focus

Da Lula e Rousseff a Bolsonaro e ritorno 2/2

di Alessandro
Scassellati

Il secondo di due articoli che ricostruiscono il terremoto politico ed economico vissuto dal Brasile negli ultimi 5 anni che ha portato all’impeachment della presidente Dilma Rousseff, alla condanna dell’ex presidente Luis Inàcio Lula da Silva (ora annullata da un giudice della Corte Suprema) e all’elezione alla presidenza di Jair Messias Bolsonaro, un mediocre politico di estrema destra, che ha consentito ai militari di tornare al governo del Paese. E’ assai probabile che le prossime elezioni presidenziali dell’ottobre 2022 saranno uno scontro diretto tra Bolsonaro e Lula. Con questo secondo articolo si completa il quadro economico politico che sottende la crisi politica brasiliana.

 Fui caminhando, caminhando / À procura de um lugar / Com uma palhoça, uma morena / E um cantinho pra plantar / Achei a terra, vi a casa / Só faltava capinar / Mas sem o colo da morena / Quem sou eu pra me abusar / E lá vou eu / Paro aqui, paro acolá / Como é duro trabalhar / E vou cantando, tiro moda / Faço roda no arraial / Busco a morena de olho em calda / Cheiro de canavial / E bico essa, bico aquela / Vou bicando sem parar / Mas não tem mais moça donzela / Que mereça eu me abusar / E lá vou eu / Paro aqui, paro acolá / E lá vou eu / Como é duro trabalhar – Toquinho e Vinicious De Moraes

Le politiche sociali, sanitarie ed educative di Lula e Rousseff

La Presidenta Rousseff aveva puntato su una politica fiscale morbida, mantenendo un sistema fiscale regressivo (tra i pochissimi al mondo a non tassare profitti e dividendi), sul rafforzamento delle politiche di intervento statale in campo finanziario (con la fornitura di crediti agevolati ai settori produttivi, una serie di azioni per includere la popolazione più povera nel sistema bancario e la creazione di linee di credito immobiliare con bassi tassi di interesse per diversi gruppi di reddito), sull’aumento delle tasse sui redditi (in un Paese dove ad essere tassati sono soprattutto i consumi, per cui i redditi bassi e medi sono colpiti in modo sproporzionato) e la svalutazione del tasso di cambio con la conseguente caduta dei tassi d’interesse.

Il più importante provvedimento sostenuto dal suo governo è stato la Bolsa família, un versamento in contanti riservato a tutti quelli che vivono al di sotto della soglia di povertà. In realtà, il programma Bolsa família era iniziato effettivamente prima delle amministrazioni di Lula e Rousseff, nel 2001, sotto Cardoso, e fu allora conosciuto come Bolsa Escola.

Per avere diritto alla Bolsa bisognava semplicemente assicurarsi che i propri figli frequentassero l’85% delle lezioni a scuola e fossero adeguatamente vaccinati. Questo provvedimento di inclusione sociale aveva un costo contenuto (27 miliardi di dollari, pari a circa il 2% del totale delle entrate fiscali), e insieme all’applicazione del programma Fome Zero (Fame Zero), del microcredito e del programma Brasil Sem Miseria, ha contribuito a strappare alla povertà 45 milioni di persone (in gran parte pardos/mulatti e pretos/neri), un quarto della popolazione.

Inoltre, il programma chiamato Minha Casa, Minha Vida (Mia Casa, Mia Vita), dal 2009 ha cercato di dare una risposta alle istanze del Movimento dos Trabalhadores sem Teto (Mtst – Movimento dei lavoratori senza tetto) e ha fornito appartamenti a basso costo a condizioni generose di finanziamento (mutui agevolati), aiutando oltre 13 milioni di persone entro il 2017.

In campo sanitario, nel 2013 è stato avviato il programma Mais Médicos (Più Medici) per affrontare la mancanza di assistenza sanitaria esistente nelle comunità povere delle città e delle aree rurali. Nell’ambito del programma, circa 20 mila medici cubani hanno prestato servizio in Brasile sulla base di un accordo con il governo cubano, mediato tramite l’Organizzazione Panamericana della Salute. L’Avana riceveva il 75% degli stipendi dei medici, destinando queste risorse al funzionamento del sistema sanitario nazionale gratuito a Cuba. Un tipo di accordo che è operativo in oltre 60 Paesi con circa 50 mila lavoratori sanitari cubani ed entrate annuali stimate in oltre 6 miliardi dollari per il governo cubano. Laccordo è stato abbandonato a fine 2018 (da Bolsonaro), provocando il rientro a Cuba degli oltre 8 mila medici cubani presenti nel Paese.

Infine, il governo Lula con una legge del 2005 aveva creato il programma “Università per tutti” che forniva borse di studio per studenti meritevoli a università private. Il budget per la pubblica istruzione era salito dal 4% al 6% del PIL. Con Lula e Rousseff sono state aperte decine di scuole tecniche e 17 nuove università federali e le procedure di ammissione sono state semplificate. Stati come Rio hanno anche lanciato programmi di quote riservate a studenti neri e alle scuole pubbliche, una politica sancita dalla Rousseff in una legge del 2012 che ha avuto un forte impatto sociale in un Paese profondamente iniquo, in cui più della metà della popolazione è costituita da mulatti e neri. Più di mezzo milione di studenti del settore pubblico sono andati all’università durante il suo governo.

La reazione politica delle classi medie e dei ricchi

Nessuno ammetterà mai che la crisi politica sia nata anche dalla decisione del governo Rousseff di continuare ad aiutare i poveri, ma è innegabile che la folla che ha manifestato tra il 2015 e il 2016 contro il governo, vestendo la maglia gialla della nazionale di calcio e scandendo lo slogan “Fuori Dilma”, mentre sugli striscioni si leggeva “il Brasile non è Cuba” e “il Brasile non sarà mai rosso”, sia stata quasi interamente composta da cittadini bianchi e benestanti, come interamente formato da (uomini) bianchi (ricchi ed anziani) è stato il governo conservatore creato dal presidente ad interim, Michel Temer.

Il razzismo istituzionale nei confronti della parte della popolazione mulatta e nera rimane un approccio ancora molto radicato nella cultura politica e istituzionale brasiliana. Da questo punto di vista, la Rousseff ha commesso l’irreparabile allorquando ha fatto votare nel 2013 una legge che obbligava i datori di lavoro a dichiarare il collaboratori domestici, a versare loro il salario minimo e a rispettare l’orario di lavoro stabilito per legge, assicurando loro il pagamento degli straordinari e delle ore notturne.

I presunti “reati di responsabilità” della Rousseff che ha spostato risorse per pagare programmi sociali come la Bolsa famìlia, hanno evidenziato la fragilità del sistema economico-finanziario pubblico brasiliano e la sua dipendenza dalle royalties del settore primario. La Caixa Econômica Federal (che tra le altre cose, finora ha gestito la lotteria) è l’istituzione principale attraverso cui Bolsa família viene distribuita ai beneficiari e riceve milioni di reais all’anno dalle royalties minerarie e petrolifere. Quando le royalties sono diminuite, sono diminuiti anche i fondi per i programmi sociali.

E’ in questo contesto, dovendo affrontare improvvisi problemi di bilancio, che la Rousseff ha utilizzato mezzi discutibili (la “pedalata fiscale”) per continuare a finanziare i programmi sociali. Il boom-and-bust cycle dell’esportazione di materie prime ha mostrato quale fosse la base economica sottostante anche degli altri scandali della corruzione politica in Brasile. Petrobras – l’impresa di proprietà statale al centro del più vasto sistema di corruzione – è essenziale per l’esportazione di petrolio e per fornire risorse finanziarie per tenere in piedi il sistema pubblico. Il lungo boom delle materie prime ha prodotto una quantità di risorse economiche senza precedenti e i politici di ogni orientamento ideologico ne hanno approfittato. Entrambi gli scandali di corruzione, quindi, sono stati fortemente condizionati dall’andamento del settore primario nell’ambito dell’economia globale.

Il “vincolo interno”: il peso della dittatura militare su memoria collettiva e sistema politico

La democrazia brasiliana vive condizionata da un passato recente, in cui i militari hanno realizzato un colpo di Stato e poi governato per poco più di un ventennio (1964-1985). A seguito di questa drammatica e traumatica esperienza politica, le forze del centro-sinistra e della sinistra brasiliana sono state portate ad interiorizzare l’idea che vi sia una sorta di limite strutturale oltre il quale la democrazia brasiliana non possa andare. Si può sognare il socialismo democratico, ma è bene non far diventare questo sogno un esplicito programma operativo di governo, altrimenti, prima o poi (non appena si minaccia di mettere seriamente in discussione la logica capitalistica del fare profitto), si va direttamente a sbattere contro la reazione antidemocratica di media, classi medie e ricche e, soprattutto, establishment militare.

Il 31 marzo 1964, un gruppo di membri delle forze armate brasiliane scarsamente equipaggiati iniziò a marciare su Rio de Janeiro, dove viveva il presidente eletto, João “Jango” Goulart. Si era già costituita una grande cospirazione per eliminarlo, ma l’azione non avrebbe dovuto iniziare quel giorno. Indignato da ciò che considerava come il comunismo e la sovversione di Goulart, il generale Olímpio Mourão Filho accelerò i tempi e si diresse verso la costa atlantica. Goulart volò a Brasilia, la capitale, ma quando gli fu chiaro che l’alto comando militare era intento alla sua rimozione, fuggì e poi, sotto minaccia di arresto, andò in esilio in Uruguay. I carri armati vennero parcheggiati fuori del Congresso, e invocando un “Atto Istituzionale” privo di qualsiasi base legale, la giunta militare ha dichiarato che i membri di sinistra del Congresso Nacional avevano perso tutti i loro diritti legali.

Questi sono gli eventi e le immagini spesso richiamate quando si parla di ciò che è chiamato, correttamente, “colpo di stato militare” o “golpe militar” del Brasile. Spesso, però, viene dimenticato che una gran parte dell’élite politica ed economica del Brasile ha sostenuto il golpe. Anche prima del primo “Atto Istituzionale“, il Congresso dichiarò la presidenza “vacante” mentre Goulart era ancora nel Paese, in palese violazione della Costituzione. Poi, dopo che 40 dei loro colleghi erano stati espulsi dai golpisti, 361 dei restanti rappresentanti votarono per installare Marshal Humberto de Alencar Castelo Branco – che aveva complottato con i generali, gli Stati Uniti e alcuni politici per rimuovere un presidente legittimo – come leader del Paese.

L’ambasciatore statunitense a Rio era certo che il Brasile potesse diventare “la Cina degli anni ’60” (ossia, diventare comunista), e voleva che Goulart venisse deposto. Tutti i principali quotidiani brasiliani, tranne uno, hanno sostenuto il colpo di Stato. Centinaia di migliaia di brasiliani, per lo più benestanti, che soffrivano la recessione economica e che credevano che Goulart fosse troppo a sinistra, avevano già reso nota la loro preferenza per la sua rimozione in una serie di marce “della Famiglia con Dio per la Libertà“. Molti di loro credevano alle voci, volutamente diffuse dai conservatori, che in realtà fosse il presidente eletto a pianificare un suo colpo di stato comunista.

In breve tempo, la giunta di Castelo Blanco è divenuta una dittatura militare che – fedele al motto scritto sulla bandiera del Brasile, Ordem e Progresso (Ordine e Progresso) – ha torturato e ucciso migliaia di dissidenti, mentre migliaia di indigeni sono stati massacrati allorché il regime militare ha promosso lo “sviluppo” dell’Amazzonia.

Il ritorno del Brasile alla democrazia nel 1985 si è basato su un patto per dimenticare. La legge di amnistia ha perdonato chi aveva commesso “crimini politici”: militanti contrari al regime, ma anche funzionari di Stato accusati di tortura ed omicidio. Anni dopo questa legge, la Commissione per la verità si è chiusa senza punire i torturatori e gli assassini della dittatura militare, una circostanza per cui quasi 58 milioni di brasiliani nel 2018 hanno eletto presidente un ex capitano dell’esercito che si era dichiarato favorevole alla dittatura del 1964-1985.

Il problematico ritorno al potere dei conservatori

Dal 2016, sotto la guida del governo conservatore di Temer, il Brasile ha dovuto seguire le ricette neoliberiste di austerity del FMI, volte a correggere un deficit di bilancio da record, che hanno previsto una politica di privatizzazioni da 14 miliardi di dollari, con la vendita del 41% delle azioni di Eletrobras, la compagnia elettrica più grande dell’America Latina e di 57 importanti poli industriali in dieci settori con l’affidamento in gestione ai privati di campi petroliferi, autostrade, aeroporti, reti fognarie ed elettriche, lotterie.

Così, ad esempio, la China Three Gorges ha investito 6 miliardi di euro in un portfolio che comprende 17 centrali idroelettriche, 11 parchi eolici e una società di intermediazione internazionale, mentre il gruppo infrastrutturale italiano Gavio (alleato con la famiglia brasiliana Almeida nella holding Ecorodovias) si è prima aggiudicato il controllo di circa 1.700 km di autostrade, pagando circa 885 milioni di euro, poi altri 437 km che collegano gli Stati di Gioas e Mina Gerais, arrivando a controllare una rete di oltre 3 mila km (superando Arteris del gruppo Abertis che fa capo alla Atlantia dei Benetton). L’italiana Enel SpA (che in Brasile già serviva 10 milioni di persone) ha battuto la spagnola Iberdrola SA nell’asta per il controllo di Eletropaulo (controllata dall’americana AES Corp), il distributore di energia elettrica che serve lo Stato più ricco e popolato del Brasile (7 milioni di contratti e un bacino di utenza di 18 milioni di persone), pagando 1,8 miliardi di euro.

L’amministrazione Temer si è impegnata anche nel cercare di realizzare delle riforme, tutte gradite agli imprenditori e ai mercati finanziari, che però avrebbero comportato o hanno comportato duri sacrifici per la popolazione brasiliana: la riduzione del deficit fiscale, una drastica riforma delle pensioni (innalzamento dell’età pensionabile da 60 a 65 anni per gli uomini e da 55 a 62 per le donne), provvedimenti per rendere più flessibile il lavoro (in un Paese dove c’erano 14,2 milioni di disoccupati) e il congelamento in termini reali della spesa pubblica per 20 anni, con il taglio del programma Bolsa família e delle borse di studio universitarie per gli studenti più poveri. Il blocco è stato introdotto direttamente nella Costituzione e ha previsto che la spesa pubblica non possa crescere più dell’inflazione: in pratica viene fissato un massimale, un tetto che lo Stato non può superare per finanziare le sue amministrazioni. Tra gli scioperi e le proteste di massa dei cittadini, lo Stato ha chiuso i rubinetti per istruzione, pensioni, sussidi di disoccupazione, sanità ed edilizia sociale.

