focus

 Verso una politica dei cigni rossi

di  
Fabrizio Fassio e Giuseppe Nicolosi

Note introduttive

Nel nostro libro intitolato I visionari[1], nell’ambito di un ragionamento generale su utopia digitale e fine del lavoro, abbiamo dedicato alcune pagine al problema della progettualità politica e, in particolare, allo stretto rapporto che tenne insieme le prime organizzazioni sindacali di fine Ottocento con il socialismo utopistico di stampo comunitarista  diffuso in quel periodo. Era uscito da poco il libro di Paul Mason Postcapitalism, che formulava l’ipotesi avventurosa e suggestiva che alcune prospettive del socialismo utopistico tornassero attuali ai nostri giorni, grazie allo sviluppo delle tecnologie digitali[2].

In questi giorni, segnati in Italia dal passaggio dal governo Conte a quello guidato da Mario Draghi, si avverte un senso di crescente impotenza di fronte a una classe politica sempre più cinica e irresponsabile. Marco Revelli segnalava in un recente articolo sulle pagine de “Il Manifesto” come la  partecipazione politica in Italia abbia raggiunto in questo periodo livelli minimi con un 50% di indecisi[3]. In un momento di nostalgia, abbiamo rimesso mano a un libro scritto da Christopher Lasch alla fine degli anni  Settanta e  intitolato La cultura del Narcisismo. Nelle pagine iniziali di quel libro, Lasch sviluppava un ragionamento sui possibili effetti positivi della disaffezione diffusa nei confronti della politica istituzionale. Un argomento che l’autore non avrebbe sviluppato oltre all’interno di quel testo, ma di cui nell’introduzione sosteneva la grande importanza. Dunque  scriveva:

«È vero che la sfiducia diffusa nei confronti di coloro che sono al potere ha reso la società sempre più ingovernabile, come ripetutamente lamenta la classe al governo, senza peraltro riconoscere la sua responsabilità nel determinare questa situazione; ma  questa stessa sfiducia può porre le basi di una nuova capacità di autogoverno, così da superare il bisogno stesso che dà origine all’esistenza di una classe dirigente separata. Ciò che gli osservatori  politici interpretano come indifferenza dell’elettorato può rappresentare, al contrario, un salutare scetticismo nei confronti di un sistema politico in cui la menzogna e la frode sono diventate una prassi abituale ed endemica. La sfiducia negli  esperti può contribuire a diminuire la dipendenza dagli esperti che ha paralizzato la capacità di iniziativa personale.

La burocrazia moderna ha indebolito le antiche tradizioni di attività locale, la  cui rinascita ed espansione offrono l’unica speranza che dalle rovine del capitalismo possa emergere una società tollerabile. Davanti all’inadeguatezza delle soluzioni proposte dall’alto, la gente è costretta e inventare soluzioni dal basso. La crisi di legittimazione delle burocrazie statali ha coinvolto anche le burocrazie delle grandi imprese  – i veri centri di potere della società contemporanea (…).

La “fuga dalla politica”, come viene definita dall’élite dirigenziale e politica, può invece essere un segno che rivela la crescente riluttanza delle persone a partecipare al sistema politico nelle vesti di consumatori di spettacoli prefabbricati. Può non denotare affatto, in altre parole, un ritiro dalla politica, ma annunciare le fasi iniziali di una rivolta politica generale»[4].

Una prefigurazione che ricorda molto da vicino la polemica ostinata e continua di Pino Ferraris contro gli apparati di partito, nei confronti dei quali invocava quella che era solito chiamare la “terza dimensione” dell’agire politico e sociale:

«La storiografia elaborata e tramandata da quella che fu la sinistra ufficiale è soprattutto storia dell’azione politico-statuale, storia dei gruppi dirigenti dei partiti politici e, in forma derivata, di quelli dei sindacati. È difficile ricostruire le fila di quella che chiamerei “la terza dimensione” dell’agire politico-sociale, quella che si manifesta soprattutto come azione positiva e realizzatrice nel basso, come pratica dell’obiettivo e autogestione dei risultati, come espressione delle capacità del far da  sé solidaristico, come  creazione di spazi e di istituti di autonomia della vita sociale»[5].

Il concetto di autonomia incontra la “terza dimensione” di Ferraris negli itinerari dell’operaismo italiano, dalle tesi sul controllo operaio di Panzieri e Libertini[6] ai consigli di fabbrica, fino alla lotta contro il copyright delle comunità hacker di prima generazione[7]. Ed è soprattutto quest’ultimo punto che andrebbe ripensato negli scenari contemporanei, dove autonomia significa soprattutto autonomia dal potere pervasivo delle grandi piattaforme.

 Tornando all’introduzione del libro di Lasch, egli spiegava in quelle pagine come il vero motivo che lo aveva spinto a tralasciare questa importante tematica per dedicarsi esclusivamente al problema dell’ ”uomo nuovo” del neoliberismo, l’ individuo narcisista, era che l’analisi di un siffatto individualismo gli sembrava in certa misura “precedere”, in ordine di importanza, le possibilità di sviluppo di autonomia e capacità di autogoverno popolare. Uno snodo relativo alla soggettività che insomma, secondo lui, andava affrontato prima. Per sviluppare capacità di cooperazione era necessario anzitutto debellare l’individualismo radicale. In un impeto di ottimismo, Lasch si spinse a sostenere che “la cultura dell’individualismo ai suoi limiti estremi, fino alla guerra di tutti contro tutti” era giunta oramai al tramonto. E, con il suo libro, intendeva infliggerle un ulteriore e sostanziale spinta verso il baratro, denunciando quella che riteneva essere la sua manifestazione più recente e insidiosa: il narcisismo di massa. 

Sono passati oltre quarant’anni dalla prima pubblicazione del libro di Lasch e certo non si può dire che la cultura del narcisismo sia venuta meno. Lasch credeva fosse una manifestazione estrema, il canto del cigno dell’individualismo proprietario nella sua fase terminale. Invece, non soltanto ha resistito energicamente a ogni tentativo di sopprimerla, ma ha avuto uno sviluppo rigoglioso. Lasch se ne rese conto per primo e, qualche anno dopo La cultura del Narcisismo, dedicò al problema un libro successivo, altrettanto interessante, intitolato L’Io  minimo[8], un’ analisi spietata di quella che oggi definiremmo la “coscienza precaria”, la spinta ad assumere, per necessità o virtù, identità diverse, fino a perdere, come Narciso, i nessi indispensabili per riconoscersi nella propria immagine. 

A cogliere l’importanza di questi lavori di Lasch, tra gli altri, fu Michel Foucault che, negli ultimi anni della sua vita, dichiarò di essere stato sollecitato ad affrontare la nuova tematica delle tecnologie del sé[9] proprio dalla lettura de La cultura del  narcisismo.

Forse per queste ragioni, nella quarta di copertina della nuova edizione del celebre libro sul narcisismo di Lasch, pubblicato nel 2020 in Italia dall’editore Neri Pozza, troviamo scritto che il libro “svela soltanto ora la sua piena attualità”. Fin dove questo è vero, tornano attuali anche le considerazioni sull’autogoverno e su quella rivolta politica che, secondo Lasch, avrebbe dovuto seguire di presso l’esaurirsi della partecipazione popolare alla politica istituzionale. Il che, peraltro, non autorizza ingenui ottimismi. Siamo semplicemente tornati al punto di partenza. Ma se la cultura del narcisismo rimane l’avversario da battere, la questione dell’autogoverno invoca, nell’epoca dell’ informatica di massa e delle grandi piattaforme, prospettive nuove, solo in minima parte riconducibili a quelle del passato.

Il testo che segue è un tentativo, piuttosto artigianale, di ragionare insieme su come sia ancora possibile avere un progetto politico e una visione di futuro in un’epoca in cui è stata opportunamente bandita ogni forma di determinismo storico.

Si tratta, almeno in parte, di un testo che avevamo elaborato nel corso della stesura de “I visionari” e che abbiamo rinunciato a pubblicare perché esageratamente ambizioso e del tutto privo di adeguate “pezze” teoriche. Rivisitato, aggiornato e riscritto diverse volte, forse adesso fornisce qualche utile spunto di discussione. Ma a patto che rimanga una discussione tra amici.

Se ne ricavano alcune indicazioni di carattere generale sul senso dell’azione politica nella calma del tutto apparente in cui stiamo vivendo in questi anni. Nella convinzione che un’idea di militanza adeguata all’epoca, ben lungi dall’aver perso ogni significato, riveli le sue potenzialità proprio nel corso di quelle lunghe notti in cui tutte le vacche sembrano essere irrimediabilmente nere.

Ne pubblichiamo la prima parte, riservandoci di pubblicare una  seconda parte, ancora da rivedere, nel caso il testo susciti qualche interesse e qualche utile discussione.

Futurologi o sciamani ?

La previsione del futuro ha sempre svolto un ruolo centrale nell’immaginario collettivo. E, probabilmente, la figura del futurologo professionista dei nostri giorni, nonostante le sue slides, i suoi titoli accademici e le sue pubblicazioni scientifiche, è quella che ricorda meglio l’aruspice impegnato nell’arte della divinazione.

Nel lavoro di progettazione non manca mai una componente di promessa e di rassicurazione. Che si tratti di elementi di rassicurazione “cosmica”, di natura religiosa in senso ampio, o si tratti invece di rassicurazioni personali, relative a problemi materiali immediati che invocano qualche tipo di soluzione “magica”, la promessa di futuro mantiene questa funzione protettiva nei confronti del singolo e/o della comunità. Il “felicismo” contemporaneo rappresenta la versione evoluta di queste pratiche consolatorie rivolte al singolo individuo.

