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Lo storiografo dei disguidi

di Giorgio
Bona

Paolo Codazzi, fiorentino, è un appassionato di storia antica e già il titolo di questo libro, Lo storiografo dei disguidi (Arkadia, 2021) è un buon viatico per far capire al lettore l’attenzione di questo autore verso il senso profondo del passato.

Una raccolta di racconti che si apre catapultandoci subito in mezzo ai libri, una marea di libri, con un proprietario che ha la grande gioia di possederli. Fa capire quanto sia importante la cultura attraverso il profondo senso di gelosia che porta Giacomo, il protagonista, quasi a diventare un difensore proteso a tutelare quel patrimonio per lui diventato inestimabile.

Il titolo è bellissimo e si addice perfettamente ai giorni nostri anche se è uno scorcio di parentesi universale. È quasi un gioco ironico che si confronta con la memoria perché ogni storia racconta uno spazio e un tempo. Il lettore che si avvicina non ha forse possibilità di verifica.

Un libro che ha un’ilarità sottile con una delicata vena malinconica. Ci sono i ricordi, le passioni, gli umori, i grandi sentimenti, le essenze della vita, coordinati dalla volontà di un superamento e della volontà di andare oltre.

Una realtà improponibile che domani può diventare credibile. La vita è fatta di coincidenze che possono farla mutare, improvvisamente.

Paolo Codazzi invita i lettori a fargli compagnia e a seguirlo dentro un contesto cittadino nelle sembianze di Bertino Panerai, collezionista, idolatra del rinascimentale. I racconti di questo libro sono legati tra loro. Da Firenze, fino al Mugello, indagini sulle spossate mostre di pittura, alla lite tra padroni di cani, la piccola truffa al povero anziano.

In questa scrittura che sale e scende a livelli vertiginosi, muovendosi nel quotidiano e nell’alta letteratura, Codazzi dimostra di essere un grande studioso oltre che un acuto lettore perchè ha saputo portare un mondo che ha fatto suo e che ha saputo fare i conti con la verità della storia, anche quella più vicina, quella che corre via inosservata.

Una chiave della narrazione è questa ricerca di stupire senza eccedere attraverso certi balzi di scrittura che sono come lo sprint finale di una maratona.

La scrittura di Paolo Codazzi è una cassa di risonanza che non provoca frastuono, ma un’eco di profonda melodia, perché nell’ampiezza di questo libro non ci sono soltanto emozioni forti e scampoli di grande cultura, quella cultura con la C maiuscola, del sapere vero. C’è l’inevitabilità degli eventi che creano altri eventi, una rincorsa della realtà.

Avere compreso il passato aiuta anche a raccontare il presente. Diventa una scelta e poi un passaggio fondamentale nella linfa di questa scrittura, sia da un punto di vista emozionale, sia stilistico. E qui può anche sembrare che dentro questa grande energia, dentro quel grande desiderio di entrarci dentro, possa esserci una sorta di resistenza al futuro. È soltanto un consapevole e razionale attaccamento al mondo. Così si alternano con imprevedibile regolarità momenti di tenerezza e di disperazione, notti di rabbia e d’amore, inseguendo una pienezza che una volta raggiunta deve essere consumata a piccole dosi.

E poi c’è Firenze, città incantevole e magica, approdo per una vera narrazione, quella della ricerca minuziosa della parola, tra sogno e realtà, una città sospesa dentro una coltre metafisica che vela ogni piccola cosa.

Una realtà improponibile oggi ma che domani potrà diventare credibile perché nulla è certezza. Ed è questa la riflessione che lo scrittore consegna al lettore, rimandando quel mutamento del mondo per concentrarsi sugli aspetti intimi e umani, sulle dinamiche affettive dove gli eventi storici non possono fare affidamento per molto tempo.

Allora alla fine della lettura è naturale chiedersi: ma la follia sarà mica l’unica salvezza possibile? No, perché la via d’uscita sta nella cultura, nelle arti che la sorreggono. L’unica via d’uscita.

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