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Capitalismo di guerra. La guerra e la paura della guerra spingono la spesa militare globale a un nuovo record

di Alessandro
Scassellati

Il Rapporto del SIPRI ha accertato che nel 2023 si è stabilito un nuovo massimo di 2,44 trilioni di dollari per le spese militari globali. Per la prima volta, la spesa militare pubblica è aumentata in tutte e cinque le regioni geografiche del mondo (Africa, Europa, Medio Oriente/Asia, Oceania e Americhe). È il nono aumento annuale consecutivo. Insieme, secondo il SIPRI, i primi cinque maggiori spender militari – Stati Uniti, Cina, Russia, India e Arabia Saudita – hanno rappresentato il 61% delle spese militari globali. Il SIPRI suggerisce che la tendenza al riarmo continuerà. Siamo immersi nella transizione verso un capitalismo di guerra.

Lo scorso anno il mondo ha speso 2,44 trilioni di dollari (pari a 2.293 miliardi di euro) nelle forze militari, la cifra più alta mai registrata dallo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI). Il SIPRI monitora le spese militari dal 1949 e nel suo rapporto annuale pubblicato lunedì ha certificato che nel 2023 esse sono aumentate al 2,3% del prodotto interno lordo (PIL) globale dal 2,2% dell’anno precedente (qui il documento integrale)1.

Ciò significa che lo scorso anno ogni uomo, donna e bambino sul pianeta è stato tassato in media per le spese militari per un ammontare pari a 306 dollari: l’aliquota più alta dai tempi della Guerra Fredda. L’aumento della spesa corrisponde esattamente al tasso globale di inflazione del 6,8%, quindi non si traduce necessariamente in una maggiore efficacia militare ovunque. Ma come ha affermato il SIPRI, la spesa non è stata distribuita equamente perché “la spesa militare mondiale è altamente concentrata in un gruppo molto ristretto di Stati”. Anche il tasso di aumento delle spese militari è stato disomogeneo, con i bilanci europei in forte aumento a causa della guerra in Ucraina2.

Gli Stati Uniti restano il paese che spende di più con 916 miliardi di dollari, pari al 37% delle spese militari mondiali3. La Cina è arrivata seconda con una stima di 296 miliardi di dollari. La Russia è terza con 109 miliardi di dollari, sebbene il SIPRI consideri questa cifra una sottostima “a causa della crescente opacità delle autorità finanziarie russe dopo l’invasione su vasta scala dell’Ucraina nel 2022”. In un contesto di crescenti tensioni con Cina e Pakistan, la spesa militare dell’India è arrivata quarta con 83,6 miliardi di dollari, aumentando del 4,2% rispetto al 2022 e del 44% rispetto al 2014, e riflettendo un aumento del personale e dei costi operativi4.

Il confronto globale tra le maggiori potenze nucleari – Stati Uniti, Russia e Cina – nel contesto delle guerre in corso in Ucraina e Palestina e delle crescenti tensioni su Taiwan, i mari della Cina orientale e meridionale, sta aumentando la possibilità che le armi nucleari possano essere effettivamente utilizzate, anche se accidentalmente, soprattutto se sul terreno esiste uno squilibrio tra le forze militari convenzionali delle parti in conflitto. Lo spettro della distruzione reciproca assicurata incombe enorme, ricordandoci che il confine tra pace e conflitto catastrofico è sottilissimo. Qualsiasi conflitto tra le maggiori potenze dotate di armi nucleari potrebbe degenerare in uno scambio catastrofico e su larga scala che potrebbe rappresentare una minaccia esistenziale non solo per loro ma anche per l’intera umanità (si veda il nostro articolo qui). D’altra parte, oltre alla minaccia della distruzione atomica, c’è da considerare il grande salto in avanti nella tecnologia con l’irruzione dell’intelligenza artificiale nei sistemi militari e l’allargamento dei conflitti allo spazio, ai cyberattacchi5 e all’universo sottomarino (ai cavi per la connessione a internet e ai gasdotti).

I belligeranti

L’Ucraina ha aumentato la spesa militare del 51% portandola a 64,8 miliardi di dollari (comunque equivalente solo al 59% della spesa militare russa nel 2023), esclusi 35 miliardi di dollari in donazioni in forniture militari da parte degli alleati occidentali6. Ciò significa che è diventata l’ottavo Paese per spesa militare più grande al mondo e che sta dedicando il 37% del suo PIL e quasi il 60% di tutta la spesa pubblica al settore militare, secondo il SIPRI. Nonostante gli aiuti finanziari da parte di Europa, Stati Uniti e Fondo Monetario Internazionale, si è trattato di un’impresa notevole dato che l’Ucraina ha perso sette milioni di contribuenti e, secondo i dati della Banca Mondiale, un quinto della sua produzione economica nel 2022, il primo anno di guerra.

Il prezzo da pagare per la società russa è stato molto più basso. L’anno scorso, la Russia ha aumentato la spesa militare del 24%, raggiungendo il 6,9% del suo Pil e il 16% di tutta la spesa pubblica. Anche se questo è stato il più grande budget militare da quando l’Unione Sovietica è stata dissolta tre decenni fa, l’economia russa è cresciuta di quasi il 22%, grazie agli elevati ricavi dalle esportazioni di energia, conferendo resilienza alla sua economia.

La Russia aveva già aumentato le spese militari del 9% nel 2022. Il fatto che abbia poi previsto un aumento del 21% nel 2023 e in realtà abbia aumentato la spesa del 24% suggerisce che è stata continuamente sorpresa dalla durata della guerra e dal prezzo della resistenza ucraina sulle sue forze armate. Il suo budget per il 2024 prevede un aumento ancora maggiore – il 70% sulla spesa militare e la sicurezza – fino a 157 miliardi di dollari, ha riferito l’agenzia di stampa Reuters.

