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Servono scelte radicali sul clima

di Stefano
Galieni

L’immagine che dovrebbe restare più impressa, fra chi si è interessato al vertice Cop26 sull’ambiente, di fatto fallito, che si è tenuto a Glasgow nei giorni scorsi è quella del presidente del Palau, Surangel Whipps Jr, isola stato della Micronesia, che è intervenuto dicendo “Vediamo che il sole cocente ci sta dando un calore intollerabile, il mare caldo ci sta invadendo e i venti ci stanno sferzando da ogni direzione, le nostre risorse stanno scomparendo davanti ai nostri occhi e il nostro futuro ci viene derubato. Francamente parlando, non c’è dignità in una morte lenta e dolorosa: a questo punto, tanto vale bombardare le nostre isole invece di farci soffrire solo per assistere alla nostra lenta e dolorosa scomparsa”. Una testimonianza pesante a cui si è aggiunta quella del Ministro della Giustizia, della Comunicazione e degli Affari Esteri del Governo di Tuvalu (in Oceania), Simon Kofe, registrata in video con un messaggio mentre era immerso in mare con l’acqua fino alle ginocchia. Le immagini condivise sulla pagina Facebook ufficiale del Ministero mostrano il funzionario vestito in giacca e cravatta, in piedi davanti a un leggio e con le bandiere alzate in mare. L’obiettivo del video era quello di attirare l’attenzione e sensibilizzare sulla lotta di Tuvalu contro l’innalzamento del livello del mare, provocato dal cambiamento climatico, che colpisce direttamente l’area. “In quella zona del pianeta il livello del mare, a causa del riscaldamento globale, negli ultimi 50 anni è salito di 2,4 mm l’anno – ricorda Daniela Padoan, direttrice di ‘Laudato Si’ – . Il presidente ha parlato a nome di 38 isole del Pacifico come rappresentante di una alleanza di Stati insulari. Entrambi non hanno chiesto soldi ma di poter intanto non essere più strozzati col debito. Il futuro è in mano ai paesi inquinatori con l’emissione di Co2 e con prestiti insostenibili. E la cosa assurda è che la crisi climatica è divenuta strumento per ricavare vantaggi sia economici che politici”. Ma se c’è chi guadagna sulla crisi proponendo soluzioni che non mettono in discussione il modello di sviluppo il modello di produzione capitalista ci sono milioni di persone che ne pagano le conseguenze nella maniera più atroce. Nel mondo ricco abbiamo avuto un assaggio di quanto può accadere con i danni prodotti dallo sfruttamento del pianeta nella pandemia ancora in corso; nelle aree più fragili del pianeta i disastri si traducono in una parola tragica e ad oggi priva di soluzione come quella dello sfollamento delle persone. Un passo indietro, 5 anni fa, quando ancora nessuno poteva neanche presagire alcuni passaggi fondamentali, l’Associazione Diritti e Frontiere organizzò a Milano, insieme al GUE/NGL e a Milano in Comune, un convegno internazionale dal titolo evocativo “Il secolo dei rifugiati ambientali?” (https://www.a-dif.org/dossier2/convegno-internazionale-il-secolo-dei-rifugiati-ambientali/) in cui, al di là del grande successo di pubblico, si provò a sistematizzare il tema. Si era nell’anno in cui, l’aumento dei profughi, per guerre, dittature, ma anche per l’avanzare della desertificazione, delle inondazioni, dei disastri apocalittici soprattutto in Asia e nei Caraibi, stava determinando in Europa politiche di chiusura totale delle frontiere.

Governi di centro destra o di centro sinistra, che anche l’anno prima avevano dato segnali di disponibilità, si andavano chiudendo utilizzando l’alibi del sovranismo montante che portava a veder crescere il consenso delle forze xenofobe. Alla xenofobia di destra si oppose una “xenofobia progressista”, dai toni più mitigati ma accomunata dagli stessi intenti e soprattutto senza intenzione alcuna di veder messo in discussione il modello di sviluppo.

