di Enrico Sartor (da Londra) – Il Primo Ministro conservatore britannico Boris Johnson, in occasione della crisi dell’epidemia di Coronavirus, come già per la Brexit, è riuscito a sfoggiare la sua abilità a coprire una strategia politica carente e contraddittoria con bugie e sparate prive di ogni rapporto con la realtà.
Dopo l’esordio, ormai entrato nella storia, con cui avvisava i sudditi di Sua Maestà di prepararsi a centinaia di migliaia di morti e annunciava l’opzione di lasciare il contagio incontrollato fino ad colpire il 60% della popolazione con l’obiettivo di sviluppare una “immunità di gregge”[1], ha continuato con comunicati alla nazione in cui sosteneva, per esempio, che la crisi si sarebbe risolta nell’arco di 3 settimane. Salvo poi fare retromarcia. Una strategia politica confusa che, tuttavia, ha aumentato in meno di una settimana le percentuali di consenso tra la popolazione: se il 17 marzo solo il 43% della popolazione pensava che Johnson stesse facendo un buon lavoro, contro un 46% che pensava il contrario, il 22 marzo il 55% della popolazione approvava l’operato del governo contro il 35% dei contrari (dati YouGov).
Dal punto di vista dell’epidemia, la Gran Bretagna sembra seguire l’andamento del contagio in Italia, ma con un paio di settimane di ritardo. Mentre scriviamo ci sono 22.454 casi accertati d’infezione (compreso il principe Carlo Windsor e Boris Johnson) e più di 1.000 morti (dati al 31.3.2020). La progressione dei decessi aumenta di circa il 30% al giorno (Cambridge University’s Statistical Laboratory, 25.3.2020).
Negli ultimi giorni il governo britannico ha deciso di adottare misure d’isolamento simili al resto dell’Europa. Misure poco efficaci perché poco implementate, anche se la situazione è in rapida evoluzione. A causa della confusa strategia iniziale dell’esecutivo e della non volontà di prendere decisioni contro gli interessi economici forti (soprattutto le grandi compagnie del settore edile, da sempre finanziatrici del partito conservatore, con molti cantieri ancora aperti), i treni e la metropolitana di Londra sono ancora affollati, come pure i supermercati, ove è diventato impossibile trovare prodotti quali detergenti e disinfettanti, carta igienica, pasta, pane, carne. Una situazione talmente pericolosa che persino il sindaco di Bergamo ha deciso di far rientrare in Italia le figlie residenti in Inghilterra.
A ben vedere, la risposta politica e collettiva alla crisi in Gran Bretagna, al di là delle bugie di Johnson, non è così diversa dal resto d’Europa ed indica la profonda crisi del capitale e delle democrazie occidentali, che ancora una volta corre lungo fratture di classe.
In un articolo pubblicato nel blog di Lawrence & Wishart[2], Phil Cohen rileva come, benché l’epidemia abbia evidenziato la realtà dei legami internazionali della società globale, la prima risposta dei governi è stata pesatamente impregnata di retorica nazionalista. Da questo punto di vista, non c’è molta differenza fra la chiusura delle frontiere da parte di molti paesi dell’Unione, la polemica sulle responsabilità della Germania riguardo al paziente “0” da parte della destra italiana, la caccia al cinese e il totale accantonamento del dramma vissuto dai profughi siriani alla frontiera con la Turchia, e le teorie di Johnson sull’immunità di gregge, impregnate della retorica post-Brexit sulla supremazia della finanza e del business sul sociale, sul paese che può farcela da solo purché sollevi i ponti levatoi della fortezza. Barriere sono ora erette ovunque: tra i comuni, i quartieri, gli isolati, i gruppi sociali anche di differenti generazioni.
Uno dei punti della strategia volta alla contaminazione indiscriminata per raggiungere l’immunità di gregge era la netta separazione fra giovani e anziani. I primi dovevano frequentarsi il più possibile, per gli anziani l’invito è al totale auto-isolamento. L’esasperazione del problema dell’emarginazione sociale degli anziani diventa così – sostiene P. Cohen – un obbiettivo della politica del governo, con conseguenze sul piano della salute mentale e con costi sociali enormi. Sotto questo profilo, in Gran Bretagna i casi di violenza domestica sono aumentati del 51% in pochi giorni, e molte famiglie sono ridotte alla fame per la chiusura delle mense scolastiche gratuite.