Gli attacchi di Hamas al sud di Israele il 7 ottobre e la guerra di Israele a Gaza hanno portato lo scorso anno ad un massiccio aumento del 24% del budget militare in Israele, portandolo a 27,5 miliardi di dollari, pari al 5,3% del suo PIL7. Anche l’Arabia Saudita ha aumentato significativamente la spesa8. Lo scorso anno i due paesi hanno contribuito ad un aumento del 9% del bilancio militare in Medio Oriente, il più grande aumento annuale degli ultimi dieci anni. Il Medio Oriente sostiene anche il maggior onere militare al mondo in percentuale del PIL. Con il 4,2%, è quasi il doppio della media mondiale, seguito da Europa (2,8%), Africa (1,9%), Asia e Oceania (1,7%) e Americhe (1,2%).

La trasformazione in Europa. Il passaggio da un capitalismo di pace ad un capitalismo di guerra

La guerra su vasta scala della Russia in Ucraina ha portato i membri europei della NATO ad aumentare i budget militari del 16% lo scorso anno, portandoli a 588 miliardi di dollari 9. Ciò significa che spendono in media il 2,8% del PIL per gli eserciti, afferma il SIPRI, superando la soglia del 2% fissata dalla NATO nel 2014, sebbene tale livello di spesa non sia condiviso da tutti i membri. L’aumento è stato in parte volto ad aiutare l’Ucraina ma anche ad aumentare le scorte.

I decisori europei “hanno una tripla pressione in questo momento”, ha detto il direttore del SIPRI Dan Smith. “Percepiscono che le loro scorte militari sono inadeguate di fronte alla sfida che percepiscono dalla Russia”. Ciò significa che devono “riportare le scorte a quello che erano prima, … inoltre devono continuare ad equipaggiare l’Ucraina”. Ciò ha portato ad alcuni aumenti di spesa militare spettacolari nel continente.

La Polonia ha guidato la classifica con un aumento del 75% lo scorso anno, investendo il 3,9% del suo PIL nel settore militare. Ciò è servito in parte a finanziare un programma completo di modernizzazione da 2 miliardi di dollari delle sue forze armate sotto la guida degli Stati Uniti, ma anche a rivedere e aumentare massicciamente il suo arsenale. Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina, la Polonia ha ordinato 500 lanciarazzi HIMARS alla Lockheed Martin, 250 carri armati Abrams alla General Dynamics, nonché lanciarazzi, carri armati, obici e aerei da combattimento dalla Corea del Sud. Nel 2020, ha firmato un accordo da 4,6 miliardi di dollari per gli aerei da caccia multiruolo F-35 di Lockheed Martin.

Anche la Finlandia, che condivide il confine più lungo della NATO con la Russia (1.340 km), ha aumentato massicciamente la spesa per le forze militari del 54%, al 2,4% del suo PIL. Anch’essa ha acquistato l’F-35 come jet di prossima generazione e sistemi di difesa aerea, triplicando le spese di approvvigionamento in un anno.

Altri stati del Nord Europa e del Mar Baltico hanno aumentato massicciamente la spesa nell’ultimo anno, con il Regno Unito in testa alla regione con un aumento del 7,9% lo scorso anno.

La spesa militare della Germania

In contrasto con questo quadro c’è la Germania, che ha faticato a spendere qualcosa che si avvicinasse al 2% richiesto dalla NATO. Quando la Cancelliera Angela Merkel lasciò l’incarico nel dicembre 2021, era riuscita ad aumentare la spesa militare all’1,33% del PIL dopo ripetute pressioni da parte degli Stati Uniti. Dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, due mesi dopo il 22 febbraio 2022, il cancelliere Olaf Scholz ha dichiarato che avrebbe investito 100 miliardi di euro in più nel settore militare, portando la Germania oltre la soglia del 2%. Eppure, l’anno scorso, la Germania ha speso solo l’1,5% del suo PIL, nonostante un aumento del 9% del suo bilancio militare, pari a 66,8 miliardi di dollari.

Scholz ha promesso di superare la soglia del 2% quest’anno, ma Smith non pensa che ciò accadrà. “Si tratterebbe di un aumento di più di un terzo della spesa militare in un solo anno, e per un paese come la Germania, questa non è una prospettiva molto probabile“, ha detto Smith, citando “il tetto del deficit, altre priorità interne alla [Germania], la velocità con cui le grandi istituzioni possono muoversi”. La costituzione tedesca vieta ai suoi governi di creare deficit annuali superiori allo 0,35% del PIL – richiedendo essenzialmente il pareggio di bilancio. La Corte costituzionale federale ha sospeso tale norma per due anni dopo la pandemia di CoVid-19, considerata un’emergenza nazionale, ma poi è rapidamente tornata a richiederne una rigorosa applicazione. L’anno scorso, ha vietato al governo di Scholz di spostare 60 miliardi di euro di fondi di soccorso pandemici inutilizzati per accelerare la transizione della Germania verso le energie rinnovabili (si veda il nostro articolo qui). Si tratta di un problema non semplice da risolvere perché è legale, politico e industriale.

Secondo le classi dirigenti europee e tedesche un programma di riarmo su vasta scala può essere utile per riconvertire l’industria automobilistica europea che minaccia di diventare un peso insostenibile (alla luce della concorrenza cinese nell’auto elettrica e dei mega-sussidi approvati dall’amministrazione Biden come incentivo al trasferimento negli Stati Uniti), e la cui fine potrebbe innescare dinamiche incontrollabili, come già visto negli Stati Uniti con Trump e nel Regno Unito con la Brexit, due fenomeni politici che hanno avuto radice e forza nel disagio irrisolto dell’ex classe operaia. Una ristrutturazione di questo settore industriale (come di altri) che si scontra contro i limiti attuali dell’Unione Europea che non ha una politica fiscale e di bilancio comune, non ha una politica industriale, almeno ufficialmente, e con il fatto che le stesse Germania e Francia sono ormai troppo deboli per incidere su processi economici e produttivi internazionali. Non è certo un caso che per la prossima Commissione si facciano i nomi di Mario Draghi, o della presidente della BCE Christine Lagarde, o di quella del FMI Kristalina Georgieva: “tecnici” dal profilo istituzionale e garanti di ampi equilibri politici e finanziari che verrebbero assoldati per gestire una svolta tanto profonda e fondamentale, che non avverrà senza contrasti o tensioni.

