industria tradizionale di medie dimensioni adottano un approccio diverso. Quando prendono decisioni di acquisto, accordano almeno la stessa priorità, se non di più, agli interessi delle loro industrie nazionali rispetto alle loro esigenze militari. I governi cercano di coinvolgere il più possibile i produttori nazionali nell’aggiudicazione dei contratti. Di conseguenza, le loro industrie si concentrano più sulla produzione di sistemi di fascia alta che siano competitivi sul mercato mondiale che sulla prontezza operativa. Allo stesso tempo, i governi si rendono conto che la complessità tecnologica dei moderni sistemi di armamento significa che una produzione puramente nazionale non è più possibile. In questa situazione, i paesi dell’Europa occidentale e settentrionale (soprattutto il nucleo industriale) preferiscono i programmi di sviluppo congiunti europei alle importazioni non europee perché i primi avvantaggiano maggiormente i loro produttori nazionali. Questo approccio è molto in linea con il concetto di “autonomia strategica” europea, che sostanzialmente prevede che tutte le principali piattaforme siano prodotte da aziende europee in Europa. Eppure quella stessa logica non fa sì che i progetti congiunti procedano senza intoppi. Anche quando lavorano insieme, i paesi del nucleo centrale sono diffidenti nei confronti dei loro concorrenti economici sia all’interno che all’esterno dell’Europa. Ciò causa problemi di coordinamento nei programmi di sviluppo europei e può portare all’esclusione di potenziali concorrenti e alla duplicazione di progetti proprio per garantire una maggiore quota di lavoro alle imprese nazionali (come nel caso di Tempest e FCAS). Il nucleo centrale della base industriale e tecnologica di difesa europea è caratterizzato anche da un elemento di avversione al rischio da parte delle grandi aziende, che si sta trasformando in un ostacolo all’innovazione. Non ci sono abbastanza investimenti privati per fornire fondi per la ricerca e lo sviluppo (R&S). A differenza di altri settori dell’economia, l’innovazione nella difesa è in gran parte finanziata dallo Stato, il che rende le aziende riluttanti a utilizzare i propri fondi, poiché sanno che alla fine sarà il governo a pagare per lo sviluppo tecnologico. Non sorprende, quindi, che solo 4 Paesi ricevano quasi i 2/3 del budget stanziato finora dal Fondo per la Difesa dell’UE: Francia, Italia, Spagna e Germania, ovvero le 4 principali potenze militari dell’UE. Inoltre, i principali produttori di armi si sono mostrati riluttanti ad aumentare la produzione dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Ciò può essere spiegato in parte dai segnali ambivalenti provenienti dai governi circa la sostenibilità dei finanziamenti a lungo termine. Se le aziende non sono sicure se un investimento sarà ripagato nel medio e lungo termine, saranno riluttanti a farlo. Tuttavia, tali investimenti sarebbero cruciali affinché la produzione soddisfi la domanda in tempo di guerra, anche se non tutta la capacità produttiva fosse utilizzata in tempo di pace. Sembra esserci un conflitto tra gli interessi di sicurezza degli Stati (cioè creare una capacità sufficiente per aumentare la produzione in tempo di guerra) e gli interessi economici delle imprese (evitare un eccesso di capacità produttiva per massimizzare i profitti). Secondo il capo dell’Associazione tedesca dell’industria della sicurezza e della difesa, “ciò di cui abbiamo bisogno sono ordini che consentano una migliore pianificazione su lunghi periodi di tempo che creino opportunità per una maggiore redditività degli investimenti“; e questi contratti a lungo termine semplicemente non esistono ancora. |
L’Unione Europea ha tradizionalmente dedicato meno risorse economiche alle attività militari rispetto agli Stati Uniti, visto il loro ruolo di superpotenza globale. Tuttavia, è in corso una crescita significativa delle spese militari europee, che ha subito un’accelerazione dall’inizio della guerra in Ucraina nel 2022. Mentre l’Unione Europea considera da tempo la spesa militare e la ricerca e sviluppo come questioni sovrane di competenza dei suoi Stati membri, nel 2017 anche i bilanci dell’UE hanno iniziato a finanziare attività di ricerca e produzione militare. Il Fondo europeo per la difesa (FES), gestito nell’ambito della Cooperazione Strutturata Permanente (PESCO) sottoscritta da tutti gli Stati membri ad eccezione di Malta, dispone di un bilancio di 7,9 miliardi di euro per il periodo 2021-2027; 2,7 miliardi di euro sono stati assegnati al Programma europeo di ricerca sulla difesa, circa 500 milioni di euro all’anno per la ricerca collaborativa sulle armi; il Programma europeo di sviluppo del settore industriale della difesa (EDIP) dispone di risorse per un totale di 5,3 miliardi di euro, circa 1 miliardo di euro all’anno per progetti tecnologici legati all’acquisizione di armi, con gli Stati membri che dovrebbero fornire finanziamenti aggiuntivi per tali iniziative. È stata anche fondata l’Agenzia europea per la difesa (EDA) ed è stato lanciato il Piano di sviluppo della capacità e revisione coordinata annuale della difesa (CARD).
Nel 2021, al di fuori del bilancio dell’UE, i paesi dell’UE hanno anche creato lo Strumento europeo per la pace nell’ambito della Politica estera e di sicurezza comune. Questo programma ha un budget di 12 miliardi di euro per il periodo 2021-2027 e mira a finanziare operazioni militari e misure di assistenza nei paesi della periferia europea, dell’Africa e del Medio Oriente. Dall’inizio della guerra in Ucraina, è stato uno strumento importante per fornire aiuti militari e forniture di armi al governo ucraino.
Nell’ambito della sua politica di “autonomia strategica” (un termine che viene usato con parsimonia – e quasi solo da Macron, che ha anche affermato che l’Europa ha bisogno di “una economia di guerra” e che i paesi dell’UE devono essere pronti a mandare i loro soldati in Ucraina con la Francia che ha già mandato soldati della Legione Straniera – a causa delle sue implicazioni politiche dato che significa indipendenza dalla strategia imperiale americana), l’UE ha anche lanciato nuove iniziative che mirano a controllare le tecnologie rilevanti per la sicurezza, monitorare la dipendenza straniera da beni strategici (ad esempio, le “terre rare”) e sostenere progetti militari.
La Strategia europea per l’industria della difesa e i Rapporti Letta e Draghi
Mentre si prepara a inaugurare una nuova era di austerità con il ripristino del Patto di stabilità (voluto dalla Germania), gli alti funzionari dell’UE si sono profusi in dichiarazioni bellicose sulla necessità di essere pronti alla guerra. “Tutti, me compreso, preferiscono sempre il burro ai cannoni, ma senza cannoni adeguati potremmo presto ritrovarci anche senza burro“, ha recentemente affermato Josep Borrell, l’alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, nonché presidente dell’EDA, citando l’antico motto latino dei guerrafondai: “Si vis pacem, para bellum” (“Se vuoi la pace, prepara la guerra”). “L’invasione della Russia è stata un campanello d’allarme per l’Europa”, ha affermato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, — il primo presidente a invocare esplicitamente l’alba di una “Commissione geopolitica”. “Dobbiamo ripensare la nostra base di difesa industriale”.