Ed è ancora Daniela Padoan – peraltro fra le promotrici del convegno di Milano, a intervenire per raccordare temi che solo apparentemente sembrano disconnessi: “In Italia la temperatura media è cresciuta di almeno 1 grado rispetto al periodo preindustriale. La più alta registrata in 65 milioni di anni. Ma i cambiamenti in corso portano ad accelerazioni brusche e significative su cui tanto nella riunione del G20 che nella Cop 26 non sono state prese reali decisioni. Il tema centrale è stato ignorato – e prosegue – Nel novembre 2019 non chi come noi parte da una critica radicale al modello di sviluppo ma 11 mila scienziati hanno chiesto che venga dichiarata una emergenza climatica e che si adottino le necessarie procedure per affrontarla. L’unica risposta è giunta nel 2020 con la ‘Giornata di cura del creato’ indetta da Papa Francesco. Lì abbiamo sentito dire che il tempo è esaurito, che la fragilità ambientale ha generato insicurezza alimentare, causato guerre per l’accaparramento delle risorse, costretto le persone alla fuga. Ad ha fatto bene a denunciare come tale crisi minacci il diritto alla vita, all’accesso all’acqua, al cibo, alla salute, ad un alloggio adeguato. Ovvio che a pagarne le conseguenze siano le comunità più vulnerabili e prive di capacità di resilienza”.

Le cifre documentate dal rapporto Unhcr Global Trands 2020, che Padoan ci mostra, danno il senso e le dimensioni del problema. Nel 2019 – quindi prima della pandemia – su 51 milioni di sfollati, dato più alto mai registrato, 8,5 milioni derivano da conflitti e violenze e 24,5 da disastri ambientali. Il rapporto evidenzia 8 punti chiave: almeno 100 milioni di persone sono state costrette a fuggire dalle proprie case negli ultimi dieci anni, in cerca di sicurezza all’interno o al di fuori dei propri Paesi. Si tratta di un numero di persone maggiore di quello dell’intera popolazione dell’Egitto, il 14° Paese più popoloso al mondo. In pratica il numero delle persone in fuga in 10 anni è quasi raddoppiato. Per italiani ed europei tanti assillati dal “pericolo invasione”, va poi ricordato che l’80% di chi è in fuga è ospitato in Paesi o territori afflitti anch’essi da insicurezza alimentare e malnutrizione grave – molti dei quali soggetti al rischio di cambiamenti climatici e catastrofi naturali.

Oltre i tre quarti dei rifugiati di tutto il mondo (77%) provengono da scenari di crisi a lungo termine – per esempio quella in Afghanistan, ormai entrata nel quinto decennio. Nb, questo dato non tiene conto di quello che in Afghanistan sta per accadere. Durante il duro inverno difficilmente si riuscirà a fuggire ma dalla prossima primavera, a meno di radicali cambiamenti, è da attendersi una fuga di chi per fame, siccità o perché semplicemente non intende vivere sotto il regime taliban, proverà a lasciare il Paese. I dati dello scorso anno oltre che precisare come l’85% dei rifugiati vivano in Paesi in via di sviluppo, generalmente confinanti con quello da cui sono fuggiti, evidenzia come due terzi delle persone in fuga all’estero – altrettanto problematico è il tema degli sfollati interni – provenivano da 5 Paesi: Siria, Venezuela, Afghanistan, Sud Sudan e Myanmar. Il rapporto Global Trends considera tutte le principali popolazioni di sfollati e rifugiati, compresi i 5,6 milioni di rifugiati palestinesi che ricadono sotto il mandato dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (United Nations Relief and Works Agency/UNRWA). Dalla “Laudato Si” giungono anche dati più recenti: nella prima metà del 2020 si sono registrati altri 14,6 mln di spostamenti di cui 9,8 per ragioni ambientali e 4,8 a causa di guerre e violenze. E, altro dato da tener presente, nel decennio 2008/2018 sono state 253 milioni le persone costrette a lasciare la propria abitazione ed è cresciuto in maniera esponenziale il numero di chi è fuggito per ragioni ambientali. Anche i dati per ora non disaggregati del 2020 sono tremendi ed evocano nuovi scenari. Nonostante la pandemia c’è stata una crescita del 4% delle persone in fuga (82,4 milioni di persone), 160 Paesi – praticamente l’intero pianeta – hanno attuato forme di chiusura delle proprie frontiere e di questi 99 non fanno neanche eccezioni verso le persone che cercano protezione umanitaria. Non va dimenticato il fenomeno altrettanto diffuso delle fughe all’interno dei singoli Paesi: “Alimentato soprattutto dalle crisi in Etiopia, Sudan, Paesi del Sahel, Mozambico, Yemen, Afghanistan e Colombia, il numero di sfollati interni è aumentato di oltre 2,3 milioni”. I numeri aggiornati del report sottolineano come le ragazze e i ragazzi sotto i 18 anni rappresentino il 42% di tutte le persone costrette alla fuga. “Nuove stime dell’Unhcr mostrano che quasi un milione di bambini sono nati rifugiati tra il 2018 e il 2020 e potrebbero rimanere rifugiati ancora per molti anni”. È poi drasticamente diminuito il numero dei ritorni e dei ricollocamenti. Di fronte a queste cifre è aberrante scoprire che c’è stato un calo in un anno del numero di coloro che hanno potuto far ritorno nelle proprie abitazioni del 40% per gli sfollati interni e per il 21% dei rifugiati in altri Paesi. In 33.800 sono stati naturalizzati nei Paesi di fuga e 34.000 coloro che sono stati reinsediati, nulla rispetto al caos globale.