Il devastante incendio del Museo Nazionale di Rio de Janeiro (2 settembre 2018), in cui è stato distrutto il 90% della collezione di reperti storici del Brasile, ha traumatizzato i brasiliani che lo hanno visto come una metafora della tragica crisi del Paese. La distruzione del Museo è divenuta il simbolo di un Paese disattento ai temi della cultura, dell’educazione (un terzo della popolazione di età compresa tra 15 e 64 anni è analfabeta funzionale) e della ricerca scientifica, il risultato dell’incuria e dei drastici tagli economici imposti dal governo che hanno impedito di adeguare gli impianti elettrici e i sistemi di sicurezza antincendio.

Tutte le conquiste sociali che i governi di sinistra targati Lula e Rousseff hanno realizzato in 15 anni facendo però crescere, almeno in parte, il debito pubblico, hanno rischiato di essere completamente smantellate. I tagli fatti da Temer hanno fatto precipitare milioni di persone di nuovo nella povertà, facendo diventare il mercato della droga più attraente perché molti giovani, soprattutto nelle favelas (dove vive oltre il 6% della popolazione), non hanno altro modo per guadagnarsi da vivere.

Inoltre, il governo Temer ha cercato anche di mettere sul mercato beni ambientali di pregio. Ad esempio, aveva stabilito per decreto l’abolizione della riserva ambientale di Renca (46 mila kmq di foresta amazzonica, una superficie più vasta della Danimarca), istituita dal governo militare nel 1984, all’estremo nord del Paese, non lontano dalla foce del Rio delle Amazzoni. Circa il 30% dell’area avrebbe dovuto essere aperta allo sfruttamento minerario (oro, nichel, ferro e altri minerali). Si sarebbe trattato del più forte attacco all’Amazzonia degli ultimi 50 anni che avrebbe messo in pericolo, oltre alla foresta, le comunità indigene che vivono nella regione in un delicato equilibrio con l’ambiente naturale, capaci da sempre di trarre sostentamento dalla terra senza pregiudicare le risorse comuni e la possibilità per le future generazioni di fare altrettanto. La forte opposizione al provvedimento degli ambientalisti e di altri movimenti sociali e religiosi ha portato alla sospensione del provvedimento da parte di un giudice federale.

Se si fossero indette le elezioni, Temer non avrebbe mai ottenuto la maggioranza con un programma simile. Per questo il PT ha parlato di “golpe”, una parola che oggi in Brasile segna una divisione netta: chi la usa è automaticamente considerato un sostenitore della sinistra, chi invece difende la messa in stato d’accusa della Rousseff è considerato di destra.

Le difficili condizioni finanziarie del Paese

La dura stretta operata da governo, però, ha cominciato ad avere effetto sul piano macroeconomico e a metà del 2017 l’inflazione era scesa sotto il target del 4,5% della banca centrale (e a settembre era calata al 2,5%), consentendo una riduzione dei tassi di interesse. In ogni caso, il governo centrale ha chiuso il 2017 con 159 miliardi di reais di deficit primario (circa 42 miliardi di euro, 2,4% del PIL), e altrettanti erano stati previsti dalla legge di bilancio per il 2018. Considerando l’elevata spesa per interessi (circa il 7% del PIL), il rapporto deficit/PIL nel 2017 ha superato il 9% per il terzo anno di seguito, cifre senz’altro preoccupanti.

Il presidente Temer non è riuscito a portare il Paese fuori dalla crisi. La disoccupazione era al 12,3% e coinvolgeva 13 milioni di persone, mentre secondo la FAO nel Paese era tornata la fame. Inoltre, il Paese doveva fare i conti con la questione drammatica della previdenza sociale. Il Paese spendeva l’8,5% del PIL, ossia il 44% della spesa federale, in pensioni pur avendo un’età media inferiore ai 30 anni. Il solo deficit dell’Istituto Nazionale della Sicurezza Sociale (Inss, che copre la previdenza dei lavoratori del settore privato ed eroga 30 milioni di assegni circa) era stato di circa 150 miliardi di reais nel 2016, e aveva superato i 180 miliardi nel 2017. Senza contare quanto dovuto ai dipendenti pubblici federali, che godono di uno specifico regime previdenziale con caratteristiche assai più generose di quello privato, che aveva accumulato un deficit di quasi 80 miliardi di reais per servire meno di un milione di pensionati. La spesa pensionistica brasiliana è notoriamente viziata da una distribuzione ineguale, a beneficio dei ceti medi più ricchi. Un recente rapporto della Banca Mondiale ha mostrato che meno del 20% degli individui che ricevono un qualsiasi beneficio previdenziale si trovano nel 40% più povero della popolazione, mentre il 30% dei beneficiari fa parte del 20% più ricco della popolazione.

Il Paese aveva un debito estero di oltre 200 miliardi di dollari, di cui circa una cinquantina in scadenza nei successivi due anni, per cui notevoli preoccupazioni potevano derivare dalle turbolenze sui mercati finanziari, soprattutto dato che la politica fiscale espansiva americana promossa da Trump si era accompagnata ad un inasprimento delle condizioni monetarie più intenso. Gli investitori internazionali stavano riprendendo le manovre di “disimpegno” dal Brasile, dirottando la propria liquidità verso gli USA. Il Brasile, che ha tradizionalmente un basso tasso di risparmio (17,8% del PIL in media negli ultimi cinque anni, a fronte del 21% di investimenti), si è venuto così a trovare in una situazione complicata per finanziare gli investimenti necessari ad avviare la ripresa. Un ulteriore deprezzamento del real, poi, avrebbe messo a repentaglio gli sforzi della banca centrale di allentare le condizioni monetarie, rischiando di trasmettersi rapidamente all’inflazione e disancorando le aspettative dall’obiettivo dell’autorità monetaria (4,5%).

Le più difficili condizioni finanziarie, quando il settore privato era ancora molto indebitato, stavano rallentando e indebolendo la già tenue ripresa della domanda interna. I dati della Banca dei Regolamenti Internazionali mostravano, in particolare, che il debito delle imprese non finanziarie brasiliane era aumentato di quasi 20 punti percentuali di PIL negli ultimi dieci anni. La gran parte dell’aumento era dovuto alla emissione di bond spesso denominati in dollari e, quindi, un eventuale ulteriore deprezzamento del real avrebbe avuto un effetto molto negativo sui bilanci delle imprese. Un real valeva 64 centesimi di dollaro nel 2011, mentre solo 25 centesimi nel 2014 e 27 centesimi nel 2018. Il FMI ha mostrato che le imprese brasiliane nel 2016/17 erano quelle con la peggiore capacità di servire il debito, con il rapporto tra margine operativo lordo (Ebitda) e spesa per interessi (il cosiddetto interest coverage ratio) più basso in un campione di 18 Paesi emergenti.

Il mondo politico ed economico brasiliano aveva inizialmente accolto con forte preoccupazione la vittoria di Donald Trump alle presidenziali USA. La prima reazione dei mercati ha rasentato il panico: il real si era deprezzato del 7% circa in tre giorni, obbligando la banca centrale ad interventi sul mercato a vista e dei derivati, e la Borsa aveva perso quasi l’8%. Dopo lo shock iniziale, analisi a mente più fredda hanno iniziato a mostrare che il Brasile sarebbe stato colpito solo marginalmente dal ritorno del protezionismo americano. Sui rapporti con gli Stati Uniti, occorre considerare che la bilancia commerciale brasiliana è strutturalmente in deficit. Nel 2016 il saldo a favore degli americani aveva superato i 600 milioni di dollari. Questi dati sono, tra l’altro, poco espressivi del trend degli ultimi anni. Nel 2013 il deficit era arrivato alla cifra record di 11 miliardi di dollari. Da allora, a causa della crisi economica, le importazioni brasiliane in valore si sono ridotte molto più che le esportazioni (-34% e -6% rispettivamente in tre anni).

Le merci brasiliane costituiscono appena l’1,1% del totale dell’import americano. Non solo, la maggior parte dei prodotti importati dal Brasile sono materie prime, commodities che non minacciano posti di lavoro statunitensi. Politiche protezionistiche contro il Brasile non avrebbero avuto quindi molto senso. Ma, la svalutazione del real ha reso le esportazioni verso gli USA, e soprattutto verso la Cina, più competitive e la scelta di Trump di imporre dazi sull’importazione di acciaio (25%) e alluminio (10%), ha finito per colpire anche il Brasile (e l’Argentina) che, dopo il Canada, è il secondo esportatore di acciaio negli USA.

C’è da dire che se Trump avesse attuato le sue promesse elettorali di un robusto piano di spesa, fondato sull’espansione delle infrastrutture nazionali, avrebbe aumentato la domanda di materie prime o prodotti di base, indispensabili per costruire ferrovie, strade o ponti. Chiudere le frontiere ai prodotti brasiliani sarebbe così diventato impossibile. Dall’altro lato, però, il mercato statunitense assorbiva il 12,5% di tutto l’export brasiliano. Un’importante fonte di valuta pregiata per il Paese e, quindi, se Trump avesse alzato altre barriere, il Brasile avrebbe perso un importante mercato di sbocco. Infine, gli Stati Uniti hanno in Brasile uno stock di oltre 134 miliardi di dollari in investimenti diretti esteri (contro uno stock di 12 miliardi brasiliani negli USA), principalmente in attività rivolte a soddisfare la domanda interna brasiliana, quindi non in concorrenza coi produttori statunitensi.

Il problema per il commercio del Brasile si è posto soprattutto indirettamente: l’applicazione di dazi da parte di Trump sulle merci cinesi ha provocato un ulteriore rallentamento della crescita industriale cinese che ha avuto un effetto negativo sulla domanda di commodities (a cominciare da quelle agricole come la soia) prodotte in Brasile, abbattendone il prezzo (molto più basso rispetto ai picchi degli anni pre crisi) e riducendone la quantità esportata. La Cina assorbiva quasi il 20% delle esportazioni brasiliane e il rallentamento della crescita economica cinese ha contribuito a mettere in crisi l’economia brasiliana.

Il Brasile ha sofferto cicli di boom-and-bust e instabilità politica dall’indipendenza dal Portogallo nel 1822. Dopo anni di crescita che l’hanno portato ad essere la settima potenza economica del mondo, è sembrato quindi essere destinato a tornare al suo passato di incertezza e sofferenza. La metà delle sue esportazioni sono prodotti non trasformati, quindi la sua prosperità è sensibile ai capricciosi andamenti dei mercati delle materie prime e a partire dal 2013 questi sono stati generalmente negativi.

Sulla carta, il Brasile sembra una potenza: è il quinto Paese più grande del mondo, per massa di terra e popolazione; le sue riserve petrolifere offshore comprendono la più grande scoperta dell’emisfero occidentale dal 1976 (tra l’altro a basso contenuto di zolfo); possiede la seconda più grande riserva di minerale di ferro; è il secondo più grande produttore di soia e carne e il terzo di mais. D’altra parte, la distribuzione della sua ricchezza rimane tra le più ineguali e negli ultimi anni la corruzione ha fatto aumentare le disuguaglianze e contribuito a frenare la crescita economica del Paese.

La dilagante corruzione del governo Temer

L’inchiesta lava jato ha contribuito ad allontanare il Partito dei Lavoratori (PT) dal potere e ha aperto la strada ad un governo altrettanto corrotto, ma molto meno disposto a favorire la trasparenza e l’indipendenza della magistratura.

Le accuse contro Temer e i suoi alleati erano così numerose che il presidente è riuscito con difficoltà a mantenere il suo incarico fino alla scadenza del mandato, per essere poi arrestato il 21 marzo 2019 con l’accusa di corruzione per la costruzione della centrale nucleare Angra 3, un filone dell’inchiesta lava jato sulla Petrobras. I pubblici ministeri hanno affermato che Temer avrebbe sottratto 427 milioni di dollari nell’arco di quattro decenni, anche durante la sua presidenza nel 2016-18. Con lui è stato arrestato anche l’ex ministro delle Miniere e dell’Energia e compagno di partito, Moreira Franco.

Circa 300 deputati su 513 erano sospettati di corruzione o di altri reati, tra cui addirittura di omicidio. Secondo le stime di Tranparency Brasil, al Senato 49 senatori su 81 erano sospettati di aver compiuto illeciti. Accuse di cui i parlamentari non hanno dovuto rendere conto in tribunale, perché il mandato parlamentare implicava il cosiddetto foro privilegiado, in pratica l’immunità.

In ogni caso, Temer ha dovuto affrontare la protesta popolare e gli scioperi generali contro le sue politiche neoliberiste incentrate sulla riforma delle pensioni e del lavoro che hanno reso più difficile per i lavoratori fare ricorso in tribunale contro i licenziamenti, ridimensionato il ruolo dei sindacati nella contrattazione tra dipendenti e datori di lavoro, e reso più facile per le aziende proporre contratti a tempo determinato. Le grandi aziende e i politici moderati sono stati completamente screditati agli occhi di gran parte della popolazione.

Nel maggio 2018, il presidente Temer ha chiesto l’intervento dei militari per rompere lo sciopero di due milioni di camionisti (durato 10 giorni) e normalizzare la situazione di caos che si era creata nel Paese. I camionisti protestavano ormai da diversi giorni contro l’aumento del carburante, dei pedaggi e delle tasse, bloccando il traffico su centinaia di autostrade. In molte città venivano sospese le lezioni nelle scuole, i supermercati razionavano la frutta e la verdura, le pompe delle stazioni di servizio erano a secco, 11 aeroporti avevano esaurito il carburante, molti ospedali erano rimasti senza medicinali, diversi ristoranti di McDonald’s avevano finito i panini, gli allevamenti di maiali e di polli avevano finito il mangime, le galline avevano cominciato a mangiarsi a vicenda e se ne sono dovute abbattere 70 milioni prima del tempo, São Paulo aveva dichiarato lo stato di emergenza, molte fabbriche erano rimaste senza materie prime e componenti, mentre il Brasile non era più in grado di garantire le spedizioni all’estero di zucchero, caffé, carne, soia e pollame (oltre un terzo delle esportazioni globali di pollame vengono dal Brasile che è un importante fornitore per Europa, Asia e Medio Oriente).

Lo sciopero era stato innescato dall’aumento dei pedaggi autostradali (una delle conseguenze delle privatizzazioni) e soprattutto del prezzo del carburante. Durante l’amministrazione Rousseff, Petrobras aveva mantenuto bassi i prezzi del diesel e della benzina (sotto ai prezzi internazionali, in modo da mantenere bassa l’inflazione), ma dal luglio 2017, su indicazione del governo Temer, Petrobras aveva deciso di seguire i prezzi globali, per cui il prezzo del diesel era aumentato del 30% e quello della benzina del 20%. La decisione ha permesso all’azienda di fare un profitto per la prima volta dopo anni, ma gli aggiustamenti al rialzo quasi quotidiani dei prezzi hanno messo in difficoltà i camionisti, molti dei quali lavorano in modo indipendente e non possono aumentare le loro tariffe a metà percorso. Il 50% dei loro guadagni viene consumato dai costi del carburante.

Su pressione di Temer, Petrobras aveva annunciato un taglio del 10% dei prezzi per due settimane, una decisione che sarebbe costata alla società 96 milioni di dollari, ma questa misura non è stata sufficiente per sedare le proteste. Temer ha dovuto fare ulteriori concessioni: riduzione del prezzo e delle tasse sul diesel per 60 giorni, riduzione dei pedaggi autostradali per i camion vuoti e fissazione di tariffe minime di trasporto. Il presidente di Petrobras, Pedro Parente, ha rassegnato le dimissioni.