Alcuni ricorderanno la scena del film Miracolo a Milano[10] in cui un indovino improvvisato consola i suoi clienti, dei baraccati che vivevano ai bordi della metropoli: «Che sorriso ! Che sguardo ! Lei chissà cosa diventerà nella vita. Diventerà una grande persona. Lei non finisce qui». Al termine di questi incoraggiamenti, l’indovino scodellava la parcella: «Cento lire! »

Coerentemente con i dettami dell’individualismo neoliberista, oggi la felicità viene costantemente promossa da personal coach e predicatori del benessere mentale, come si trattasse di un processo del tutto interiore, una conquista individuale priva di qualsiasi relazione con il contesto sociale in cui si vive. Parcella a parte, beninteso.

In passato la mantica intesa come arte di rivelare il futuro attraverso l’interpretazione dei segni o l’ispirazione profetica aveva una importante funzione di rassicurazione del gruppo sociale in senso lato. Santi, profeti, visionari: disegnavano il futuro ultraterreno delle popolazioni.

In alcune forme di sciamanesimo la profezia divinatoria, favorita dal consumo di bevande sacre, esitava in una vera e propria caccia al tesoro. Così avvenne, per esempio, nella transe rituale di un Indiano che aveva appena bevuto un decotto di yagé,  puntualmente descritta da un antropologo francese:

«Egli s’addormenta. In seguito i suoi compagni lo portano, sostenendolo, mezzo assopito, in una località dove pensano che vi siano dei tesori nascosti. Questa specie di sonnambulo, secondo loro, vede attraverso i muri e nella profondità della terra, se tali oggetti esistono o meno. Se egli dice di vedere l’oggetto, si mettono tutti a scavare nel luogo segnalato, quasi sempre con buoni risultati»[11]

A tutt’oggi la decisione politica sembra avere bisogno di una futurologia che indichi gli oggetti preziosi da raccogliere. ll paragone non è del tutto scherzoso e vale la pena insistere: nonostante le raffinate metodologie di indagine e la potenza di calcolo di cui dispongono gli odierni professionisti del domani, la futurologia continua ad assolvere un ruolo sociale che va ben oltre i suoi risultati reali e che rinvia a una funzione quasi sacerdotale che richiede dosi variabili di talento visionario, competenza e, nella migliore delle ipotesi, rigore metodologico e onestà intellettuale.

Nell’antica Roma l’oracolo svolgeva anche una funzione politica influenzando i processi di decisione. Come scrisse Van der Leeuw: “nello Stato romano gli auspicia segnano il punto in cui l’autorità umana e quella divina si toccano; stanno alla base dell’azione politica[12]“. A Delfi l’oracolo era indispensabile per la legislazione, la fondazione di nuove colonie e la remissione degli schiavi. Non molto diversamente, in fondo, da quanto accade oggi allorché guru dei futuri possibili, come ad esempio Jeremy Rifkin, vengono invitati a presentare corpose relazioni presso i parlamenti o le grandi assemblee di partiti e associazioni politiche.

Ci si dovrebbe chiedere, prima di tutto, cosa significhi avere una visione di futuro e quanto le previsioni sul futuro possano influenzare o determinare le scelte politiche ed economiche collettive e quelle individuali.

L’argomento si rivela subito piuttosto complicato. Sebbene esista una differenza sostanziale di carattere metodologico tra la previsione scientifica e la divinazione, ancora oggi non sono rari i casi in cui le previsioni politiche paiono nascondere, dietro la facciata di una raffinata metodologia di indagine e di una rigorosa scientificità, la stessa funzione religiosa e di rassicurazione che era tipica della divinazione. Così si sarebbe tentati di sostenere che Winston Churcill avesse ragione quando, con la consueta vena amaramente ironica, ebbe a dire:

«L’abilità politica è l’abilità di prevedere quello che accadrà domani, la prossima settimana, il prossimo mese e l’anno prossimo. E di essere così abili, più tardi, da spiegare perché non è accaduto»[13].

La morale del celebre aforisma è chiara: la previsione politica, per quanto indispensabile, è di fatto impossibile.

E Churcill non è stato l’unico rappresentante di questo scettiscismo nei confronti della previsione. Lo storico francese Georges Minois, autore di una monumentale “Storia dell’avvenire” esprime nel corso della sua opera un analogo scetticismo, fino ad affermare:

«Questo è il fulcro del problema: si può prevedere l’avvenire solo nel caso in cui vi sia certezza della sua realizzazione, ma se vi è certezza, se gli eventi previsti sono inevitabili, la previsione non ha più ragion d’essere. In pratica la previsione è impossibile, oppure inutile»[14].

 Una breve e opportuna divagazione: questo argomento, enunciato da Minois, ha un suo illustre predecessore la cui celebrità è stata oggetto di diatribe storico-letterarie. Stiamo parlando di Carneade, filosofo scettico, di cui il Don Abbondio dei “Promessi Sposi” di Manzoni, non riusciva a ricordare l’identità storico-filosofica. Tanto celebre la battuta di Don Abbondio “Carneade, chi era costui?” che oggi, nel linguaggio dei giornalisti, viene spesso usata l’espressione “è un Carneade” quando si vuole indicare una figura marginale, irrilevante, destinata a un repentino oblio. Di fatto, Carneade di Cirene fu figura di grande rilievo tra i pensatori scettici e personaggio storico di una certa importanza[15]. Erede filosofico del probabilismo di Carneade si dichiara oggi Nassim Nicholas Taleb, professore di scienze dell’incertezza e operatore di borsa, autore dell’ormai celeberrimo Il cigno nero[16]. Carneade avversava la divinazione, proprio come il cinico Enomao di Gadara, autore di un attacco alla divinazione intitolato L’esposizione dei ciarlatani. In queste posizioni filosofiche dominava l’idea che la previsione degli indovini minacciasse la libertà individuale e quindi il senso di responsabilità che da essa deriva.

 A Georges Minois, peraltro, non manca l’ardire di estendere queste sue perplessità sull’arte della previsione anche alle forme più recenti, scientiste ed evolute di futurologia. Per esempio, i suoi strali non risparmiano gli studiosi della cosiddetta scuola prospettivista, fondata dal celebre Herman Khan:

«Non è il futuro ad essere in gioco, ma il presente, ed è peraltro il motivo per il quale la prospettiva, il metodo più recente, si ricollega a quello più antico degli oracoli. Per gli istituti prospettivisti come per le autorità di Delfi, si tratta di fornire ai dirigenti di ogni livello indicazioni di tendenza, scenari possibili per guidare la loro azione. Che tali scenari esprimano la volontà degli dèi o l’evoluzione probabile delle curve socioeconomiche è in sé secondario. L’importante è che in un caso come in un altro, non vi sia nulla di ineluttabile, e che il futuro venga presentato finalmente come il risultato di un’azione volontaria in funzione di un determinato ambiente. Presso i Greci e i Romani la forma enigmatica dell’oracolo fa dipendere la decisione dall’abilità nel decifrarlo, nel prospettivismo la pluralità dei modelli presentati lascia campo libero alla perspicacia di chi decide. In ultima istanza ciò che conta non è quello che viene predetto, ma la reazione di colui cui viene rivolta la predizione, e non conta la realizzazione della predizione, ma l’azione che provocherà». (Minois, Cit.)

Queste righe meritano attenzione: l’autore di una approfondita e voluminosa ricerca di carattere storico sul tema della previsione del futuro quale Georges Minois, sostiene esplicitamente la tesi scettica secondo cui la previsione è impossibile.  Dunque, essa avrebbe una funzione eminentemente politica, di rassicurazione e di orientamento all’azione. Nel passo di Minois rimane nascosta, come in un doppiofondo, la questione della forma peculiare di potere che il futurologo si trova ad esercitare: egli legittima l’azione politica, la giustifica e, in qualche caso, arriva a spronarla.

Certo, in una concezione matura della previsione la formula “supporto alla decisione politica” parrebbe sgombrare il campo dai sospetti: la scelta rimane al “decisore” che se ne prende ogni responsabilità, al futurologo è assegnata una pura funzione di supporto, una mera consulenza tecnica. Ammesso e non concesso che questo argomento sia valido, esso regge fin quando si rimane nell’ambito della decisione amministrativa, per esempio l’approvazione del finanziamento di un progetto da parte di un’istituzione pubblica. Ma che dire dell’uso profetico del futuro nelle campagne politiche o del suo uso scientifico negli orientamenti politici di lungo periodo ?

La fondazione SIGMA, composta da un cospicuo numero di celebri scrittori di fantascienza statunitensi, annuncia dalle pagine del suo sito:

«SIGMA è un’organizzazione senza scopo di lucro dedicata a migliorare la comprensione del futuro e le conseguenze di lungo termine delle azioni di governo. Poiché il futuro è l’interesse comune degli scrittori di fantascienza, SIGMA intende condividere le sue conoscenze in questo settore nell’interesse della nazione»[17].

La fantascienza offre i suoi servigi alle politiche di governo.

