L’Italia esporta armi. Lo fa da sempre e dovunque senza alcuno scrupolo morale. In modi leciti e, soprattutto, illeciti, in violazione dell’articolo 11 della Costituzione ed in aperto contrasto con la legge 185/90 che fissa le norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento, inibendone, in particolare, la vendita a paesi caratterizzati da un regime autoritario e/o impegnati in conflitti armati.
Lo fa il governo italiano, col concorso attivo di una parte cospicua dell’opposizione e lo fanno aziende private, lucrando su questo traffico ignobile enormi fortune. Così, a più riprese, stock di armi sono partiti dall’Italia, destinazione Kiev, per sostenere la prosecuzione della guerra in Ucraina facendo dell’Italia un paese nei fatti co-belligerante.
La circostanza è largamente nota. Meno conosciuta, ma per più ragioni ancor più grave, è l’esportazione di “armi e munizioni” verso Tel Aviv; un trasferimento che si è sviluppato anche dopo l’inizio dei bombardamenti israeliani sulla striscia di Gaza.
Il governo, con il suo ministro degli esteri, Antonio Tajani, nega: “Da quando sono iniziate le ostilità, dal 7 ottobre 2023 – ha detto – abbiamo sospeso tutti gli invii di sistemi d’arma o materiale militare di qualsiasi tipo”. Ma Tajani mente. Le statistiche del commercio estero, periodicamente aggiornate dall’Istat fino a febbraio di quest’anno, lo sbugiardano e certificano che tra ottobre e novembre del 2023 l’Italia ha esportato materiale bellico verso Israele per un valore di 2,1 milioni di euro: l’Italia sta contribuendo all’attuazione del genocidio della popolazione palestinese.
Secondo gli ultimi dati SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), l’Italia, nel triennio 2020-2022, ha esportato verso Paesi non liberi ben il 72% del totale delle esportazioni italiane di grandi sistemi d’arma. Si tratta della quota più elevata mai raggiunta negli ultimi 34 anni, nonostante una guerra nel cuore dell’Europa. Una cifra impressionante, con la quale l’Italia supera addirittura la Russia che esporta il 54% delle proprie armi verso Paesi autocratici e che è sempre stata, tra i grandi esportatori, quello che si caratterizzava per i valori più alti di esportazioni verso Paesi governati da regimi illiberali.
Ma oggi il governo di Fratelli d’Italia va oltre. Il Senato ha già approvato un testo di riforma della legge vigente (la 185/90) che è teso a ridurre ulteriormente il controllo e la trasparenza sugli armamenti che l’Italia importa o vende all’estero. Ora quel testo approderà alla Camera per l’approvazione definitiva. L’obiettivo manifesto è quello di allentare tutti i residui vincoli e sottrarre alla società civile e allo stesso parlamento qualsiasi giurisdizione sul commercio delle armi. Lo dice esplicitamente Giorgio Beretta, dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere (OPAL), denunciando come il governo stia tentando di “reintrodurre una sorta di ‘segretezza di Stato’ dando al Parlamento e alla società solo poche e generiche informazioni”.
Chiara Bonaiuti (che di OPAL è consigliera scientifica) ha ben motivo di affermare che il disegno che vive nel nuovo progetto di legge “sembra il risultato della combinazione di due elementi: l’avidità di pochi da un lato e la superficialità e stupidità da quell’altro. Una combinazione che John Maynard Keynes ravvide anche nella classe politica che portò l’Italia e l’Europa alla prima guerra mondiale”.
C’è una storia, tutt’altro che lusinghiera, che descrive lo stato delle cose nel nostro paese e che ha la sua radice nella produzione e nella vendita indiscriminata delle armi cosiddette “leggere”. Fu Kofi Annan, l’ex Segretario generale dell’ONU, a definirle “armi di distruzione di massa”.
Nell’ultimo decennio, due milioni di bambini sono stati uccisi in conflitti dove sono state usate armi di piccolo calibro e cinque milioni sono diventati disabili.
Amnesty International fornisce dati secondo i quali l’Italia è il terzo paese esportatore di armi di piccolo calibro (dopo USA e Gran Bretagna), con valori che superano i trecento milioni di dollari.
Ebbene, circa l’80% delle armi leggere prodotte in Italia viene da Brescia.
Si sottraggono a ogni controllo i traffici illegali, che nella maggior parte dei casi hanno all’origine un trasferimento legale e poi, attraverso triangolazioni tra Stati e intermediazioni di organizzazioni criminali e trafficanti senza scrupoli, sfuggono agli embarghi e fanno perdere ogni traccia di sé.
Noto il caso della ditta Beretta di Gardone V.T. (Brescia) che nel 2009, attraverso la triangolazione con Malta, trasferì alla Libia armi per oltre 79 milioni di euro. L’azienda cercò poi di sottrarsi all’accusa con una debolissima smentita.