Il 5 marzo scorso la Commissione Europea ha presentato una Strategia europea per l’industria della difesa (EDIS) che invita gli Stati membri a investire “di più, meglio, insieme ed in modo europeo” nell’acquisizione di capacità militari16. L’idea di fondo su cui si basa la Strategia è che unire le forze per procurarsi collettivamente e localmente dovrebbe aumentare drasticamente l’efficienza degli investimenti e stimolare il consolidamento della base industriale e tecnologica di difesa europea (EDTIB). Oggi, la domanda nel mercato industriale e di difesa europeo è, con poche eccezioni17, frammentata lungo i confini nazionali, soprattutto al di fuori del settore aeronautico e missilistico: gli Stati membri tendono ad acquisire, a livello nazionale quando possibile, capacità militari su misura che rispondono a decisioni di investimento radicate nei processi di pianificazione della difesa nazionale18. Di conseguenza, anche i produttori di livello superiore della catena di fornitura dell’industria della difesa – i principali fornitori dell’Europa – sono frammentati lungo la stessa linea. Operano in mercati nazionali ristretti, le cui dimensioni non giustificano i grandi investimenti per aumentare la capacità produttiva richiesti dall’odierno contesto di sicurezza globale. Come riconosce l’EDIS, la mancanza di prevedibilità del volume della domanda impedisce ai fornitori europei di realizzare economie di scala e li costringe a fare affidamento sulle esportazioni per rimanere redditizi. Di conseguenza, non sono stati in grado di soddisfare l’improvviso aumento della domanda sia di materiali di consumo che di nuovi sistemi d’arma derivante dal sostegno degli Stati membri all’Ucraina. Questi ultimi sono stati così costretti a guardare altrove: secondo l’EDIS, “il 78% dei 240 miliardi di euro di acquisizioni per la difesa effettuate dagli Stati membri tra febbraio 2022 e giugno 2023 sono stati effettuati al di fuori dell’UE”, con il 60% che provenivano dagli Stati Uniti. La maggior parte di queste acquisizioni (63%) consisteva in prodotti standardizzati provenienti da scorte industriali esistenti (Strategia, pagg. 3-4). Cioè, il denaro che avrebbe potuto finanziare l’aumento della capacità dell’EDTIB non è arrivato, perché attualmente questa base produttiva non è in grado di fornire grandi volumi di armi in tempo (e la promessa di consegnare un milione di proiettili da 155 mm. all’Ucraina entro un anno, non è stato mantenuto mentre il prezzo di un proiettile è aumentato da 2.100 dollari al pezzo a 8.400 dollari dall’inizio della guerra nel febbraio 2022)19.
L’EDIS è una proposta politica con implicazioni politiche di vasta portata: se dovesse riuscire a raggiungere l’obiettivo di stabilire “gli appalti comuni [di prodotti per la difesa] come norma”20, la Commissione compirà il passo più importante finora per affermarsi come un policy maker nel campo della difesa-industriale. Svolgere tale ruolo è ciò che la Commissione ha cercato di fare sin dall’istituzione del Fondo europeo per la difesa (FES) nel 2021, a cui hanno fatto seguito altre iniziative dell’UE che hanno visto la Commissione tentare di espandere la propria portata nella politica industriale-difensiva. Sfruttando lo slancio politico conferitole dalla guerra in Ucraina, Bruxelles cerca ora di accelerare questo processo attraverso l’EDIS, con l’obiettivo di superare la frammentazione nazionale del mercato (frutto degli incentivi e sussidi offerti dagli Stati membri, desiderosi di preservare la propria sovranità individuale e le rispettive industrie), rendere più efficiente (“razionalizzare”, minimizzando moltiplicazioni e sprechi) il sistema di difesa europeo e di far diventare l’UE un attore potente geo-politico-militare sulla scena internazionale. Verrebbe istituito un Gruppo europeo di alto livello dell’industria della difesa per aiutare a coordinare gli appalti e la programmazione. Il Gruppo avrebbe il compito di identificare progetti di interesse comune su cui concentrare gli sforzi e i programmi di finanziamento dell’UE (per cui il Gruppo è destinato a diventare un “campo di battaglia” delle lobby); l’obiettivo è che il blocco crei una rete di capacità di difesa informatica, nonché sistemi europei integrati di difesa aerea e missilistica.
Ogni paese ha la propria storia per quanto riguarda la base e le ambizioni dell’industria della difesa. L’industria europea della difesa è stata tradizionalmente una questione nazionale e interna, con assetti di governance diversi e indipendenti in ciascun paese, il che a volte ha impedito una più profonda integrazione europea dell’industria e della politica a livello dell’Unione Europea. Per cui si tratterà di vedere se gli Stati membri saranno disponibili – e questo non è per nulla garantito – a sacrificare la sovranità nazionale in misura maggiore di quanto siano stati disposti a fare finora per far diventare l’Unione l’attore principale negli appalti per l’industria della difesa21. La quasi assenza di un dibattito su una maggiore cooperazione tra gli Stati membri dell’UE sembra indicare che a breve termine non ci sia molta voglia da parte dei governi di dare all’UE un ruolo più ampio sia nella difesa (nonostante la guerra della Russia in Ucraina abbia portato gli interessi della sicurezza in primo piano nelle menti dei politici) che nella politica generale.
In ogni caso, la comunicazione sull’EDIS definisce una serie di iniziative politiche che l’Unione intende perseguire per realizzarla, anche se il quadro delle risorse finanziarie necessarie è ancora tutto da inventare22. Tra le più importanti ricordiamo l’istituzione di:
1) un Gruppo europeo di alto livello dell’industria della difesa per coordinare i piani di appalto degli Stati membri sulla base degli strumenti esistenti, per dare priorità ai finanziamenti dell’UE per capacità selezionate e collaborare con l’industria per aumentare la capacità produttiva, al fine di definire obiettivi informati di produzione industriale della difesa;
2) un nuovo quadro giuridico – la Struttura per il Programma Europeo di Armamento (SEAP) – per formalizzare le procedure di appalto cooperativo, ovvero per garantire la cooperazione durante l’intero ciclo di vita della capacità (dalla fase di ricerca e sviluppo alla fase di approvvigionamento e sostegno). Il SEAP è inteso come un percorso per dare seguito ai progetti FES e PESCO (quest’ultimo ha fornito il quadro giuridico e impegni vincolanti per una difesa collaborativa). I governi che acquisteranno congiuntamente beneficeranno di esenzioni IVA;
3) un “Meccanismo Europeo di Vendita Militare” che faciliterà l’acquisizione dei prodotti della base industriale e tecnologica di difesa europea, finanziando l’accumulo di capacità acquisite attraverso il SEAP (per ridurre i tempi di consegna), aprendo contratti di appalto della difesa ad altri Stati membri rispetto a quelli stipulanti e fornendo assistenza tecnica per lo sviluppo della capacità amministrativa nelle agenzie nazionali di appalto;
4) una serie di misure per potenziare la capacità produttiva – come il sostegno alla valorizzazione di prototipi innovativi derivanti da progetti FES e il sostegno per facilitare l’accesso ai finanziamenti per le PMI della base industriale e tecnologica di difesa europea – e altre per migliorare la prontezza nella risposta alle crisi;
5) un Fondo per accelerare la trasformazione della catena di approvvigionamento della difesa (FAST), che mira a portare il finanziamento dell’UE di hardware di livello militare oltre le munizioni e i missili. Il Fondo potrà sovvenzionare la capacità produttiva con 1 miliardo di euro – raccolto da prestiti e investendo 100 milioni di euro di denaro pubblico – per sostenere l’industria degli armamenti anche quando la domanda è stagnante. Ad esempio, i finanziamenti FAST verrebbero utilizzati per coprire i salari e la manutenzione dei macchinari negli stabilimenti degli appaltatori della difesa, ma la Commissione vuole anche – e in modo controverso – prendere in considerazione il potere di requisire linee di produzione civili, se necessario.