Ad ogni modo, quello che era iniziato come uno sciopero degli autotrasportatori a livello nazionale sull’aumento dei prezzi del carburante si è trasformato in una protesta molto più ampia su una serie di questioni, tra cui sanità, istruzione, strade, aumento della violenza e corruzione politica. Sono entrati in sciopero per 24 ore anche i lavoratori di Petrobras (che nel frattempo aveva perso oltre il 30% del suo valore in borsa), chiedendo la fine della politica dei prezzi di mercato del carburante. Inoltre, alcuni manifestanti avevano chiesto che Temer venisse rimosso dal potere dalle forze armate. José Lopes, leader della Associazione Brasiliana degli Autotrasportatori, aveva denunciato che il movimento per lo sciopero era stato infiltrato da un gruppo molto forte di interventisti che volevano far cadere il governo attraverso un intervento dei militari.

Una evoluzione inquietante che ha mostrato le estreme fragilità del Paese e ricordato lo “scenario cileno” che portò al colpo di Stato contro il governo Allende. In Cile i camionisti (insieme con i minatori delle miniere produttrici di rame delle multinazionali americane Anaconda e Kennecott che Allende aveva nazionalizzato) entrarono in sciopero nel settembre del 1972 per protestare contro la politica economica del governo. A novembre, per risolvere la crisi, Allende aprì il suo governo alla presenza dei militari: il generale Carlos Prats divenne ministro degli interni, mentre Augusto Pinochet venne nominato al vertice dell’esercito. Nel gennaio 1973 i militari uscirono dal governo, ad aprile entrarono in sciopero i minatori e l’esercito tentò una prima prova di forza il 29 giugno, ma alcuni generali non aderirono al progetto di colpo di Stato. Ad agosto riprese lo sciopero a oltranza dei camionisti che mise in ginocchio l’economia cilena e l’11 settembre Pinochet guidò il colpo di Stato contro Allende.

Durante il periodo della presidenza ad interim di Temer, a rischio non è sembrata essere solo una classe politica in larga parte corrotta, ma anche la tenuta delle istituzioni democratiche e dell’intera repubblica. La speranza era che nel medio periodo l’inchiesta della magistratura potesse contribuire a trasformare il Brasile in un Paese più giusto e più efficiente, guidato da politici più onesti e rispettosi della legge. Ma, era evidente il rischio che l’inchiesta lava jato, così come quella italiana di mani pulite del 1992-1994, potesse portare a riforme di facciata del sistema politico e a un ricambio gattopardesco della classe politica (Francesco Saverio Borrelli, il giudice che guidò il pool di mani pulite della procura di Milano, osservò amaramente nel 2011 che “non valeva la pena buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale”) che addirittura facesse crollare la fragile democrazia brasiliana, aprendo la strada ad una “messicanizzazione” della politica, evidenziata dall’uccisione brutale di Marielle Franco e dall’attacco armato al corteo elettorale di Lula nel Paranà nel marzo 2018, ma anche dall’assassinio di 70 militanti politici nel 2017, 52 dei quali legati alle lotte per la terra. Oppure a una teocrazia evangelica e pentecostale.

Il potere del movimento evangelico: dalla teologia della liberazione alla teologia della prosperità

Negli anni ’60 e ’70, il Brasile è stato la culla della “teologia della liberazione”, un movimento cattolico progressista promosso sulla base delle aperture del Concilio Vaticano II dal teologo ed ex prete francescano Leonardo Boff e dal vescovo Hélder Cámara, che era solito dire: “Se do da mangiare ai poveri, mi dicono che sono un santo, ma se chiedo perché i poveri sono affamati e stanno così male, mi dicono che sono un comunista”.

La teologia della liberazione rifiutava il tradizionale ruolo della Chiesa come baluardo della reazione e insisteva invece su una “opzione preferenziale per i poveri“. Ebbe un forte sviluppo in tutta l’America Latina – in Brasile (Ruben Alves, Frei Betto, Leonardo Boff, Hélder Cámara), Colombia (con Camilo Torres Restrepo, il padre guerrillero morto in combattimento nel 1966), Nicaragua (con Ernesto Cardenal, successivamente tra i protagonisti della rivoluzione sandinista), El Salvador, Cile, Perù (con il teologo Gustavo Gutiérrez che pubblicò il volume Hacia una teologìa de la liberaciòn nel 1969) ed Argentina (dove però gesuiti come Jorge Mario Bergoglio l’hanno trasformata in “teologia del popolo”, epurandola dei riferimenti alla lotta di classe marxista) – dopo la Conferenza di Medellín dei vescovi latinoamericani del 1968. Le dichiarazioni della Conferenza aprirono nuovi orizzonti nell’espansione della nozione di “liberazione” teologica per includere un processo umanizzante positivo e per attaccare le strutture politiche, sociali ed economiche che avevano tenuto poveri ed oppressi milioni di latinoamericani.

Impegnandosi con la pedagogia rivoluzionaria di Paulo Freire (perseguitato ed esiliato dalla dittatura del 1964), il Movimento per l’istruzione di base (MEB) è stato il primo tentativo cattolico di una pratica pastorale radicale tra le classi popolari brasiliane. Il MEB mirava non solo a portare l’alfabetizzazione ai poveri, ma ad aumentare la loro consapevolezza e ad aiutarli a prendere il controllo della propria storia. Molti dei movimenti popolari brasiliani che negli ultimi decenni hanno fatto notevoli progressi per la giustizia sociale sono in larga misura il prodotto dell’attività di base dei cristiani impegnati: la confederazione sindacale radicale (CUT), il movimento dei contadini senza terra (MST), le associazioni dei quartieri poveri – e la loro espressione politica, il Partito dei Lavoratori. Il PT era nato nel periodo della “riapertura democratica” dalle organizzazioni sindacali sorte a seguito della spinta all’industrializzazione voluta dal regime militare. Ma, altre forze sociali iniziarono a fondersi attorno a quel “nuovo sindacalismo“: i movimenti per la riforma agraria e dei quartieri urbani poveri, i gruppi cattolici di base ispirati alla teologia della liberazione, ossia il tipo di organizzazioni la cui radicalizzazione negli anni ’60 aveva provocato il colpo di stato militare.

Nell’aprile del 1964, i militari presero il potere per salvare la “civiltà cristiana occidentale” dal “comunismo ateo” – in breve, per difendere l’oligarchia dominante minacciata dall’ascesa dei movimenti sociali sotto il presidente eletto, João Goulart. La dittatura è stata rapidamente approvata dalla Conferenza episcopale del Brasile nel giugno 1964: “ringraziando Dio, che ha risposto alle preghiere di milioni di brasiliani e liberato dal pericolo comunista, siamo grati ai militari, che, a grave rischio per la propria vita, sono insorti nel nome dei supremi interessi della nazione.

Un sentimento che tuttavia non è stato condiviso da molti attivisti e sacerdoti cattolici, molti dei quali sono stati tra le prime vittime della repressione del regime. Alcuni di loro si sono radicalizzati e nel 1967-68 un ampio gruppo di domenicani, tra cui il giovane Frei Betto, decisero di sostenere la resistenza armata e aiutare i movimenti clandestini come l’ALN (Azione per la Liberazione Nazionale) – un gruppo di guerriglieri fondato da un ex leader del Partito Comunista brasiliano, Carlos Marighella – nascondendo i suoi membri o aiutando alcuni di loro a fuggire dal Paese. Frei Betto, altri preti e laici cattolici furono arrestati, torturati e imprigionati nei primi anni ’70, mentre Boff, Cámara e la Chiesa della liberazione rivolta ai più poveri sono stati accusati di far sembrare Gesù un po’ come Che Guevara.

Sono stati combattuti, marginalizzati e ridotti al “silenzio ossequioso” dalle gerarchie vaticane (la Congregazione per la Dottrina della Fede) durante i 34 anni dei pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, e ora la Chiesa Cattolica si trova a competere con una aggressiva miriade di chiese e pastori evangelici (soprattutto neo-pentecostali) in grado di articolare con successo una narrazione basata sul millenarismo, sulla guarigione miracolosa, sull’invocazione dei demoni e l’esorcismo e, soprattutto, sulla “teologia della prosperità”, secondo la quale alla ricchezza corrisponde la benedizione divina che avalla la fede e l’operato del beneficiato. Negli ultimi anni, il cosiddetto “movimento di rinnovamento carismatico” della Chiesa cattolica ha preso in prestito alcuni caratteristiche di intrattenimento dei servizi pentecostali, con la Canção Nova o movimento Canzone Nuova, rivolto ai giovani con spettacoli negli stadi e programmi radiofonici. Ma, questa “pentecostalizzazione” ha anche spostato la Chiesa cattolica nella direzione di un fondamentalismo e di una politica conservatrice che sempre più gioca a favore degli evangelici.

Per anni l’evangelismo brasiliano ha promosso una pratica religiosa apolitica condita con posizioni apertamente neoliberiste, meritocratiche e reazionarie con una aperta celebrazione della prosperità e del “pensiero positivo”: con la fede, il duro lavoro, l’autodisciplina, il comportamento corretto e il sostegno comune, i credenti possono migliorare sé stessi, la propria condizione spirituale e materiale e dimostrare la loro fede pagando la decima all’organizzazione pastorale che li aiuta.

La ricchezza sarebbe il segno di una benedizione divina che premia la fede del soggetto col benessere, il successo economico-sociale e la salute. Povertà, malattia, infelicità e miseria sono, al contrario, segno del  fallimento individuale e della maledizione divina, per cui è necessaria la conversione e il discepolato nei confronti di coloro che sono esaltati da Dio con la ricchezza. Tipicamente, le chiese neo-protestanti sono anche società finanziarie poco trasparenti, che rendono milionari i loro capi ministri.

La percentuale di coloro che si identificano ufficialmente come evangelici in Brasile è cresciuta dal 6,6% nel 1980 al 22,2% nel 2010, circa 42 milioni di persone. Chiese e pastori evangelici sono diventati una presenza comune nelle favelas, costituendo una rete spirituale e sociale capillare che fornisce un appoggio quotidiano e strutturato per milioni di poveri in assenza di servizi pubblici, ma hanno un orientamento politico prevalentemente conservatore e di destra.

Il ruolo degli evangelici nella politica brasiliana è cambiato drasticamente dal 2002, quando il sostegno dei leader evangelici aveva contribuito a far eleggere Luiz Inácio Lula da Silva. Nel 2010, un gruppo influente di quei leader aveva iniziato a staccarsi, abbandonando una narrativa centrata sulla disuguaglianza e sulla “teologia della prosperità”, in favore di una lotta contro le “guerre culturali” e abbracciando idee come l’affermazione che la sinistra vuole insegnare ai giovani ad essere gay.

I loro punti di riferimento politici sono così diventate figure come Marcelo Crivella, già ministro dell’Agricoltura e Pesca sotto la presidenza Rousseff (eppure sono stati i suoi voti ad aver dato il via libera all’impeachment della presidenta Rousseff), senatore ed ex sindaco di Rio de Janeiro (2016-2020), omofobico, creazionista, vescovo evangelico e nipote del potentissimo Edir Macedo, il fondatore della sua stessa chiesa nel 1977, la Igreja Universal do Reìno de Deus (IURD), nonché proprietario di una banca (il Banco Renner) e un impero mediatico Rede Record che comprende la seconda rete televisiva più seguita del Paese.

Oppure, il conservatore (PSDB) multimilionario João Doria (ex sindaco di São Paulo ex conduttore, come Donald Trump, del reality Tv “O Aprendiz”, versione brasiliana di “The apprentice”), attuale governatore dello Stato di São Paulo.

O, ancora, Jair Messias Bolsonaro, un mediocre deputato di estrema destra di Rio de Janeiro per 28 anni, affiliato al Partito Social-liberale (PSL) e alla chiesa evangelica Assemblea di Dio, misogino, razzista, ex capitano dell’esercito (dal 1977 al 1988), strenuo difensore della dittatura che ha governato il Paese dal 1964 al 1985 (torturando e imprigionando migliaia di oppositori politici, inclusa Dilma Rousseff, mentre altre centinaia sono stati uccisi o sono spariti), e candidato alle elezioni presidenziali del 2018 con lo slogan “il Brasile prima di tutto e Dio prima di tutti” (“Brasil acima de tudo, Deus acima de todos”), con una piattaforma “legge e ordine” e un generale dell’esercito in pensione, Antonio Hamilton Martins Mourão, come suo vice.

 L’elezione di Bolsonaro alla presidenza

Nel corso della campagna elettorale per le presidenziali del 2018, Bolsonaro è stato appoggiato dalle conservatrici bancadas BBB e dall’ultradestra del Movimento Brasil Livre, mentre in campo economico è stato consigliato da Paulo Guedes, uno dei “Chicago boys” allievi di Milton Friedman e responsabili delle politiche neoliberiste applicate in Cile durante la dittatura di Pinochet, nonché partner della banca d’investimento Bozano e per questo finito al centro di un’indagine per speculazioni sui fondi pensionistici. Anche se non era chiaro come l’orientamento neoliberista di Guedes, che voleva “privatizzare tutto“, dalla compagnia petrolifera Petrobras al Banco do Brasil e alle altre circa 140 imprese pubbliche, potesse combinarsi con l’orientamento fortemente statalista di Bolsonaro e dei suoi sostenitori militari. Si è anche parlato di un sostegno a Bolsonaro da parte di Steve Bannon, il Rasputin di Donald Trump, l’ideologo del “trumpismo”.

Il programma di governo di Bolsonaro poteva essere sintetizzato con una frase che ha ripetuto spesso durante la campagna elettorale: “acabar com todo que està aì” (“farla finita con tutta quella roba lì”), ossia abbandonare le politiche perseguite dai governi del PT, ad iniziare dalla protezione dell’ambiente (fuori il Brasile dall’accordo COP21 di Parigi) e delle comunità indigene dell’Amazzonia, della riforma agraria e dei diritti civili e delle minoranze.

L’esclusione di Lula e il grave ferimento di Bolsonaro da parte di un ex affiliato (dal 2007 al 2014) al piccolo partito di sinistra Socialismo e Libertà (PSOL) che ha detto alla polizia che l’attacco gli era stato ordinato da Dio, hanno reso del tutto caotica la parte finale della campagna elettorale per le presidenziali.

Al primo turno (7 novembre), Bolsonaro con il 46% dei voti, oltre 49 milioni di consensi sui 147 iscritti nei registri elettorali (con circa un terzo che non ha votato o ha votato scheda bianca o nulla), ha sfiorato la vittoria, mentre il suo diretto avversario Haddad è stato distanziato di circa 16 punti percentuali (29,3%). I risultati hanno confermato anche altre tendenze rivelate da sondaggi precedenti: Ciro Gomes (centrosinistra) è rimasto bloccato al 12,5% e gli altri candidati principali, come Geraldo Alckmin (centrodestra) e Marina Silva (ambientalista) sono crollati al 4,7% e all’1% rispettivamente. Bolsonaro ha fatto particolarmente bene nella parte amazzonica (poco popolata) e meridionale del Paese (quella più ricca e più bianca), tra cui Rio de Janeiro (60% dei voti), Minas Gerais (48%), São Paulo (53%) e Santa Caterina (66%), mentre il suo partito, il PSL, è passato da 8 a 52 deputati (molti dei quali ex-militari), divenendo il secondo gruppo più numeroso al Congresso dopo quello del PT (56, -14).