Evidentemente, lo scetticismo dei pirroni come Carneade, che rifiutano valore e significato alla previsione, non è condiviso da tutti. Al contrario, il Novecento è stato un secolo così denso di previsioni e veggenti che l’ultimo volume di una autorevole e pregiata antologia del pensiero scientifico e filosofico del Novecento si chiude con i testi di due illustri futurologi: Alvin Toffler e, appunto, il prospettivista Herman Kahn[18]. Come gli oracoli a Delfi detenevano nella Grecia classica un potere così solido da spingere alcuni a parlare di una “futurocrazia”, così i grandi studiosi contemporanei della previsione hanno spesso goduto di un prestigio paragonabile a quello della Pizia.

Lo scrittore e filosofo Franco Berardi, in un saggio  intitolato Dopo il futuro, ha sottolineato a più riprese come, a  partire dal movimento futurista, il Novecento sia stato il secolo che “ha creduto nel futuro”[19].

Berardi ha mostrato come la fiducia nel futuro che ha caratterizzato il Novecento vada Titanic, le immagini storiche del disastro | Scienze Fanpageinterpretata nel senso in cui si traduce l’inglese to trust:  un credere inteso come vera e propria fede. Diverso dal più comune to believe che si riferisce al semplice credere nell’ esistenza di qualcosa. Credere nel futuro con fede (trust), assegnarli un significato di progresso e di necessaria evoluzione è, secondo Berardi, uno dei tratti principali che hanno caratterizzato l’immaginario delle prime decadi del Novecento. Nella concezione di Berardi il domani, fino a quel momento storico, era accettato come un fatto (believe) ma non  prometteva una felicità nel nome della quale impegnarsi e credere (trust).             Sebbene i segni di questa fiducia nel futuro fossero già evidenti alla metà dell’Ottocento, occorre senz’altro riconoscere che nel secolo breve il fenomeno tende ad essere enfatizzato e ad assumere forme estreme. Il Manifesto Futurista di Filippo Tommaso Marinetti (1909) mostra con molta evidenza come la fiducia nella macchina raggiunga forme deliranti nell’immaginario collettivo novecentesco. La fede nel futuro di quegli anni, caratterizzata da una sorta di eccitazione per la  “meccanica” e le sue promesse riceverà un primo, durissimo colpo con il naufragio del Titanic, il transatlantico che affondò nel corso del suo primo viaggio. 

Le parole di una celebre canzone del cantautore Francesco De Gregori, intitolata I muscoli del capitano tratta dall’album Titanic, esprimono, forse meglio di altre, come il terribile incidente, avvenuto all’alba del quattro Aprile 1912, sia assurto al ruolo di simbolo dell’ingenua arroganza novecentesca:

«Questa nave fa duemila nodi,
in mezzo ai ghiacci tropicali,
ed ha un motore di un milione di cavalli
che al posto degli zoccoli hanno le ali.

La nave è fulmine, torpedine, miccia, scintillante bellezza, fosforo e fantasia,
molecole d’acciaio, pistone, rabbia, guerra lampo e poesia.
In questa notte elettrica e veloce,
in questa croce di Novecento,
il futuro è una palla di cannone accesa e noi la stiamo quasi raggiungendo.

E il capitano disse al mozzo di bordo
“Signor Mozzo, io non vedo niente.
C’è solo un po’ di nebbia che annuncia il sole. Andiamo avanti tranquillamente”».

Testo molto raffinato, allusivo, che nelle ultime righe mostra come la speranza (“annuncia il sole”) quando si sviluppa in un contesto di incertezza (nella nebbia) possa ingannare fino a provocare il disastro (“andiamo avanti tranquillamente”). Pare che il comandante del Titanic, Edward John Smith, avesse dichiarato qualche anno prima del tragico naufragio di non riuscire a  immaginare alcuna condizione per la quale una di quelle navi avrebbe potuto naufragare.

Limiti

La fede nella meccanica ebbe origine dal successo della fisica di Isaac Newton, che alla fine del Seicento pubblicò il suo capolavoro Philosophiae naturalis principia mathematica. Il sistema solare, nella visione di Newton, ricordava uno splendido meccanismo di precisione ad orologeria, un dispositivo ordinato di cui era possibile descrivere dettagliatamente ogni singolo istante, passato, presente  o futuro.

Il grande astronomo e matematico francese Pierre Simon Laplace nel suo Saggio filosofico sulla probabilità (1812) aveva ipotizzato un intelletto (il cosiddetto demone laplaciano) che sarebbe stato capace, se fornito di dati adeguati, di prevedere lo stato dell’universo ad ogni istante successivo in modo tale che:


«nulla sarebbe incerto per lui, e il futuro, come il passato, sarebbero presenti al suo sguardo»[20].

Era il determinismo. Un completo potere di previsione, in un quadro del  genere, veniva considerato un’ipotesi realistica e a portata di mano.

Ma Poincaré replicava nel 1908 che le cose non stavano affatto così, e che piccole differenze nelle condizioni iniziali potevano produrre un errore enorme in quelle successive, fino a re..ndere la previsione del tutto impossibile[21].

Non è questa la sede, né siamo le persone più indicate, per fornire un’esposizione, anche succinta e schematica, di argomenti scientifici come il problema dei tre corpi esposto da Poincaré, o come i cosiddetti frattali scoperti dal meteorologo del MIT Edwar Lorenz o, ancora, come il concetto generale di caos deterministico. Comunque, per il problema dei  tre corpi studiato da Poincaré, si tenga conto che mentre le orbite di due corpi (per esempio il sole e  uno dei suoi pianeti) sono  regolari e prevedibili, la situazione cambia in presenza di un terzo corpo. Per esempio, la previsione della posizione di un pianeta che orbiti in un sistema costituito da due soli fissi di uguale massa, dipende talmente dalle condizioni iniziali che anche il più piccolo errore può alterare l’orbita del pianeta dopo un numero minimo di rivoluzioni. Per la meteorologia di Lorenz, accontentiamoci di dire che vale a tutt’oggi la regola secondo cui non ci si dovrebbe affidare a previsioni del tempo che vadano oltre i tre giorni. Anche qui, il minimo errore nella rilevazione delle condizioni iniziali (o il più piccolo arrotondamento), provoca divergenze immense nel risultato finale. E non c’è potenza di calcolo che possa eliminare questo fenomeno. È quello che Lorenz ha definito “effetto farfalla” il famoso battito d’ali di una farfalla in Brasile che potrebbe creare un tornado in Lousiana la  prossima settimana.

In casi di questo genere parliamo di caos deterministico perché sebbene si tratti di sistemi strettamente deterministici, si comportano in modo apparentemente casuale, rendendo azzardate le previsioni. Tutto questo senza affrontare i problemi matematici iniziati con le antinomie legate all’autoreferenzialità studiate da Bertrand Russell, che culminarono nella prima metà del Novecento nei celebri teoremi sull’incompletezza aritmetica di Kurt Göedel[22].

Comunque, ad uscire seriamente compromesso da questa mole di studi è stato il mito del potere di previsione della scienza.

Se si riflette sull’importanza di questo elemento di crisi del potere della previsione si inizia anche a comprendere perché la fantascienza del Novecento, a differenza di quella che l’ha preceduta, abbia via via dismesso ogni ottimismo per abbracciare un’idea di futuro controutopica, in cui le promesse di un domani migliore volgono sistematicamente nel loro contrario e si trasformano in inferni come quelli descritti in romanzi come 1984 di George Orwell o Il mondo nuovo di Aldous Huxley. Nella maggior parte dei casi, la perfezione teorica dei modelli di futuro possibile si scontra con le imprevedibili complicazioni della loro implementazione nella realtà. Sotto questo profilo il grande successo del romanzo Jurassic Park di Crichton[23], considerando i suoi continui riferimenti alle teorie del caos, è anche il segno di un’adesione di massa ad un atteggiamento assai prudente nei confronti del futuro, riconducibile ad un approccio filosofico postmoderno. Le biotecnologie saranno pure in grado di clonare i dinosauri a partire dai loro codici genetici e di farli tornare a vivere nella nostra epoca, ma le conseguenze di una simile scelta potrebbero, come avviene nel romanzo e nel film che ne ha tratto Steven Spielberg, sfuggire di mano a scienziati e imprenditori con conseguenze catastrofiche per il pianeta. Questa inclinazione verso il dubbio e la prudenza, caratteristica della fantascienza del secondo Novecento, in tempi di crisi economica, è stata stigmatizzata da alcuni come colpevolmente disfattista. Al punto che è stato recentemente varato dal World Policy Institute un progetto che mira a una fantascienza “ottimista”: il Project Hieroglyph[24] avrebbe come obiettivo, nientedimeno, che quello di infondere ottimismo nella science fiction per stimolare scienziati e tecnologi alla realizzazione di progetti scientifici e tecnologici ambiziosi. Per bizzarra che sia, questa idea ha avuto un certo successo, ed è stata recentemente pubblicata un’antologia di testi di fantascienza “ottimisti” intitolata appunto “Hieroglyph: Stories and Vision for A Better Future”.