Tutte queste iniziative e politiche, però, avranno l’effetto di deviare maggiori risorse finanziarie dalla ricerca, dall’innovazione e dalle esigenze industriali delle economie europee, per favorire attività che mirano alla potenza militare anziché allo sviluppo economico e alla transizione energetica. Tali politiche avvicinano l’Europa al modello statunitense di “complesso militare-industriale”.
D’altra parte, è proprio al modello statunitense che puntano sia il Rapporto Letta sul rilancio del mercato unico sia il Rapporto Draghi sul rilancio della competitività europea (che verrà disvelato dopo le elezioni di giugno), a seguito dei quali si è tornati a parlare di un “momento hamiltoniano” dell’Unione Europea. Letta e Draghi, due falchi atlantisti, guardano al modello statunitense per rafforzare la NATO, seguire la formula keynesiana militare di Washington, far consolidare gli oligopoli multinazionali europei (modificando le norme antitrust per consentire economie di scala superando la frammentazione tra Stati membri) e prepararsi alle eventuali minacce e sfide future russe (il Rapporto Draghi dovrebbe contenere la proposta dell’”esercito unico europeo”, di cui si parla da anni). Tra le sei linee programmatiche proposte da Letta (riassumibili in una fede nella trinità “unione mercato capitali”) c’è l’incremento della scala degli operatori di mercato, con un esplicito riferimento ai campi di telecomunicazioni, energia e settore militare (al quale viene dedicata molta attenzione, soprattutto nelle pagine 70-75), secondo Letta, risultano troppo segmentati sul piano nazionale. Se a questa si aggiungono le altre linee guida, come l’integrazione dei mercati finanziari (per dare vita ad una “Unione dei risparmi e degli investimenti” che possa favorire la finanziarizzazione dell’economia europea) e il rafforzamento del mercato dei capitali (per mobilizzare risorse private finora inutilizzate, i 33 mila miliardi dei risparmiatori europei), appare chiaro che si vuole puntare su un consolidamento del sistema aziendale esistente per fare emergere un manipolo di potenti “campioni europei” nel settore militare, come in altri settori, che possano competere su scala globale contro Cina e Stati Uniti23.
La visione su cui si basano i Rapporti di Letta e di Draghi è quella della “autonomia strategica” europea. Il concetto era stato introdotto in modo prominente attraverso la Strategia globale dell’UE nel 2016, in cui l’UE ha delineato la sua ambizione di diventare un attore bellicoso e assertivo nel campo della sicurezza e della difesa24. Un elemento chiave della “autonomia strategica” è lo sviluppo di una base industriale integrata di difesa europea in grado di produrre i principali sistemi d’arma in Europa. Secondo questo concetto, la base industriale e tecnologica di difesa europea dovrebbe essere in grado di fornire alle forze armate europee tutte le armi di cui hanno bisogno senza dover fare affidamento sugli Stati Uniti o su altri paesi terzi. In breve, i paesi dell’UE dovrebbero acquistare attrezzature europee dai produttori europei. I sostenitori della “autonomia strategica” vedono una base industriale e tecnologica di difesa europea autosufficiente come vitale per rafforzare la sicurezza dell’approvvigionamento dell’Europa e quindi aumentare il suo peso geopolitico nella competizione imperialistica sistemica.
Tuttavia, questa non è affatto una visione indiscussa nei paesi dell’UE. Alcuni governi, compresi quelli che fanno parte del nucleo centrale, desiderano consentire a paesi terzi come Regno Unito, Giappone, Australia, Canada e Stati Uniti di partecipare ai programmi finanziati dall’UE25. Altri vogliono limitare l’accesso ai fondi UE al continente europeo e ai paesi dell’UE. In secondo luogo, molti paesi periferici ed emergenti all’interno dell’UE non considerano la “autonomia strategica” europea una priorità, principalmente perché non ne vedono i benefici. Al contrario, sospettano che i paesi chiave con industrie all’avanguardia dal punto di vista tecnologico stiano perseguendo i propri interessi sotto la maschera di una visione apparentemente imparziale. Si dà il caso che i più forti sostenitori del concetto di “autonomia strategica” europea siano i paesi meglio posizionati per beneficiare economicamente dei progetti di sviluppo europei. Infine, gli atteggiamenti riguardo al futuro dell’integrazione europea differiscono grandemente all’interno dell’Europa. Paesi come Polonia, Ungheria e Regno Unito desiderano difendere la propria autonomia nazionale, il che ha implicazioni anche per il settore della difesa. Di conseguenza, non esiste una visione o un’idea comune coerente di come dovrebbe essere la base industriale e tecnologica di difesa europea in termini di distribuzione regionale, portafoglio di produzione, regole per le esportazioni o partner di cooperazione26. Né c’è consenso su quanto l’Europa dovrebbe importare o quale grado di autonomia dovrebbe mirare a raggiungere.
Ciò non significa, tuttavia, che non esista un terreno comune. L’UE ha creato una serie di strumenti per facilitare lo sviluppo congiunto di armi che sono ampiamente considerati efficaci, in particolare il FES. Sebbene questi strumenti manchino di chiarezza, coerenza e compatibilità con i processi della NATO, la maggior parte dei governi concorda sul fatto che tali politiche dell’UE saranno cruciali per il futuro sviluppo della base industriale e tecnologica di difesa europea.
L’analisi fin qui presentata suggerisce che in assenza di importanti iniziative politiche condivise, non ci saranno sostanziali cambiamenti al disegno e al coordinamento della crescita e di un possibile consolidamento della base industriale e tecnologica della difesa europea nei prossimi anni, anche in presenza di un aumento dei budget. Le cose andranno avanti come al solito, con la spesa della UE che si somma a quella dei singoli Stati e non la sostituisce. Il nucleo centrale europeo continuerà cioè a produrre sistemi d’arma all’avanguardia che garantiscono un certo grado di autonomia politica e operativa dagli Stati Uniti. La periferia cercherà di ridurre la propria dipendenza, anche dai suoi alleati europei, mantenendo un atteggiamento ambivalente nei confronti della cooperazione europea e della “autonomia strategica” europea. Sebbene saranno possibili fusioni, la struttura industriale frammentata complessiva rimarrà probabilmente invariata nel prossimo futuro.
Solo se i paesi europei riusciranno a concordare ampi programmi multilaterali (delle vere e proprie coerenti “politiche industriali”) con finanziamenti sufficienti per generare importanti progressi tecnologici, potrebbero emergere nuovi “campioni” e aziende paneuropee, che trasformerebbero il panorama industriale.
