È successo: c’è almeno un detenuto risultato positivo al test del Covid19, trasferito nel reparto destinato ai reclusi di un ospedale milanese. La notizia è stata diffusa dal garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale del Piemonte e si riferisce al carcere di Voghera, una struttura inaugurata nell’autunno del 1982 come carcere speciale femminile, successivamente destinata agli uomini, con una capienza di 100 posti, recentemente ampliata a 340 e che ospita invece 450 detenuti, in maggiorenza sottoposti al regime di alta sicurezza di livello 3 (detenuti che hanno rivestito un ruolo di vertice nelle organizzazioni criminali dedite allo spaccio di stupefacenti).
Si tratta del primo caso comunicato ufficialmente, mentre circolano notizie provenienti da varie fonti secondo le quali tra i detenuti ci sarebbero 2 casi a Pavia e 1 a Lecce (nella sezione femminile), che si aggiungerebbero a quello del detenuto del carcere di Modena di cui si è parlato la settimana scorsa al momento dell’esplosione della rivolta in quel carcere. Ci sarebbero anche 2 casi tra i medici che operano nel carcere di Brescia.
Ufficialmente è la parola chiave per quanto riguarda il carcere, in questo momento ancora più che in altri: le notizie circolano poco e attraverso canali non sempre verificabili. Non sappiamo, per esempio, in quanti istituti siano state attivati i colloqui via Skype con i familiari o sia stato autorizzato l’utilizzo della posta elettronica (com’è noto, i colloqui visivi con i familiari sono stati sospesi con il DPCM dell’8 marzo), se e in che modo siano state potenziate le misure di monitoraggio della salute, né quali cautele siano state adottate per i detenuti in condizioni più fragili dal punto di vista sanitario.
Lo stesso Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che dovrebbe monitorare e informare puntualmente, fornisce notizie vaghe: nel confermare il caso di contagio nel carcere di Voghera, nella nota del 17 ha aggiunto, en passant, che si tratta di uno dei dieci casi di positività riscontrati fra i detenuti sull’intero territorio nazionale in oltre venti giorni. Non ha specificato se il contagio è stato contratto all’interno o all’esterno del carcere (di 1 caso di questo tipo ha invece dato notizia il direttore del carcere di San Vittore), quali misure siano state prese per evitare che si propaghi, quali siano le condizioni di salute di questi detenuti.
Sappiamo, invece, che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha disposto la consegna di 2.600 kit per la protezione completa degli operatori di polizia penitenziaria e che nei laboratori sartoriali presenti in alcuni istituti penitenziari della Toscana si è in attesa solo che l’Istituto superiore di sanità dia il via libera alla produzione di mascherine (stimate 10.000 al giorno) e che in molti istituti penitenziari (ma il numero esatto non è noto) sono presenti tensostrutture per il triage dei detenuti in ingresso dalla libertà.
Sappiamo poi, da stanotte, che in coda al decreto Cura Italia sono state inserite 2 norme che riguardano il carcere: l’art. 124, che stabilisce che le licenze concesse ai condannati ammessi al regime di semilibertà possono avere durata sino al 30 giugno (la durata massima ordinaria è di 15 giorni) e l’art. 123, che istituisce un regime transitorio, ancora fino al 30 giugno, della disciplina della detenzione domiliare (legge 199/2010), stabilendo l’ammissibilità della misura anche in assenza della relazione disciplinare della direzione del carcere ma, soprattutto, prevedendo che i condannati con una pena o un residuo di pena compreso tra i 6 e i 18 mesi debbano essere sottoposti alla sorveglianza attraverso l’uso del “braccialetto elettronico” se ammessi alla detenzione domiciliare.
Si tratta di una restrizione di quanto previsto dalla legge 199, che invece affida alla magistratura il potere discrezionale sulle misure di sorveglianza. E, infatti, il decreto prevede l’accettazione formale da parte del detenuto di questa specifica misura, rendendola in qualche modo “volontaria”, poiché altrimenti sarebbe illeggittima. Questo è un problema, ma non è il solo: i “braccialetti” non sono largamente disponibili e potranno essere acquisiti solo “entro i limiti delle risorse finanziarie disponibili a legislazione vigente”, cioè non c’è un euro (il concetto viene ribadito anche nella frase conclusiva dell’art. 123), il che ridurrà ulteriormente il numero delle persone che potranno uscire dal carcere, probabilmente non più di 3.000: è poco, troppo poco rispetto a quello che sarebbe necessario fare, come tutti quelli che sanno come si vive in carcere continuano a chiedere (per una prima rassegna delle misure proposte vedi l’articolo della scorsa settimana).
Maria Pia Calemme