Il PT ha resistito nel suo tradizionale feudo del Nordest del Brasile: nei nove Stati che riuniscono alcune delle regioni più povere del Paese, Haddad era in testa con risultati che raggiungevano anche il 60%, e i candidati del PT e dei partiti alleati sono stati eletti governatori. Ma, la crisi del PT è risultata evidente se si considera che il deputato del partito più votato a São Paulo è stato l’ex segretario Rui Falcão, appena quindicesimo, oppure che l’ex presidente Dilma Rousseff non è riuscita a farsi eleggere al Senato.

Anche due figli di Bolsonaro sono stati eletti al Congresso: Eduardo è diventato anche il deputato eletto con più voti nella storia del Paese (1,8 milioni), mentre Flávio ha comodamente conquistato un posto al Senato. Un terzo figlio, Carlos, è al suo quinto mandato al consiglio comunale di Rio de Janeiro.

La fortuna elettorale di Bolsonaro ha contagiato anche altri candidati legislatori o governatori che gli hanno assicurato il loro appoggio. Come per esempio Romeu Zena, del Partido Novo, che con il 41% dei voti ha creato la sorpresa nella corsa per la poltrona di governatore di Minas Gerais, eliminando dal ballottaggio il governatore uscente del Partito dei Lavoratori, Fernando Pimental (22%).

Risultato a sorpresa anche a Rio de Janeiro, dove Wilson Witzel – ex magistrato del Partito Social Cristiano (PSC) che appoggiava Bolsonaro a livello nazionale – è emerso in testa nell’elezione per l’incarico di governatore con poco meno del 40% dei voti, quando i sondaggi lo davano al quarto posto, con appena il 12%.

Al ballottaggio del 28 ottobre, Bolsonaro è stato eletto presidente con il 55,1% dei voti, sconfiggendo Haddad (44,8%) che avrebbe dovuto contare sull’appoggio, oltre che del PT, anche del Partito Socialista, del Partito Socialismo e Libertà (PSOL) e del Partito Laburista Democratico (PDT) di Ciro Gomes. Bolsonaro ha vinto in 16 dei 27 Stati della federazione brasiliana: ha sfiorato il plebiscito nel ricco sud-est – 43% degli elettori in una regione che vale il 54% del PIL – nel Sud, nel centro-ovest e in tre Stati del nord. Haddad, da parte sua, ha vinto con non meno del 60% nei 9 Stati del nord-est – 27% degli elettori e 24% del PIL – mentre si è imposto di misura in 2 al nord. I sostenitori di Bolsonaro hanno vinto anche i governatorati di tre Stati più importanti – São Paulo, Minas Gerais e Rio de Janeiro -, mentre i candidati del PT hanno vinto nei grandi Stati del Nord-Est e dell’Amazzonia. Nonostante il voto alle elezioni sia obbligatorio, l’astensione ha raggiunto il 21,3%, un elettore su cinque non ha votato al secondo decisivo turno, mentre 11 milioni sono state le schede nulle e bianche.

La combinazione della frustrazione degli elettori verso un classe politica considerata in gran parte immorale e corrotta e della demonizzazione del PT, visto come il pilastro del sistema tradizionale di mediazione politica, contribuiscono a spiegare come mai un politico mediocre, in passato ridicolizzato e considerato del tutto marginale, sia stato catapultato dal deserto politico alla presidenza.

Quasi 58 milioni di brasiliani hanno votato per Bolsonaro perché desiderosi di un cambiamento radicale dopo anni di recessione economica, di violenza legata alla grande e piccola criminalità, di disservizi negli ospedali e negli altri servizi e di scandali per la grande corruzione politica. I leader moderati di centro-sinistra e di centro-destra non sono riusciti a dare risposte a queste richieste sociali, permettendo a Bolsonaro di presentarsi come un ribelle che combatte contro l’establishment e lo status quo.

Come in Italia dopo l’inchiesta “Mani Pulite”, nel Brasile post “lava jato” si è aperto un vuoto politico, praterie di voti contro, di rabbia e di sfiducia nelle istituzioni e nei partiti tradizionali mainstream, un fenomeno che Bolsonaro, come Berlusconi nel 1994, ha saputo cavalcare con abilità e successo con una campagna che ha fatto largo uso di messaggi su WhatsApp (una parte sicuramente fake news finanziate da grandi imprenditori amici).

Nel contesto della crisi strutturale del capitalismo brasiliano, le elezioni sono diventate una sorta di referendum sul PT: chi difendeva il suo operato e chi lo osteggiava. Bolsonaro è stato abile nell’incanalare la rabbia popolare trasformandola in odio contro la sinistra e i movimenti sociali e ha trionfato, anche perché è riuscito a destrutturare le istituzioni brasiliane con le sue narrazioni tossiche, finendo per svilire il potere esecutivo, legislativo e giudiziario in larga parte già screditato agli occhi della cittadinanza. Inoltre, di fronte all’enorme problema di criminalità/sicurezza, coi suoi proclami e toni autoritari, Bolsonaro ha promesso “legge ed ordine” e la maggioranza degli elettori brasiliani gli ha creduto.

Allo stesso tempo, i risultati delle elezioni politiche del 2018 hanno sancito un rinnovamento della classe politica, anche se, come il vecchio, il nuovo Congresso è pieno di corrotti e corruttori che si sono fatti eleggere deputati semplicemente per ottenere l’immunità dalle accuse derivanti dai diversi filoni dell’inchiesta lava jato. La metà del nuovo Congresso è formata da parlamentari eletti per la prima volta. Al Senato, solo 8 dei 38 senatori uscenti sono stati rieletti e molti dei neoeletti avevano poca esperienza politica. Ha continuato, comunque, a prevalere la forte frammentazione del sistema politico, con 30 partiti rappresentati in Parlamento. Al Senato, i partiti di centro hanno continuato ad avere la maggioranza con 43 seggi (ma il MDB dell’ex presidente Temer ha perso 7 seggi), mentre sia quelli di centro-sinistra (19) sia quelli di destra (19) hanno guadagnato alcuni seggi (ma il PT ne ha persi due).

Lo slancio di Bolsonaro nella corsa presidenziale, invece, ha spostato ulteriormente a destra il Congresso, dove molti deputati uscenti non sono stati rieletti. Già il giorno dopo le elezioni era evidente che Bolsonaro avrebbe comunque dovuto negoziare con i partiti centristi (MDB e PSDB) l’appoggio per governare, per far passare i provvedimenti decisi dal suo governo. Pur avendo perso seggi, il “grande centro” (centrão) ha continuato ad avere la maggioranza (217) rispetto alla destra (152) e alla sinistra (114).

Bolsonaro è stato avvantaggiato perché un’alleanza di centro-destra poteva contare su circa 360 seggi su 513. Era in grado, quindi, di formare una base di appoggio parlamentare, chiedendo i voti dei partiti di centro-destra che non lo hanno esplicitamente sostenuto e che contano oltre la metà dei seggi alla Camera e i tre quarti al Senato. Avrebbe potuto accordasi con i presidenti delle due Camere sulle priorità dell’agenda parlamentare, mentre avrebbe dovuto fare i conti con 9 governatori del nord-est allineati con Haddad e il PT. Inoltre, avrebbe dovuto cercare di trovare un equilibrio tra le correnti nazionaliste favorevoli all’intervento pubblico in economia e quelle neoliberiste.

Bolsonaro e i militari

La drammatica crisi politica della democrazia brasiliana, apertasi con l’impeachment della Rousseff, è stata apparentemente risolta con l’elezione alla presidenza di Bolsonaro, una soluzione politica che però ha lasciato il Paese più diviso che mai e che ha contribuito ad alimentare lo spettro di una svolta decisamente autoritaria o addirittura di un possibile ritorno ad una dittatura civico-militare, soprattutto in considerazione dei probabili effetti economici e sociali negativi che le politiche neoliberiste che il superministro dell’Economia Guedes si sarebbe apprestato ad implementare avrebbero avuto su gran parte della popolazione brasiliana, ma anche sulla borghesia di São Paulo, che comprende senz’altro anche il gruppo imprenditoriale più protezionista del Sud America.

Il 15 settembre 2017, durante una conferenza alla Gran Loggia massonica di Brasilia, l’allora generale dell’esercito Mourão aveva invocato pubblicamente la possibilità di un intervento militare: “Se le istituzioni non risolvono il problema politico attraverso l’attività giudiziaria, cacciando dalla vita pubblica tutti i colpevoli di reati, allora saremo noi a farlo. Tutti i camerati dell’alto comando sono d’accordo con me”. Qualche giorno dopo, in un’intervista alla rete Tv Globo, il generale Eduardo Villas Bôas che comandava l’esercito aveva ribadito che “la Costituzione concede alle forze armate un mandato per intervenire in situazioni di caos”. In sostanza, i militari si autoassegnavano la missione di essere il “vincolo interno” del sistema politico brasiliano.

In campagna elettorale, Bolsonaro aveva giurato di guidare una storica epurazione dei suoi nemici politici di sinistra (dovranno “andare all’estero o in galera”) e affermato che intendeva usare le forze armate per le pattuglie di routine nelle strade, descrivendo il Paese come “in guerra“.

Durante la cerimonia di insediamento ha proclamato che i brasiliani sono stati “liberati dal socialismo, dai valori invertiti, dallo Stato gonfiato e dal politicamente corretto“. “Abbiamo davanti a noi un’opportunità unica di ricostruire il nostro Paese e salvare la speranza dei nostri compatrioti“, ha affermato alla Camera dei Deputati. “Uniamo le persone, salviamo la famiglia, rispettiamo le religioni e la nostra tradizione giudaico-cristiana, combattiamo l’ideologia di genere, conservando i nostri valori“, e ha invitato i legislatori ad aiutare il Brasile a liberarsi da “corruzione, criminalità, irresponsabilità economica e sottomissione ideologica“.

L’affaire Moro e il proscioglimento di Lula

Uno dei primi atti di Bolsonaro è stato la designazione a superministro di Giustizia, Pubblica Sicurezza e Controllo Fiscale del magistrato Sérgio Moro, ossia di colui che ha gestito la maxi inchiesta lava jato che ha scardinato il sistema di potere del PT e messo in prigione Luiz Inácio Lula da Silva, il principale rivale di Bolsonaro per la presidenza.

Moro, che aveva sempre risolutamente escluso un suo ingresso in politica, ha affermato che “la prospettiva di attuare politiche forti contro la corruzione e la criminalità organizzata, nel rispetto della costituzione, della legge e dei diritti, mi ha portato a questa decisione“. Secondo Moro, nel suo nuovo ruolo sarebbe stato in grado di “consolidare i progressi contro il crimine e la corruzione che abbiamo raggiunto negli ultimi anni e ridurre i rischi di passi indietro, per un bene superiore“. All’inizio di febbraio 2019, ha proposto un “pacchetto anti-crimine“, inteso ad affrontare la violenza endemica e la corruzione in Brasile, con 19 proposte che includevano misure per formalizzare gli accordi di patteggiamento, creare un riconoscimento legale per i ruoli degli informatori e criminalizzare l’uso di fondi neri noti come caixa dois.

Ma, la decisione di Moro di accettare l’incarico ministeriale ha fatto emergere inquietanti interrogativi in relazione al possibile condizionamento politico delle inchieste contro la corruzione da lui portate avanti dal 2014. Ha alimentato il sospetto che sia esistito un piano premeditato, un complotto di forze più o meno occulte, contro il potere legittimo del PT, contro Dilma e soprattutto Lula, per spostare l’asse politico del Paese a destra e far vincere Bolsonaro.

Per la difesa di Lula, la sua nomina a ministro ha rappresentato “la conferma definitiva che Lula è stato incriminato, processato, condannato e messo in carcere senza aver commesso un crimine, con la chiara volontà di estrometterlo politicamente.” Pertanto, ha chiesto l’annullamento del processo per presunta parzialità del giudice.

E’ sembrato chiaro che, con Bolsonaro presidente e Moro superministro della Giustizia, Lula non avrebbe avuto scampo. Il 4 febbraio 2019 Lula è stato condannato ad altri 12 anni e 11 mesi nel secondo degli 8 processi che il pool di lava jato aveva avviato nei suoi confronti (pena poi elevata a oltre 17 anni in appello).

Ma, la diffusione di intercettazioni e documenti in stile Wikileaks da parte della testata giornalistica The Intercept nel giugno 2019, comprendenti brani compromettenti delle conversazioni telefoniche tra il pubblico ministero Moro e i magistrati inquirenti dell’indagine lava jato in relazione alle accuse di corruzione e al processo contro Lula, nonché altre rivelazioni da parte della rivista conservatrice brasiliana Veja, hanno rafforzato la tesi di un “complotto improprio e immorale” progettato per garantire l’imprigionamento di Lula e la sua non candidabilità. Il giornalista che ha denunciato i rapporti segreti di Moro, Glenn Greenwald, è stato accusato di crimini informatici a seguito dei suoi reportage (le accuse sono state successivamente archiviate).

Lo scandalo ha gravemente danneggiato la credibilità di Moro, dei pubblici ministeri e dell’intera operazione di lava jato. Moro ha dovuto affrontare numerose richieste di dimissioni, ma è rimasto al suo posto.

Invece, Lula è uscito dal carcere dopo 580 giorni (8 novembre 2019), poche ore dopo che una sentenza della Corte Suprema Federale ha rovesciato una precedente decisione del 2016 (il terzo cambiamento di opinione in 10 anni), prevedendo che la pena debba essere scontata solo dopo l’ultima istanza processuale (una sentenza della Cassazione). Insieme a Lula sono usciti dal carcere molti dei quasi 5 mila imputati e condannati in primo grado nell’inchiesta lava jato.

L’8 marzo 2021, dopo lo scioglimento in sordina il 3 febbraio del pool di magistrati inquirenti che aveva gestito l’inchiesta lava jato dal 2014, una sentenza di un giudice della Corte Suprema ha annullato tutte le quattro sentenze per corruzione contro l’ex presidente Lula, perché ad emetterle era stato il tribunale federale di Curitiba, che a suo avviso non aveva la giurisdizione sul caso. I processi dovranno quindi ripetersi presso la corte della capitale Brasilia, ma probabilmente cadranno in prescrizione.

Lula, quindi, molto probabilmente potrà ricandidarsi alle presidenziali dell’ottobre 2022 (a 76 anni) e in una intervista a El País, subito dopo la sentenza, lo ha ipotizzato: “Certo, se la gente vuole me, mi chiede di tornare in campo, sono pronto. La politica è la mia vita, ho sempre fatto questo.Bolsonaro ha criticato la decisione del giudice Edson Fachin che secondo lui “ha sempre avuto un rapporto forte con il Partito dei Lavoratori”, ma è chiaro che, con Lula in campo, le possibilità di una sua rielezione si assottigliano.

