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Facciamoli uscire

di Maria Pia
Calemme

Potremo ricominciare a discutere (anzi: iniziare a discutere, perché non è che si faccia molto in tempi ordinari…) della funzione del carcere e della pena, di populismo penale, di garantismo e giustizialismo quando potremo guardare al “tempo del Covid19” come a un tempo passato. Nel tempo dell’immediato presente, oltre 61.000 detenuti costretti a vivere in spazi che sarebbero già piccoli anche se non fossero oltre la loro capienza massima (che è di circa 51.000)[1], per i quali sono sospesi o enormemente limitati i permessi premio, la semilibertà, il lavoro all’esterno, le attività trattamentali e i colloqui con i familiari ci obbligano a porci innanzitutto il problema della tutela della loro salute. Mantenere la “distanza di sicurezza” in carcere non è questione di buona volontà, semplicemente non è possibile: non possono mantenerla i detenuti tra di loro a causa delle ridotte dimensioni delle celle e del sovraffollamento e non possono mantenerla gli agenti tra di loro e con i detenuti.

Non ci sono le condizioni minime per fronteggiare non un’epidemia ma nemmeno pochi singoli casi: il personale sanitario (medici e infermieri) in servizio nelle carceri è già insufficiente in situazioni ordinarie, le infermerie sono ampiamente inadeguate, i trasferimenti in ospedale richiedono iter autorizzativi, personale di scorta e di sorveglianza, l’isolamento sanitario è, nei fatti, impossibile da realizzare . È quindi necessario mettere in atto misure in grado di prevenire la diffusione del contagio, che non devono però concretizzarsi in provvedimenti di ulteriore restrizione dei già minimi spazi di movimento: tenere chiuse le persone in una cella per 24 ore al giorno non è come chiedere di non uscire di casa, perché una cella non somiglia nemmeno lontanamente alla stanza di un appartamento (è una banalità, ma è necessario ribadirla). Servono invece dispositivi di protezione individuale per tutti, misure relative alla sanificazione degli ambienti, alla diffusione di norme igieniche, strumenti che possano rilevare la temperatura corporea di tutte le persone che, per qualsiasi ragione, entrano nell’istituto. In assenza di tali misure, come rilevato dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, “la fisionomia della prevenzione potrebbe essere vista come maggiormente rivolta a evitare il rischio di futura responsabilità che non effettivamente a evitare un contagio certamente molto problematico in ambienti collettivi e chiusi”.

E bisogna, soprattutto, far diminuire molto rapidamente il numero dei detenuti, il che non si ottiene con le sole raccomandazioni contenute nel decreto della Presidenza del Consiglio dei ministri dell’8 marzo, che sollecita la valutazione di misure alternative di detenzione domiciliare per i casi sintomatici di nuovo ingresso (decisione che deve essere assunta caso per caso).

Servono invece misure generali e urgenti, che sarebbe stato necessario adottare anche senza rischio coronavirus, perché il sovraffollamento e l’eccesso di carcerizzazione che lo produce sono un’emergenza per sé. Ci sono diverse ipotesi in campo, tutte ragionevoli e necessarie:

  • sospensione della pena per tutte le persone detenute ammalate ed anziane e un’amnistia per la rimanente popolazione detenuta (proposta contenuta nell’appello sottoscritto da numerose associazioni e singoli, che si può leggere, tra l’altro, sul sito di Rifondazione Comunista);
  • ampio accesso a misure alternative che non prevedano il rientro serale in carcere per tutti coloro che sono nelle condizioni di usufruirne (con provvedimenti che devono essere assunti dai Tribunali di sorveglianza ai quali l’Associazione Antigone chiede uno sforzo in questo senso, mentre i Radicali Italiani, in un appello al governo, suggeriscono un’apposita task force che si concentri esclusivamente su questo tipo di provvedimenti);
  • differimento dell’emissione di ordini di esecuzione pena in conseguenza della definitività della condanna, in modo da ridurre il numero di nuovi ingressi (come suggerisce anche l’Unione delle camere penali);
  • indulto per tutti coloro che devono scontare pene brevi o brevi residui di pena (a questi ultimi, infatti, l’amnistia non si applicherebbe). Nel 2019, secondo i dati ministeriali, c’erano 23.000 detenuti con una pena residua pari o inferiore a 3 anni: scarcerarne anche solo una parte (immaginando che, come di consueto, l’indulto non si applichi ai condannati per alcuni reati) significherebbe ridurre in maniera consistente la popolazione carceraria e, quindi, diminuire il rischio di contagio.