La Russia viene percepita come una “minaccia esistenziale ” dalle élite della UE

I dati del SIPRI mostrano che, in termini di riconoscimento della Russia come minaccia strategica, i soldi sono diminuiti e aumentati in tempi diversi per i diversi governi europei. Dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014, la Lettonia, che confina con la Russia, ha avviato massicci aumenti annuali del budget militare, quasi triplicando la spesa portandola a 822 miliardi di dollari nel 2022. Una storia simile è avvenuta nella vicina Lituania, che confina con il territorio russo di Kaliningrad, e ha quasi quadruplicato la spesa portandola a 1,7 miliardi di dollari nel 2022. La Romania, che confina con l’Ucraina, ha raddoppiato la sua spesa militare in quel periodo portandola a oltre 5 miliardi di dollari.

Negli ultimi dieci anni, oltre all’Ucraina, tre dei quattro paesi che più hanno incrementato la propria spesa militare sono confinanti con il blocco Russia-Bielorussia o con l’Ucraina: Polonia (+181%), Danimarca (+108%), Romania (+95%) e Finlandia (+ 92%). La spesa UE aumentata del 50% dal 2014 (quasi 295,2 miliardi di euro; +20% sul 2022).

La vicinanza della percepita minaccia russa potrebbe spiegare perché lo scorso anno la spesa militare è aumentata del 31% nell’Europa orientale, triplicando il tasso dell’Europa centrale e occidentale. La spesa dell’Europa orientale è stata generalmente più elevata in proporzione al PIL rispetto all’Europa occidentale perché le economie sono più piccole e la percezione della minaccia è più elevata. La Grecia, ad esempio, mantiene un bilancio militare pari al 3,7% del suo PIL a causa della minaccia percepita dalla vicina Turchia.

Con l’eccezione della Germania, però, l’Europa occidentale si è lentamente avvicinata al punto di vista orientale. Il Regno Unito e la Francia considerano la Russia come una minaccia. La posizione ufficiale dell’UE è allineata a quella dell’Europa orientale. “È in gioco anche la sicurezza dell’UE”, ha scritto su X il capo della politica estera dell’UE, Josep Borrell (quello che ha definito il mondo non occidentale come “la giungla”), dopo una riunione del G7. “La Russia rappresenta una minaccia esistenziale per noi”. Dal 24 febbraio 2022, le élite dell’Unione Europea hanno cercato di definire la loro figura pubblica e legittimare il proprio declinante consenso e mantenimento del potere con la capacità di opporsi alla Russia10. Mentre le istituzioni europee e molti governi nazionali ammorbidiscono le norme sulla transizione energetica ed ecologica, e tagliano o rinviano sugli impegni presi in precedenza in questo senso, l’Agenda strategica 2025-29 presentata dal Presidente del Consiglio Europeo Charles Michel in aprile già recepisce e contiene la svolta militare. Il paradosso è che la svolta militare dell’UE avviene senza che l’UE abbia una difesa comune, o almeno una politica estera comune. Cioè senza che si possa individuare una esatta responsabilità in questo processo, cosa che rende quasi impossibile per la cittadinanza europea essere informata al riguardo e in grado di giudicare. Si costruiscono armi per la dissuasione e la deterrenza, armi per la famosa “autonomia strategica”, oppure armi per preparare l’Europa a una guerra su larga scala, dovessero i progetti di allargamento all’Ucraina, alla Moldavia o alla Georgia comportare reazioni militari di altre potenze interessate a proiettarsi su quelle regioni?

Capitalismo di guerra

Lo storico Sven Beckert nel suo libro capolavoro L’impero del cotone. Una storia globale (Einaudi, Torino 2023) ha usato il termine “capitalismo di guerra” per definire la strategia utilizzata dalle potenze europee per estendere e consolidare il loro dominio dopo il 1492 e creare le precondizioni per il capitalismo industriale (nato nel 1780). Misero in moto un insieme di processi sociali, politici ed economici profondamente radicati basati sulla militarizzazione del commercio, la conquista violenta, il brutale furto e saccheggio di risorse, l’espropriazione massiccia delle terre, il genocidio di centinaia di milioni di persone delle popolazioni indigene colorate e la schiavitù di milioni di africani. Il “capitalismo di guerra” era un sistema che poggiava sull’uso della forza armata da parte degli Stati europei per riconfigurare le altre società del mondo in funzione dei propri interessi (accumulazione di grandi ricchezze e nuove competenze e rafforzamento di istituzioni e Stati europei). Per questo l’Occidente ha una storia condivisa di brutalità che ne ha plasmato istituzioni, identità e ideologia (su questo tema si veda il mio libro: Suprematismo bianco. Alle radici di economia, cultura e ideologia della società occidentale, DeriveApprodi, Roma 2023).

Una strategia di espansione e dominio che è continuata fino ai nostri giorni utilizzando il neocolonialismo e il cosiddetto “metodo Giacarta”, un programma che prevede omicidi di massa e mirati degli oppositori, “cambi di regime” e altre ingerenze coercitive (come violazioni del diritto internazionale, interventi militari, terrorismo, sabotaggi finanziari, sanzioni unilaterali, embarghi e propaganda) nei confronti di paesi del Sud del mondo (si veda qui e qui) 11. L’attuazione di un programma che spesso ha visto e vede il contemporaneo intervento militare di governi nazionali in partnership (con il sostegno militare diretto) con le maggiori potenze occidentali. L’obiettivo di fondo è sempre lo stesso: far rimanere concentrato nel Nord globale il potere, insieme al processo decisionale, all’allocazione delle risorse e alla produzione di conoscenza.