La sentenza di Fachin è arrivata proprio mentre la Corte Suprema si preparava ad accertare le accuse secondo cui Sérgio Moro non aveva agito con l’imparzialità richiesta a un giudice. I messaggi privati trapelati tra Moro e i pubblici ministeri pubblicati da The Intercept hanno rivelato che hanno lavorato insieme per truccare i processi e garantire la condanna di Lula su basi politiche. Il sospetto diffuso tra molti osservatori è che l’annullamento delle condanne di Lula fosse stato la moneta di scambio per insabbiare il processo nei confronti del giudice federale Moro.

Ma, due settimane dopo, la Corte Suprema ha stabilito che l’ex giudice Sergio Moro era di parte nel modo in cui ha supervisionato il processo per corruzione dell’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, che ha a lungo rivendicato la persecuzione politica. “In questo caso ciò che si discute è qualcosa che per me è fondamentale: tutti hanno diritto a un processo equo, un giusto processo legale e l’imparzialità del giudice“, ha detto il giudice Carmen Lucia, che ha espresso il voto di maggioranza nella sentenza (3 a 2). Con la loro decisione, i giudici hanno vietato l’uso delle prove raccolte nell’indagine lava jato sulla presunta proprietà di Da Silva di un triplex nella località balneare di Guaruja in un altro eventuale processo (ma non hanno stabilito se le prove raccolte in precedenza possano essere utilizzate per il processo di appello nell’altro caso in cui Lula è stato condannato e per gli altri due processi ancora aperti). In ogni caso, la sentenza ha definitivamente oscurato la reputazione di Moro e della vasta indagine lava jato sulla corruzione che ha presieduto per anni.

Durante la campagna elettorale per le prossime presidenziali Lula potrà dire di essere stato perseguitato da un giudice che voleva condannarlo a tutti i costi. Inoltre, la sentenza della Corte Suprema consentirà a molti dei condannati e detenuti nell’ambito dell’inchiesta lava jato di presentare dei ricorsi per l’annullamento delle loro condanne.

Bolsonaro e il suo governo

Bolsonaro, un ex militare, ha formato un governo senza nessun afro-brasiliano e con 8 ex militari in alcuni dei ministeri più importanti (Difesa, Interni, Educazione, Energia e Miniere), quasi tutti diplomati all’accademia militare di Agulhas Negras, dove si è formato anche Bolsonaro. Più di 100 funzionari provenienti dalle Forze Armate sono stati inseriti nelle seconde file del governo.

Il generale Villas Bôas ha salutato la vittoria del nuovo presidente come una gradita liberazione di energia nazionale, e in gennaio lo ha ringraziato per la “liberazione dalle catene ideologiche che sequestrano il pensiero libero” in Brasile.

Ministro degli Esteri è stato nominato Ernesto Araújo, un intellettuale cattolico di destra e un diplomatico di carriera che disprezza la Cina e la globalizzazione, ed è stato impegnato a dipingere Trump come una sorta di messia destinato a salvare la civiltà occidentale dal “marxismo culturale globalista” (considerato responsabile di ogni male, dalla corruzione politica al declino dei valori familiari e all’aumento dei crimini e del consumo di droga) e Bolsonaro come il prescelto da Dio con la missione di porre fine al regime “corrotto e ateo” in vigore nel Paese. Araújo crede che il cambiamento climatico sia un “complotto marxista” e ha scritto nella rivista americana conservatrice New Criterion che “la divina provvidenza” ha aiutato Bolsonaro a vincere. “Il Brasile sta vivendo una rinascita politica e spirituale“, ha scritto Araújo. “Dio è tornato e la nazione è tornata” ed ambisce ad includere il Brasile in un “patto cristiano” a fianco degli Stati Uniti e della Russia, anche in contrasto con gli interessi economici del Paese.

Il ministro dell’educazione Ricardo Vélez Rodríguez è un seguace, come Araújo, delle teorie del filosofo/astrologo di estrema destra Olavo de Carvalho (un seguace delle idee antidemocratiche dello scrittore, filosofo, esoterista francese René-Jean-Marie-Joseph Guénon, vissuto tra il 1886 e il 1951 e conosciuto anche come Shaykh ‘Abd al-Wahid Yahya dopo la conversione all’Islam) che da anni combatte “marxismo culturale” (in particolare, il pensiero della Scuola di Francoforte), psicoanalisi, esistenzialismo, teologia della liberazione, relativismo morale, culturale ed etico. Vélez Rodríguez è convinto che il golpe del ‘64 abbia liberato il Paese dal comunismo e che i brasiliani siano “ostaggi” di un sistema di insegnamento mirato a “imporre alla società un indottrinamento radicato nell’ideologia marxista”. Il suo primo provvedimento è stato l’abolizione della Segreteria dell’educazione continua, alfabetizzazione, diversità ed inclusione, facendo così scomparire dall’agenda scolastica i temi dei diritti umani, educazione interculturale e diversità.

Vélez Rodríguez è stato licenziato da Bolsonaro solo tre mesi dopo la sua nomina perché considerato “incapace” e sostituito con Abraham Weintraub, un economista e professore universitario che ha trascorso gran parte della sua carriera nel settore finanziario e ha espresso teorie cospirative di destra, sostenendo che il crack (la droga derivata dalla coca) è stato deliberatamente introdotto in Brasile come parte di una cospirazione comunista (riferendosi alle FARC colombiane). Il primo provvedimento deciso da Weintraub è stato il taglio delle borse di studio e del 30% del bilancio delle università pubbliche (concentrato soprattutto contro le facoltà umanistiche che non aiuterebbero la crescita del PIL), giustificato con l’aumento delle risorse per pre-scuole, scuole elementari e istituti tecnici. Una decisione che ha provocato la protesta di decine di migliaia di studenti e insegnanti in tutto il Brasile – le prime proteste di massa da quando Bolsonaro era entrato in carica.

Inoltre, la decisione di Bolsonaro di nominare Damares Alves, una pastora evangelica anti-aborto (che ha detto di aver visto Gesù ai piedi di un albero di goiaba), a capo di un nuovo ministero che sovrintende donne, famiglie, diritti umani e comunità indigene, è stato interpretato come un indicatore dell’intolleranza e del conservatorismo che voleva imporre.

Tereza Cristina, ministro dell’Agricoltura, è un produttore di soia nel Mato Grosso ed è stata la coordinatrice della potente bancada dei deputati legati agli interessi dei produttori agrari. Come regalo al potente settore agrindustriale, sono state assegnate al ministero dell’Agricoltura sia la competenza sull’identificazione e demarcazione delle aree indigene (sottraendola al FUNAI, la Fondazione Nazionale per gli Indigeni, al cui vertice Bolsonaro ha nominato Marcelo Xavier da Silva, un ufficiale della polizia federale con forti legami con l’agrobusiness) sia quella sulla gestione del Servizio Forestale responsabile della gestione delle riserve naturali e delle foreste, fonti di sanguinosi scontri sulla frontiera agricola del Brasile (nel Cerrado e in Amazzonia).

Bolsonaro ha difeso la misura in un tweet. “Oltre il 15% del territorio nazionale è delimitato come terra indigena e quilombos [le 357 comunità – quilombo in angolano significa villaggio e fortezza – fondate da una parte dei 5 milioni di schiavi importati dall’Africa tra il 1501 e il 1888, fuggiti dalle piantagioni di zucchero in cui erano tenuti prigionieri]. Meno di un milione di persone vivono in questi luoghi, isolati dal vero Brasile, sfruttati e manipolati dalle ONG. Insieme integreremo questi cittadini.” Affermazioni e decisioni che denotano che Bolsonaro considera le popolazioni indigene essenzialmente come un ostacolo allo sviluppo nazionale, mentre chi si batte per proteggere le popolazioni indigene e la foresta viene indicato non solo come nemico del presidente, ma anche come nemico della nazione.

Bolsonaro ha licenziato Ricardo Galvão, il direttore dell’Istituto Nazionale per la Ricerca Spaziale (INPE) del Brasile, a seguito di una controversia sui dati satellitari che mostrava un aumento della deforestazione amazzonica (con un forte aumento dei roghi), che il presidente ha definito “bugie“, insinuando che Galvão era al “servizio” di un gruppo no-profit straniero. Da gennaio a luglio 2019, i numeri accumulati dal sistema satellitare Deter hanno mostrato un aumento del 62% della deforestazione rispetto allo stesso periodo del 2018. Un aumento che è stato mostrato anche da altri tre sistemi di monitoraggio satellitare internazionali. Inoltre, il governo ha presentato una controversa proposta di legge che consentirebbe l’estrazione mineraria (compresi i progetti petroliferi e di gas, nonché le dighe idroelettriche) su terre indigene protette.

I ministeri della Cultura e del Lavoro sono stati aboliti e le competenze del secondo sono state ripartite fra il dicastero della Giustizia e Pubblica Sicurezza – come se il lavoro fosse una questione di polizia – e quelli dell’Economia e della Cittadinanza.

I militari al governo e la questione amazzonica

Dalla difesa alle infrastrutture, dall’educazione alla politica economica, con Bolsonaro presidente, le forze armate sono diventati uno dei principali attori della politica governativa e nazionale. In particolare, le forze armate vogliono vedere più sviluppo economico in Amazzonia, un’area che hanno storicamente considerato non come un importante ecosistema da proteggere, ma come un onere per la sicurezza (rende il confine nord-occidentale del Brasile quasi impossibile da monitorare) e una risorsa nazionale da sfruttare. Bolsonaro condivide la visione dell’Amazzonia come nuova frontiera dello sviluppo economico brasiliano e ha dichiarato la propria intenzione di abolire le protezioni e i regolamenti ambientali in nome del lancio di nuovi progetti per strade, miniere, centrali idroelettriche e agrobusiness.

Durante gli anni della dittatura militare la parola d’ordine era “integrar para não entregar” (integrare per non cedere) e per favorire la colonizzazione venne realizzata un’immensa autostrada, chiamata Transamazonica. Un’opera eccessivamente ambiziosa, inutilmente costosa (oltre 1,5 miliardi di dollari) e mai adeguatamente concepita e realizzata (solo 4.200 km degli oltre 8 mila pianificati, sono stati completati). Il governo sperava di insediare un milione di persone in una serie di villaggi e città costruite lungo l’autostrada. Ogni 10 km ci sarebbe dovuto essere un “agro-villaggio“, con 48-64 case, una scuola e un ambulatorio. I villaggi avrebbero dovuto essere sotto la supervisione di una “agropoli“, situata ogni 50 km lungo l’autostrada, che avrebbe dovuto avere 500 case, negozi e stazioni di servizio. Infine, ci sarebbe dovuta essere una “ruropolis” più grande ogni 150 km.

Queste nuovi insediamenti sarebbero dovuti essere principalmente per i brasiliani del nord-est colpito dalla siccità. Ma, solo 20 nuovi insediamenti furono mai costruiti, con case per appena 20 mila famiglie. Quelle famiglie hanno trovato scarso supporto quando sono arrivate, mentre c’era la fame, la malattia e un terreno aspro da disboscare e coltivare.

La Tansamazonica, comunque, è stato un potente driver della distruzione ambientale. Una volta aperta la strada ha consentito ai camion di entrare nel cuore della foresta pluviale. La deforestazione è esplosa, aprendo la strada ai taglialegna e agli allevatori di bestiame. La foresta era stata aperta e negli anni ’80, un decennio dopo che l’autostrada aveva aperto il passaggio nella foresta pluviale, era stato stimato che un’area di 56 mila kmq era stata deforestata, con l’uccisione e lo spostamento di migliaia di persone appartenenti ai popoli indigeni da parte dell’esercito e di milizie private pagate da grandi proprietari terrieri e multinazionali.

Nel 1988, ci fu il drammatico assassinio del sindacalista Chico Mendes, un ambientalista che aveva attirato l’attenzione internazionale sui danni causati dagli allevatori di bestiame e dai taglialegna. Mendes era il leader del movimento dei seringueiros, i lavoratori raccoglitori di caucciù nella regione amazzonica. Mendes era stato minacciato dai grandi agricoltori per anni e il suo assassino era figlio di un ricco agricoltore. Il suo assassinio ha portato per la prima volta l’Amazzonia al centro della politica brasiliana e i governi hanno creato più aree di conservazione e l’Istituto Chico Mendes per la Conservazione della Biodiversità è stato istituito come parte del ministero dell’Ambiente nel 2007. La morte di Mendes ha permesso l’ascesa di politici ambientalisti come Marina Silva, che in seguito è stata ministro dell’Ambiente di Lula, ma non è stata sufficiente per mettere in discussione la forza della lobby della carne e dell’agrobusiness della soia, rimasta potente con qualsiasi governo. Con Bolsonaro questa lobby è al governo e il ministro dell’Ambiente, Ricardo Salles, ha affermato che “è irrilevante chi fosse Chico Mendes“.

La riforma delle pensioni

Sul piano economico il Brasile ha diversi problemi strutturali che Bolsonaro ha, almeno in parte, cercato di affrontare, a cominciare dalla questione relativa alla sostenibilità del sistema pensionistico statale. Nel 2017, questo aveva raggiunto un deficit di 84,173 miliardi di dollari – circa il 4% del PIL del Paese. Il sistema pensionistico incide pesantemente sul deficit di bilancio del Brasile, attualmente attorno al 7% del PIL. Senza una riforma, il conto pensionistico federale sarebbe aumentato al 19,5% del PIL nel 2040, esercitando un’estrema pressione sul governo Bolsonaro per modificare rapidamente il regime pensionistico.

Per Bolsonaro la riforma delle pensioni rappresentava un nodo difficile da sciogliere perché i principali beneficiari del sistema pensionistico in vigore erano ex membri delle forze armate e della polizia, oltre che ex-giudici, ex alti burocrati ed altri ex lavoratori della classe medio-alta, ossia la principale costituency del nuovo presidente.

Non sarebbe stato facile attuare il piano di Guedes che prevedeva di utilizzare i soldi incassati dalle privatizzazioni (autostrade, porti, aeroporti, poste, treni urbani, Eletrobras, Telebras, etc.) per finanziare un nuovo sistema pensionistico. Nel 2019, Guedes ha comunque venduto oltre 23 miliardi di dollari di beni statali.

Non sarebbe stato facile elevare l’età di pensionamento sia per il settore privato sia per quello pubblico dai primi 50 anni a 65 anni per gli uomini e a 62 anni per le donne, mentre si voleva imporre anche un nuovo sistema di contribuzione che prevedeva che i dipendenti accumulino una quota del loro salario in conti individuali di risparmio che dovrebbero essere gestiti da enti pubblici e privati (il piano dovrebbe andare a regime in 14 anni).

Far passare la riforma pensionistica richiedeva il sostegno dei 3/5 dei voti nei due rami del Parlamento, dato che erano necessari dei cambiamenti costituzionali. Un primo vero test del potere del governo di Bolsonaro che ha richiesto di arrivare a dei compromessi che hanno indebolito il rigore della riforma. Senato e Camera hanno approvato la legislazione per porre fine progressivamente alla pensione in base al tempo di contribuzione, aumentare l’età minima di pensionamento (65 anni per gli uomini e 62 anni per le donne) e ridurre l’importo della prestazione media.