Non sarà facile arrivare a un provvedimento di amnistia o di indulto (meglio ancora entrambi), perché è necessaria una maggioranza dei due terzi di un Parlamento che ha più volte mostrato tendenze securitarie e una forte inclinazione a nuove forme di penalizzazione, ma è necessario avere il coraggio di proporlo e sostenerlo: non sarebbe un favore alle organizzazioni criminali, né una “resa” alle proteste, anche violente, di questi giorni. Amnistia e indulto sono, semplicemente, necessari e urgenti.

Ci sono anche altri reclusi in Italia, sprovvisti delle garanzie costituzionali che sono riconosciute a chi si trova in carcere: sono i migranti trattenuti nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), l’attuale denominazione di quella tipologia di detenzione amministrativa usata per identificare e deportare dal territorio italiano i “migranti irregolari”, ovvero le persone non dotate di un permesso di soggiorno valido, che possono essere trattenute fino a 6 mesi con pochissimi diritti, spesso violati. Secondo i dati riportati nel 17° Rapporto sui diritti globali, Cambiare il sistema, nel 2018 sono passate dai CPR 4.092 persone. I posti effettivamente disponibili sono 715, a fronte di una capacità prevista di 1.035.

Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha rilevato, nel corso delle ispezioni condotte nel 2018 numerosi fattori di gravi criticità: assenza di locali e ambienti per le attività in comune, che pregiudicano pesantemente la qualità della vita all’interno delle strutture e determinano il rischio di situazioni di degrado anche nell’esercizio dei più elementari diritti primari, carenza nelle condizioni igieniche, insufficienza e inadeguatezza di bagni e docce, presenza di sbarre, talvolta alte cancellate metalliche di suddivisione tra i settori abitativi o blindi, impossibilità per gli ospiti di muoversi liberamente tra i diversi moduli, un diffuso atteggiamento teso a impedire o limitare fortemente qualsiasi attività “per ragioni di sicurezza” (si veda il Rapporto del settembre 2018).

Dobbiamo preoccuparci anche della loro salute, perché tutte le situazioni di affollamento in reclusione presentano gravi rischi sanitari. A seguito dell’insediamento del nuovo ministro dell’Interno si è sentito parlare per qualche giorno di una “sanatoria”, che è anch’essa necessaria e urgente (di nuovo: che sarebbe stata necessaria già prima di questa emergenza).


[1] Secondo i dati del Ministero della Giustizia aggiornati al 29 febbraio di quest’anno in media nazionale ci sono 120 detenuti per 100 posti, con punte di 175 in Molise, 153 in Puglia e 140 in Lombardia. Dei 61.230 detenuti solo il 68% è stato condannato definitivamente. Con il 31,3% dei detenuti che ha violato le leggi sulla droga, l’Italia è il Paese con il più alto numero di condannati in via definitiva per reati di droga tra quelli del Consiglio d’Europa (media 18%): in Spagna sono il 19%, in Francia il 18,3%, in Germania il 12,6% (dati del XV Rapporto sulle condizioni di detenzione, Il carcere secondo la Costituzione dell’Associazione Antigone, 2019).

Gli agenti di polizia penitenziaria sono circa 31.000 a fronte degli oltre 37.000 previsti come organico, con un rapporto di 1,9 tra detenuti e agenti, più alto di quello di altri Paesi europei. Inoltre la percentuale del personale in divisa rispetto al totale dei dipendenti dell’amministrazione penitenziaria è dell’83,6% a fronte di una media europea più bassa che si attesta al 69,3% (dati del XV Rapporto sulle condizioni di detenzione di Antigone).

 

Maria Pia Calemme

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