Come spiega Laleh Khalili in un articolo nella «London Review of Books», l’economia coloniale estrattiva (ossia il “capitalismo di guerra” evocato da Beckert) non è mai finita. Continua, ad esempio, attraverso multinazionali e traders di materie prime che lavorano con borghesie compradore, cleptocrati e oligarchi locali, appropriandosi delle risorse dei paesi poveri senza pagare quello che realmente valgono, con l’aiuto di strumenti intelligenti come i «prezzi di trasferimento» intra-aziendali (in cui diverse parti di un’impresa si vendono reciprocamente input in modo che la sede fiscale possa segnalare una perdita), inversioni abilitate dallo Stato (dove un’azienda riduce le sue tasse cambiando di nazionalità) e la tassazione «sandwich» (dove le aziende possono spostare le royalty offshore attraverso paesi che non hanno ritenute alla fonte). Persiste attraverso l’uso di «paradisi fiscali offshore», società di comodo, trust e altri veicoli e regimi di segretezza – abilitati da governi (a cominciare da quelli euro-americani), banchieri, avvocati, global corporations della consulenza strategica (consulting firms), commercialisti e agenti immobiliari – da parte di élites corrotte, che drenano la ricchezza della loro nazione (compresi i proventi di traffico di droga e di esseri umani, traffico di armi, corruzione e frode) e la riciclano in «fondi onshore», la cui vera proprietà è nascosta da società anonime di comodo offshore.

Il saccheggio, la frode e la distruzione da parte del capitalismo infuriano ancora oggi in tutto il mondo, bruciando persone, foreste e altri sistemi ecologici, mentre il mondo è investito da una crisi alimentare per cui il numero delle persone minacciate dalla fame non è mai stato così alto. Sebbene il denaro che accende il fuoco distruttore possa essere nascosto anche attraverso ciniche azioni di greenwashing, si può vederlo incenerire ogni territorio che dispone ancora di ricchezze naturali non sfruttate: l’Amazzonia, il Cerrado, la Pampa, il Pantanal, il Gran Chaco, l’Africa centrale, le aree forestali indiane e sudest asiatiche, la Papua occidentale. È un processo metastatico, per cui quando il capitale esaurisce la terra da bruciare, rivolge la sua attenzione al fondo dell’oceano e inizia a speculare sullo spostamento nello spazio. I saccheggi e i disastri ecologici locali iniziati con le ondate coloniali ora proseguono con landgrabbing e watergrabbing anche da parte di nuove potenze economiche e finanziarie e si stanno fondendo in un disastro globale. Tutti noi siamo reclutati sia come consumatori sia come consumati, distruggendo i nostri sistemi di supporto vitale per conto di oligarchi che tengono i loro soldi e la loro moralità altrove, nei conti bancari e nelle società anonime parcheggiate nei «paradisi fiscali».

L’aumento delle spese militari soprattutto nei paesi occidentali, sotto l’ombrello della NATO, e altrove, aumenta il rischio di una conflagrazione involontaria. Secondo il SIPRI, l’aumento senza precedenti della spesa militare è una risposta diretta al deterioramento globale della pace e della sicurezza12.

I due maggiori paesi che spendono nel settore militare – Stati Uniti (37%) e Cina (12%) – hanno rappresentato circa la metà della spesa militare globale nel 2023, aumentando le loro spese rispettivamente del 2,3% e del 6%. Il governo degli Stati Uniti ha speso il 9,4% in più in “ricerca, sviluppo, test e valutazione” rispetto al 2022, poiché Washington ha cercato di rimanere in prima linea negli sviluppi tecnologici. Stati Uniti e Cina stanno dando priorità alla forza militare, ma rischiano una spirale di azione-reazione nel panorama geopolitico e di sicurezza sempre più instabile.

Dal 2014, quando la Russia ha invaso la Crimea e la regione orientale del Donbas in Ucraina, gli Stati Uniti hanno spostato la propria attenzione dalle operazioni di controinsurrezione e dalla guerra asimmetrica allo “sviluppo di nuovi sistemi d’arma che potrebbero essere utilizzati in un potenziale conflitto con avversari dotati di forze armate con capacità avanzate” (altre grandi potenze), secondo il rapporto del SIPRI.

Sebbene piccola rispetto agli Stati Uniti in termini di spesa militare (296 miliardi di dollari nel 2023), la Cina, essendo il secondo maggiore spender al mondo, l’ha aumentata del 6% rispetto al 2022. La Cina ha costantemente aumentato la spesa militare negli ultimi 29 anni, anche se i periodi di maggiore crescita sono stati negli anni ’90 e tra il 2003 e il 2014. Secondo SIPRI, la crescita a una cifra dell’ultimo anno riflette la performance economica più modesta della Cina negli ultimi tempi.

I cinesi sostengono di far crescere il loro settore militare come azione meramente difensiva in risposta ad una postura sempre più aggressiva degli Stati Uniti e dei loro alleati (Australia, Giappone, Corea del Sud, Filippine, Nuova Zelanda, paesi NATO, etc.) nell’area Indo-Pacifica in chiara funzione di deterrenza e contenimento della Cina (una postura corredata da una escalation di misure economiche e commerciali restrittive anti cinesi: dazi, blocchi dell’export di tecnologie, espulsioni dai mercati, ammonimenti, minacce e polemiche su Taiwan, “de-risking”, TikTok, sussidi di Stato, “sovracapacità” produttiva, spionaggio industriale e la vendita di componenti di armi e prodotti a duplice uso alla Russia)), dando avvio ad una nuova Guerra Fredda. A differenza di quanto accadeva mezzo secolo fa, quando il confronto si limitava alla disputa militare e ideologica con l’Unione Sovietica, il conflitto attuale si situa nel campo stesso della produzione e nella disputa per il controllo di materie prime e mercati di sbocco, nonostante negli Stati Uniti ci sia chi crede che la Cina abbia raggiunto il “picco” della sua crescita. Per quattro decenni, l’Occidente neoliberale ha puntato sulla creazione di una società postindustriale finanziarizzata, delocalizzando le produzioni industriali in territori dove la forza lavoro a basso costo era abbondante come la Cina. Il Sud-Est asiatico è così diventato l’epicentro della produzione industriale e l’area geografica dove attualmente l’innovazione e la produttività del lavoro raggiunge il livello più alto. Nel 2022, la Cina deteneva una quota del 25,7% della produzione industriale globale contro il 9,7% degli USA. Il successo economico della Cina, il suo sviluppo scientifico-tecnologico e la sua strategia di cooperazione basata sul rispetto reciproco hanno messo gli Stati Uniti sul piede di guerra13. Alcuni politici e analisti statunitensi stanno accusando la Cina di essere l’architrave di una nuova edizione dell’”asse del male” (evocato da Bush qualche decennio fa), comprendente Cina, Russia e Iran, pronto per una prova di forza contro l’Occidente.