Lottare contro il “capitalismo di guerra”
È all’interno di questo quadro complesso e problematico che, come sostiene Giulio Marcon nel suo saggio nel volume di Greenpeace e Sbilanciamoci, quello che per tutti noi, cittadini e attivisti, deve essere chiaro è che siamo chiamati a fare una scelta “politica” tra una politica della guerra e una politica della pace, per cui dobbiamo essere pienamente consapevoli di quali siano le diverse conseguenze della nostra scelta. “La politica della guerra si basa sul riarmo, sul nazionalismo, sul dominio degli interessi economici e delle materie prime, sulla politica di potenza, sull’ideologia della geopolitica, sulle aree di influenza, su un’economia liberista e delle diseguaglianze. La politica della pace si basa sul disarmo, sulla prevenzione dei conflitti, sulla cooperazione internazionale, sulla democrazia internazionale ed il ruolo degli organismi sovranazionali, su un’economia di giustizia e l’eguaglianza. Non c’è un realismo dei governi (la politica, che presuppone anche la guerra) cui si contrappone un idealismo della pace (che rifiuta le armi): si tratta invece di politiche diverse, di strategie contrapposte, di visioni tra loro irriducibili” (pag. 5). Il bilancio della difesa devia fondi da altre forme di spesa pubblica che sono o più vantaggiose per l’economia o socialmente preferibili rispetto alla spesa militare. Razionalizzare la spesa militare è quindi una strategia desiderabile ed essa può essere possibile se cambiano le istituzioni che governano i sistemi di difesa. In questo senso, il disegno di una difesa comune europea può apparire come desiderabile, ma rimane per ora assai difficile da realizzare. Soprattutto, non dovrebbe essere l’unico focus delle politiche perché ci sono altri mezzi non militari per raggiungere la “sicurezza” e su cui investire il capitale politico europeo: l’integrazione politica regionale (ad esempio, nell’area mediterranea), la cooperazione economica internazionale, la diplomazia e il rafforzamento della fiducia, i trattati sul disarmo, la tutela dei diritti umani e gli aiuti allo sviluppo.
Mentre le élite che governano la UE lavorano alacremente per fomentare un clima di ansia e paura, per creare un complesso militare-industriale in grado di svuotare la democrazia27, per militarizzare le relazioni internazionali e per trasformare il blocco in una potenza militare geopolitica, nonostante l’assenza di una vera forza politica di sinistra, si intravede uno spiraglio di speranza. In tutto il continente, l’attivismo contro la guerra e l’oppressione è stato risvegliato dal genocidio di Gaza che ha ripoliticizzato milioni di persone. Ora, si tratta di capire dove e come si può esercitare la stessa pressione su un’istituzione antidemocratica come l’Unione Europea. Dobbiamo modificare la traiettoria bellicista voluta dai governanti prima che sia troppo tardi per evitare la transizione verso un “capitalismo di guerra”28 e una spirale dell’uso della forza militare che potrebbe portare allo scontro militare imperialista (anche atomico) tra l’Occidente e il resto del mondo. La sopravvivenza dell’umanità è in pericolo a causa dell’incapacità dell’Occidente (e quindi dei governanti dell’Unione Europea) di venire a patti con il proprio lento declino politico, economico, sociale e morale come blocco dominante nel mondo e di accettare l’emergere di un mondo multipolare e policentrico.
È sempre bene ribadire che la nostra Costituzione del 1948 afferma che “L’Italia ripudia la guerra”, una dichiarazione politica carica di intelligenza e civiltà da difendere con tutte le forze dall’aggressiva irresponsabilità delle élite mainstream e di destra che attualmente governano il nostro paese e l’Unione Europea.
Alessandro Scassellati
- Nell’Unione Europea, l’aumento delle spese militari è stato associato alle pressioni della NATO per aumentare i contributi alla difesa e le strategie che mirano a rafforzare le capacità dell’Europa nelle tecnologie chiave e nella produzione legata alla difesa. Con la guerra in Ucraina e il rinnovato ruolo degli Stati Uniti negli affari europei, la “Bussola strategica dell’UE” del marzo 2022 (adottata ad un mese dal 24 febbraio) ha delineato una politica di forte allineamento dell’UE con la NATO e gli Stati Uniti; l’aumento della spesa militare diventa una condizione chiave per l’attuazione di tale strategia. La Bussola è stata presentata come un trampolino di lancio verso una maggiore coerenza. Impegna l’UE a sviluppare una capacità di dispiegamento rapido di 5 mila soldati per diversi tipi di crisi e, per la prima volta a livello UE, a organizzare regolari esercitazioni militari congiunte. La Bussola è la guida strategica più dettagliata e più carica dal punto di vista geopolitico nel suo genere, che identifica gli avversari, descrive le minacce e argomenta a favore dei coinvolgimenti. Dichiara con orgoglio che “il futuro dell’Africa è di importanza strategica per l’UE” e che “la stabilità nel Golfo di Guinea, nel Corno d’Africa e nel Canale del Mozambico rimane un importante imperativo di sicurezza per l’UE, anche perché sono rotte commerciali chiave.” Con un linguaggio sorprendentemente geopolitico, descrive anche un “nuovo centro di competizione globale” che si sta aprendo nell’Indo-Pacifico, dove le tensioni “mettono in pericolo l’ordine basato su regole nella regione e mettono pressione sulle catene di approvvigionamento globali”. Una visione che rompe con quella classicamente interdipendente e liberale del mondo su cui l’UE ha basato le sue politiche per decenni e con la quale cercava di “civilizzare” e di “normare” le relazioni internazionali promuovendo il multilateralismo e il diritto internazionale.[↩]
- Nonostante la promessa elettorale di Joe Biden di non “mettere i valori [dell’America] alla porta” quando si tratta di vendite di armi, gli Stati Uniti hanno aumentato, e non diminuito, le vendite di armi in tutto il mondo, compresi i paesi con regimi repressivi. Tra l’altro, la maggior parte delle vendite coinvolge solo quattro società: Lockheed Martin, Boeing, Raytheon e General Dynamics. Il potere di lobbying concentrato di queste aziende – inclusa una “porta girevole” da parte dell’agenzia di vendita di armi del Pentagono e lo sfruttamento dei posti di lavoro legati all’esportazione di armi in influenza politica – è stato utilizzato negli sforzi per espandere le esportazioni di armi statunitensi verso il maggior numero di paesi stranieri possibile, spesso contribuendo a esagerare le minacce esistenti.[↩]