Si tratta, tuttavia, di tentativi inopportuni e destinati al fallimento: se il disastro della seconda guerra mondiale, con i suoi campi di concentramento, l’atomica e le dittature, ha finito con il dare ragione a quanti guardavano con scetticismo e diffidenza ogni slancio verso “i domani che cantano”,  non si può certo dire che le promesse di futuro del secondo dopoguerra si siano realizzate. Come spiega lucidamente Edgar Morin, nel suo libro intitolato La via:

«Il progresso grande mito provvidenziale dell’Occidente, aveva invaso l’intero pianeta nella seconda metà del XX secolo. Assicurava la migliore società possibile all’Ovest, un avvenire radioso all’Est e l’emancipazione al Sud, o con la democrazia dell’Ovest o con il socialismo dell’Est. L’illusione di un progresso concepito come una legge della Storia si è dissipata nello stesso tempo nei disastri dell’Est, nelle crisi dell’Ovest, nei fallimenti del Sud, nella scoperta di minacce di ogni tipo (in particolari nucleari ed ecologiche) aleggianti su tutta l’umanità, e nell’irruzione di una straordinaria incertezza nell’orizzonte del futuro»[25].

Molto amare anche le conclusioni del lavoro dello storico dell’avvenire  Georges Minois:

 «Il pessimismo contemporaneo non tocca solo i contenuti del futuro, ma anche la capacità di predire dell’uomo. La rimessa in discussione della ragione, l’ipercritica e lo scetticismo, aggiunti alla constatazione di ripetuti errori di previsione di ogni tipo, portano a una rivalutazione globale della possibilità di predire. Il XX secolo ha deluso tutte le aspettative e termina, in quasi tutti i campi, ben al di sotto delle attese di cento anni fa». (Minois, Cit.)

Quanto basta per guardare con una certa diffidenza la retorica dell’ottimismo e della felicità ad ogni costo, anche quando cerca di coinvolgere il mondo della fantascienza.

Si potrebbe allora semplificare brutalmente il discorso affermando che le previsioni di futuro di tipo sociale o tecnologico, visto il gran numero di variabili che le caratterizzano, anche quando sono molto ben strutturate sotto il profilo metodologico, si scontrano facilmente con eventi imprevisti che, modificando la traiettoria storica, vanno ad influenzare la previsione stessa e in molti casi a vanificarla.

Può tornare utile prendere a prestito un’espressione di origine filosofica come “eterogenesi dei fini”. Nata originariamente per definire alcuni esiti peculiari di comportamenti individuali di esseri umani, l’eterogenesi dei fini ci fornisce ottimi spunti riguardo alcuni dei rischi in cui facilmente incorre il lavoro di previsione. Si tratta del concetto:

«secondo il quale le azioni umane possono riuscire a fini diversi da quelli che sono perseguiti dal soggetto che compie l’azione; in particolare, ciò avverrebbe per il sommarsi delle conseguenze e degli effetti secondari dell’agire, che modificherebbe gli scopi originari, o farebbe nascere nuove motivazioni, di carattere non intenzionale»[26].

Per fare un esempio tra i tanti possibili, possiamo pensare a come, nella città di Roma, la costruzione dello splendido quartiere popolare della Garbatella venne intrapresa nei primi anni Venti sulla base di un progetto di ingegneria urbana che prevedeva un porto fluviale sul Tevere nell’area dell’attuale quartiere di San Paolo. La progressiva diffusione dell’automobile e dei trasporti su strada rese in breve tempo obsoleta l’idea del porto fluviale che venne presto abbandonata. A causa di questo repentino mutamento tecnologico, la Garbatella non divenne mai quel “borgo marinaro” che era stato originariamente previsto dal progetto.  Questo non ha impedito alla Garbatella di crescere negli anni seguenti come una “borgata” sui generis ispirata alle città giardino dell’architettura socialista di Robert Owen e  Ebenezer Howard.

 Come introduzione a questo ordine di problemi particolarmente utile la lettura di alcuni romanzi relativamente recenti di fantastoria (cosiddetta steampunk) come ad esempio La macchina della realtà[27] di Bruce Sterling e William Gibson, in cui i due autori descrivono un’Inghilterra vittoriana profondamente diversa da quella effettivamente esistita storicamente. Sviluppando l’ipotesi fantascientifica e controfattuale che Charles Babbage fosse riuscito nel suo intento di realizzare un computer digitale completamente meccanico (e incuranti del celebre detto secondo cui “la storia non si fa con i se”), i due scrittori hanno ambientato il loro romanzo in una Londra di metà Ottocento in cui il computer meccanico di Babbage aveva anticipato di oltre un secolo la diffusione dei dispositivi per il calcolo automatizzato. Ne viene fuori un fascinoso scenario fatto di locomotive a vapore guidate dal pilota automatico e da immensi calcolatori di ottone cromato alimentati a carbone.

Queste  forme di narrazione fantastica, che nel gergo dei letterati sono chiamate “ucronie”,  invece di proiettarci in mondi futuri come fa di solito la fantascienza, inventano quelli che potrebbero definirsi dei “passati possibili”, suggerendo che un’innovazione tecnologica, o un’invenzione scientifica, qualora fossero avvenute in tempi anche lievemente diversi, avrebbero probabilmente determinato un diverso corso della storia e dell’evoluzione della civiltà. Si tratta di un’idea che si può ricondurre al concetto di contingenza che il biologo e storico della scienza Stephen J. Gould ha posto al centro della sua concezione dell’evoluzione biologica.

Secondo Gould se cambia un evento remoto, anche di pochissimo e in un modo privo di alcuna apparente importanza, l’evoluzione imboccherà un canale radicalmente diverso. La cosa ha conseguenze rilevanti nell’ambito del nostro ragionamento. Anche nel caso dell’evoluzione biologica il potere di previsione appare molto limitato.

Una delle ipotesi più sensate e allo stesso tempo clamorose che deriva dalla concezione dell’evoluzione biologica di Gould è quella secondo la quale il linguaggio e, più in generale, l’intelligenza umana, non sarebbero il risultato di un processo di accrescimento  biologicamente “progettato” del cervello. Non si tratterebbe, come molti pensano, dell’esito conclusivo di un processo finalistico che, a partire dagli ominidi, ha seguito una serie di tappe evolutive, ma bensì di una conseguenza in larga parte del tutto accidentale del processo di accrescimento stesso. Secondo Gould il cervello umano si è certamente accresciuto nel corso del processo di selezione naturale ma:

«grazie a questa dimensione e alla conseguente densità e livello di connessione neuronale così conseguite, i cervelli umani sono stati in grado di mettere in pratica un’immensa gamma di funzioni, del tutto sconnesse dalle ragioni originali che ne hanno determinato l’incremento di volume.(…). Io non sono in grado di provare che il linguaggio non sia stato la  base selezionata atta a permettere l’incremento di volume del cervello; ma gli universali del linguaggio sono talmente diversi da qualsiasi altra cosa presente in  natura, e così originali nella loro struttura, da indicare che la loro origine possa dipendere più da una conseguenza collaterale legata a quell’incremento, che da uno sviluppo lineare a partire dai grugniti e dai gesti primitivi»[28].

Al di là del fascino di questa ipotesi, peraltro condivisa dal celebre linguista  Noam Chomsky, quel che qui occorre notare è come le circostanze possano modificare sostanzialmente la traiettoria di processi biologici in cui la dimensione del tempo assume un’importanza centrale. Dove la logica e la matematica solitamente esplorano mondi eterni ed eternamente reversibili, la biologia dei viventi rivela un tempo segnato da trasformazioni occasionali ma spesso irreversibili. Stando alla concezione di Gould una manifestazione complessa come il linguaggio umano sarebbe l’esito di una contingenza, una forma di opportunismo biologico che la nostra specie ha casualmente adottato nel corso della sua storia. Dunque, la nostra civiltà e la nostra cultura, in questa prospettiva, sarebbero l’effetto di un insieme di circostanze piuttosto improbabili, e non certo l’esito di qualche disegno più o meno intelligente o di qualche presunta “intenzione” della natura.

Militanze rizomatose e contingenti

La sfida, a questo punto, è nel chiedersi che tipo di progettualità politica possa essere immaginata su queste basi. A prendere sul serio le cose fin qui dette, cosa rimane della certezza granitica con cui un tempo il movimento operaio lavorava all’inveramento storico del comunismo, alla sua “venuta”, al suo avvento ?

Resta in gran parte fermo il precetto marxiano secondo il quale  “non si danno ricette per le trattorie del futuro”. Ma se questo cartello di senso vietato conserva la sua nobile funzione originaria – quella di concentrare il pensiero e la prassi sulla critica contro la sola società esistente – le armi della critica andranno comunque radicalmente rinnovate. Se una società libera dallo sfruttamento capitalistico e  dalle diseguaglianze è possibile, deve necessariamente trattarsi di una società altamente complessa di cui si dovrebbero  delineare almeno alcuni tratti. Diciamo pure gli ingredienti principali. E se la previsione generale di Marx di una crisi definitiva del capitalismo va considerata ancora valida, la discussione fin qui svolta sui limiti della previsione e del determinismo rivela come  assuma un senso politico cruciale, oggi, l’analisi critica delle svolte e delle trasformazioni del capitalismo. Esse non possono più essere considerate deviazioni di percorso occasionali, ma vanno viste come fenomeni in grado di alterare per secoli l’assetto generale del pianeta, della sua ecologia e della sua economia. Diviene allora di importanza centrale l’ideazione di programmi antagonisti di carattere aperto, orientati sul lungo periodo ed estesi sull’intero pianeta.