Nel contesto geografico Indo-Pacifico, come altrove, sono soprattutto, gli Stati Uniti a rappresentare il maggior pericolo per la pace nel mondo, continuando ad alimentare tensioni e conflitti in tutte le aree di principale frizione (in Europa, Medio Oriente e nelle periferie africane e asiatiche della geopolitica) di quella che Papa Francesco ha definito ormai da anni come “la terza guerra mondiale a pezzi”. Sono soprattutto gli Stati Uniti che si trovano ad un bivio. Non possono “disaccoppiarsi” dall’economia cinese perché molte delle aziende statunitensi vi hanno fatto grandi investimenti di capitali e dipendono dalle sue catene di valore globali per la riconversione ambientale, soprattutto in relazione a terre rare, batterie, auto elettriche e pannelli solari. Sebbene la produttività cinese non possa essere emulata dall’Occidente, il governo di Washinton è costretto a tagliare, limitare o restringere i legami di mercato per impedire a Pechino di continuare ad espandere e consolidare la propria economia. La nuova Guerra Fredda contro la Cina finisce anche per assumere connotati ibridi nello stesso momento in cui il Sud del mondo si va strutturando sempre più in un blocco con al centro organizzazioni multilaterali e regionali come il BRICS+, l’OPEC+, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai e il CELAC, diventando così più difficilmente separabile nonostante le blandizie o le minacce dell’Occidente che agisce come un blocco militare, economico e politico integrato (NATO, G7, Unione Europea, Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Fourteen Eyes, sistemi di informazione, Bilderberg e Trilateral Commission)14. È lo sgretolamento della Pax Americana e del cosiddetto «ordine internazionale basato sulle regole» che era venuto consolidandosi a partire dalla seconda metà del XX secolo sulla scia prima della dissoluzione degli imperi britannico, francese e di altri paesi europei, e poi del collasso dell’Unione Sovietica nel 1991.

Stiamo subendo le conseguenze di un approccio militarista alle relazioni internazionali e alle emergenze globali, imposto dai Paesi del Nord” denuncia la Rete Pace Disarmo, ricordando anche “i danni ambientali” derivanti dai conflitti e dalla militarizzazione. Basta pensare che nel 2023 i 31 membri della NATO, l’alleanza militare guidata dagli Stati Uniti, hanno speso un totale di 1,34 trilioni di dollari, pari al 55% della spesa militare mondiale e che da soli gli Stati Uniti coprono il 68% della spesa militare totale della NATO.

Dietro l’attuale capitalismo di guerra c’è un rilancio della strategia imperialista degli Stati Uniti e degli altri paesi dell’Occidente (si veda il nostro articolo qui) teso ad evitare il loro declino egemonico, soprattutto economico e commerciale15.

Come argomenta Emiliano Brancaccio nel saggio Le condizioni economiche per la pace (Mimesis, Milano 2024), siamo di fronte ad una feroce controffensiva combattuta con armi militari, protezionistiche, finanziarie e politiche che ha l’obiettivo di cercare di controllare e dominare economicamente e militarmente il maggior numero possibile dei paesi del Sud globale che cercano di liberarsi dalle catene del neocolonialismo (indipendenza politica nominale e subordinazione economica quasi totale) e dell’estrattivismo (uno sfruttamento di tipo predatorio di popolazioni e risorse naturali esercitato attraverso i monopoli sulla tecnologia e sulle materie prime, nonché il dominio sugli investimenti diretti esteri) per tentare di recuperare e gestire le proprie risorse. Per la prima volta in oltre 500 anni esiste un’alternativa economica e politica non bianca credibile al dominio degli affari mondiali da parte degli europei e dei loro discendenti Stati coloniali di coloni bianchi, come gli Stati Uniti o il Canada e l’Australia. Il primo è il gruppo socialista guidato dalla Cina. In secondo luogo, ci sono le crescenti aspirazioni alla sovranità nazionale, alla modernizzazione economica e al multilateralismo, che emergono dal Sud del mondo16.

È con il capitalismo di guerra – con tattiche modellate in parte dalla modernizzazione della guerra ibrida, che comprende leggi, iper-sanzioni unilaterali, sequestro di riserve e beni nazionali e altri modi di guerra, oltre che militare, anche non militare – che l’Occidente prova a ricacciare i 145 paesi del Sud del mondo – Cina compresa – in una condizione di subalternità e di sfruttamento. La sopravvivenza dell’umanità è in pericolo a causa dell’incapacità dell’Occidente di venire a patti con la propria lenta agonia politica, sociale e morale come blocco dominante nel mondo e di accettare la trasformazione di un mondo multipolare e policentrico. Si è aperta una nuova fase storica, quella della “globalizzazione selettiva” basata su una frammentazione dell’economia-mondo in blocchi geopolitici e geoeconomici in via di «disaccoppiamento» – un blocco euro-atlantico con i suoi satelliti in Asia orientale e Oceania e un blocco euro-asiatico in formazione – che esprimono diversi modelli di sviluppo capitalistico e di rapporti strutturali tra sistema tecnologico e finanziario e sistema sociale e politico, e sono in forte competizione tra loro per la supremazia economica (integrazione e controllo di risorse strategiche, supply chains e mercati), politico-militare (sfere di influenza) e culturale (egemonia ideologica e soft power).

Dovremmo tutti essere più consapevoli di quanto profonda, estesa e complessa sia la crisi che oggi investe il pianeta. È una crisi onnicomprensiva e onnipresente, in cui geopolitica, capitalismo, crisi finanziarie, conflitti armati, disuguaglianze socio-economiche, cambiamenti climatici e divisioni razziali, etniche e religiose si intrecciano, alimentandosi e potenziandosi a vicenda in una spirale sempre più catastrofica. Da questo punto di vista il rapporto del SIPRI è uno strumento che ci aiuta interpretare e a «mettere in ordine» il caos globale, ossia a costruire un quadro interpretativo e una narrativa che sia in grado di comprendere l’apparente anarchica condizione presente del mondo.

