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La produzione di armi danneggia anche l’economia

di Fabio
Alberti

C‘è un mito moderno che è duro a morire. Come per le leggende metropolitane non importa quanto i fatti lo contraddicano, esso sopravvive ad ogni evidenza, si autodimostra. È la falsa convinzione che gli investimenti in armamenti creino posti di lavoro e sviluppo e che la ricerca scientifica nel settore benefici tutta l’economia e che sia un settore fondamentale per l’intera economia italiana.

L’occasione per tornare sul tema viene dalla forte pressione della Commissione europea nei confronti degli stati ad aumentare sostanzialmente investimenti e produzione di armamenti nei prossimi anni e nella tendenza del nostro governo a seguire questa indicazione. Una scelta che danneggerebbe l’economia italiana.

Ma intanto cominciamo col dire che, contrariamente a quanto si pensa, il settore degli armamenti è un piccolo settore, con un fatturato complessivo valutato tra 15 e 20 miliardi di euro, che contribuisce al PIL del paese per meno del 1%; impiega (secondo la Federazione aziende italiane per l’aerospazio la difesa e la sicurezza) circa 30.000 lavoratori (lo 0,46% degli occupati in Italia). Il valore delle esportazioni nel 2020 è intorno ai 6 miliardi, una piccola frazione (meno del 1% del totale delle esportazioni italiane).

Non è quindi vero che sia un settore importante per l’economia italiana senza il quale si aprirebbero scenari di crisi, anzi la sua modesta dimensione ne fa un settore non impossibile da riconvertire, qualora se ne avesse la volontà politica.

La crescita del settore e la progressiva specializzazione nel militare e marginalizzazione della filiera civile nelle industrie di armamenti ha invece assorbito investimenti che indirizzati differentemente avrebbero prodotto maggiore occupazione. Nel settore degli armamenti, in tutto il mondo, al crescere di fatturato e investimenti non corrisponde una espansione occupazionale.

Nota Gianni Alioti su Sbilanciamoci1 che negli ultimi 40 anni a livello internazionale, nonostante l’ingente crescita degli investimenti e del fatturato che, a valori costanti, è triplicato, gli occupati nel settore sono invece diminuiti del 7,2%, con una forbice tra andamento del fatturato e dell’occupazione impressionante.

Non così se si disaggregano i dati del settore aeronautico. In questo settore a livello globale, mentre gli addetti alla parte militare sono diminuiti da 382 mila a circa 175 mila con un calo del 54%, i lavoratori dell’aeronautica civile hanno visto una crescita dell’84%, passando da 193 mila a 363 mila. Ciò che è aumentato sono invece i profitti. Riporta Sbilanciamoci che nei primi 10 gruppi multinazionali militari i profitti sono cresciuti di oltre 7 volte a fronte di una crescita del fatturato del 60% e un calo occupazionale del 16%.

L’unico gruppo tra i maggiori 10 che non ha visto un calo occupazionale è quello di Airbus, cui l’Italia non ha voluto partecipare per fare cordata con gli Usa, che ha diversificato ed ampliato le proprie attività nel comparto civile rispetto al militare.

Vi sono motivi tecnici specifici del settore che fanno sì che la crescita del costo per addetto dei sistemi d’arma determini una progressione in alto dei profitti e al ribasso dell’occupazione. Insomma, l’investimento nel militare non è un buon affare per il sistema paese, né per i lavoratori delle aziende che potranno pensare di mantenere i livelli occupazionali solo con un progressivo spostamento del focus delle aziende dal militare al civile.

Poi c’è comunque il “costo sostituzione”. Ogni investimento presuppone la rinuncia ad un altro, ciò che conta è quindi l’impatto occupazionale comparato tra il militare ed altri settori.

Tutti gli studi dicono che investire nel militare non conviene dal punto di vista occupazionale rispetto ad altre scelte.

Lo studio sul “Costo della guerra in termini occupazionali” effettuato dal Watson Institute della Brown University2 sul periodo 2001-2019 negli Stati Uniti trova che un miliardo di dollari investito nelle industrie di armamenti crea 6,9 posti di lavoro stabili, mentre lo stesso investimento nell’energia pulita e nelle infrastrutture crea 9,8 posti di lavoro, nell’assistenza sanitaria 14,3 e nell’istruzione 15,2. Quindi, a parità di spesa, l’energia pulita e le infrastrutture creano il 40% in più di posti di lavoro rispetto al settore militare, l’assistenza sanitaria il 100% in più e l’istruzione il 120% in più.  Un altro studio statunitense calcola che investimenti nel campo delle telecomunicazioni (banda larga), della sanità (tecnologia informatica), nel settore elettrico (smart grid) comportano a 3 a 7 volte posti di lavoro in più di occupati rispetto agli stessi fondi spesi in campo militare.

