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Segreti e ritardi

di Maria Pia
Calemme

Quanti sono, a oggi, i detenuti contagiati dal coronavirus? E quanti gli agenti di polizia penitenziaria, i medici e gli infermieri che lavorano in carcere? Quanti quelli in quarantena, quanti i tamponi effettuati? Quali sono gli istituti nei quali si sono verificati i casi? Quali le misure concrete messe in atto per evitare che il contagio si propaghi?

Tante domande e poche risposte. Per molti giorni il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP) ha tenute secretate le informazioni e solo ieri ha finalmente fornito i dati sui casi registrati: 19 detenuti e 116 agenti di polizia penitenziaria.

Il Ministero della giustizia aveva in precedenza comunicato ufficialmente la morte di 2 assistenti capo della polizia penitenziaria e Franco Alberti, coordinatore nazionale della Federazione italiana dei medici di medicina generale (FIMMG), Settore Medicina penitenziaria[1] ha dato notizia della morte di un medico che prestava servizio a Foggia, riferendo anche di 30 medici e infermieri risultati positivi al tampone (Bologna, Pisa, Rebibbia femminile e Favignana) e del ricovero in rianimazione per complicanze polmonari da infezione da coronavirus del responsabile della REMS[2] di Volterra.

Poiché i detenuti non hanno contatti con volontari e familiari già da più di 20 giorni e i nuovi giunti vengono sottoposti nella maggior parte dei casi al triage prima dell’ingresso in carcere, è ragionevole pensare che gli operatori sanitari e quelli di polizia penitenziaria abbiano contratto il virus fuori dal carcere e l’abbiano portato all’interno, in luoghi nei quali è impossibile il cosiddetto distanziamento sociale (che sarebbe più corretto definire distanza fisica). Prima della circolare del DAP del 20 marzo, agli agenti di polizia penitenziaria era richiesto di continuare a prestare servizio anche dopo aver incontrato persone probabilmente o sicuramente contagiate (condizioni nelle quali fuori dal carcere si è in isolamento fiduciario o in quarantena). Si stabiliva (circolare 87186 del 13 marzo), infatti, la permanenza in servizio, “per ragioni di ordine pubblico”, di persone che non sarebbero nemmeno dovute uscire di casa, figuriamoci entrare in luoghi sovraffollati, peraltro in assenza, come continuamente lamentato dal personale penitenziario, dei dispositivi di protezione individuale (DPI)[3]. Con la successiva circolare integrativa, il Dipartimento ha disposto la valutazione caso per caso da parte dei medici, comunque non escludendo lo svolgimento del servizio.

Aver scelto il versante dell’“ordine” invece che quello della salute (del personale e dei detenuti) è conseguenza diretta dell’aver lasciato all’amministrazione penitenziaria la predisposizione delle misure di contenimento del virus in carcere, laddove dovrebbero essere invece le autorità sanitarie a presidiare con tutte le misure possibili il diritto alla salute, eventualmente con un piano straordinario per la salute in carcere, che tenga conto delle condizioni nelle quali concretamente tale diritto deve essere esercitato.

Spetta invece alla politica mettere in atto provvedimenti volti alla riduzione del numero dei detenuti, cosa che è stata finora indisponibile a fare in modo efficace. Su questa necessità si sono pronunciati davvero tutti: gli avvocati, il Consiglio superiore della magistratura, il Sottocomitato Onu per la prevenzione della tortura, il papa, le associazioni per i diritti civili, il Garante per i diritti delle persone private della libertà, alcuni intellettuali, qualche sindacato di polizia penitenziaria… e tutti, implicitamente o esplicitamente, concordano che le misure adotatte il 17 marzo siano del tutto insufficienti[4]. E lo sarebbero anche se fossero state integralmente e velocemente applicate. Il che non è: secondo i dati forniti dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale nei quotidiani bollettini relativi agli istituti penitenziari, ai Centri di permanenza per il rimpatrio (CRP), alle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) e alle Residenze sanitarie assistenziali (RSA), la popolazione carceraria sta diminuendo molto molto lentamente, dai 59.419 del 19 marzo ai 57.405 del 31: 2.014 detenuti in meno (3,39%). Con questi ritmi e con le limitazioni imposte dal provvedimento perfino il poco ambizioso traguardo di ricondurre la popolazione carceraria entro i limiti della capienza effettiva (molto al di sotto dei 50.000 posti) è praticamente impossibile da raggiungere, ma il tempo scarseggia e il peggio potrebbe ancora accadere.


[1] Dal 2008 le competenze in materia di medicina penitenziaria sono state assunte dal Servizio sanitario nazionale.

[2] Si tratta delle strutture alle quali sono stati destinati coloro che in precedenza erano reclusi negli ospedali psichiatrici giudiziari, aboliti con la legge n. 9 del 2012.

[3] L’espressione DPI in questo caso risulta ingannevole, poiché suggerisce implicitamente l’idea che chi arriva dall’esterno debba essere protetto da un contagio potenzialmente presente all’interno, cioè diffuso tra i detenuti, mentre è vero esattamente il contrario. Le mascherine devono essere utilizzate, infatti, per evitare di trasmettere il contagio, esattamente come all’esterno del carcere. Secondo quanto sostenuto da Franco Alberti in alcune interviste radiofoniche (tra cui a Radio Radicale), in alcuni casi le direzioni degli istituti penitenziari avrebbero dato indicazioni di non utilizzare le mascherine disponibili per “non spaventare i detenuti”.

[4] Si vedano i precedenti contributi pubblicati sul sito: Facciamoli uscire e Le voci di dentro sulle prime misure proposte e su quelle contenute nel DPCM del 17 marzo.

 

 Maria Pia Calemme

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