- Con il potenziamento degli arsenali militari, è praticamente impossibile produrre a livello nazionale tutti i sistemi d’arma avanzati, le apparecchiature elettroniche e i componenti ad alta tecnologia; l’approvvigionamento dagli Stati Uniti – come nel caso degli aerei da combattimento F35, dei sistemi missilistici, cyberelettronica, etc. – o da altri paesi occidentali diventa sempre più rilevante. I produttori di armi dell’UE sono sempre più coinvolti nella rete degli standard NATO sulle armi (all’insegna della “interoperabilità”), subappaltano attività per le più grandi società statunitensi e fanno affidamento su componenti avanzati di fabbricazione straniera. Secondo le stime del rapporto Arming Europe (pag. 13), le importazioni di armi in Germania sono aumentate, da circa 2,5 miliardi di euro nel 2013 a 3,5 miliardi di euro nel 2023. In percentuale della spesa totale per gli armamenti, le importazioni sono scese da circa la metà a poco più di un quarto della spesa tedesca in quest’area. Il caso dell’Italia è un po’ diverso. In questo caso, le importazioni di armi sono state per lungo tempo nello stesso ordine di grandezza della spesa per gli armamenti, a partire da circa 2,8 miliardi di euro nel 2013 per entrambe le variabili (i contratti pluriennali di trasferimento di armi possono essere registrati in modo diverso nei bilanci militari e nelle statistiche commerciali). Anche in questo caso, le importazioni di armi sono rimaste nel complesso stabili in termini reali e rappresentano ora circa la metà del totale degli acquisti di armi nel bilancio militare. Il caso della Spagna inizia con un valore delle importazioni di armi vicino al budget totale per la spesa in armamenti nel 2013 e con importazioni stabili a circa 0,8 miliardi di euro. Con l’aumento accelerato dei bilanci per gli armamenti negli ultimi anni, questa cifra ha raggiunto circa 4,4 miliardi di euro nel 2023.[↩]
- Il Fondo europeo per la pace è fondamentale per la militarizzazione delle frontiere esterne (sia in Ucraina che nel Sahel). La gestione del Fondo si basa sui meccanismi esistenti per migliorare la capacità dell’UE di fornire addestramento ed equipaggiamento (comprese le armi) a forze militari extra-UE. Proprio come la PESCO – e quasi ogni aspetto della politica estera e di difesa dell’UE – il Fondo per la pace non è coperto dal bilancio dell’UE ed elude il controllo parlamentare. La sponsorizzazione attraverso l’EPF di operazioni militari – spesso mascherate da natura antiterroristica o anti-migratoria – sono di natura interamente geopolitica.[↩]
- Nel complesso dei paesi UE della NATO, la spesa pubblica totale è aumentata nell’arco di un decennio del 20% in termini reali (in media circa il 2% annuo), 346 miliardi di dollari nel 2022. Tuttavia, la spesa militare è cresciuta due volte più velocemente, del 46%, in contrapposizione ai minori aumenti nell’istruzione (+12%), nella protezione dell’ambiente (+10%) e nella sanità (+34%). L’approvvigionamento di armi può essere paragonato agli investimenti di capitale della spesa pubblica. Nei paesi UE della NATO, quest’ultima è aumentata del 35% in un decennio, ma l’acquisizione di armi è aumentata del 168%, quasi cinque volte più velocemente. Germania e Spagna sono sostanzialmente in linea con i modelli dell’UE, mentre l’Italia mostra una crescita meno dinamica della spesa, a causa dei vincoli di finanza pubblica e di anni di recessione economica.[↩]
- Le spese militari creano domanda per i prodotti venduti dalle aziende – private o pubbliche – e sostengono la ricerca, lo sviluppo, la produzione e le esportazioni di armamenti. I profitti nella produzione di armi sono generalmente superiori alla media e il “complesso militare-industriale” di un paese è una forza importante che guida la crescita delle spese militari, arrivando ad assorbire una parte significativa delle capacità finanziarie in ricerca, tecnologia, competenze umane, accumulazione di capitale e finanza. Nel caso degli Stati Uniti, ciò ha portato a pratiche commerciali che hanno gonfiato costi, prezzi e profitti e ridotto efficienza e performance dell’economia, con la spesa militare che agisce di fatto come una politica industriale. Nel rapporto Arming Europe, si calcola che in Germania, una spesa di 1 miliardo di euro per l’acquisto di armi mette in moto un aumento della produzione nazionale di 1,23 miliardi. In Italia l’aumento risultante è di soli 741 milioni, poiché una parte molto rilevante della spesa va alle importazioni. In Spagna l’incremento della produzione nazionale ammonta a 1,28 miliardi. L’effetto occupazionale equivale a 6.000 posti di lavoro aggiuntivi (a tempo pieno) in Germania, 3.000 in Italia e 6.500 in Spagna. Tuttavia, l’impatto economico e occupazionale è maggiore quando il miliardo di euro viene speso per l’istruzione, la sanità e l’ambiente. L’impatto maggiore si riscontra nel settore della tutela ambientale, con un aumento della produzione pari a 1,75 miliardi in Germania, 1,9 miliardi in Italia e 1,83 miliardi in Spagna. Per l’istruzione e la sanità, la produzione aggiuntiva varia da 1,19 a 1,38 miliardi. In Germania, in termini di opportunità di lavoro, 1 miliardo di euro potrebbe creare 11 mila nuovi posti di lavoro nel settore ambientale, quasi 18 mila nell’istruzione o 15 mila nei servizi sanitari. In Italia, le cifre equivalenti vanno da 10 mila posti di lavoro nei servizi ambientali a quasi 14 mila nell’istruzione. In Spagna, l’effetto occupazionale oscillerebbe tra 12 mila nuovi posti di lavoro nel settore ambientale e 16 mila nel settore dell’istruzione. L’impatto sull’occupazione è da due a quattro volte superiore a quello atteso da un aumento degli appalti di armi (Arming Europe, pagg. 19-22). Per una discussione sul mito dei dati occupazionali dell’industria delle armi, con particolare attenzione all’industria aereonautica, si veda qui e qui.[↩]
- Questo anche se l’industria della difesa sta attraversando un rapido cambiamento, in particolare per quanto riguarda lo sviluppo della tecnologia a duplice uso (“dual use”) e il trasferimento di tecnologia tra ambiti militari e civili. L’offuscamento del divario tra militare e civile è particolarmente evidente con il rapido sviluppo dell’intelligenza artificiale, della digitalizzazione, della tecnologia satellitare, della quantistica integrata, della fotonica, delle comunicazioni wireless ad alta capacità e delle reti di “big data” attraverso il 5G – sviluppi che sono stati definiti come parte di una “quarta rivoluzione industriale”.[↩]
- Leonardo è il principale gruppo dell’industria militare italiana ed è attualmente organizzato su otto aree di attività: elettronica, elicotteri, aerei, cyber & security, spazio, droni, aero-strutture, automazione. Ha una posizione di forza internazionale nel comparto elicotteri e nell’elettronica per la difesa; mentre in campo aeronautico opera principalmente come sub-fornitore di primo livello per i grandi produttori di aerei militari degli Stati Uniti. Il gruppo è ancora attivo nella produzione di armamenti navali e terrestri (ex-Oto Melara e consorzio con Iveco DVD) e nel comparto navale subacqueo (ex-Wass). Il principale azionista è il Ministero dell’Economia e Finanze (30,2%), che detiene una “golden share” data l’importanza strategica della società, ma un ruolo sempre più decisivo nella sua gestione lo giocano i fondi istituzionali internazionali, che per il 53% sono nord-americani.[↩]