Per fornire qualche suggerimento sulle motivazioni individuali che dovrebbero sorreggere un simile impegno, conviene riflettere su quanto Gould sosteneva riguardo il rapporto tra la sua teoria e l’etica. Insieme a Richard Lewontin e ad altri, egli è stato per decenni uno storico della scienza militante, convinto che la sua visione dell’evoluzione biologica non portasse fatalmente al nichilismo ma, al contrario, implicasse, da un lato, un sensibile aumento della responsabilità di ciascuno, dall’altro, nuovi fondamenti teorici per modelli di sviluppo alternativi. È quindi interessante chiedersi quali siano state, per lui, che aveva una visione così lucida delle dimensioni aleatorie della vita biologica, le motivazioni che lo spingevano ad un impegno così intenso. Ebbene, secondo Gould, è proprio la dimensione della “contingenza” che esalta il ruolo politico, in senso lato, che ciascuno svolge nell’arco della  propria esistenza.

La logica che Gould applica alla vita umana è la stessa che applica all’evoluzione biologica. Ma le conclusioni che ne trae sono del tutto diverse da quelle che, dalla teoria dell’evoluzione di Darwin trasse, per esempio, lo spencerismo, con le sue fanfare di progresso e la  sua  esaltazione dell’umano, o da da quelle che ne ricavò l’eugenetica, con la leggenda della selezione delle razze migliori e il conseguente razzismo. In natura, secondo Gould, non c’è nessun progresso verso la perfezione e, homo sapiens, lungi dall’essere in cima alla scala naturae, ne costituisce un punto isolato, marginale e dal futuro incerto. La consapevolezza di quanto questa sua concezione fosse scientificamente inappuntabile lo spinse ad un alacre lavoro di decostruzione, in ambito epistemologico, di quei modelli dell’evoluzione biologica completamente errati ed arbitrari che, fin dall’Ottocento, erano stato usati per favorire lo sviluppo del colonialismo, del razzismo e delle discriminazioni di genere. In questo senso Gould, oltre i meriti strettamente scientifici, è stato sicuramente il più geniale divulgatore dell’evoluzionismo nel corso del Novecento.

Sebbene “La vita meravigliosa” (1946) di Frank Capra fosse un film piuttosto retorico e melenso, Gould lo scelse per dare il titolo a uno dei suoi libri più importanti. E la ragione di questa scelta va cercata nella scena in cui al protagonista principale – che dopo una serie di fallimenti stava pensando al suicidio – viene mostrato da un angelo “il film” di cosa sarebbe stata la vita nella sua cittadina se lui non fosse esistito. Una narrazione controfattuale (ucronica) che ricapitolava, al futuro anteriore, come il suo mondo sarebbe stato senza di lui. Ne veniva fuori che le scelte che il protagonista aveva compiuto erano state più importanti di quel che lui poteva pensare in quel momento. Ed erano state quelle giuste. La vita senza di lui sarebbe stata molto peggiore per i suoi concittadini e i suoi cari.

Contrariamente a quanto sosteneva lo scettico Carneade, Gould riteneva possibile riconoscere, allo stesso tempo, sia la contingenza che il libero arbitrio. Il che significa, tuttavia, che siamo chiamati a scegliere nell’incertezza. Le cospicue componenti di aleatorietà della nostra vita, in quanto esseri coscienti, non ci esonerano dalla responsabilità. E qui gli storicisti dotati di qualche saggezza tireranno finalmente un sospiro di sollievo. La biologia evoluzionistica di Gould vede la storia rientrare in campo con tutto il suo peso:

«Quando ci rendiamo conto che l’esito finale non era necessariamente determinato, che ogni mutamento in ogni passo lungo la strada avrebbe potuto indirizzare gli eventi in una diversa direzione, ci rendiamo conto del potere causale dei singoli eventi. Possiamo discutere, lamentarci o esultare su ogni particolare, poiché ciascuno di essi può avere il potere di determinare una trasformazione. La contingenza è l’affermazione del controllo degli eventi immediati sul destino, il regno perduto per colpa di un chiodo di un ferro di cavallo»[29].

E in conclusione de “La vita meravigliosa ”:

«Noi siamo figli della storia, e dobbiamo seguire il nostro cammino in  questo, che è il più diverso e il più interessante degli universi concepibili e che ci offre quindi la massima libertà di avere successo, o di fallire, nella via che abbiamo scelto».

Ma al di là di questa sua visione della condizione umana, va notato come la rivisitazione del passato di un singolo essere umano riveli come ad ogni biforcazione, ad ogni scelta consapevole o inconsapevole, le cose sarebbero potute andare diversamente. Analogamente a quanto accade, sul piano delle dimensioni storiche collettive utilizzando il già menzionato concetto di ucronia, oggi particolarmente diffuso nell’ambito della Science Fiction. Dal punto di vista etico siamo molto vicini alla rete di Indra dei buddisti: ogni cosa dipende da noi e noi dipendiamo da ogni cosa. È la dottrina dell’interdipendenza. Secondo la famosa descrizione di Alan Watts:

«Immaginate una rete di ragno multidimensionale, coperta di primo mattino di gocce di rugiada. E che ogni goccia di rugiada contiene il riflesso di altre gocce. E in ogni goccia di rugiada riflessa i riflessi di tutte le altre gocce di rugiada in quel riflesso, e così all’infinito»[30].

Il testo che, sia pure in modi a volte sibillini, ha fornito le maggiori indicazioni pratiche per  vivere ed agire politicamente in un contesto dominato dalle dinamiche della contingenza, è Rizoma di Gill Deleuze e Felix Guattari[31]. I due pensatori francesi erano molto attenti alle nuove conoscenze che in quel periodo stavano maturando nell’ambito della biologia evoluzionistica, della genetica, dell’informatica e della teoria dei sistemi. Nella prefazione all’edizione italiana di Rizoma pubblicata nel 1997 i sacri pazzi[32] segnalavano che “certamente c’è una  storia universale ma è quella della contingenza” e indicavano questo concetto di storicità della contingenza come uno dei punti fondamentali di Millepiani, l’opera di cui Rizoma costituisce la prima sezione. L’orizzontalità del rizoma, la sua concrezione in bulbi e tuberi, rinvia, anche sul piano delle immagini, allo smantellamento teorico delle gerarchie biologiche della scala naturae. Così, alla nota numero quattro del primo capitolo di Rizoma, Deleuze e Guattari citano un articolo di Y. Christen sul lavoro dei biologi Benveniste e Todaro intorno al ruolo dei virus nell’evoluzione, mettendo in corsivo questo passo:

«Se questi trasferimenti di informazioni avessero avuto grande importanza, si sarebbe addirittura portati in certi casi a sostituire con schemi reticolari (con comunicazioni tra branche che seguono le loro differenziazioni) gli schemi in forma di cespuglio o albero che servono oggi per rappresentare l’evoluzione»[33].

Si noti come tale osservazione, qui limitata al ruolo dei virus, anticipa le conclusioni riguardo gli schemi dell’evoluzione che Gould stava sviluppando in quegli stessi anni. Le andature reticolari delle rappresentazioni grafiche dell’evoluzione sostituiranno via via quelle arborescenti.

Da un punto di vista politico, lavorare per il rizoma, fare rizoma, significa allora decostruire i sistemi gerarchici. Scrivevano Deleuze e  Guattari:

«In realtà non basta dire Viva il molteplice, anche se questo grido è difficile da lanciare. Nessuna abilità tipografica, lessicale o sintattica basterà per farlo sentire. Il molteplice bisogna farlo, non aggiungendo sempre una dimensione  superiore, ma al contrario il più semplicemente possibile, a  forza di sobrietà, a livello delle dimensioni di cui si dispone sempre n -1 (l’uno fa parte del molteplice solamente così, essendo sempre sottratto). Sottrarre l’unico dalla molteplicità da costruire; costruire in n-1. Questo sistema potrebbe essere chiamato  rizoma».

Si tratta di indicazioni generali per una condotta politica di ispirazione materialista, fondata su argomenti scientifici di carattere descrittivo e che si contrappone, sul piano teorico, al naturalismo capitalista e utilitarista che tanta parte ha avuto nella rappresentazione sociale[34] della convivenza tra esseri umani diffusa ai nostri giorni.

Lì dove la cultura del capitalismo è eternamente impegnata a costruire diagrammi gerarchici che svettano verso l’alto, sostenendone l’inevitabilità, l’agire rizomatico la incalza senza posa, preoccupandosi di appiattire e spianare verso il basso. In entrambi i casi abbiamo una concezione dell’umano che trae ispirazione da una rappresentazione della natura e, in particolare, da una descrizione dell’andamento generale dei processi che presiedono la vita e l’evoluzione. Solo che mentre il modello capitalistico “rampante” produce alberi labirintici verticali e selettivi, il modello rizomatico costruisce nicchie, scava buche, tane, cunicoli in un sottosuolo virtualmente infinito. E opera in questo modo non soltanto per sfuggire alla fossa dei leoni, per realizzare una sorta di esodo dal bellum omnium contra omnes di Hobbes, ma soprattutto perché ritiene che la vita (il bios) aderisca spontaneamente alla dimensione dell’orizzontalità, vi scorra in modo più libero e naturale, e vi acquisisca, infine, maggiore consistenza. I due approcci condividono l’idea di fondo di una natura umana modellata sulle linee dell’evoluzione biologica, ma la articolano in due chiavi diverse e, in punti politicamente fondamentali, completamente opposte.

Particolarmente  interessante è evidenziare come la visione della biologia di Gould possa funzionare come una sorta di cartina tornasole per la filosofia pratica di Rizoma: la realtà biologica è rizomatica. Le costruzioni gerarchiche sono, in parte, meccanismi di difesa antropocentrici dinei confronti della condizione di fragilità di homo sapiens, in parte vere e proprie architetture logiche del potere e del dominio, come lo sono state le teorie scientifiche razziste nel corso del colonialismo, l’oppressione delle donne e, in generale, l’atteggiamento orientato a vedere ogni differenza come deficienza.