Purtroppo l’Occidente, immerso nel panico e nell’ansia, continua perseguire una linea autoreferenziale di fuga dalla realtà e di militarizzazione della politica estera (in una fase che nell’Unione Europea coincide con la crisi industriale e la sempre minore competitività del continente) che finisce per avere effetti diretti anche sulle vite democratiche interne dei diversi paesi. Fa affidamento sulla combinazione dell’aggressione esterna con un’agenda interna sempre più repressiva (con un nuovo maccartismo e un rinnovato autoritarismo, proto-fascismo e razzismo spinto dallo sdoganamento del suprematismo bianco da parte dei politici mainstream e conservatori). Pertanto, tendono a prevalere poteri governativi sempre più intolleranti ai loro limiti e alle contestazioni che cercano di imporre la “ragione di Stato” (declinata nella logica del capitalismo di guerra) e di restringere gli spazi democratici di discussione e contestazione, garantiti dai diritti costituzionali, attraverso atti riconducibili a forme di violenza istituzionale che vanno dalle manganellate e criminalizzazione degli studenti all’imposizione del bavaglio di opinioni di dissenso e alle querele per diffamazione contro la critica politica.

Alessandro Scassellati

  1. Nel database SIPRI manca la Corea del Nord, paese con armi nucleari di cui non esistono cifre ufficiali sulla spesa militare. Secondo stime statunitensi, spenderebbe per le forze armate il 16% del PIL che però equivale a meno di 5 miliardi di euro l’anno, trattandosi di un Paese decisamente povero.[]
  2. Il maggiore aumento percentuale della spesa militare di qualsiasi paese nel 2023 è stato registrato dal governo della Repubblica Democratica del Congo (+105%), che è coinvolto in un conflitto di lunga durata con gruppi armati non statali, soprattutto nell’est del paese, e in continue tensioni con il Rwanda. Il governo ha deciso di rafforzare le forze armate dopo il ritiro anticipato di una missione di pace su larga scala delle Nazioni Unite. Il Sud Sudan ha registrato il secondo aumento percentuale maggiore (+78%). Già nel 2022 c’era stato un incremento del 108%. Una crescita che può essere attribuita all’escalation di violenza interna e alle sfide di sicurezza dovute alla guerra civile scoppiata nel vicino Sudan (si veda il nostro articolo qui). I soldi investiti nel settore militare sono sottratti a un esiguo bilancio pubblico che probabilmente non consentirà a Giuba di convocare le elezioni a fine anno. Nel Nordafrica, la spesa militare è stata di 28,5 miliardi di dollari, con un aumento del 38% rispetto al 2022 e del 41% rispetto al 2014. L’Algeria e il Marocco sono di gran lunga i paesi regionali più coinvolti. Insieme rappresentano l’82% dell’ammontare complessivo. Anche se è Algeri a vantare i numeri più significativi: una crescita del 76% con una spesa totale di 18,3 miliardi di dollari. Si tratta del livello più alto mai registrato dall’Algeria e del maggiore incremento annuale dal 1974. Una crescita favorita da un cospicuo incremento delle entrate derivante dalle esportazioni di gas verso i paesi europei (soprattutto l’Italia), costretti a rivolgersi al paese nordafricano dopo il blocco dell’importazione dalla Russia. Il SIPRI ritiene che l’uso dell’esercito per combattere le bande organizzate sia un fattore di aumento della spesa in America Centrale e nei Caraibi, dove la spesa è stata superiore del 54% nel 2023 rispetto al 2014. La spesa della Repubblica Dominicana è aumentata del 14% in risposta al peggioramento della violenza delle bande armate nella vicina Haiti (si veda il nostro articolo qui). La spesa ha raggiunto 11,8 miliardi di dollari in Messico, con un aumento del 55% rispetto al 2014, anche se leggermente in calo rispetto al 2022. Gli stanziamenti per la Guardia Nacional, una forza militarizzata utilizzata per frenare l’attività criminale, sono aumentati dallo 0,7% della spesa militare totale del Messico nel 2019, quando la forza è stata creata, all’11% l’anno scorso. L’uso dell’esercito per reprimere la violenza delle bande criminali armate è una tendenza in crescita nella regione da anni poiché i governi non sono in grado di affrontare il problema con mezzi convenzionali o preferiscono risposte immediate, spesso più violente.[]
  3. Una diversa analisi della spesa militare statunitense nel 2023 ha rilevato che anche il 62% del bilancio discrezionale federale del paese è andato a programmi militarizzati, lasciando meno della metà del budget per l’assistenza sanitaria, l’edilizia abitativa, l’assistenza nutrizionale, l’istruzione e altre priorità nazionali. In sostanza, secondo queste stime, gli Stati uniti spendono 1,537 trilioni di dollari per le forze armate all’anno, parte dei quali vanno a pagare circa 902 basi militari in tutto il mondo (alle quali si possono sommare le 145 basi militari britanniche conosciute).[]
  4. Gli analisti del SIPRI hanno notato che il 75% dell’esborso di capitale dell’India ha riguardato attrezzature prodotte internamente, il rapporto più alto mai registrato. L’India progredisce verso il suo obiettivo di diventare autosufficiente nello sviluppo e nella produzione di armi.[]
  5. L’utilizzo dell’intelligenza artificiale nel settore militare è ormai una realtà. Nessun esercito può permettersi di farne a meno. Cyberwarfare significa attacchi informatici, sensori, droni, sistemi di intelligenza artificiale, raccolta ed elaborazione automatica di informazioni, disinformazione e deep fake. Di recente si è cominciato a parlare di killer robots o LAWS (Lethal autonomous weapon system) per definire tutte quelle armi in grado di selezionare e attaccare un obiettivo senza alcun supporto umano. Una questione che pone una serie di dubbi morali ed etici perché, come sostiene Franco Bifo Berardi, “l’Intelligenza artificiale… è la tecnologia perfetta per realizzare lo scopo principale del nostro tempo: uccidere, sterminare”.[]