L’opposizione non è stata in grado di spostare il dibattito dall’agenda della disciplina fiscale. Il governo ha affermato inesorabilmente che la riforma avrebbe soppresso i “privilegi“, ma non ha preso in considerazione la riscossione di miliardi di debiti delle grandi società nei confronti del sistema pensionistico, la fine dei programmi di sgravi fiscali a loro favorevoli e la revisione dello speciale sistema pensionistico militare che drena drasticamente il bilancio. Mentre la proposta originale di Guedes prevedeva un sistema pensionistico a capitalizzazione completa, la riforma approvata nell’ottobre 2019 fa male ai poveri e alla classe media senza apportare una soluzione efficace a lungo termine agli squilibri del sistema.

D’altra parte, non sarebbe stato facile neanche cancellare programmi pubblici popolari come bolsa famìlia, ridurre salari e stipendi, attaccare e distruggere le organizzazioni sindacali, le cooperative e i movimenti progressisti (sem terra, sem teto, femminista, LGBTQ+, etc.), “epurare” gli oppositori dall’amministrazione pubblica e dal sistema dell’istruzione e della cultura considerati vicini ai partiti centristi e di sinistra, e ridurre i pagamenti del welfare ai poveri.

Lo scontro interno al governo Bolsonaro

Dentro il governo Bolsonaro si sono scontrate a lungo due correnti principali che contribuiscono a definire il “Bolsonarismo”: una corrente moderata “pragmatica” che comprende buona parte dei generali e che fa capo al vicepresidente Mourão, e una corrente “ideologica” iperpopulista che ha come punto di riferimento intellettuale Olavo de Carvalho e su piano politico Carlos ed Eduardo Bolsonaro, i figli del presidente.

Dopo mesi di scontri mediatici tra le due fazioni, il presidente ha licenziato uno dei più eminenti moderati della sua amministrazione, il generale Carlos Alberto dos Santos Cruz, segretario del governo, che era entrato in accesa polemica direttamente con de Carvalho. Inoltre, ha manifestato l’intenzione di nominare suo figlio Eduardo ambasciatore negli USA: “E’ amico dei figli di Donald Trump, parla inglese e spagnolo, ha una fitta rete di rapporti in tutto il mondo. Potrebbe essere una persona adeguata a ricoprire quel ruolo e lo farebbe molto bene.

Con Bolsonaro presidente, CEO di Petrobras è diventato Roberto Castello Branco che in passato aveva sostenuto che la società andava privatizzata, ma che una volta diventato CEO ha dovuto riconoscere che questo non era nel suo mandato. Castello Branco è un accademico e un ex membro del consiglio di amministrazione di Petrobras e di Vale SA che fa parte di quel gruppo di quadri dell’amministrazione di Bolsonaro che si sono formati all’Università di Chicago (come Joaquim Levy, presidente della BNDES). Voleva realizzare un ambizioso programma di disinvestimento, volto a ridurre l’incredibile debito netto che nel terzo trimestre 2018 si era attestato a 73 miliardi di dollari. Castello Branco ha criticato l’ex governo Temer per l’ingerenza nei prezzi del diesel domestico e si è anche lamentato del blocco da parte dei tribunali delle vendite di beni di Petrobras, tra cui quattro raffinerie, alcuni giacimenti e il gasdotto noto come TAG.

A fine febbraio 2021, Bolsonaro ha nominato ai vertici della compagnia l’ex generale dell’esercito Joaquim Silva e Luna. Il cambio ha colto di sorpresa economisti e politici ed è arrivato all’indomani dell’annuncio di un aumento del prezzo della benzina del 10% e del diesel del 15%. Il quinto rialzo dall’inizio del 2021, con i camionisti pronti a bloccare il Paese. Bolsonaro ha accusato la precedente dirigenza (Castello Branco) di “codardia” per gli aumenti e di voler favorire gli investitori piuttosto che i brasiliani. Un’iniziativa che ha prodotto un crollo del 25% del valore delle azioni di Petrobras, poi recuperato in parte, e che ha riaperto il dibattito sul ruolo strategico della compagnia nell’economia del Paese e sulle politiche dei prezzi dei carburanti.

Petrobras non è mai entrata ufficialmente nel vasto elenco di società, infrastrutture e servizi da privatizzare o dare in concessione, ma la quota di capitale pubblico è stato via via ridotto a partire dal governo Temer. Se nel 1995 la quota detenuta dallo Stato era del 75%, all’insediamento di Temer (2016) era del 68%. Temer ha messo sul mercato le stazioni di servizio e una parte delle rete di gasdotti, riducendo al 62,7% la quota statale. In poco più di due anni, il governo Bolsonaro ha alleggerito ulteriormente Petrobras, mettendo sul mercato 8 delle 13 raffinerie che operano in Brasile, cedendo le attività legate al settore petrolchimico, col risultato di aver fatto scendere la quota detenuta dallo Stato al 50,2%.

La nomina dell’ex generale Silva e Luna a CEO evidenzia che ampi settori delle forze armate non sono favorevoli a spingere oltre il processo di privatizzazione della compagnia. Questo anche se, dopo le cessioni, Petrobras è essenzialmente impegnata nell’estrazione del greggio (4 milioni di barili al giorno), non operando più sull’intera filiera che va dal pozzo alla pompa. Ora, la raffinazione avviene in altri Paesi, col paradosso che il Brasile deve importare benzina e gasolio, soggiacendo alle dinamiche dei prezzi del mercato internazionale. Durante i governi Lula e Rousseff era stato messo in piedi un sistema di prezzi amministrati e gli aggiustamenti tenevano conto del mercato interno e dell’inflazione, evitando le forti oscillazioni e contenendo l’impatto sul costo della vita.

Bolsonaro e la posizione internazionale del Brasile

Una volta al potere, Bolsonaro ha cercato di riconfigurare drasticamente anche la politica estera del Brasile. Appena eletto ha annunciato la sua intenzione di trasferire l’ambasciata del Brasile in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, una decisione che ha segnalato il suo allineamento con la linea di politica estera di Trump.

Da sottolineare che il primo viaggio all’estero del presidente Bolsonaro sia stato fatto per partecipare all’annuale Forum Economico Mondiale di Davos dove ha suonato la campana a morto per la sinistra “bolivariana” del Sud America e proclamato l’avvio di una nuova era conservatrice di governo nella regione. Non a caso, John Bolton, il consigliere per la sicurezza nazionale americana, ha accolto Bolsonaro come un “segno positivo” per l’America Latina e lo ha salutato come un nuovo alleato contro la “troika della tirannia” – Cuba, Venezuela e Nicaragua – considerata come la “genesi di una sordida culla del comunismo nell’emisfero occidentale“.

Questo allineamento ha posto l’interrogativo sul futuro dei rapporti del Brasile con Cina, Paesi arabi e Russia ormai divenuti dei partner che assorbono il 70% del commercio estero brasiliano, in una fase in cui l’amministrazione americana considera la Cina e la Russia i principali avversari degli Stati Uniti. Se la Cina decidesse di non acquistare soia, l’agroindustria verrebbe messa fuori mercato. Se i Paesi arabi decidessero di non comprare pollame, questo avrebbe un impatto sui mezzi di sostentamento di 300 mila piccoli agricoltori. Se la Russia decidesse di non comprare più i maiali, le grandi aziende del settore andrebbero in bancarotta.

Quindi c’è una evidente contraddizione: da un lato, per ragioni ideologiche, il Brasile di Bolsonaro si è allineato con gli Stati Uniti di Donald Trump, ma dall’altro, per gli interessi economici nazionali, non ha senso avere una politica estera che faccia completamente affidamento sugli Stati Uniti. Infatti, nella sua visita di Stato in Cina (24-26 ottobre 2019), Bolsonaro ha mirato a cercare una cooperazione pragmatica per rafforzare le relazioni diplomatiche ed economiche (nei campi agricolo, infrastrutturale e tecnologico), una mossa che secondo gli analisti cinesi ha segnato una netta inversione della sua precedente dura posizione nei confronti di Pechino e sottolinea gli interessi condivisi dei due giganti emergenti.

Come Trump, Bolsonaro ha cercato di mettere in discussione gli accordi regionali multilaterali e di introdurre misure protezionistiche. Bolsonaro ha promesso che il Brasile continuerà a far parte del blocco commerciale del Mercato Comune Meridionale (Mercosur), ma che avrebbe lavorato per allontanarlo da qualsiasi obiettivo politico. Tuttavia, la priorità di Bolsonaro è stata quella di aumentare il ruolo degli accordi bilaterali, minando ogni tentativo di migliorare i meccanismi di cooperazione regionale.

Questo spostamento ha rappresentato un’inversione dell’approccio diplomatico promosso dai governi a guida PT, che era incentrato sull’approfondimento delle relazioni del Brasile con i suoi vicini. Sebbene Paulo Kramer, il principale consigliere di politica estera di Bolsonaro, abbia dichiarato che il Brasile avrebbe avuto una politica estera pragmatica e non discriminatoria, c’è sempre stato e c’è il pericolo di un’escalation delle tensioni tra Brasile, Venezuela e altri governi di sinistra nella regione. Il vicepresidente, il generale Hamilton Morao, ha annunciato da subito che il Brasile non riconosce il governo di Maduro, mentre Bolsonaro ha spesso affermato che avrebbe aumentato le sanzioni contro Maduro, peggiorando lo scontro internazionale in corso con il Venezuela.

In ogni caso, Bolsonaro ha fatto la sua prima visita ufficiale all’estero negli Stati Uniti e ha dichiarato che era “l’inizio di un partenariato per la libertà e la prosperità“. Bolsonaro ha firmato un accordo per l’apertura di una base satellitare nel nord-est del Brasile da parte di società americane. Trump ha promesso di sostenere l’adesione del Brasile all’OCSE, ma, in cambio, il Brasile avrebbe dovuto rinunciare ai diritti di cui gode nella WTO come Paese in via di sviluppo. Nessuno dei due ha menzionato il fatto che la Cina – impegnata in una guerra commerciale con gli USA – è ora il principale partner commerciale e di investimento del Brasile. Ore dopo aver incontrato Trump, Bolsonaro ha annunciato che che avrebbe visitato Pechino entro la fine del 2019. Il vice presidente Mourão ha fatto sapere che il Brasile non avrebbe vietato l’accesso al mercato brasiliano alla cinese Huawei seppure Trump avesse chiesto a Bolsonaro di escluderla dallo sviluppo delle nuove reti di telefonia mobile 5G durante la sua visita negli USA.

L’incompetenza e il caos nella gestione della pandemia da CoVid-19

Nei primi mesi dopo il suo insediamento, il grado di apprezzamento di Bolsonaro e del suo governo nei sondaggi è crollato al 29% e alcuni di coloro che lo avevano appoggiato hanno cominciato a prendere le distanze pubblicamente. Mentre il governo Bolsonaro per mesi non è stato in grado di costruire una coalizione nel frammentato Parlamento che approvasse le sue riforme, l’economia brasiliana ha continuato a stentare, le lotte intestine all’entourage bolsonarista sono diventate evidenti, le proteste popolari più frequenti, come gli interrogativi sulla corruzione, l’incompetenza e i legami con la criminalità organizzata sia del suo partito sia della sua famiglia. Bolsonaro ha reagito al fuoco amico e alle critiche intensificando la sua retorica populista e chiamando i sostenitori irriducibili a manifestare nelle strade.

L’uscita di prigione di Lula ha rappresentato un potente ripudio simbolico per Moro, ma anche una chiara minaccia agli sforzi di Bolsonaro di consolidare l’ondata del 2018 che ha portato al potere il movimento di estrema destra. Lula ha forti legami emotivi con i poveri del Paese ed è singolarmente in grado di spostarli dalla sua parte. La situazione è diventata molto rischiosa per la vita democratica brasiliana. Bolsonaro e il suo movimento sanno che non possono porre fine alla democrazia senza pretesti. Hanno bisogno di disordine, proteste e violenza per giustificare un ripristino delle misure dell’era della dittatura, che possono essere rappresentate come necessarie per ristabilire l’ordine, utilizzando la stessa struttura retorica usata per giustificare il colpo di Stato militare nel 1964.

Ma, la minaccia principale per Bolsonaro è venuta dal modo in cui ha affrontato la crisi della pandemia CoVid-19 che lui ha considerato a lungo una “bufala”, non più che una “piccola influenza”. E’ rimasto isolato a seguito della decisone di opporsi alle misure di quarantena decise da molti governatori degli Stati per far fronte al pericolo del contagio.

Mentre il coronavirus stava falcidiando il Paese, soprattutto le favelas di São Paulo e di Rio de Janeiro, e mentre l’economia avanzava verso il collasso (oltre 14 milioni di disoccupati e altri 12 milioni messi in aspettativa), Bolsonaro ha licenziato il ministro della Sanità, Luiz Henrique Mandetta, dopo che i due si sono scontrati sulla risposta alla pandemia altamente controversa di Bolsonaro, contrario a a qualsiasi misura di lockdown. Si è inimicato buona parte dell’opinione pubblica, i principali ministri, il Congresso, buona parte della Corte Costituzionale, i governatori e il suo vice Mourão.

Il Parlamento ha approvato una legge per un “bilancio di guerra” che ha creato un regime straordinario per separare le spese relative al coronavirus dal bilancio principale del governo e proteggere l’economia. Oltre ad allentare i vincoli fiscali e di bilancio per accelerare le misure per affrontare l’epidemia, il “bilancio di guerra” ha attribuito il potere di acquisto di obbligazioni di emergenza alla Banca Centrale per stabilizzare i mercati finanziari (”monetizzazione del debito”).

I militari al governo hanno annunciato, in contrasto con il ministro dell’Economia Guedes, un piano di spesa da 37,7 miliardi di dollari in cinque anni in lavori pubblici. Nel frattempo, il mercato azionario brasiliano è sceso del 38% da un massimo storico di gennaio 2020, e gli investitori stranieri hanno ritirato gran parte dei loro dollari dal Paese.

La situazione è diventata sempre più esplosiva e caotica allorquando Sérgio Moro si è dimesso da ministro della Giustizia (24 aprile), accusando Bolsonaro di aver licenziato il direttore della polizia federale Maurício Valeixo senza esserne informato e nonostante l’ordine di licenziamento avesse la firma digitale di Moro. Nella sua conferenza stampa, Moro ha suggerito che Bolsonaro ha rimosso Valeixo perché il presidente si è opposto alle indagini condotte dalla polizia federale che potevano avere un impatto su Bolsonaro, i suoi figli, Carlos, Eduardo e Flávio, e diversi membri della loro cerchia. In sostituzione di Valexio, Bolsonaro ha nominato Alexandre Ramagem, un amico di famiglia che aveva diretto la sua sicurezza personale dopo l’accoltellamento durante la campagna elettorale nel 2018. Comunque, la Corte Suprema ha dato il via libera al procuratore capo Augusto Aras di indagare sulle accuse contro Bolsonaro di interferire nelle forze dell’ordine.