- Le vendite all’estero, in ben 83 paesi, di sistemi di armi prodotte in Italia hanno superato nel 2023 i 16,3 miliardi di euro (+19,3% rispetto al 2022), con gran parte dell’export autorizzato dal governo che è andato all’Ucraina, raggiungendo un valore di 417 milioni (nel 2022 erano solo 3,8 milioni). Ministeri della Difesa e Marina, Esercito, Marina e Aeronautica Militare sono parte attiva nella promozione dell’export dei prodotti delle industrie militari italiane, in un intenso lavoro di squadra, di “sistema paese”. Emblematico è il caso del Pattugliatore Polivalente d’Altura (PPA) Raimondo Montecuccoli (P 432), terza unità della classe ‘Thaon di Revel’ e primo con capacità di difesa aerea (AAW, anti-air warfare) missilistica o PPA ‘Light Plus’, che è partito dalla base navale di La Spezia lo scorso 29 aprile per “una campagna di proiezione operativa” che lo porterà attraverso il canale di Panama nella regione Indo-Pacifica, prima di continuare “nella missione di naval diplomacy e promozione del Sistema Paese nel Pacifico, Sud-Est Asiatico, Oceano Indiano e Mar Rosso”. Nel corso della campagna farà sosta in 13 porti di 11 differenti paesi, per portare “gli aspetti preminenti di sviluppo tecnologico nazionale, preparazione e professionalità degli equipaggi e supporterà la competitività del Sistema Paese, improntata alla promozione delle eccellenze dell’industria nazionale come realtà credibile ed efficace”, secondo quanto riportato nel comunicato stampa ufficiale. Consegnata alla Marina Militare Italiana il 27 settembre 2023 da parte di Fincantieri quale prime contractor nell’ambito del programma gestito dall’agenzia OCCAR, la nave Raimondo Montecuccoli è la terza PPA e la prima in configurazione ‘Light Plus’. Le principali capacità distintive di quest’ultima configurazione riguardano il nuovo radar di Leonardo a quattro facce fisse (4FF) con antenne a scansione elettronica attiva (AESA, Active Electronically Scanned Array) in banda C Kronos Quad della suite Dual Band Radar (DBR) (banda X/C) installato sulla piattaforma PPA Full, il sistema missilistico di difesa aerea SAAMESD (Surface Anti-Air Missile – Extended Self Defence) PPA della MBDA Italia con due sistemi di lancio verticale (VLS) A50 a 8 celle di Naval Group per la famiglia di missili terra-aria MBDA Aster, la suite completa di guerra elettronica (EWS) del gruppo ELT tra cui RESM, CESM eRECM (quest’ultimo non presente sui PPA Light) e console aggiuntive per gli operatori del sistema di comando, controllo e combattimento o CMS (Combat Management System) di Leonardo rispetto alla configurazione PPA Light.[↩]
- Il SIPRI fornisce dati sulla spesa militare globale e ha accertato un calo limitato da 1.500 miliardi di dollari nel 1988 (a prezzi costanti del 2021) a 1.100 miliardi di dollari nel 1998.[↩]
- Ad esempio, la britannica BAE Systems è stata costituita nel 1999 dalla fusione di Marconi Electronic Systems e British Aerospace, a sua volta un’unione di società di difesa tra cui British Aircraft Corporation e Hawker Siddeley.[↩]
- Alcune delle più importanti aziende del settore militare europeo sono ancora in parte di proprietà statale: Airbus, Leonardo, Thales, Fincantieri, Dassault Aviation e Indra Sistemas. Le azioni delle aziende produttrici di armi sono aumentate negli ultimi due anni dopo che l’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia nel febbraio 2022 ha costretto i governi a rivalutare i loro piani di spesa militare.[↩]
- Per una descrizione e analisi più approfondita dell’organizzazione della catena di fornitura dell’industria militare si vedano lo studio pubblicato dall’European Commission, Defence Industry. Comprehensive sectoral analysis of emerging competence and economic activities in the European Union, 2009; il saggio di Gianni Alioti in Economia a mano armata, pagg. 91-109[↩]
- Ma è assai probabile che le PMI coinvolte (almeno parzialmente) siano molte di più se si considera che l’“Atlante delle aziende in Italia operanti nel settore aerospazio-difesa” censisce 874 aziende in Italia, con 1.019 siti produttivi.[↩]
- L’Eurofighter Typhoon è stato realizzato da un consorzio formato da Airbus, BAE Systems e Leonardo e da una cooperazione europea tra Germania (33%), Italia (21%), Regno Unito (33%) e Spagna (13%). L’aereo Tempest è un’iniziativa promossa dal Regno Unito, dopo essere uscito dall’Unione Europea, attraverso la BAE Systems e la Rolls Royce. Al programma Global Combat Air Programme (GCAP) hanno aderito prima la Svezia con la SAAB e GKN Space, poi l’Italia con Leonardo, Elettronica e Avio Aero (GE Aerospace), in ultimo, il Giappone con Mitsubishi Heavy Industries. Il FCAS è il programma europeo Future Combat Air System voluto da Francia, Germania e Spagna, attraverso Dassault Aviation, Airbus e Indra.[↩]
- L’EDIS evolverà nel programma EDIP che sarà un regolamento, il che significa che per entrare in vigore avrà bisogno dell’approvazione degli Stati dell’UE e del Parlamento Europeo. Per cui la forma definitiva dell’EDIS sarà determinata una volta completati i negoziati con gli Stati membri e il Parlamento europeo, ossia non prima del febbraio 2025. È assai probabile che il testo finale sarà sostanzialmente diverso dalla proposta esistente.[↩]
- L’esempio più notevole di fornitore paneuropeo è il produttore di missili MBDA, che è una joint venture tra la francese Airbus, la britannica BAE Systems e l’italiana Leonardo.[↩]
- Anche nei casi in cui più paesi europei si procurano la stessa capacità militare, come nel caso del carro armato Leopard II, diversi stati membri europei tendono a procurarsi versioni personalizzate. Ad esempio, i Leopard II acquistati da Svezia, Germania e, più recentemente, Italia, hanno tutti specifiche diverse. Le parole spesso utilizzate sono “duplicazione”, “moltiplicazione” e “spreco di risorse” per indicare il fatto che la mancata integrazione tra gli Stati membri lascia sopravvivere una pletora di progetti industriali in ambito militare di fatto inefficienti. Tra gli esempi che vengono spesso citati, il più noto è quello degli aerei da combattimento. Francia e Germania hanno firmato un accordo per sviluppare un cacciabombardiere di ultima generazione, mentre Italia, Paesi Bassi e Regno Unito sono coinvolti nel progetto di costruzione del caccia F35 Joint Strike Fighter della Lockheed Martin statunitense. La Svezia (SAAB) continua a sviluppare il caccia Gripen, scelto anche da Repubblica Ceca, Ungheria e Croazia. Nel frattempo, nel 2019, Regno Unito, Italia e Svezia (con il Giappone) hanno firmato un accordo per sviluppare un caccia di sesta generazione, il Tempest di BAE Systems. Mogherini e Katainen (2017) evidenziavano che nell’UE ci sono 17 carri armati principali, 29 tipi di fregate e 20 aerei da combattimento, laddove le cifre corrispondenti per gli Stati Uniti sono rispettivamente 1 (l’M1 Abrams), 4 e 6. Con maggiore dettaglio, Hartley (2020) mostrava che in Europa ci sono 180 diversi tipi di equipaggiamento militare (fucili, munizioni, carri armati, aerei, navi, etc.) rispetto ai soli 30 negli Stati Uniti. Dopo un lungo, complesso e travagliato percorso di convergenza dei rispettivi requisiti operativi e di coinvolgimento delle relative industrie, lo scorso 26 aprile, i ministri della Difesa francese Sébastien Lecornu e tedesco Boris Pistorius hanno siglato a Parigi, “l’accordo di impegno” per la fase 1A del programma MGCS (Main Ground Combat System) destinato allo sviluppo e messa in servizio di un nuovo “sistema di sistemi multipiattaforma” per il combattimento terrestre che dovrà rimpiazzare l’attuale generazione di veicoli corazzati rappresentati dai carri armati Leclerc e Leopard II entro il 2045: non più un carrarmato, ma una piattaforma equipaggiata con un cannone di grosso calibro, accompagnato da altri moduli complementari interconnessi come una piattaforma protetta equipaggiata con missili anti-carro, nonché un veicolo d’appoggio robotizzato dotato di armi laser, droni ed altri armamenti innovativi. Un progetto che vedrà coinvolte 4 società: KNDS Deutschland, KNDS France, Rheinmetall Landsysteme e Thales SIXGTS, prevedendo anche la partecipazione, quali partner industriali subcontraenti, i gruppi MBDA, Safran, Hensoldt e Diehl Defence, nonché fornitori di sistemi specifici come la propulsione oltre a società medio-piccole e centri di ricerca ed accademici. I due ministri hanno affermato che il programma MCGS è aperto