Quanti si ispirano alle filosofie continentali che, nel corso del Novecento e fino ai nostri giorni, hanno fermamente negato che il concetto di “natura umana” abbia un qualsiasi significato, guardano simili argomenti con malcelato orrore. In particolare la sinistra italiana, allineata da sempre su posizioni che, muovendo dalla fenomenologia, giungono fino all’esistenzialismo, considera le filosofie ispirate alla biologia pericolose e frequentate con successo esclusivamente da personaggi che se la intendono con il capitalismo più becero: sociobiologi eredi del darwinismo sociale o teorici di qualche nuova versione, eventualmente digitale, dell’eugenetica.

A giudizio degli scriventi questo è un errore profondo e calcificato nella cultura italiana, che rischia di pregiudicare la possibilità di un antagonismo sociale che sia all’altezza delle sfide contemporanee. Qui non si intende riaprire una polemica secolare tra chi guarda alle sensibilità di Marx e di Engels per l’evoluzionismo e chi invece si ostina a negare l’importanza politica (e filosofica) di quelle sensibilità. E men che meno si intende sollecitare quell’altra polemica, altrettanto estenuante, tra chi si considera materialista ma solo da un punto di vista “storico” ed economico e chi invece estende questo materialismo al cervello, alla natura umana e all’evoluzione biologica. Tuttavia, almeno un riferimento critico di carattere generale alla postura intellettuale della sinistra italiana nei confronti della biologia ci sembra indispensabile.

In uno degli scritti più importanti di Antonio Caronia, il poscritto alla terza edizione de Il Cyborg, pubblicata nel 2008 dalla ShaKe Edizioni[35], questo straordinario studioso della rivoluzione digitale e del posthuman, criticava un testo di Pietro Barcellona, che all’epoca era il Presidente del Centro per la Riforma dello Stato (CRS), una delle più prestigiose istituzioni culturali della sinistra italiana. Si tratta del testo di una lectio magistralis tenuta da Barcellona un anno prima al CRS per la celebrazione dei novantadue anni di Pietro Ingrao[36]. Sì può certamente sostenere che Barcellona esprimesse in quella lezione una posizione condivisa dalla quasi totalità della sinistra pensante di quel periodo. E questa posizione può essere riassunta citandone due righe fondamentali: “Se il borghese è per statuto uomo biologico-naturale”, scriveva Barcellona, “il politico è per statuto il suo antagonista”. Questo schierare la politica contro la biologia, questo vedere la qualità dell’umano come qualcosa di nobilmente antibiologico, è un tratto caratteristico della cultura occidentale. Ed è particolarmente vivo nella tradizione filosofica italiana, che quando non oppone religiosamente l’anima al corpo, oppone lo spirito alla materia, secondo i dettami di quel neoidealismo pasticcione da cui la sinistra non si è mai completamente affrancata. Le righe in cui Caronia critica la posizione di Barcellona meritano di essere riportate in modo puntuale:

«Il primo equivoco di Barcellona sta nell’accettare la pretesa del borghese di essere “uomo naturale”, del capitalismo di essere “modo naturale di produzione”, del mercato di essere “modello naturale di relazioni umane”. Naturalmente nessuna di queste pretese è fondata: borghesia, capitalismo, mercato, non sono affatto “naturali”, sono costruzioni storiche e quindi contingenti, e quindi soggette al mutamento sociale, e quindi alla possibilità e alla logica del conflitto: e Barcellona lo sa bene. Ma tutto ciò non autorizza affatto a concepire i processi “autenticamente umani” come processi che trascendono la natura e la biologia, non autorizza una visione della politica e del comunismo postbiologica. In questa ripresa e esasperazione “da sinistra” del modello antropocentrico c’è quindi un equivoco di fondo: questa ripresa è infatti possibile solo se si accetta ciò che si pretende di criticare, cioè l’identificazione del capitalismo con la naturalità, del borghese con l’ “essenza umana”. Al preteso naturalismo della borghesia, si contrappone così un trascendentalismo dell’uomo, che non può avere fondamento, come abbiamo visto, se non in una separazione dualista tra mente e corpo.

Il trascendimento del  biologico, insomma, non è che una posizione spiritualista o idealista che rientra dalla finestra dopo essere stata cacciata dalla porta. (…)

Ma rifiutare il postumano in nome di un “ritorno all’umano”, di un antropocentrismo riaffermato orgogliosamente come unico ambito possibile per la produzione del senso, può significare solo rifiutare idealisticamente le nuove condizioni della vita associata e della produzione sociale, dal cui  interno soltanto può maturare la ricerca di  pratiche e sperimentazioni che superino l’esistente».

Se Caronia ha fornito in queste righe una risposta filosofica adeguata alle tipiche posizioni idealistiche della sinistra italiana, occorre sottolineare come la conseguenza principale di quelle posizioni sia stata quella di lasciare campo libero al capitalismo nell’uso politico dei saperi fondati sulla biologia. Cerchiamo di capire perché.

Errabondi scimmioni

La concezione di  Gould e Lewontin, che qui sosteniamo sia rizomatica, è fondata su pazienti osservazioni dei mutamenti degli organismi biologici, sottoposte a rigorose verifiche statistiche. Questa forte componente di analisi numerica dei dati, che implica un notevole impegno metodologico, ha suggerito a volte agli studiosi impegnati in questi settori, di evitare eccessive polemiche sulla natura ideologica della concezione antropocentrica e razzista della natura, cercando di spiegare molti di questi errori in termini di inadeguatezza degli strumenti e delle metodologie del passato, oppure in termini di quelli che si possono definire errori sistematici. In fondo, se si è insistito così a lungo nel proporre errori grossolani, come per esempio quello secondo cui la scala naturae culminerebbe nel maschio bianco caucasico, seguito di presso nella sequenza dal nero e poi dall’orango, è anche perché questa visione appariva ovvia. Un’ovvietà di comodo, non c’è dubbio, m anche una conseguenza di una tendenza coercitiva a semplificare. Questo ragionamento riposa su un fondamento di verità: l’Cccidente prendeva per vero quel che gli faceva comodo anche a causa di quella che, a un primo sguardo,  potrebbe apparire come una sorta pigrizia intellettuale. Si deve considerare che il disvelamento che venne compiuto da biologi e storici della scienza alla fine degli anni Settanta, quando rivelarono come la scala naturae non fosse in realtà una scala e non si potesse rappresentare graficamente a forma di albero, ma eventualmente a forma di cono rovesciato, giungeva al termine di complesse ricerche durate decenni. Al contrario, le comode semplificazioni, come per esempio quella secondo cui l’uomo è più intelligente della donna perché ha il cervello più grosso, erano, almeno apparentemente, quasi automatiche e dotate, secondo i loro apologeti, del tratto della semplicità e dell’eleganza tipiche della spiegazione scientifica “parsimoniosa”. Gould, in un capolavoro come Intelligenza e Pregiudizio[37] per una forma di rispetto accademico nei confronti dei suoi avversari, scelse raramente la spiegazione politica e “di classe” per fenomeni come, per esempio, le discriminazioni scolastiche o le selezioni dei migranti ai primi del Novecento, che erano basate su teorie poco sostenibili e poco fondate come quella del QI (Quoziente Intellettuale). Preferiva, in questi casi, parlare di errori, tanto più giustificabili in termini psicologici, quanto più, sotto la sferza delle sue affilate analisi critiche, si rivelavano macroscopici e clamorosi. In fondo non  si poteva escludere che in epoca pre-informatica gli scienziati avessero incontrato delle difficoltà nel trattare i dati che  oggi, armati di software potentissimi come siamo, non riusciamo neanche ad immaginare. Questo, almeno a volte, poteva spiegare certi vistosi scostamenti dei dati e talune ipotesi teoriche del tutto insostenibili ad una verifica appena più attenta.

Questo stile intellettuale, ispirato ad umanità e saggezza, ha avuto, a giudizio degli scriventi, una conseguenza imprevista e indesiderata: quella che l’ipotesi degli errori sistematici, dell’incapacità a ragionare statisticamente, si è rivelata un problema esteso a tutta la popolazione umana. È come se la constatazione che nella rappresentazione delle teorie  dell’evoluzione siano stati commessi errori clamorosi, vista la presunta intelligenza degli scienziati coinvolti, avesse suggerito che l’errore in certe valutazioni di carattere statistico o matematico fosse una caratteristica del tutto umana, dovuta al nostro ordinario funzionamento mentale (e non ai pregiudizi e alle  ideologie degli scienziati). Questa interpretazione, come discuteremo a breve, si è  rivelata in gran parte scientificamente fondata. Presi con il “sorcio in bocca” , quanti per decenni hanno cercato di giustificare una società divisa in classi sulla base del quoziente intellettuale o della dotazioni genetica, hanno trovato nella tendenza del genere umano a semplificare ed equivocare, una giustificazione convincente e originale per i loro errori. In parte, questa tendenza naturale alla distorsione ha fornito loro una spiegazione assolutoria per modelli scientifici del tutto errati (e probabilmente non ingenui) come quelli che  sostenevano il razzismo, in parte, ha aperto un campo di studi nuovo, quello dei cosiddetti bias cognitivi, che si rivelerà nel tempo particolarmente complesso, interessante e insidioso per le politiche che intendono contrastare le diseguaglianze. In certa misura l’aristocrazia tecnocratica del cosiddetto “un per cento” si caratterizza oggi per una nuova consapevolezza scientifica, gestita in modo esclusivo e burocratico, di quella tendenza umana all’errore che studiosi militanti e benintenzionati come Gould hanno evidenziato a partire dalla metà del secolo scorso per ragioni politiche assai diverse, se non del tutto opposte, a quelle delle nuove burocrazie economiche.