  6. Secondo il SIPRI, la spesa militare di Kiev è aumentata del 1.270% tra il 2014 e il 2023. Gli aiuti militari ricevuti da oltre 30 paesi sono inclusi nelle cifre di SIPRI. Mentre l’opinione pubblica è fortemente divisa, decine di migliaia di ebrei manifestano contro la guerra per un cessate e per porre fine agli aiuti militari statunitensi a Israele, e nelle università americane monta la protesta contro l’intervento militare di Israele a Gaza, con centinaia di arresti di studenti alla Columbia University, Yale, New York University, MIT, Tufts e California University Berkeley, il Congresso statunitense ha appena approvato (79 a 18 al Senato) un enorme pacchetto di aiuti militari, raccolti nei Security Supplemental Appropriations Acts. Si tratta di un pacchetto di tre leggi che prevede circa 95 miliardi di dollari di sostegno militare ai suoi alleati nelle più delicate aree di tensione internazionale. La fetta maggiore di questi fondi andrà, almeno nominalmente, all’Ucraina, 60,8 miliardi. In realtà, oltre 23 di questi resteranno negli Usa, per riempire gli arsenali svuotati dai precedenti aiuti, mentre il resto sarà diviso tra il finanziamento di operazioni statunitensi già in corso in Europa e acquisti di armi e servizi per l’Ucraina. Tra le armi che gli USA dovrebbero inviare a Kiev ci sono i missili ATACMS, con i quali gli ucraini potrebbero colpire in profondità in territorio russo. Nel pacchetto sono previsti anche quasi 8 miliardi che andranno, sottoforma di prestito, direttamente nel bilancio ucraino. Per sostenerlo ulteriormente, viene permesso al presidente di assegnare all’Ucraina anche gli assets russi congelati negli Stati Uniti (ulteriori 8 miliardi).[]
  7. Nel pacchetto di aiuti militari recentemente approvato dal Congresso degli Stati Uniti, accanto al provvedimento per l’Ucraina, ve ne sono altri due: uno per Israele e uno per l’Indo-Pacifico. Il primo raccoglie 26 miliardi per il conflitto in Medio Oriente, con oltre 5 miliardi per ripristinare al massimo della funzionalità lo scudo aereo e missilistico di Tel Aviv, dopo la ritorsione iraniana al terrorismo israeliano contro la sua ambasciata siriana. Di questa somma, 9 miliardi saranno di aiuti umanitari per Gaza. Il secondo, invece, è dedicato all’Indo-Pacifico e ammonta a 8 miliardi. Un quarto è per aiuti militari agli alleati della regione e in particolare a Taiwan, mentre 3,3 miliardi saranno usati per sviluppare le infrastrutture di sostegno alle flotte di sommergibili che operano nel quadrante.[]
  8. L’Arabia Saudita è al sesto posto nella classifica. Si ritiene che l’aumento della spesa dell’Arabia Saudita del 4,3%, a circa 75,8 miliardi di dollari, pari al 7,1% del PIL, sia stato alimentato dall’aumento della domanda di petrolio non russo e dall’aumento dei prezzi del petrolio dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Dopo Arabia Saudita, Israele e Turchia, l’Iran è stato il quarto paese per spesa militare in Medio Oriente. La sua spesa è aumentata marginalmente (+0,6%) a 10,3 miliardi di dollari. Il SIPRI afferma che la quota della spesa militare totale assegnata al Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica è in aumento almeno dal 2019.[]
  9. Nella classifica del SIPRI il Regno Unito (70,4 miliardi, +4,3%) figura al settimo posto, seguito da Germania (62,8 miliardi, +9%), Ucraina (60,9 miliardi, + 51%), Francia (57,6 miliardi, +6,5%). Poi, ci sono Giappone (47,2%, +11%), Corea del Sud (45 miliardi, +1,1%), Italia (33,3 miliardi, -5,9%), Australia (30,3 miliardi, -1,5%), Polonia (29,7 miliardi, +75%) e Israele (25,8 miliardi, +24%). Se è vero che la spesa militare italiana nel 2023 ha subito una flessione, dal 2014 è aumentata del 31% risultando pari all’1,6% del PIL. Le stime per il 2024 già raccontano di un balzo simile a quello in corso in tutto il mondo: la spesa militare italiana complessiva “diretta” per il 2024 sarà di circa 28,1 miliardi di euro, con un aumento di oltre 1.400 milioni rispetto alle medesime valutazioni effettuate sul 2023. Una crescita derivante soprattutto dagli investimenti in nuovi sistemi d’arma: sommando i fondi della Difesa destinati a tale scopo con quelli di altri Dicasteri nel 2024 per la prima volta l’Italia destinerà una cifra di circa 10 miliardi di euro agli investimenti sugli armamenti.[]
  10. La prossima Commissione avrà un responsabile per la Difesa, ha promesso l’attuale presidente. Proprio Ursula von der Leyen incarna nella sua vicenda personale l’intreccio politico militare ed economico che prende forma in Europa: per sei anni ministra della Difesa nei governi Merkel (2013-19, la prima donna in Germania a ricoprire questo incarico), durante i suoi mandati e grazie ai suoi rapporti con l’industria degli armamenti fu inclusa anche nel Consiglio del World Economic Forum, e fu presenza fissa e di raccordo tra i funzionari NATO e Bruxelles, vista la sua posizione di capo della Commissione Difesa del Partito popolare europeo, di cui coordinava gli incontri ai margini dei Consigli europei con i relativi ministri. Tra i primi atti della Commissione von der Leyen (2019) c’è la creazione di una Direzione Generale dedicata all’industria della difesa e allo spazio, la DG DEFIS, che finora ha fatto capo al Commissario per il Mercato interno Thierry Breton.[]