alla cooperazione di altri Stati membri della NATO, dell’UE e ad altri potenziali paesi partner. L’Italia vuole essere assolutamente della partita e il 29 aprile Crosetto, ha incontrato Lecornu in Corsica, con il quale ha firmato una lettera di intenti per la costituzione del Polo Industriale Terrestre Europeo, “dove confluiranno le migliori aziende italiane e francesi del settore”. Nelle varie iniziative annunciate, la Commissione Europea ha affermato che sosterrà gli sforzi per garantire la definizione di requisiti di capacità comuni, l’adozione di standard condivisi e il riconoscimento reciproco delle certificazioni, affrontando così tre questioni che di fatto impediscono la completa “interoperabilità” tra le forze armate europee. Gli analisti sostengono anche che le inefficienze derivanti dalla frammentazione del mercato militare europeo sono aggravate da altri fattori che incidono sulla capacità di fornire risultati: ad esempio, molte delle piccole e medie imprese di livello inferiore che popolano il settore militare-industriale affrontano difficoltà nell’accesso ai finanziamenti privati e, in una sfida in qualche modo correlata, molti dei progetti FES perseguiti da queste PMI incontrano difficoltà nel passare dalla fase di prototipo alla piena commercializzazione.[↩]
- MBDA ha affermato di puntare a ridurre i tempi di produzione dei missili di difesa aerea Aster30 dai 42 mesi del 2022 a “meno di 18 mesi nel 2026” e aumentare del 50% la produzione entro le stesse scadenze, anche creando in Italia una seconda catena di montaggio del missile. Molte aziende produttrici di armi europee non sono riuscite ad aumentare in modo significativo la capacità produttiva a causa della carenza di manodopera, dell’aumento dei costi (anche per l’impennata dell’inflazione) e delle interruzioni della catena di approvvigionamento (mancato accesso a materie prime critiche, “terre rare” e semiconduttori), esacerbate dalla guerra in Ucraina. Attualmente, la base industriale e tecnologica di difesa europea non è in grado di soddisfare le richieste del tempo di guerra. Si è adattata con successo a decenni di pace, mantenendo alti profitti nonostante livelli relativamente bassi di spesa per la difesa, ma ha perso la capacità di aumentare la produzione per le esigenze belliche. I tradizionali produttori europei saranno in grado di assorbire parzialmente la nuova domanda creando nuove capacità produttive, ma ciò non sarà sufficiente né in termini di volume né di velocità. La Commissione europea ha stanziato i 500 milioni di euro previsti a sostegno della produzione di munizioni (ASAP). Ciò dovrebbe consentire all’industria militare europea di aumentare la sua capacità di produzione di proiettili d’artiglieria portandola a 2 milioni l’anno entro la fine del 2025.[↩]
- La Strategia invita gli Stati membri a progredire verso obiettivi per gli appalti comuni e locali di attrezzature militari: si chiede rispettivamente che il 40% di tutte le attrezzature siano acquistate in comune entro il 2030, contro un valore attuale del 18%, e che il 50% di tutte le spese per gli appalti della difesa sia indirizzata ai fornitori dell’UE entro il 2030 – il 60% entro il 2035 – contro un valore attuale del 22%.[↩]
- D’altra parte, gli Stati Uniti, in linea di principio, pur invitando gli europei a fare di più per la loro autodifesa, hanno allo stesso tempo sottolineato la necessità di evitare duplicazioni con la NATO e si sono costantemente opposti al consolidamento della base industriale e tecnologica di difesa europea, ovvero sostenere la domanda europea per i suoi prodotti, in modo da salvaguardare gli interessi del proprio complesso militare-industriale. In tal modo, gli USA hanno trovato aiuto in alcuni Stati membri dell’Europa orientale (come la Polonia) che desiderano preservare la presenza americana sul fianco orientale dell’Europa (il che significa che gli Stati dell’Europa centrale e orientale preferiscono acquistare prodotti made in USA piuttosto che europei). Varsavia ha annunciato che otterrà una serie di forniture militari, principalmente da fornitori sudcoreani (carri armati, artiglieria cingolata, sistemi di artiglieria e missili, a seguito di accordi di co-produzione con Hanwha Aerospace e Hyundai Rotem) e statunitensi (aerei, sistemi di difesa aerea, etc.). Ma anche la Germania ha deciso l’acquisto di aerei da combattimento F35 dalla Lockheed Martin, sta comprando gli elicotteri Chinook dalla statunitense Boeing e ha firmato un contratto da 3,5 miliardi di dollari con l’industria aerospaziale israeliana per acquisire il sistema di difesa antimissile Arrow 3 sviluppato con gli USA, oltre al sistema antimissile americano Patriot. Pur avendo partecipato insieme alla Francia al programma per una nuova nave da pattugliamento marittimo (MAWN), i tedeschi hanno deciso di acquistare cinque nuove navi da pattugliamento marittimo P-8A Poseidon dall’americana Boeing (1,43 miliardi di euro). Gli interventi militari passati, come quello in Libia nel 2011, hanno evidenziato che le forze armate europee dipendono dalle capacità degli Stati Uniti in una serie di campi, in particolare per i fattori strategici aviotrasportati (trasporto aereo strategico e vari sottocampi di attività di intelligence, sorveglianza e ricognizione, come gli AWACS) e la guerra antisommergibile. Significativamente, la sezione dell’EDIS dedicata alla cooperazione con la NATO è poco definita, un tentativo deliberato da parte della Commissione di lasciare agli Stati membri il compito di definire la portata del partenariato.[↩]
- Una questione chiave per lo sviluppo futuro di una base industriale e tecnologica di difesa europea è la sostenibilità dell’aumento della spesa per la difesa. Costruire una base industriale e tecnologica in grado di soddisfare il nuovo livello di ambizione richiede un livello elevato e sostenuto di spesa per la difesa per evitare che i fondi vengano dirottati verso altre funzioni governative in caso di recessione economica o di rivalutazione delle priorità politiche. La maggior parte dei governi europei sembra capire che la spesa per la difesa deve essere sostenibile per produrre risultati. Non solo sono disposti a mantenere i loro budget al livello elevato attuale, ma prevedono anche ulteriori aumenti nel prossimo futuro. Per ora la dotazione di finanziamento dell’Unione Europea, prevista come transitoria verso il periodo di programmazione 2028-2034, ammonta a un magro 1,5 miliardi di euro, molto al di sotto di quanto è necessario per stabilire “appalti comuni come la norma“. Tuttavia, a questo riguardo, l’EDIS richiede decisioni politiche che sblocchino altre fonti di finanziamento, come l’adeguamento della politica di prestito della BEI, il riutilizzo dei futuri programmi di spesa dei fondi strutturali per convogliare più finanziamenti verso l’EDTIB e, cosa più controversa, “utilizzando i profitti dei beni russi congelati per acquistare congiuntamente attrezzature militari per l’Ucraina”. Secondo il commissario per il mercato interno Thierry Breton, l’obiettivo finale dovrebbe essere disporre di un fondo di 100 miliardi di euro per l’industria europea della difesa – una proposta condivisa da esponenti governativi tra cui la primo ministro estone Kaja Kallas. Alcuni Stati membri dell’UE stanno spingendo per un approccio più aggressivo. Francia, Polonia ed Estonia hanno invitato Bruxelles a mobilitare finanziamenti “adeguati” per i programmi di difesa, suggerendo un approccio simile al fondo di recupero pandemico del blocco in cui sono state emesse obbligazioni congiunte. Un altro gruppo di paesi settentrionali, per lo più “frugali”, sono diffidenti all’idea, con paesi tra cui Germania, Danimarca, Svezia, Paesi Bassi, Austria e Cechia contrari all’emissione di nuovo debito.[↩]