Bolsonaro ha mantenuto la sua base di estrema destra, ma ha perso il sostegno politico di Moro, il campione delle classi medie di centro-destra, e ha dovuto tenere a freno il neoliberista Guedes, il campione del grande capitalismo brasiliano e del capitale internazionale. Bolsonaro si è scontrato di continuo con i governatori, con la stampa e, soprattutto, con i giudici della Corte Suprema.

Di fatto, il suo destino politico e personale sembra essere nelle mani dell’élite militare che lo ha utilizzato come un veicolo per acquisire rapidamente il potere politico seguendo la via democratica, ma è stata sempre diffidente verso di lui. L’impeachment o le dimissioni di Bolsonaro porterebbero alla presidenza l’ex generale Mourão.

In ogni caso, Bolsonaro ha rafforzato la sua debole posizione in Parlamento. La sua piccola Alleanza per il Brasile, formata nel novembre 2019, ora collabora con il centrão, il grande blocco di partiti centristi. Ciò aiuta il governo ad approvare la legislazione e a proteggere Bolsonaro dall’impeachment. Il centrão ha finora tenuto bloccate 49 mozioni di impeachment di Bolsonaro derivanti dagli scandali e dalla cattiva gestione della pandemia.

Intanto, la pandemia si è rapidamente diffusa nel Paese. Il secondo ministro della Sanità, Nelson Teich, contrario all’uso generalizzato dell’idrossiclorochina auspicato da Bolsonaro, si è dimesso dopo essere stato in carica un solo mese e il giorno dopo aver annunciato che nel Paese vi erano oltre 200 mila contagiati e quasi 14 mila morti, con il sistema ospedaliero di Rio, São Paulo, Fortaleza e Manaus prossimo al collasso.

Il suo posto è stato occupato ad interim dal generale Eduardo Pazuello. Il 7 luglio è stato reso noto che il presidente Bolsonaro era risultato positivo al test per il coronavirus, mentre erano più di 65 mila i brasiliani morti e 1,6 milioni quelli contagiati. Le previsioni economiche parlavano di una flessione del PIL tra l’8 e il 12% per il 2020. Un colpo gravissimo per un Paese che stava faticosamente cercando di uscire dalla recessione iniziata nel 2016.

Da aprile, oltre 67 milioni di persone (un terzo della popolazione) hanno ottenuto il sussidio emergenziale da 600 real (circa 90 euro) o di 1200 real (circa 180 euro) per madri singole stanziato dal governo federale ed esteso fino a dicembre. Il rapporto tra debito pubblico e PIL era destinato ad arrivare al 96% a fine 2020 (con un deficit di oltre 160 miliardi di dollari). Il 51% dei brasiliani si è trovato a ricevere l’aiuto di emergenza o quanto previsto dallo schema di trasferimento di denaro Bolsa Família.

Il consistente aumento della spesa pubblica ha fatto emergere il disagio del ministro dell’Economia Guedes (due dei suoi stretti collaboratori si sono dimessi a fine agosto), mentre è cresciuto il consenso popolare per Bolsonaro, nonostante il superamento di 147 mila morti e di quasi 5 milioni di contagiati per CoVid-19 a metà ottobre 2020.

Con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali nel 2022, è probabile che Bolsonaro continuerà a muoversi in questa direzione, per cui l’esperimento del Brasile con il neoliberalismo di Guedes potrebbe rivelarsi di breve durata. Questo anche se il Brasile potrebbe non potersi permettere di dispensare sussidi ancora per molto, poiché Bolsonaro non ha mostrato alcun segno di voler aumentare le tasse per i super ricchi brasiliani. Bolsonaro ha messo in programma l’introduzione nel 2021 un nuovo schema rivisto della Bolsa Família chiamato “Reddito dei cittadini” inclusivo di aiuti di emergenza in denaro.

Alle elezioni municipali del 15 novembre il principale sconfitto è stato Bolsonaro con l’estrema destra, mentre è tornata a crescere la destra tradizionale. La sinistra, sebbene divisa, si è mantenuta viva, con la sorpresa più grande del PSOL a São Paulo. Restava da capire se in futuro sarebbe riuscita a dar vita a un fronte comune. Clamorosa la sconfitta dell’evangelico Marcelo Crivella al ballottaggio per la carica di sindaco di Rio de Janeiro, con la schiacciante vittoria del candidato del centrodestra Eduardo Paes (già sindaco dal 2009 al 2016). Poche settimane dopo e a pochi giorni dalla fine del suo mandato, la polizia ha arrestato Crivella nell’ambito di un’indagine sulla presunta corruzione al municipio.

A causa della pandemia CoVid-19, l’attività economica si è contratta del 4,5% nel 2020, nonostante la risposta fiscale sorprendentemente aggressiva del governo (principalmente attraverso trasferimenti diretti di reddito ai poveri). In totale, le misure fiscali sono ammontate a circa il 18% del PIL, portando il disavanzo totale al 14,5% del PIL e il debito pubblico lordo al 95,6% del PIL nel 2020. Il governo ha dovuto affrontare il rifinanziamento di 112 miliardi di dollari all’inizio del 2021 (pari al 14,1% del debito domestico), con il fabbisogno di finanziamenti di aprile il più alto di sempre per un solo mese. Il disavanzo primario, escluso il pagamento degli interessi, ha raggiunto quasi il 12% del PIL nel 2020, con un debito complessivo che è salito a circa il 95% del PIL (quasi tutto denominato in reais e al 90% in mano a investitori interni). Ciò ha costretto il Tesoro a prendere in prestito di più, sempre più in debito a breve scadenza perché meno costoso e perché la crescente preoccupazione per le prospettive fiscali ha significato che gli investitori erano riluttanti a prestare al governo a più lungo termine. Banca centrale e banche pubbliche hanno giocato e giocano un ruolo chiave nel rifinanziamento del debito in scadenza. In marzo, governo e parlamento hanno approvato un nuovo piano da 42 miliardi di reais (circa 730 milioni di dollari), per fornire alla popolazione povera sussidi in media da 250 reais (tra i 26 e i 52 dollari) per quattro mesi.

La triste fine dell’operação lava jato

Intanto il 3 febbaio è stata sciolta, quasi nel silenzio generale, la squadra investigativa della magistratura che nel 2014 aveva portato ad avviare la operação lava jato o petrolão. Una decisione che ha segnato la fine simbolica di una spinta senza precedenti per combattere la corruzione in Brasile e in tutta l’America Latina.

L’inchiesta ha contribuito a far cambiare gli equilibri politici, aprendo la strada alla destra e ai militari, ma non ha portato un cambiamento duraturo delle pratiche di finanziamento della politica. Alcune grandi aziende hanno rafforzato i controlli, ma i passi avanti non hanno portato a una maggiore indipendenza della magistratura. Un recente studio della più grande federazione sindacale brasiliana ha rilevato che l’inchiesta lava jato potrebbe essere costata all’economia fino a 30 miliardi di dollari di investimenti e 4,4 milioni di posti di lavoro, poiché ha più o meno paralizzato l’intero settore edile e petrolifero in Brasile per anni.

In un Paese e in un continente in cui i potenti godono abitualmente di impunità, l’inchiesta è stata una svolta senza precedenti. Ma, alla fine la lotta alla corruzione è stata neutralizzata dalla politicizzazione della giustizia. Il battagliero giudice di Curitiba che ha diretto l’inchiesta, non è stato imparziale. Moro ha fatto condannare Lula a 12 anni per aver ricevuto un appartamento davanti alla spiaggia di Guaruja, anche se Lula non lo aveva mai posseduto né usato. La sentenza (come altre 3) è stata annullata da un giudice della Corte Suprema l’8 marzo 2021, perché il tribunale federale di Curitiba non aveva la giurisdizione in materia. La procura ha annunciato che si appellerà alla decisione.

C’erano altre accuse contro Lula, più solide, ma dopo averlo eliminato dalle elezioni presidenziali del 2018, Moro è diventato ministro della Giustizia nel governo di Jair Bolsonaro. Da ministro, Moro ha detto che avrebbe cercato di istituzionalizzare la lotta alla corruzione. Su questa premessa, Bolsonaro aveva impostato la sua campagna elettorale, ma dopo aver vinto le elezioni, quando le autorità giudiziarie hanno cominciato a indagare su uno dei suoi figli e su un suo collaboratore, ha cambiato idea. Nell’aprile 2020, Moro si è dimesso da ministro proprio a seguito di un acceso scontro pubblico con il presidente. Attualmente, lavora per uno studio legale che include come uno dei suoi clienti Odebrecht, una delle grandi società al centro dell’indagine lava jato.

In Brasile, come nel resto del continente latino-americano, il problema della corruzione esiste ancora e lo dimostrano le accuse emerse nella gestione delle forniture mediche durante la pandemia da CoVid-19.

Il ritorno di Lula e il declino di Bolsonaro

La popolarità di Bolsonaro è in forte declino, soprattutto in virtù della sciagurata gestione della pandemia da CoVid-19 – oltre 300 mila morti (con un ritmo di 3 mila al giorno, circa un terzo del totale mondiale di vittime giornaliere) e oltre 11 milioni di contagiati, il secondo Paese più colpito al mondo (con solo il 2,7% della popolazione mondiale, il Brasile ha avuto il 10,6% di tutti i decessi da CoVid-19) – e della conseguente crisi economica. Oltre mille morti giornalieri sono stati registrati nel solo Stato di San Paolo e il governatore di centro-destra, João Doria, ha detto che questa calamità è colpa del “leader psicopatico” del Brasile.

Sarà questo probabilmente uno dei principali temi che fornirà la base politica per il rilancio del PT (ancora il maggiore partito politico del Paese) ed è assai probabile che le elezioni presidenziali dell’ottobre 2022 saranno un confronto diretto tra Bolsonaro e Lula (a meno che nuovi escamotage legali lo tengano nuovamente fuori dalla competizione elettorale).

L’amministrazione americana Biden, promette di fare della lotta alla corruzione uno dei fulcri della sua agenda di politica estera, ma potrebbe vedere Lula con favore, dal momento che Trump aveva in Bolsonaro un protegé che ora sembra aver smarrito i suoi principali riferimenti a livello internazionale. Soprattutto se Lula si posizionasse come un “conciliatore” in stile Joe Biden che, offrendo una visione ottimista del futuro, può pacificare sul piano politico il Brasile e aggiustare la sua economia dopo l’ondata di rancore, incompetenza, caos ed autoritarismo impersonata da Bolsonaro. L’abilità politica di Lula si basa sulla sua capacità di saper comunicare efficacemente con diversi pubblici attraverso il linguaggio chiaro del trionfo sulle avversità e la lotta collettiva verso un obiettivo comune.

Pertanto, Lula può presentarsi offrendo un percorso più ottimistico per il Paese, in cui il razzismo potrebbe essere “abolito“, il boom economico potrebbe ritornare, la comunità LGBT+ e le diverse fedi essere rispettate, le donne non essere “calpestate” e dove “i giovani possono vagare liberamente senza preoccuparsi di essere sparati.

Per vincere Lula dovrà allearsi con i partiti e i leaders moderati del centro-destra (come il governatore di São Paulo João Doria che nel 2018 aveva appoggiato l’elezione di Bolsonaro) dal momento che il PT non andrebbe oltre il 32%. Dovrà fornire adeguate garanzie riguardo alla formazione di un governo moderato, in cui i partiti del centro-sinistra divideranno gli incarichi ministeriali con quelli del centro-destra.

Un possibile ritorno di Lula alla presidenza, insomma, non vorrà dire la realizzazione di quelle profonde riforme strutturali di cui il Paese avrebbe bisogno per cambiare, quanto la ricerca di un’intesa ampia con partiti di centro sinistra e di centro-destra (il Frente Ampio) su una piattaforma moderata che include l’interclassimo, la difesa dei principali interessi del capitalismo brasiliano (agrobusiness, settore minerario, industrie di San Paolo, etc.), una conciliazione con gli USA, l’apertura alle global corporations euro-americane e cinesi, un rinnovato assistenzialismo e qualche azione (per lo più simbolica) in campo ambientale.

Il problema, semmai, è che c’è un numero abbastanza grande di cittadini brasiliani – conservatori moderati, ma anche di sinistra (come il giovane leader del PSOL Guilherme Boulos) – che non vorrebbe nessuno dei due come presidente. Ma se questi cittadini e interessi non si organizzano e non trovano dei terzi candidati autorevoli in tempi brevi, non ci sarà alcuno spazio per loro. Se gli altri candidati non decidono di candidarsi ora, quando arriverà l’anno prossimo il quadro politico sarà così polarizzato che non ci sarà spazio per un terzo candidato (ad esempio, per una sorta di Macron brasiliano).

È significativo che il mercato azionario brasiliano sia sceso del 4% e che il real sia scivolato ai minimi storici rispetto al dollaro a seguito alla notizia del verdetto del giudice della Corte Suprema. Gli investitori apparentemente non erano troppo preoccupati per i numeri apocalittici dei morti da COVID-19. Il ritorno di Lula ha portato al panico totale tra loro. Nonostante la risposta omicida di Bolsonaro alla crisi del COVID-19, la criminalità che dilaga e il fatto che Lula abbia presieduto uno dei più grandi boom economici della storia brasiliana, il grande capitale, gran parte dei media mainstream e i centristi brasiliani (il cosiddetto centrão o “grande centro”) continuano a dipingere Lula e Bolsonaro come “due facce della stessa medaglia”. Questo tipo di linea politica che vede “il male da entrambe le parti” è sostenuta dall’ostilità verso la sinistra sia dell’opposizione moderata sia delle forze che sostengono Bolsonaro.

L’incognita del “vincolo interno”: il ruolo dei militari

La questione cruciale è come risponderà l’esercito brasiliano al possibile ritorno di Lula al governo. In un recente libro, l’ex capo delle forze armate Eduardo Villas Boâs ha ammesso che lui e altri generali senior hanno tentato di esercitare pressioni sulla Corte Suprema attraverso Twitter la notte prima di una sentenza che avrebbe stabilito se Lula sarebbe stato imprigionato e quindi reso inidoneo a partecipare alle elezioni del 2018. Lula era in testa a tutti i sondaggi all’epoca con un margine significativo su Bolsonaro.

Un ex generale è vicepresidente, generali in pensione o in aspettativa stanno guidando ministeri chiave, oltre seimila membri delle forze armate stanno prestando servizio nel governo di Bolsonaro e ufficiali militari stanno guidando la risposta del COVID-19 del Brasile. Sotto la disastrosa guida del ministro della salute, il generale dell’esercito Eduardo Pazuello (soprannominato dalla popolazione Pesadello, ossia “incubo”), privo di qualsiasi esperienza nel campo della salute pubblica, il Dipartimento della Salute brasiliano non è riuscito a garantire vaccini e attrezzature mediche di base, spendendo le sue risorse per promuovere una cura a base di olio di serpente, mentre le persone morivano per strada e gli ospedali di Manaus e di altre città avevano esaurito l’ossigeno ed erano al limite delle loro capacità. Solo il 15 marzo Bolsonaro ha sostituito Pazuello con il cardiologo Marcelo Queiroga (quarto ministro della Salute), considerato un confidente del senatore Flávio Bolsonaro.