Ma il ritorno per chi ha un Paese destinato a essere devastato per secoli. “A parlare di ‘cultura dello scarto’ c’è fra i leader soltanto il Papa – riprende Daniela Padoan – Nella sua enciclica, non solo si affronta il tema della produzione di inquinamento e del clima che viene alterato. A me colpisce quando si pone l’accento sugli scarti umani e sui territori ‘scartati’, i luoghi e i continenti in cui la crisi climatica si può delocalizzare per garantire il proseguo del modello di sfruttamento capitalista occidentale. L’India, durante il vertice Cop26 poneva il problema di non poter ridurre le proprie emissioni di Co2 come richiesto, per fermare il riscaldamento, prima del 2070. Contemporaneamente si vedevano i fedeli fare le abluzioni nel Gange in mezzo ad una schiuma venefica alta mezzo metro. Come se nulla potesse essere modificato. E nelle stesse ore si vedeva il cielo delle grandi città cinesi nero di smog”. Padoan insiste riportando i punti salienti dell’intervento del Premio Nobel per la Pace Carlos Nobre. La sua richiesta, rispetto a quella che chiama “savanizzazione” della foresta pluviale amazzonica è molto semplice. Ha chiesto all’UE di emanare una legge che vieti di importare ogni prodotto frutto della deforestazione nel pianeta. Non basta insomma pensare di salvarsi mantenendo il “proprio giardino”. In una condizione di interdipendenza planetaria quello che si sta producendo è un ecocidio in cui si deve intervenire a livello globale, anche imponendo restrizioni. “Cambiare gli stili di vita individuali e delle comunità produttive è necessario – conclude Padoan – Ed insisto a parlare di produzione non limitandomi all’industria. Basti pensare che il 20% del Co2 prodotto deriva dall’agricoltura di cui il 70% dalla zootecnia. Questo tema è stato semplicemente ignorato a Glasgow dove per beffa per 2 settimane si sono nutriti di carne, uova e latticini. Del resto anche l’arrivo di ogni delegazione con l’aereo offre l’idea di quanto sia chiaro il disastro che con i singoli comportamenti si va producendo. Dico questo perché, tornando al tema dei rifugiati climatici, l’accoglienza è necessaria ma non basta. Bisogna rapidamente intervenire per non costringere le persone a dover abbandonare le proprie esistenze, a poter restare in terre in cui crescere e costruirsi un futuro. Ma questo dipende da scelte estremamente radicali.

 

Stefano Galieni

cambiamento climatico, COP26, migranti
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