Credo che sia utile, a fronte della assoluta inadeguatezza delle indicazioni contenute nel documento prodotto dalla recente COP26, fare un confronto, con le dovute considerazioni, con quanto contenuto nella Risoluzione del Parlamento europeo approvata a maggioranza il 20 ottobre 2021 in relazione alla COP26. Ciò aiuta a comprendere meglio l’inadeguatezza Commissione europea e dei leader mondiali e la qualità delle conclusioni della COP26.
Si può certo affermare come emerga una grande contraddizione tra molte delle cose che vengono affermate nella Risoluzione del Parlamento europeo e il modo con cui la Commissione opera e ha operato nel passato e, in particolare come abbia influito sulla conferenza di Glasgow.
Come prima cosa bisogna rilevare una sostanziale ipocrisia dello stesso Parlamento che a fronte di molte considerazioni condivisibili, non sembra preoccuparsi di come la Commissione operi di conseguenza. Questa ipocrisia è la stessa che si ritrova nei diversi leader mondiali (a parte forse Papa Bergoglio) e in molte di quelle forze politiche italiane che si dichiarano ecologiste, ma, di fronte alla scelta di mettere in discussione l’attuale modello capitalista, tacciono o “fanno melina”.
Innanzitutto è utile riprendere alcune delle considerazioni e delle indicazioni contenute nella Risoluzione, che interviene su molte questioni; sia su quelle relative al clima e all’ambiente, sia su quelle relative ai diritti umani e alla povertà, spingendosi sino ad affermare la necessità di un cambiamento del modello economico e sociale quando, parlando della necessità della transizione verso la neutralità climatica, segnala la necessità di un “cambiamento sistemico” che implichi “una forma di cambiamento fondamentale, trasformativo e trasversale, che ripensi non solo alle tecnologie e ai processi produttivi, ma anche ai modelli di consumo e al modo di vivere, in vista di alternative più sostenibili che si concentrino, ad esempio, sul benessere e sulla resilienza”! (che si riferisca al socialismo?)
Iniziamo con le considerazioni sui temi ambientali dove inizia con affermare che gli impegni assunti dai firmatari dell’accordo di Parigi “non saranno sufficienti per raggiungere il suo obiettivo comune e porteranno a un riscaldamento globale di oltre 3 ºC rispetto ai livelli preindustriali” e deplora il fatto che “molti dei progressi compiuti sono compensati da politiche controproducenti, come le continue sovvenzioni ai combustibili fossili e la costruzione di nuove centrali a carbone”;
La risoluzione continua poi a sottolineare temi già assodati, quali il ruolo e l’importanza della difesa delle foreste e degli oceani nella lotta contro i cambiamenti climatici o come quelli relativi ai costi previsti a causa di tali cambiamenti che, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, “causeranno la morte di circa 250 000 persone in più all’anno entro il 2030 e che i costi in termini di danni diretti alla salute sono stimati tra i 2 e i 4 miliardi di USD all’anno entro il 2030”;
Segnala inoltre la stretta correlazione tra perdita di biodiversità associata alla trasformazione dei paesaggi e il rischio elevato di trasmissione zoonotica con le conseguenti pandemie. Tra le cause di questa perdita di biodiversità sottolinea il peso rilevante di alcuni fattori, tra cui il cambiamento di destinazione d’uso dei terreni, l’espansione e l’intensificazione dell’agricoltura, il commercio e il consumo della fauna selvatica.
Altre questioni di carattere ambientale che vengono riprese nella Risoluzione sono:
- la situazione di particolare rischio in cui si trova il Mediterraneo, mare in cui le temperature si sono già alzate in modo preoccupante e che diventa così fattore di grande preoccupazione per tutte le popolazioni vi sono affacciate.
- Il peso significativo nelle emissioni di gas serra di settori come l’agricoltura (e la necessità di acquisire stili di alimentazione più sostenibili) e dei trasporti (dove viene segnalato il peso crescente del trasporto marittimo le cui emissioni che nel 2012 rappresentavano circa il 2,5 % delle emissioni globali, sulla base delle stime effettuate sono destinate ad aumentare fino al 50 % entro il 2050.
Come premesso la Risoluzione si sofferma anche l’importate legame necessario tra l’azione per il clima e i diritti umani, sottolineando peraltro la mancanza, nell’accordo di Parigi, di strumenti concreti che permettano di chiamare gli Stati e le imprese a rispondere del loro impatto sui cambiamenti climatici e sull’esercizio dei diritti umani. Nel far questo la Risoluzione sottolinea come la questione riguardi in particolare i gruppi vulnerabili come le donne, i bambini, gli anziani e i malati, i gruppi a basso reddito e le popolazioni indigene, comportando l’aumento dell’emarginazione delle disuguaglianze culturali, economiche e politiche;
Tra le indicazioni più significative vi sono quelle sulla necessità di evitare nuovi investimenti per la fornitura di combustibili fossili, e prende atto del fatto che “per raggiungere l’obiettivo di 1,5 °C è necessario che, a partire dal 2021, non sia più approvato lo sfruttamento di nuovi giacimenti di petrolio e gas, e non siano costruite o ampliate nuove miniere di carbone;”. A tale proposito la Risoluzione ricorda che, nel 2018, nell’Unione sono stati spesi 50 miliardi di euro per sovvenzioni destinate ai combustibili fossili, una cifra corrispondente a circa un terzo di tutti i sussidi energetici nell’Unione e sottolinea come tali le sovvenzioni ai combustibili fossili pregiudichino gli obiettivi del Green Deal europeo e gli obblighi dell’accordo di Parigi. Pertanto invita tutti gli Stati membri ad attuare politiche concrete, scadenzari e misure per eliminare gradualmente tutte le sovvenzioni dirette e indirette ai combustibili fossili al più tardi entro il 2025;
La Risoluzione esprime anche forti timori circa il crescente interesse da parte di molti soggetti (Stati e organizzazioni private, per le riserve di combustibili fossili presenti nell’Artico, che diventano più accessibili con la riduzione della copertura glaciale causata dai cambiamenti.