Nonostante la loro immagine autocoltivata di custodi della democrazia e della moderazione, le forze armate brasiliane sono i più accaniti sostenitori di Bolsonaro e negli ultimi anni hanno a malapena nascosto i loro sentimenti antidemocratici.

Da qui alle elezioni presidenziali del 2022, comunque, tutto può ancora succedere, sia sul fronte processuale sia sul fronte politico. In Brasile, come in una telenovela, i colpi di scena sono all’ordine del giorno. Lo ha detto anche Lula a El País: “In Brasile quello che sembra impossibile oggi, può accadere domani”.

La fragile condizione economico politica del Brasile e del continente latino-americano

Sul piano dell’economia politica, quella del Brasile è una condizione in larga parte condivisa con gli altri Paesi dell’America Latina che restano fortemente condizionati e dipendenti dalle esportazioni di derrate alimentari e materie prime.

Oggi, il 45% delle esportazioni dell’America Latina sono ancora destinate agli USA, anche se la Cina è diventato il principale partner commerciale di Argentina, Brasile, Cile e Perù. Ad esempio, il Cile è il primo esportatore di frutta in Cina nel mondo (uno su quattro frutti importati dalla Cina, in termini di prezzo, viene dal Cile), mentre il Brasile è diventato il primo esportatore di soia in Cina nel mondo. Per questo il rallentamento della crescita cinese, oltre che mondiale, ha colpito in modo particolare l’America Latina che, secondo il FMI, nel 2019 era cresciuta solo dello 0,2%.

In effetti, il PIL pro capite reale nella regione è diminuito dello 0,6% all’anno in media nel periodo 2014-2019, in netto contrasto con l’aumento medio del boom delle materie prime del 2% all’anno nel periodo 2000-2013. D’altra parte, di tutti i Paesi dell’America Latina, solo il Messico e il Brasile hanno industrie manifatturiere relativamente più forti, ma rappresentano rispettivamente solo il 2% e l’1% della produzione industriale globale. Secondo la Banca Mondiale, la produzione industriale argentina (valore aggiunto) in percentuale del PIL è scesa da oltre il 40% nel 1965 a meno del 13% nel 2018, mentre in Cile è scesa da quasi il 30% a metà degli anni ’70 all’11% nel 2018. Il peso dell’intera industria manifatturiera latinoamericana si sta riducendo.

Pertanto, sono le rendite sull’estrazione ed esportazione delle risorse agricole e minerarie che sostengono la spesa per le infrastrutture pubbliche, per il sociale, per la riduzione della povertà e della disuguaglianza e per i miglioramenti di una serie di indicatori dello sviluppo umano, dai servizi igienico-sanitari alla nutrizione. Ma, quelle rendite dipendono da un modello estrattivo di accumulazione basato su forme, spesso violente, di espropriazione che contribuiscono anche all’accelerazione del cambiamento climatico.

Il fondamento materiale della politica brasiliana è un regime di ridistribuzione delle royalties derivanti dai settori delle materie prime, che è contemporaneamente municipale, statale e federale. Nelle fasi espansive il surplus economico che si forma viene utilizzato dai governi per sussidiare politiche assistenziali e di espansione del welfare o per sostenere investimenti in infrastrutture o tesi a tentare di allargare e diversificare la base produttiva nazionale.

Quando questo flusso di risorse generate sui mercati internazionali si riduce a seguito della riduzione delle quantità esportate e/o della flessione dei prezzi, si ripropongono i problemi di sempre – inflazione, crisi finanziaria dello Stato, della bilancia dei pagamenti, del debito estero -, legati alle debolezze e ai forti squilibri del tessuto socio-economico interno. I governi devono indebitarsi e tornare tragicamente indietro, imporre politiche di austerità, privatizzare e tagliare le spese, inclusa la spesa sociale, riducendo le pensioni statali e il numero di persone che possono beneficiare dei programmi di welfare e di istruzione.

Una condizione che caratterizza attualmente quasi tutte le economie dell’America Latina e dei Caraibi che nel 2019 sono cresciute in media solo dello 0,2%, la peggiore performance di qualsiasi grande regione del mondo, secondo il FMI. Questo rallentamento si è trasformato in un arretramento nel 2020 e ha avuto drammatiche conseguenze sociali e politiche in tutti i Paesi: la rapida ascesa di un nuovo ceto medio, portato fuori da miseria ed analfabetismo grazie alle politiche redistributive attuate nella fase espansiva dalla “marea rosa”, ha creato una nuova classe sociale che è stata culturalmente attratta dal neoliberismo e, nelle fasi di recessione e stagnazione, tende a diventare antistatalista, antisocialista ed ostile alle stesse forze politiche – come il PT – che hanno contribuito alla sua nascita ed espansione.

La dependency theory, avanzata dagli studiosi latinoamericani negli anni ’50 e ’60 – da Raul Prebisch, Andre Gunder Frank, Celso Furtado, Fernando Henrique Cardoso, Enzo Faletto, Theotonio dos Santos, Ruy Mauro Marini e Vania Bambirra -, sosteneva che non era la carenza o la mancanza di capitalismo a determinare il sottosviluppo del continente, ma proprio la sua presenza che determinava la dipendenza dalle “metropoli”, con una gerarchia di centri di sviluppo e connessioni che rendevano il sottosviluppo delle regioni “satelliti” l’altra faccia necessaria dello sviluppo delle “metropoli”. In particolare, la teoria della dipendenza aveva denunciato i pericoli connessi al tentativo di sviluppare un’economia nazionale affidandosi alle esportazioni dei settori agricoli e minerari. Le entrate provenienti dalle esportazioni di materie prime tendono ad essere imprevedibili, soggette al boom-and-bust cycle dei mercati globali delle commodities, inducono i governi ad accumulare alti livelli di indebitamento e incoraggiano le relazioni di potere ineguali tra gli Stati esportatori e quelli importatori.

In alternativa al “modello estrattivo” si suggeriva una “disconnessione” (delinking) con le “metropoli” e una strategia di sviluppo economico e di industrializzazione basata sul modello dell’import substitution (consigliata anche dalla Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi – CEPAL, un’agenzia dell’ONU, per sviluppare le economie e equilibrare le bilance commerciali e dei pagamenti) che comportava dei regimi di investimento a guida statale, l’introduzione di tariffe per limitare la concorrenza dei Paesi avanzati, la regolazione dei flussi di capitali in modo da garantire la sovranità monetaria, la concessione di sussidi di vario tipo ai settori industriali domestici per metterli al riparo della competizione internazionale, l’implementazione di politiche monetarie espansive atte a far crescere la domanda interna.

Per i Paesi che provarono ad applicarlo, questo modello si è rivelato fallimentare, generando disfunzioni, inefficienze, indebitamento finanziario, inflazione, mobilitazioni dei lavoratori, grandi contrasti con il capitale internazionale e gli USA, forti contrasti interni alle élites economico-politiche e militari nazionali. Tutti fattori che hanno contribuito a limitare risultati, sviluppo tecnologico e produttivo e aumento di produttività, nonché a portare all’imposizione di dittature militari (in Brasile, Argentina, Bolivia, Uruguay, Nicaragua e Cile) che hanno ristabilito la connesione tra centro e periferia, favorendo sistematicamente le strategie estrattive del capitale internazionale.

A partire dagli anni ’70 e ’80, gli ammonimenti dei sostenitori della teoria della dipendenza sono stati progressivamente dimenticati a seguito dell’ascesa del neoliberismo e la dottrina del vantaggio comparato è diventata il principio guida dello sviluppo in Brasile, Argentina e altrove in America Latina, esponendo questi Paesi ad enormi costi economici, sociali e politici nelle fasi di crisi e stagnazione dell’economia globale. I regimi di investimento a guida statale sono stati rapidamente abbandonati o drasticamente ridotti e lo sviluppo economico di questi Paesi (a differenza dei Paesi asiatici che hanno continuato a caratterizzarsi come “Stati sviluppisti” – Giappone, Corea del Sud, Taiwan e poi Cina e Vietnam) è stato legato sia all’esportazione di beni primari (dal petrolio al rame, dalla carne ai semi di soia) sia alla capacità di attrarre investimenti stranieri in industrie manifatturiere per l’esportazione nel mondo ricco. In entrambi i casi queste strategie hanno finito per arricchire gruppi ristretti della popolazione e, in genere, non sono riuscite a tradursi in una crescita economica sostenuta e di ampie dimensioni a causa dei rapidi cicli di espansione e crisi dei mercati e dei limitati incrementi occupazionali possibili in questi settori in uno scenario di globalizzazione neoliberista.

D’altra parte, a partire dai primi anni ’80, la concorrenza per i mercati di investimento, di esportazione e di posizionamento all’interno degli anelli medio-alti delle supply chains globali è diventata sempre più feroce. Più Paesi hanno adottato queste strategie, più è divenuto difficile per un singolo Paese accumulare il capitale necessario per ristrutturare in modo sostanziale la propria economia e sostenere un significativo aumento della ricchezza. Tutti i Paesi poveri sono stati costretti a competere l’uno contro l’altro e solo quelli che hanno mantenuto una manodopera disciplinata e a basso costo sono stati in grado di continuare ad attrarre investimenti stranieri.

Se il prezzo della manodopera è cominciato a salire, ossia se la crescita economica è cominciata a tradursi in una vita migliore per le persone che lavorano, allora gli investimenti stranieri si sono spostati altrove. Di conseguenza, molti Paesi hanno visto un afflusso di investimenti che non ha lasciato un’eredità duratura perché il capitale è ripartito rapidamente quando i lavoratori hanno iniziato a fare richieste o quando sono state aperte opzioni meno costose.

Il Messico, ad esempio, ha visto diverse ondate di investimenti stranieri su larga scala, eppure i salari sono rimasti invariati per oltre un decennio, il tasso di povertà è bloccato su più della metà della popolazione, e la quota di occupazione nel settore manifatturiero è la stessa oggi di quanto era nel 1960.

Nel complesso, tra il 1989 e il 2016, l’America Latina ha attirato un quarto degli investimenti esteri diretti verso i Paesi emergenti senza però raggiungere la crescita esplosiva della Cina che nello stesso periodo ha attirato una quota pari ad un quinto. Ma, la Cina ha dalla sua, non solo un mercato interno di 1,4 miliardi di persone, anche una burocrazia statale disciplinata, efficiente ed efficace, che non è presente in alcuno dei grandi Paesi del continente latino-americano.

La cocaina, la merce che integra il continente nell’economia globale

Uno dei pochi processi economico-politici che integra un continente per molti versi frammentato è la produzione e commercializzazione (e sempre più anche consumo) di una commodity che da decenni pone l’America Latina al centro del mercato mondiale: la cocaina, una sostanza narcotica derivata delle foglie della pianta di coca coltivata dai contadini in Colombia, Bolivia, Ecuador e Perù.

Negli ultimi quattro decenni la produzione e il consumo internazionale di cocaina sono fortemente aumentati. La cocaina è diventata un’industria sempre più efficiente e con un numero di protagonisti sempre più ampio. Se in passato è stata dominata da grandi cartelli integrati monopolisti (dalla coltivazione alla distribuzione), come quello messo in piedi dal colombiano Pablo Escobar negli anni ’80, negli ultimi due decenni è stata sempre più gestita direttamente dalle organizzazioni criminali dei Paesi consumatori (‘ndrangheta, camorra, mafie siciliana, italo-americana, spagnola, britannica, irlandese, francese, marocchina, serba, turca, etc.) che utilizzano organizzazioni (legali ed illegali) specializzate in diverse fasi produttive e servizi.

Un’industria integrata in una complessa supply chain globale che comprende diversi attori che operano in diverse aree territoriali del continente e del mondo: contadini, braccianti, chimici, camionisti, piloti, marinai, doganieri, poliziotti, organizzazioni criminali multinazionali, imprenditori legali o sem-ilegali, venditori al dettaglio, banche e sistema finanziario. Una catena di approvvigionamento attraverso la quale la cocaina arriva ai consumatori finali. Ogni anello della catena cattura una parte dei guadagni e i prezzi della polvere bianca aumentano esponenzialmente passando da un anello all’altro, dal raccolto in campo di foglie alla vendita al dettaglio negli USA o in Europa (80 euro per un grammo con l’85% di purezza).

Il traffico di cocaina coinvolge attivamente tutti i Paesi del continente latinoamericano: se i Paesi equatoriali andini producono materie prime (foglie), semilavorati (cloridrato di cocaina e pasta base) e buona parte di quella finale (cocaina pura e tagliata), gli altri Paesi partecipano, fornendo servizi di trasporto, basi logistiche (dalle migliaia di piste di atterraggio clandestine ai grandi porti commerciali atlantici), laboratori chimici di trasformazione, servizi legali e finanziari, riciclaggio dei proventi in attività economiche legali.

Relativamente facile è il trasporto attraverso le porose frontiere del continente delle circa 2 mila tonnellate prodotte ogni anno. Molto spesso il narcotraffico si integra con il modello imprenditoriale del settore agricolo, anche perché i due settori condividono rifornimenti, tragitti, operatori e gestori della catena logistica di distribuzione verso i mercati dei Paesi ricchi (soprattutto verso l’Europa, il principale mercato con un valore di 9,1 miliardi di euro nel 2017). La cocaina viaggia nei container su camion, navi ed aerei insieme a soia, riso, carne, pesce, legname, zucchero, mango, ananas, avocado, lana e vini.

Oltre all’Europa e al Nord America, i mercati in rapida crescita per la cocaina sono l’Africa, il sudest asiatico e l’Australia. Inoltre, il consumo è aumentato nelle metropoli sudamericane (dai ricchi dei quartieri residenziali ai favelados). L’Europa centrale è un’area di forte consumo di cocaina, ma nell’ultimo decennio si è aggiunta la domanda dei Paesi scandinavi e di quelli dell’est. L’alcaloide arriva via nave da Uruguay e Brasile (passando spesso per l’Africa) nei grandi porti europei di Anversa, Rotterdam, Amburgo e Barcellona, per essere poi smistato verso i consumatori finali attraverso le capillari reti territoriali di distribuzione formate da centinaia di migliaia di spacciatori.

Per fare fronte alla crescita della domanda sono aumentati i terreni coltivati a coca in Colombia (nella foresta), Bolivia e Perù (nelle valli dei fiumi Apurìmac, Ene e Mantaro), ma sono aumentati anche i rendimenti della foglia di coca grazie alla diffusione tra i contadini di nuove tecniche agricole di potatura, concimazione, controllo delle piante infestanti e delle malattie delle piante (anche con l’uso di pesticidi), all’introduzione di varietà più produttive e resistenti a cambiamenti climatici, patogeni e parassiti.

Bolsonaro, Brasile, Lula
Articolo precedente
 Verso una politica dei cigni rossi
Articolo successivo
Il groviglio europeo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Compila questo campo
Compila questo campo
Inserisci un indirizzo email valido.