- È evidente che le nuove acquisizioni, fusioni e alleanze nell’industria militare europea ed internazionale comporteranno razionalizzazioni sia impiantistico-produttive, sia di prodotto-mercato. E, sotto la spinta di sempre più ingenti risorse destinate all’acquisizione di armi, munizionamenti e sistemi d’arma, anche i principali paesi importatori svilupperanno una propria industria che produrrà su licenza. È il caso recente dell’accordo di cooperazione tra Fincantieri e Edge Group degli Emirati Arabi (le due maggiori aziende industriali militari italiane realizzano una parte importante delle loro produzioni all’estero: per Fincantieri negli USA e negli Emirati, per Leonardo in USA, Regno Unito, Polonia e Israele). Pertanto, in una fase di forte espansione dei fatturati del settore, ma anche di ristrutturazione industriale, solo le imprese che guideranno i processi su scala europea (e quelle italiane, tranne eccezioni, hanno un ruolo comprimario) o le aziende e/o i distretti industriali che hanno accresciuto (o accresceranno) la loro diversificazione nei mercati civili, riducendo la loro dipendenza complessiva dal settore militare, saranno meno vulnerabili sul lato occupazionale.[↩]
- Sebbene il documento impegni l’UE verso un ordine globale basato sul diritto internazionale, si discosta chiaramente dalle valutazioni precedenti per affermare che “l’idea che l’Europa sia esclusivamente una ‘potenza civile’ non rende giustizia a una realtà in evoluzione”. “Per l’Europa”, affermava con un forte senso di inquietudine, “il soft power e l’hard power vanno di pari passo”.[↩]
- Enrico Letta, ad esempio, autore del recente rapporto sul mercato unico dell’UE, auspica che l’UE e gli Stati Uniti costruiscano un “mercato unico transatlantico” per combattere “comportamenti aggressivi” da parte di gran parte del resto del mondo, con un chiaro riferimento a Cina, Russia e paesi del Sud del mondo.[↩]
- Una delle misure proposte della Strategia copia addirittura il programma statunitense Foreign Military Sales (per cui Washington firma contratti di vendita di armi direttamente con altre capitali), rendendo più semplice la vendita di armi a paesi terzi, mentre un’altra renderebbe più semplice per i governi assumere il controllo della produzione civile in caso di emergenza. L’UE lavorerebbe su un catalogo di ciò che è disponibile in tutto il blocco. La Commissione sosterrebbe inoltre finanziariamente l’accumulo di scorte per ridurre i ritardi di consegna per i potenziali acquirenti. Il testo prevede un’eccezione alla Direttiva sugli appalti della difesa per consentire ai governi di aggiungere nuovi paesi ai contratti già firmati senza dover riavviare il processo di appalto.[↩]
- Già ora la spinta alla militarizzazione si accompagna ad un’agenda politica interna sempre più repressiva, con un nuovo maccartismo e un rinnovato autoritarismo, proto-fascismo e razzismo spinto dallo sdoganamento del suprematismo bianco da parte dei politici mainstream e conservatori. Pertanto, tendono a prevalere poteri governativi sempre più intolleranti ai loro limiti e alle contestazioni, che cercano di imporre la “ragione di Stato” (declinata nella logica di un “capitalismo di guerra”) e di restringere gli spazi democratici di discussione e contestazione, garantiti dai diritti costituzionali, attraverso atti riconducibili a forme di violenza istituzionale che vanno dalle manganellate e criminalizzazione degli studenti all’imposizione del bavaglio di opinioni di dissenso e alle querele per diffamazione contro la critica politica.[↩]
- Lo storico Sven Beckert nel suo libro capolavoro L’impero del cotone. Una storia globale (Einaudi, Torino 2023) ha usato il termine “capitalismo di guerra” per definire la strategia utilizzata dalle potenze europee per estendere e consolidare il loro dominio dopo il 1492 e creare le precondizioni per il capitalismo industriale (nato nel 1780). Misero in moto un insieme di processi sociali, politici ed economici profondamente radicati basati sulla militarizzazione del commercio, la conquista violenta, il brutale furto e saccheggio di risorse, l’espropriazione massiccia delle terre, il genocidio di centinaia di milioni di persone delle popolazioni indigene colorate e la schiavitù di milioni di africani. Il “capitalismo di guerra” era un sistema che poggiava sull’uso della forza armata da parte degli Stati europei per riconfigurare le altre società del mondo in funzione dei propri interessi (accumulazione di grandi ricchezze e nuove competenze e rafforzamento di istituzioni e Stati europei). Per questo l’Occidente ha una storia condivisa di brutalità che ne ha plasmato istituzioni, identità e ideologia (su questo tema si veda il mio libro: Suprematismo bianco. Alle radici di economia, cultura e ideologia della società occidentale, DeriveApprodi, Roma 2023). Una strategia di espansione e dominio che è continuata fino ai nostri giorni utilizzando il neocolonialismo e il cosiddetto “metodo Giacarta” (si veda qui e qui), un programma che prevede omicidi di massa e mirati degli oppositori, “cambi di regime” e altre ingerenze coercitive (come violazioni del diritto internazionale, interventi militari, terrorismo, sabotaggi finanziari, sanzioni unilaterali, embarghi e propaganda) nei confronti di paesi del Sud del mondo. L’attuazione di un programma che spesso ha visto e vede il contemporaneo intervento militare di governi nazionali in partnership (con il sostegno militare diretto) con le maggiori potenze occidentali. L’obiettivo di fondo è sempre lo stesso: far rimanere concentrato nel Nord globale il potere, insieme al processo decisionale, all’allocazione delle risorse e alla produzione di conoscenza. Dietro l’attuale spinta verso un “capitalismo di guerra” c’è un rilancio della strategia imperialista degli Stati Uniti e degli altri paesi dell’Occidente (si veda il nostro articolo qui) teso ad evitare il loro declino egemonico, soprattutto economico e commerciale. Come argomenta Emiliano Brancaccio nel saggio Le condizioni economiche per la pace (Mimesis, Milano 2024), siamo di fronte ad una feroce controffensiva combattuta con armi militari, protezionistiche, finanziarie e politiche che ha l’obiettivo di cercare di controllare e dominare economicamente e militarmente il maggior numero possibile dei paesi del Sud globale che cercano di liberarsi dalle catene del neocolonialismo (indipendenza politica nominale e subordinazione economica quasi totale) e dell’estrattivismo (uno sfruttamento di tipo predatorio di popolazioni e risorse naturali esercitato attraverso i monopoli sulla tecnologia e sulle materie prime, nonché il dominio sugli investimenti diretti esteri) per tentare di recuperare e gestire le proprie risorse. È con il “capitalismo di guerra” – con tattiche modellate in parte dalla modernizzazione della guerra ibrida, che comprende leggi, iper-sanzioni unilaterali, sequestro di riserve monetarie e beni nazionali e altri modi di guerra, oltre che militare, anche non militare – che l’Occidente prova a ricacciare i 145 paesi del Sud del mondo – Cina compresa – in una condizione di subalternità e di sfruttamento.[↩]