  11. Tra il 1776 e il 2019, gli Stati Uniti hanno effettuato almeno 392 interventi in 101 Paesi, metà dei quali tra il 1950 e il 2019. Le decisioni occidentali sono state storicamente guidate dal desiderio di far arretrare il comunismo e garantire il dominio del capitalismo liberale. Nel perseguire questo duplice obiettivo, gli Stati Uniti hanno offerto ai leader del Sud del mondo una scelta a somma zero: unirsi ad alleanze di difesa regionale guidate dall’Occidente e aprire la propria economia al capitale globale, oppure essere considerati un nemico. In nome del mantenimento della stabilità e della garanzia di un flusso ininterrotto di materie prime a buon mercato, le potenze occidentali hanno stretto patti del diavolo con gli autocrati e hanno contribuito attivamente al rovesciamento di governi non considerati amici e alla fine dei movimenti democratici. Solo nel 2022, i paesi occidentali hanno effettuato 317 dispiegamenti delle loro forze militari nei paesi del Sud del mondo. Il maggior numero di questi dispiegamenti (31) è stato effettuato in Mali, una nazione fortemente in cerca di sovranità, e che è stato il primo degli Stati del Sahel a organizzare colpi di Stato sostenuti dal popolo (2020 e 2021) e ad espellere l’esercito francese dal suo territorio (2022).[]
  12. Un dato dell’Organizzazione Mondiale del Commercio è rivelatore di questo deterioramento: nel 2023 il commercio mondiale è diminuito del 5%. Negli ultimi 50 anni una sua diminuzione si è verificata solo cinque volte: con crisi petrolifera nel 1975 e 1981, con l’esplosione della bolla internet nel 2001, con la crisi finanziaria nel 2009, e con il Covid nel 2022. La causa della diminuzione del commercio globale è il comportamento restrittivo provocato dai due conflitti di Ucraina e Gaza, ma anche dall’inflazione (e dall’aumento dei tassi d’interesse) che impattando sulla classe media ne blocca le scelte di consumo.[]
  13. Ogni anno dal 1992, la Cina è stata un esportatore netto di capitali e questo surplus di creazione di capitale ha permesso di finanziare grandi progetti internazionali come la ormai più che decennale Belt and Road Initiative – BRI (2013). Ora, quasi l’80% degli Stati membri dell’ONU partecipano alla BRI, rappresentando circa il 64% della popolazione mondiale, con le loro economie combinate che rappresentano il 52% del PIL mondiale (a parità di potere d’acquisto) nel 2022.[]
  14. I 145 paesi del Sud del mondo sono stati storicamente molto più disorganizzati, privi di coesione, di un’identità collettiva condivisa e di un’organizzazione e azione unificate, con alleanze e collegamenti deboli attorno alle affiliazioni regionali e politiche. Il Sud del mondo non ha né un centro politico né un progetto ideologicamente guidato. Non è un blocco (e certamente non è un blocco militare), ma un progetto emergente formato da diversi raggruppamenti, ognuno dei quali ha la propria logica. Ogni Paese ha realtà economiche (ci sono Paesi emergenti e Paesi poveri), capacità militari, sistemi politici e governi diversi ed eterogenei, spesso con tradizioni politiche contrastanti. Sebbene molti di questi Paesi condividano determinate caratteristiche e interessi, il concetto di Sud del mondo non è definito dai loro punti in comune, ma da una serie di fattori storici comuni: essere le ex colonie o semi-colonie del Nord del mondo, che hanno sofferto secoli di oppressione e umiliazione sotto il colonialismo, l’imperialismo moderno e il neocolonialismo.[]
  15. Nonostante costituiscano solo il 14,2% della popolazione mondiale, i 49 Paesi del Nord del mondo rappresentano il 40,6% del PIL mondiale basato sulla parità di potere d’acquisto. Controllando il capitale e la produzione di materie prime, proprietà intellettuale, scienza e tecnologia – tutti parte dell’eredità del colonialismo – gli Stati del Nord del mondo continuano a cercare di assicurarsi di accumulare una quota maggiore della ricchezza del pianeta. Alla fine della Guerra Fredda nel 1993, il Nord del mondo rappresentava il 57,2% del PIL globale, mentre il Sud del mondo rappresentava solo il 42,8%. Trent’anni dopo, queste proporzioni si sono invertite: la quota del Sud del mondo ha raggiunto il 59,4%, mentre quella del Nord del mondo si attesta al 40,6%.[]
  16. Quando i paesi del Nord del mondo, guidati dagli Stati Uniti, hanno chiesto ai Paesi del Sud del mondo di adottare la posizione della NATO sulla guerra in Ucraina (vale a dire isolare la Russia) o sulla guerra di Israele contro Gaza, questi ultimi hanno rifiutato, accusando l’Occidente di “doppi standard”. Molti osservatori ritengono che siamo ad “un punto di svolta della storia” che è esemplificato dal fatto che pochi Stati del Sud del mondo sono stati disposti a partecipare all’isolamento della Russia, rifiutandosi, ad esempio, di sostenere le risoluzioni occidentali nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Non tutti gli Stati che hanno rifiutato di unirsi all’Occidente nella sua crociata contro la Russia sono “antioccidentali” in senso politico; piuttosto, molti di essi sono guidati da considerazioni pratiche, come i prezzi scontati dell’energia e dei cereali della Russia. Sia che siano stufi di essere spinti dall’Occidente o che vedano opportunità economiche nelle loro relazioni con la Russia, sempre più paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina si sono rifiutati di capitolare alle pressioni provenienti da Washington per rompere i legami con la Russia. È proprio questo rifiuto che ha spinto il presidente francese Emmanuel Macron ad ammettere di essere “molto colpito da quanto stiamo perdendo la fiducia del Sud del mondo”. E ha spinto anche Giorgia Meloni a parlare ai leader di molti Stati africani, presentando in pompa magna il progetto governativo “Piano Mattei”, di “un nuovo modello di cooperazione nel quale dobbiamo tutti credere, perché può funzionare solamente se ci crediamo tutti quanti insieme, che è fondato sulla responsabilità, che è fondato sulla fiducia, che è fondato sul rispetto”.[]
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