Dell’effetto occupazionale della spesa militare si occupa anche una ricerca sulla spesa militare di Italia, Germania e Spagna commissionata da Greenpeace. Secondo questo report la spesa di 1 miliardo di euro nel settore militare crea un incremento occupazionale di 6.000 posti di lavoro aggiuntivi in Germania, 3.000 in Italia e 6.500 in Spagna. Il minore impatto degli investimenti in Italia dipende dal fatto che in questo settore il nostro paese ha una maggiore importazione di prodotti intermedi che non impattano sull’occupazione rispetto ad altri paesi.

La stessa spesa di un miliardo di euro per la salute e l’ambiente avrebbe un impatto occupazionale molto maggiore. In Germania si potrebbero creare 11.000 nuovi posti di lavoro nel settore ambientale, quasi 18.000 posti di lavoro nell’istruzione, 15.000 posti di lavoro nei servizi sanitari. In Spagna, l’effetto occupazionale sarebbe compreso tra 12.000 nuovi posti di lavoro nel settore ambientale e 16.000 nell’istruzione.

Sul nostro paese il rapporto afferma che “in Italia, un miliardo di euro spesi per l’acquisto di armi mette in moto un aumento della produzione interna di soli 741 milioni di euro. La stessa cifra investita in altri settori pubblici ha invece un effetto moltiplicatore quasi doppio, con un aumento della produzione pari a 1.900 milioni di euro nella protezione ambientale, 1.562 milioni di euro nella sanità e 1.254 milioni di euro nell’istruzione. Uno scarto ancora maggiore si registra nell’impatto occupazionale dei 1.000 milioni di spesa, che nel settore della difesa sarebbe limitato a 3.000 nuovi posti di lavoro, mentre nel settore dell’istruzione sarebbe di quasi 14.000, più di 12.000 nella sanità e quasi 10.000 nella protezione ambientale. In pratica, circa quattro volte tanto.”

Ulteriore conferma viene da uno studio dell’Enea3 che stima l’impatto occupazionale dell’investimento in impianti di energia fotovoltaica nello scenario dell’aumento della potenza installata di 1,2% l’anno da oggi al 2050. Lo studio prevede la crescita di occupazione stabile (cui si deve aggiungere l’occupazione temporanea valutata con una crescita di circa il 5% annuo) di circa 7.000 unità l’anno a fronte di un investimento valutabile in circa 1,5 mld l’anno, 4600 lavoratori per miliardo. È una stima più moderata di altre ma comunque prevede un impatto degli investimenti nel fotovoltaico superiore del 50% all’impatto dell’investimento bellico. Analoghi risultati vengono dallo studio sull’impatto occupazionale delle fonti rinnovabili del “Gestore dei servizi energetici”4.

Anche il Censis5 in un rapporto sull’impatto economico della spesa sanitaria attesta che l’investimento in salute, non solo migliora il benessere della popolazione, ma ha un impatto sulla crescita economica e sull’occupazione enormemente superiore alla spesa militare. Dal rapporto si ricava che un ipotetico spostamento stabile della spesa militare pari attualmente a 29 miliardi l’anno al settore sanitario sarebbe in grado di produrre quasi mezzo milione di posti di lavoro aggiuntivi.

Non si tratta certo di trasformare tutti i soldati e gli operai delle industrie di armamento in infermieri, medici e portantini, ma questi esempi mettono in chiaro a quanti posti di lavoro si è rinunciato quando è stato deciso di puntare sullo sviluppo del settore militare in alternativa ad altri settori, ad esempio, a quello delle energie alternative, del risparmio energetico, dei nuovi materiali, dell’economia circolare che non solo sono in grado di produrre più posti di lavoro per unità di investimento, ma che allo stesso tempo migliorano la vita invece di distruggerla e comportano un risparmio energetico ed economico stabile nel futuro, oltre ad avere ricadute positive della ricerca chiaramente superiori alla ricerca nei sistemi d’arma.

A questo settore, ad esempio, pensa sbilanciamoci quando propone di riproporre a livello europeo uno strumento comunitario come il passato programma KONVER e di riprendere la pressione per il rifinanziamento del Fondo speciale per la riconversione dell’industria bellica previsto dalla legge 185/90 sul commercio di armamenti ed attualmente non finanziato.

Fabio Alberti

  1. https://sbilanciamoci.info/il-riarmo-non-crea-posti-di-lavoro/.[]
  2. https://watson.brown.edu/costsofwar/files/cow/imce/papers/2019/March%202019%20Job%20Opportunity%20Cost%20of%20War.pdf.[]
  3. https://iris.enea.it/retrieve/dd11e37c-d788-5d97-e053-d805fe0a6f04/RT-2015-15-ENEA.pdf.[]
  4. https://www.i-com.it/2023/09/08/impatto-economico-e-occupazionale-delle-fonti-rinnovabili-in-italia/.[]
  5. https://www.sanitainformazione.it/wp-content/uploads/2023/10/RAPPORTO-FINALE-CENSIS-FNOMCEO_16.10.2023.pdf.[]
industria militare
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