 Pensiamo, in particolare, alle oramai celebri ricerche di Amos Tversky e Daniel Kahneman sugli errori logici e statistici in cui noi umani cadiamo regolarmente. Un lavoro monumentale di psicologia della scelta che è valso il Nobel per l’economia a Kahneman, e che si fonda su presupposti naturalistici. L’idea di base è quella che se commettiamo una serie di errori sistematici, è perché siamo biologicamente fatti in questo modo. Si tratta, secondo questi studiosi, di un portato dell’evoluzione, dovuto alle condizioni originarie in cui homo sapiens si è sviluppato nel suo ambiente naturale.

 Come specie, ci siamo evoluti nei deserti, nelle foreste e nelle savane e portiamo con noi questa struttura cognitiva primordiale fatta per sopravvivere in contesti ostili. Siamo chiamati ogni giorno ad immettere questa arcaica struttura mentale di origini biologiche in un confortevole ambiente tecnologico che, almeno in teoria, dovrebbe essere stato costruito a “misura d’uomo”.  Se, nel farlo, ci scopriamo inadeguati, qualche ragione dovrà pur esserci. Probabilmente, non c’è battuta migliore, per fornire una prima idea della faccenda, di quella di Paolo Guzzanti secondo la cui: “la risposta è dentro di te, ma è quella sbagliata”.

 Facciamo un esempio classico, tratto dalla letteratura di settore. Un tipico test preso dalle batterie realizzate da Amos Tversky e Daniel Kahneman[38]. Proviamo ad immaginare una città con due ospedali dotati, ciascuno, di un reparto maternità, uno più grande, in cui nascono mediamente 45 bambini al giorno, uno più piccolo dove ne nascono mediamente 15 al giorno. Immaginiamo che ognuno dei due reparti maternità sia dotato di un registro, in cui si è deciso di annotare tutte le giornate in cui nel reparto nasce una percentuale di bambini dello stesso sesso superiore al 60%. I dati empirici mostrano come la media delle nascite di maschi e di femmine si aggira ogni giorno intorno al 50%. Gli scostamenti significativi da questo valore medio sono relativamente rari. Il quesito che viene posto nel quiz è  se, nel corso del tempo, di queste giornate speciali ne avvengano circa lo stesso numero in entrambi i reparti, se ne avvengano di più nel reparto piccolo o se ne avvengano di più in quello grande. Ebbene, la grande maggioranza dei soggetti sceglie la prima risposta, quella secondo cui le giornate segnate da più nascite di maschi o di femmine, avvengano tendenzialmente con la stessa frequenza in entrambi i reparti. E le cose, invece, non stanno così. La risposta corretta è quella secondo cui le giornate straordinarie sono più frequenti nel reparto piccolo. La probabilità di avere fluttuazioni aumentano quanto più piccolo è il campione. 

Di questi errori sistematici, di risposte che sono dentro di noi ma che sono irrimediabilmente sbagliate, ne sono state collezionate moltissime e negli ambiti più diversi, si va dalla fisica (cosiddetta “ingenua”) agli errori nelle previsioni politiche o mediche. Anche chi gioca d’azzardo è vittima di una serie di errori sistematici, per esempio, la cosiddetta gambler’s fallacy. Quanti ancora credono, in perfetta buona fede, che un numero del lotto che non esce da molto tempo debba prima o poi uscire ? In realtà ad ogni nuova estrazione le probabilità di uscita di un numero sono le stesse di quella precedente. Ad ogni nuovo giro della ruota non c’è nessuna ragione che renda più probabile l’uscita di un numero rispetto a quella di un altro.

Ad accorgersi di una relazione tra le ricerche di Gould, Lewontin, Levins e altri sull’evoluzione biologica e questi studi più recenti sugli errori sistematici è stato Massimo Piattelli Palmarini, scienziato e divulgatore di indiscusso talento. In un libro di quasi trent’anni fa, egli scriveva:

«Non voglio resistere alla tentazione di sottolineare qui un importante nesso tra le teorie di Lewontin e i dati di Twersky e Kahneman sulla nostra  naturale, pessima intuizione dei fenomeni statistici. Lewontin, Levins e Gould ci dimostrano, fatti alla  mano e calcoli alla lavagna, o al calcolatore, che quasi nessuna delle nostre intuizioni spontanee, ovvie, “selvagge”, su come si snoda nel tempo il serpente dei processi evolutivi si rivela corretta. Non dico corretta nei dettagli, ma nemmeno corretta approssimativamente, a grandissime linee»[39].

L’idea stessa di contingenza, messa in evidenza da Gould e riconducibile, almeno a spanne, al concetto di caos deterministico, ha caratteristiche che sfuggono all’osservatore ingenuo. Questo  significa che l’ambiente naturale in cui viviamo segue regole che sono diverse da quelle che noi intuitivamente tendiamo ad attribuirgli. La cosa  non è priva di conseguenze politiche di lungo periodo.

Intanto, quel che rende desolante questo scenario non è tanto la scoperta di questa nostra stupidità naturale, quanto il fatto che tale scoperta sia gestita da una cerchia limitata di esperti che la utilizza prevalentemente per imbrogliare le persone. Si potrebbe ad esempio ricordare che le centinaia di migliaia di giovani che in mancanza di lavoro e di reddito sono costretti a ripiegare su call center e altre attività commerciali di vendita, vengono spesso addestrati ad utilizzare tali “fallacie”, tali errori sistematici, per convincere le persone più ingenue e indifese a firmare contratti capestro per ottenere utilità ordinarie come la linea telefonica, il riscaldamento o il conto corrente bancario.

Pensiamo anche a come i concetti relativi alla contingenza vengano utilizzati nelle operazioni finanziarie, per esempio, da personaggi che si occupano di trading e di Hedge Fund, come il già citato scrittore Nassim Nicholas Taleb che sostiene di essersi ispirato, in alcuni periodi della sua vita, proprio all’opera di S. J. Gould. Nel mondo di Taleb i processi stocastici che agitano i mercati azionari vengono analizzati attraverso software usati per effettuare raffinate inferenze probabilistiche ad uso e consumo dei cosiddetti trader proprietari, gente che lavora per banche di investimento e istituti economici. Dove una conoscenza specialistica degli errori e delle ingenuità che sono tipiche delle persone comuni e normali, diviene uno strumento prezioso per fare quattrini ai danni dei milioni di illusi che, per  esempio, si cimentano con il micro trading, nella convinzione ingenua che si tratti di un mondo dominato da casualità pura e da forme di determinismo facilmente prevedibili, basate su semplici relazioni di causa effetto. Quel che è peggio, la consapevolezza dell’incertezza e dell’indeterminazione culmina nell’utilizzazione sistematica dei big data nel lavoro di previsione probabilistica realizzato ogni giorno dalle grandi piattaforme informatiche.

Così, quando oggi capita di incontrare qualcuno che usa l’espressione  rizocapitalismo, si  deve  ammettere che costui non è lontano dal vero. Il rizoma è diventato un modello per il capitale. Ma la responsabilità di questo passaggio è di quanti non hanno saputo intendere, per  tempo, quanto fosse importante sviluppare modelli di azione politica ispirati alle teorie della complessità e della contingenza qui brevemente accennate. In Italia, i cosiddetti “fisici del manifesto” diedero alle stampe nel 1991 un libretto perentorio intitolato Gli ordini del caos[40], che segnalava un interesse diffuso nei confronti dei nuovi indirizzi dell’epistemologia contemporanea. In quello stesso anno, nell’ambito del Convegno Spoletoscienza, Stephen J.  Gould presentò in Italia, davanti a un ampio pubblico, alcuni importanti risultati del suo fondamentale lavoro sui fossili di Burgess. Nelle università italiane il movimento della Pantera aveva mostrato una sensibilità senza precedenti per le nuove frontiere della filosofia della scienza. A dispetto di questo intreccio fortunato di circostanze, non si è avuto, nei decenni  successivi, uno sviluppo politico di questi temi proporzionato alla loro importanza.

Delle non ancor deste intenzioni di Dio

Nella letteratura della prima metà del Novecento non mancarono sensibilità intellettuali di natura profondamente diversa, se non del tutto opposta, a quelle di quanti si abbandonavano fideisticamente al sogno di un progresso infinito nel segno del determinismo e della meccanica. Italo Calvino nelle Lezioni Americane[41], dedica pagine indimenticabili a Carlo Emilio Gadda e al protagonista del  suo Pasticciaccio[42], il commissario Ingravallo, che dietro ogni delitto vedeva una  serie di cause concomitanti. Sosteneva  Ingravallo nel Pasticciaccio che:

«La causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l’effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello (…)».

Problema tanto sentito da Ingravallo che Gadda spinse il suo singolare personaggio a vagheggiare una “riforma” del concetto di causa che sembra anticipare le recenti teorie della complessità:

«L’opinione che bisognasse “riformare in noi il senso della categoria di causa” era il lui una opinione centrale e persistente: una fissazione quasi (…)».