Ma il caso più clamoroso rimane quello della Valsella meccanotecnica di Castenedolo (Brescia), specializzata nella produzione di mine antiuomo, di cui la Fiat nel 1984 divenne proprietaria. La Valsella vendette più di 9 milioni di mine anti-uomo all’Iraq, via Singapore. Queste mine furono utilizzate dagli iracheni durante la guerra con l’Iran, nella Guerra del Golfo e nell’attacco ai Curdi.
Oggi lo stato Italiano è direttamente coinvolto, in qualità di proprietario, nella produzione di sistemi d’arma, attraverso la Leonardo SpA.
Leonardo è la dodicesima impresa di difesa del mondo ed è la prima nell’Unione Europea per grandezza, con entrate dal settore difesa che rappresentano il 68% del proprio fatturato.
Il suo maggiore azionista è il Ministero dell’economia e delle finanze italiano, che possiede circa il 30% delle azioni, mentre poco più del 50% delle azioni appartiene ad investitori istituzionali. Un’azienda pubblica a tutti gli effetti, dunque, strutturata in cinque divisioni operative: elicotteri, velivoli, aerostrutture, elettronica e cyber security (ex sistemi per la sicurezza e le informazioni).
Un’azienda che fa soldi, tanti soldi, su cui investire, che nell’aprile scorso ha presentato ufficialmente una nuova mitragliera da 20 e 2 nuove armi da 30 mm.
Non fa nulla se le spese militari sottraggono alla spesa sociale risorse fondamentali che anziché essere destinate all’utilità pubblica servono a fornire gli eserciti e le polizie di sempre più sofisticati strumenti di morte. C’è poi una conseguenza ancora più perversa di tutto ciò, perché con le esportazioni di armi verso i paesi in via di sviluppo si alimenta e perpetua il loro debito, e quindi la loro dipendenza, nei confronti degli Stati industrializzati, con la conseguente impossibilità di sviluppare economie destinate a soddisfare in primo luogo i bisogni primari dei cittadini, di promuovere e finanziare progetti in materia di salute, alimentazione, istruzione.
In questo primo maggio merita raccontare (o ricordare ancora una volta a quanti ne conservano memoria) la straordinaria storia di lotta e resistenza operaia, condotta da un pugno di lavoratrici di un piccolo comune della provincia bresciana, che fu sede della Valsella Meccanotecnica, l’azienda produttrice di mine anti-uomo cui si è più sopra accennato. Quelle donne, non guardando alla sproporzione delle forze in campo, decisero di prendere il mondo sulle proprie spalle e rifiutarono di continuare a produrre quegli ordigni di morte, costruendo un indelebile monumento alla dignità umana.
Eravamo nei primi anni novanta quando la Valsella Meccanotecnica di Castenedolo (Bs), controllata dalla Fiat, era leader nazionale nella produzione di mine anti-uomo. Valsella ne vendette all’Iraq più di 9 milioni di esemplari.
Il prodotto principe dell’azienda era la mina Valmara ’69: 105 mm di diametro, 205 mm di altezza, 3300 g di peso, colore verde o sabbia, la mina rientrava fra quelle cosiddette “volanti”; facendo vibrare un filo trasparente collegato ad uno degli spuntoni della mina, si attivava la carica esplosiva. La detonazione avveniva in due fasi: una prima carica sollevava a 80 cm da terra un cilindro contenente circa 2.000 frammenti metallici, una seconda carica causava poi la vera esplosione che irradiava i frammenti a 360° nella zona circostante provocando la morte nel perimetro di 27 m e il ferimento fino a oltre 200 metri. Un ordigno micidiale, dunque. Eppure, nella brochure dell’azienda dei primi anni ’80 si potevano leggere queste soavi parole:
“La musica è ansia, è tormento e speranza che cova e si sprigiona dall’animo umano e vi ritorna a trovare ricetto. Tumultuosa o pacata che sia, è sempre armonia. L’orchestra, in armonia, produce armonia. È questa la condizione. E sono gli uomini e solo gli uomini, capaci di determinarla. La fabbrica ferma è come un mucchio di strumenti senza fiato e senza tocco – Natura morta – Poi le gote si gonfiano, le dita si articolano, gli occhi corrono dallo spartito alle pupille del maestro: allora è vita che vuol dire ansia e tormento e speranza ed anche armonia come la musica. La musica delle macchine in movimento che obbediscono al tocco di questi meravigliosi uomini che fanno viva l’Azienda e forte e possente di volontà responsabile. Lavoratori capaci e attenti: uomini e donne. La nostra Azienda”.
Alla Valsella lavoravano una decina di ingegneri progettisti, pagati a peso d’oro, e 40 operaie, addette allo stampaggio.