Nella Risoluzione sono contenute anche alcune interessati considerazioni sulle differenze esistenti, nelle quantità di emissioni, in relazione alle differenze economiche e sociali nel mondo e nei diversi paesi. Ricorda infatti come le emissioni prodotte dall’1 % più ricco della popolazione mondiale equivalgono a più del doppio delle emissioni combinate prodotte dal 50 % più povero. O come, all’interno dell’UE, il 10 % dei cittadini più abbienti sia stato responsabile di almeno un terzo delle emissioni dell’UE tra il 1990 e il 2015 e che, nello stesso periodo, le emissioni di consumo annuali totali prodotte dal 50 % dei cittadini dell’UE più poveri si è ridotto del 24 %, mentre le emissioni di consumo prodotte dal 10 % più ricco sono aumentate del 3%. Insomma, le responsabilità dei cambiamenti climatici sono delle nazioni e delle classi sociali più ricche e quelli più povere ne subiscono le conseguenze peggiori. Ciò confermerebbe la necessità, anche per combattere adeguatamente i cambiamenti climatici, di quella che un tempo si chiamava “lotta di classe”.
Gli aspetti sociali sono infine ripresi nelle conclusioni, in cui, nel richiamare le condizioni di povertà energetica di molte popolazioni, si sottolinea l’importanza di un approccio in materia di diritti umani nell’azione per il clima al fine di garantire che tutte le misure rispettino e sostengano i diritti umani di tutte le persone, sottolineando, tra l’altro, la necessità del riconoscimento esplicito dei popoli indigeni o tribali e dei loro diritti.
Come detto all’inizio di questo scritto molte delle cose positive contenute in questa risoluzione cozzano con la realtà dei fatti che sono emersi dalla COP26, dove, al di là di impegni generali (già largamente presenti nell’accodo di Parigi), non vi sono impegni concreti e puntuali su varie questioni.
Prima di tutte quelle che riguardano i combustibili fossili (fine delle sovvenzioni, fine delle nuove trivellazioni, chiusura delle centrali a carbone (ricordo anche la Germania, non solo la Cina o la Polonia, continueranno a bruciare carbone e lignite sino ad oltre il 2030). Il testo contiene solo una genericissima indicazione per una “uscita graduale” dal fossile, senza definire tempi e modi. Per quanto riguarda poi le sovvenzioni dannose si parla solo di toglierle agli impianti meno efficienti!
E poi c’è l’accordo sulla deforestazione che prevede di fermare la deforestazione entro il 2030! (anno in cui potrebbe essere scomparsa buona parte dell’Amazzonia). Nessun accenno esplicito, alla limitazione delle coltivazioni intensive e agli allevamenti. Nell’accordo 28 Paesi si impegnano a limitare la deforestazione “illegale”, forse quella riguardante le filiere di prodotti come olio di palma, soia e cacao, ma non si parla di soia e di allevamenti (responsabili della maggior parte del disboscamento) che non sono toccati. Insomma, Bolsonaro potrebbe continuare a distruggere l’Amazzonia!
Naturalmente nessun impegno reale a sganciare soldi per finanziare la riconversione nei paesi più indietro, solo impegni generici.
Anche sul tema emissioni delle auto non vengono decise misure immediate, e tanto meno si parla di nuova mobilità.
Un altro elemento molto discutibile, che caratterizza le azioni sul clima e sulle emissioni, è quello legato al tipo di meccanismo che individuato per raggiungere emissioni zero (il cosiddetto “zero netto”).
Si tratta sostanzialmente di un meccanismo di mercato. Un meccanismo di compensazione del tutto economico che non ha nulla a che fare con la limitazione certa delle emissioni
Da un lato vi potranno essere meccanismi di compensazione, tramite il finanziamento di progetti di forestazione da qualche parte nel mondo o di stoccaggio di carbonio, oppure tramite quello che in Europa ricade nel meccanismo ETS (https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=celex:02003L0087-20180408 ). Cioè quel meccanismo che prevede il pagamento di determinate somme per le emissioni che superamno di determinate emissioni previste per diversi tipi di attività (costi che puntualmente i produttori di energia fanno ricadere sui consumatori).
Si può affermare che il meccanismo del “mercato della CO2” e i sistemi di compensazione delle emissioni rappresentano un freno all’implementazione di reali politiche di mitigazione che tentino di risolvere il problema alla radice, abbattendo il consumo di fonti fossili.
Forse l’autorità mondiale più sincera e convinta sui temi ambientali rimane Papa Bergoglio, e l’unica proposta seria l’hanno fatta i giovani e riguarda la richiesta formulata da Greta, di dichiarare a livello mondiale lo “stato di emergenza ambientale”.
Così, forse diventerebbe possibile per l’ONU, per altri organismi internazionali e per le stesse Nazioni, di procedere con più forza superando gli ostacoli che vengono posti dalle lobbies dei combustibili fossili e da vari paesi che su questi hanno basato la loro economia.
Tutte le forze politiche italiane, realmente ecologiste, dovrebbero far propria questa parola d’ordine e agire di conseguenza.
Riccardo Rifici