Nella raffinata analisi storico-letteraria delle Lezioni di Calvino, l’altro geniale ingegnere-scrittore del Novecento, attento come Gadda alla tensione tra esattezza matematica e approssimazione degli eventi umani, è Robert Musil.

Ne L’uomo senza qualità Musil dedica pagine indimenticabili a quanti sono attenti alle “ancor non deste intenzioni di Dio”[43]. Vale riportare un passo celeberrimo dell’opera di Musil, che mette in gioco una categoria che merita un’attenzione speciale nel nostro discorso: quella del possibile.

«Ma se il senso della  realtà  esiste, e nessuno può mettere in  dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad  esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe  o dovrebbe accadere la tale o  talaltra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è,  egli pensa: be’ probabilmente potrebbe anche essere diversa. (…)

Chi vuol lodare questi poveri mentecatti li chiama anche idealisti, ma evidentemente con tutto ciò s’allude soltanto al tipo debole, che non sa capire la realtà o la fugge temendo di  farsi male, per cui dunque l’assenza del senso della realtà è davvero una mancanza. Il possibile però non comprende solo i sogni delle persone nervose, ma anche le ancor non deste intenzioni di Dio. Un’esperienza possibile o una possibile verità non equivalgono a una esperienza reale e una verità reale meno la loro realtà, ma hanno, almeno secondo i loro devoti, qualcosa di divino in sé, un fuoco, uno slancio, una volontà di costruire, un consapevole utopismo che non si sgomenta della realtà bensì la tratta come un compito e un’invenzione. La terra in fin dei conti non è affatto vecchia e non si può dire che il suo grembo sia mai stato veramente benedetto».

Ulrich, il protagonista del capolavoro incompiuto di Musil, ai tempi della scuola elementare aveva creato scandalo tra gli insegnanti scrivendo in un componimento scolastico che “Dio fa il mondo e intanto pensa che potrebbe benissimo farlo diverso”. Prende forma, nella letteratura, il concetto di possibilità. Se esiste il senso di realtà, sostiene Musil in quelle pagine, deve esistere anche il senso della possibilità. Se Einstein aveva affermato che “Dio non ama giocare a dadi”, Musil dava a intendere piuttosto esplicitamente che, in ogni caso, sarebbe molto utile chiedersi quale sia l’umore con cui il creatore si sveglia al mattino. Ma per chi non crede in un dio orologiaio, il concetto di possibilità ha più da fare con quello di progetto che con quello di divinazione. Come ha sottolineato Antonio Caronia in un commento a quelle pagine di Musil, fa parte del possibile “ciò che ancora non esiste ma che si lotta per realizzare”. Nessuna delle grandi trasformazioni, concettuali e pratiche, scientifiche e tecnologiche del Novecento sarebbe avvenuta se:

 «…i dannati della terra non avessero deciso che il  grembo della loro madre non  solo non era  benedetto, ma era decisamente maledetto, e se non avessero tentato più volte, durante il secolo, di provare a benedirlo a modo loro: assaltando il cielo e, se  possibile, saccheggiandolo. Le loro reiterate sconfitte, negli anni Venti e Trenta, e poi ancora negli Sessanta e Settanta, non segnano affatto la condanna del loro ‘consapevole utopismo’: rivelano certo, il limite degli strumenti teorici e operativi del movimento operaio dalla sua nascita ad oggi, e l’inutilità, anzi il danno, di affidarsi a filosofie della storia di ogni tipo, il cui unico esito è quello di creare una superfetazione degli strumenti organizzativi, che (in attesa di di palingenesi tanto attese quanto impossibili) si trasformano facilmente in utili elementi di gestione di quella realtà che avrebbero dovuto superare».

Il ruolo attivo dei dannati della terra assume in Caronia una funzione di trasformazione particolarmente importante perché oggi ci troviamo di fronte, nelle sue parole, ad una “rivincita del possibile” e ad “un’era del possibile”. E tuttavia, secondo Caronia, questa rivincita non va cercata con troppa ostinazione nelle categorie della politica ma piuttosto in quelle della tecnologia digitale. Si tratta di una posizione di non facile lettura, perché Caronia era ben lungi dall’assegnare alla mera tecnologia un ruolo di liberazione. Riteneva però, e  questo è fondamentale, che la tecnologia digitale stabilisce una sorta di intesa, pericolosa quanto si vuole, ma duratura, con il possibile. E di questa intesa occorre fare un uso politico.


[1]          Fabrizio Fassio, Giuseppe Nicolosi, I visionari, Manifestolibri, 2018.

[2]              Paul Mason, Postcapitalismo, Il saggiatore, 2016.

[3]              Marco  Revelli, Le macerie nel passaggio di consegne tra l’avvocato e il banchiere, “Il Manifesto”, 6 Marzo 2021.

[4]              Christopher Lasch, La cultura del narcisismo, Neri Pozza, 2020, [1979]

[5]              Pino Ferraris, Ieri e domani,  Edizioni dell’Asino, 2011.

[6]              Le sette tesi sulla questione del controllo operaio di Raniero Panzieri e Lucio Libertini escono sulla rivista Mondoperaio nel Febbraio 1956.

[7]              Raf Valvola Scelsi, No Copyright, Shake edizioni, 1994.

[8]              Christopher Lasch, L’io minimo, la mentalità della sopravvivenza in un’ epoca di turbamenti, Feltrinelli, 1996.

[9]              Michel Foucault, Tecnologie del sé, Bollati Boringhieri, 1992.

[10]             Film del 1951,  regia di Vittorio De Sica, tratto da un libro di Cesare Zavattini.

[11]             Georges Lapassade, Stati Modificati e Transe, Sensibili alle Foglie, 1993.

[12]             Gerardus van der Leeuw, Fenomelogia della religione, Bollati Boringhieri, 1975.

[13]             Richard M. Langworth, Churchill: In His Own Words, Ebury Press, 2012.

[14]             Georges Minois, Storia dell’avvenire, Dedalo, 2007.

[15]             Per un’introduzione al pensiero di Carneade si veda ad esempio: Antonio Russo, Scettici antichi, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1996.

[16]             Basti qui ricordare che Nassim Nicholas Taleb, del tutto ignaro di questo malcostume diffuso  tra i giornalisti italiani che amano citare Manzoni a sproposito,  ha scritto che: “pochi pensatori credibili possono competere con il rigoroso scetticismo di Carneade: si possono citare il filosofo arabo medievale al-Ghazali, Hume e kant (…)”.  (Nassim Nicholas Taleb, Giocati dal caso, Il saggiatore. 2014).

[17]             Vedi il sito della fondazione SIGMA: http://www.sigmaforum.org/

[18]             Antimo Negri (a cura di), Novecento filosofico e scientifico. I protagonisti, 5 voll., Marzorati, Settimo Milanese 1991

[19]             Franco Berardi, Dopo il futuro, DeriveApprodi, 2013.

[20]             Pierre Simon Laplace,Saggio filosofico sulle probabilità Theoria – Editori Associati, 1987.

[21]             Julies Henri Poincaré, Scritti di  fisica-matematica, Istituto Geografico De Agostini S.p.A., 1993.

[22]             Ernest Nagel J. R. Newman, la prova di Göedel, Boringhieri, 1974.

[23]             Michael Crichton, Jurassic Park, Garzanti, 2015.

[24]             Il sito del progetto si trova alla URL: http://hieroglyph.asu.edu/

[25]             Edgar Morin, La via. Per l’avvenire dell’umanità, Raffaello Cortina, 2012.

[26]             La definizione di eterogenesi dei fini è trattata dal Dizionario di filosofia della Treccani.

[27]             William Gibson, Burce Sterling, La Macchina della Realtà, Mondadori, 1999.

[28]             Stephen Jay Gould, La ruota della fortuna e il cuneo del progresso, in Lorena Preta (a cura di), Immagini e Metafore della Scienza,  Laterza,  1992.

[29]             Stephen Jay Gould, La vita meravigliosa, Feltrinelli, 1990.

[30]             Alan Watts, Buddhismo, Red Edizioni, 1989.

[31]               Gilles Deleuze, Félix Guattari, Rizoma, Castelvecchi, 1997.

[32]             Soprannome irriverente assegnato loro dall’esperto di comunicazione inglese Richard Barbrook.

[33]             Y. Christen, Le role des virus dans l’evolution, in La Recherche, n. 54, Marzo 1975.

[34]             Serge Moscovici, Le rappresentazioni sociali, Il Mulino, 2005.

[35]             Antonio Caronia, Il cyborg, ShaKe Edizioni, 2008.

[36]             Pietro Barcellona, L’epoca del postumano, Città Aperta, 2007.

[37]             Stephen Jay Gould, Intelligenza e pregiudizio, Il saggiatore, 1998.

[38]             Tversky, Kahneman, Slovic, Judgement under Uncertainty, Heuristics and Biases, Cambridge University, Press, 1982.

[39]             Massimo Piattelli Palmarini, Scienza come Cultura, Mondadori-De Agostini, 1995.

[40]             Franco Carlini, Marcello Cini et alii, Gli ordini del caos, Manifestolibri, 1991.

[41]             Italo Calvino, Lezioni Americane, Mondadori, 1993.

[42]             Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Adelphi, 2018.

[43]             Robert Musil, L’uomo senza qualità, Newton Compton Editore, 2013.

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