Convocammo un’assemblea sindacale e ponemmo in tutta la sua gravità il problema della corresponsabilità anche di chi lavorava alla costruzione di quegli ordigni di morte. Dicemmo che la produzione doveva essere interrotta. La prima risposta fu: “Noi non abbiamo le mani sporche di sangue; se non facciamo noi le mine le farà qualcun altro”. Decidemmo allora di organizzare un incontro in Camera del lavoro con Gino Strada al quale partecipò l’intero consiglio di fabbrica. La riunione fu introdotta da un documentario che Gino aveva portato con sé sui tragici e indiscriminati effetti delle mine, soprattutto sulla popolazione civile, sui bambini, con mutilazioni permanenti, provocate da ordigni in qualche caso fatti a forma di giocattoli affinché suscitassero l’interesse dei più piccoli. Lo shock fu potente ed innescò nelle lavoratrici una catarsi, una presa di coscienza che avviò una delle più straordinarie battaglie sindacali e di civiltà che io ricordi. Progressivamente maturò fra le operaie la decisione di chiedere l’interruzione della produzione delle mine e l’avvio di un processo di riconversione. Ma la Valsella non aveva alcuna intenzione di rinunciare ad una produzione lucrativa come nessun’altra.
Giovanni Borletti, fondatore della Valsella, aveva sempre detto al Consiglio di fabbrica che la riconversione era una chimera e che la “vocazione” (sì, la vocazione!) dell’azienda era quella di fabbricare mine.
Cominciarono gli scioperi, via via più intensi. Le più giovani avevano paura, le altre le rassicuravano, davano loro forza. La prospettiva dalla quale ora le operaie guardavano al loro lavoro era totalmente cambiata: “Noi non saremo complici”.
Da un lato c’erano queste donne coraggiose. Dall’altro gli uomini con funzioni sovraordinate: ingegneri, tecnici progettisti, tutti pagati a peso d’oro, tutti contrari allo sciopero, tutti indifferenti alle conseguenze del loro lavoro.
Il prezzo fu altissimo. Dopo mesi di lotta le operaie e le loro famiglie vivevano a credito. Anche a casa le cose non erano semplici: mariti, figli e fidanzati all’inizio non capivano. Erano sospettosi, preoccupati. Ma alla fine si convinsero e sostennero con convinzione la lotta delle loro donne.
Quelle operaie vinsero, anche perché la moratoria nella produzione di quegli ordigni infami, decisa dal parlamento italiano, ne bloccò la produzione.
La Valsella era in ginocchio.
Fu a quel punto che si fece avanti un’azienda, la Vehicle Engineering&Design, che si candidò a rilevare l’impresa per produrre motori elettrici per automobili: indubbiamente un bel salto, dalle mine a motorizzazioni ecologiche. Ma la nuova azienda pose, per subentrare, una condizione: potere vendere alla Spagna il brevetto dell’Istrice, un dispositivo per il disseminamento delle mine dall’alto, senza mappatura, con le conseguenze che ciascuno può immaginare. L’azienda promise che il denaro incassato sarebbe servito anche per saldare alle lavoratrici le mensilità arretrate.
In assemblea ci fu un confronto tesissimo. Ad un certo punto, intervenne Franca Faita la compagna più anziana, componente del consiglio di fabbrica, trascinatrice della lotta. Franca pronunciò queste parole: “Ragazze, in questi mesi abbiamo fatto tanta strada insieme e siamo cambiate. So che è dura, ma non possiamo tornare indietro. Quindi, se la nuova azienda vuole entrare, non ponga alcuna condizione”.
Le operaie approvarono, tutte, con un grande applauso.
A sera tornammo al sindacato e scrivemmo alla Engineering comunicando le decisioni assunte di comune accordo fra sindacato e lavoratrici:
“Scopriamo ora che sarebbe vostra intenzione procedere alla vendita a Paesi stranieri dei brevetti e delle tecnologie relative alle mine anticarro ed ai cosiddetti “spargitori” di mine per elicotteri. Questa eventualità è da noi considerata inaccettabile”.
Per uno di quei rari casi che talvolta capitano, l’azienda rispose che rinunciava alla propria richiesta. Seguì una grande manifestazione, in realtà una festa. I brevetti furono distrutti, bruciati. Le operaie presero a martellate gli stampi delle mine che in seguito furono venduti come ferro vecchio.
Sono certo che le operaie ricordino ancora oggi questa vicenda come uno dei momenti più importanti delle loro vite.
Vale, per tutte, la testimonianza di Agnese:
“Quando sentirete il solito fesso dire che gli operai badano solo alla pagnotta, ricordatevi di Franca Faita”. Un’operaia – lo scriviamo forzando il suo riserbo in proposito – che ha perso la mano destra sotto una stampatrice della Valsella dove si producevano mine che hanno tranciato gambe, braccia e vite.
Dino Greco