Ma ci sono altri aspetti inquietanti della politica di auto-isolamento, messa in opera ora da tutti i governi europei. L’auto-isolamento è una forma fai-da-te di gestione della salute, dopo che – a causa delle politiche austeritarie – i sistemi sanitari nazionali sono stati vandalizzati in Gran Bretagna come in Italia, e le comunità, gli enti locali, quasi completamente privati di risorse, sono diventati incapaci di rispondere collettivamente ai problemi delle cittadine e dei cittadini. Come afferma P. Cohen, il termine che viene usato dal governo britannico per indicare la virtù necessaria dell’auto-isolamento è “resilience” che richiama il concetto di elasticità, capacità neo-liberista di adattarsi passivamente: prima alla necessita dell’austerità, poi a quella dell’epidemia. Non è un richiamo alla forza o al coraggio. Boris Johnson (atteggiandosi a novello Churchill) usa spesso una retorica da stato di guerra, ma – dice Phil Cohen – si tratta di uno stato di guerra neo-liberista, non socialista.
Mi riconcilia almeno in parte con questo paese – mia patria d’elezione – la notizia di qualche giorno fa che ben mezzo milione di volontari hanno risposto nelle prime ventiquattro ore all’appello di aiuto del NHS (sistema sanitario nazionale). La solidarietà collettiva, piuttosto che l’auto-isolamento, mi pare la risposta più efficace ad un sistema socio-economico in bancarotta. Mentre non può non amareggiare il silenzio dell’opposizione laburista in queste settimane di crisi; questa ha, del resto, buone possibilità di essere cooptata in un governo di salute nazionale, appena avrà risolto i suoi problemi interni relativi alla successione a Jeremy Corbyn.
L’altra linea di frattura di questa crisi è quella della ricchezza. Mentre i comuni di Londra con maggiori risorse (Westminster e Chelsea, in primis) sono stati all’inizio quelli con il più alto numero di contagi, probabilmente a causa di ferie sciistiche sulle alpi lombarde e venete, ora il primato (che è anche quasi un primato nazionale) è detenuto dai due comuni di Brent e Southwark: il primo situato all’estremo Nord-Ovest; il secondo, al Sud-Est della capitale.
Ciò che hanno in comune questi ultimi due borghi sono le condizioni abitative (case affittate a gruppi di 10-15 adulti, con due-tre per camera) e la prevalenza demografica di lavoratori manuali (edilizia e addetti alle consegne); questi non possono lavorare da casa, sono costretti a recarsi al lavoro su trasporti affollati, svolgono il lavoro in condizioni che non consentono di mantenere le distanze consigliate dal governo. Mentre la maggioranza delle mansioni dei ‘colletti bianchi’ è stata trasformata in lavoro da remoto, il resto della popolazione è stato subito coinvolto dall’epidemia in maniera drammatica: è di ieri la notizia di code di quasi 150 mila persone che cercano di accedere al sito web del ministero al fine di presentare le domande per i sussidi di disoccupazione, gli aiuti per pagare l’affitto e per gli assegni familiari.
Come
affermato da molti commentatori, la Gran Bretagna è entrata in un incubo
oscuro, e non si sa quale sarà la situazione al risveglio. È certo che –
contrariamente alle previsioni di Boris Johnson – la ripresa non avverrà presto
e non vi sarà una vittoria trionfale sulla malattia. Forse ci troveremo a
vivere in una società diversa, con cittadini più impauriti e ancora più isolati,
aggruppati all’abitudine – da tempo acquisita – di adattarsi alla restrizione
delle libertà.
[1] Dichiarazione a Sky News di Sir Patrick Vallance, una delle massime autorità mediche del governo britannico, 13 marzo 2020.
[2] Casa editrice britannica fondata nel 1936, in passato associata al Partito Comunista della Gran Bretagna.