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Il lavoro di rete non è una Cenerentola

di Nicoletta
Teodosi

di Nicoletta Teodosi

È in questi momenti che ci poniamo domande su cosa significa lavorare in rete, mettere insieme enti, pubblici o privati non profit, per raggiungere uno scopo comune, più o meno prolungato nel tempo.

Chi poi è costituzionalmente una rete, sociale nello specifico di Cilap, vede il mondo solo attraverso le lenti della sinergia, della condivisione, del raggiungimento di obiettivi, di scambio di esperienze. Il lavoro di una rete sociale, soprattutto tematica come è Cilap (Collegamento Italiano di Lotta alla Povertà), sta facendosi sempre più complicato a livello locale, nazionale ed europeo. Cilap è la sezione italiana della rete europea EAPN che dal 1990 si occupa di lotta alla povertà ed esclusione sociale collegando il dibattito e le politiche avviate a livello europeo per arrivare fino al livello locale e viceversa. Con quali risultati? Ne elenchiamo alcuni: 1990, si inizia a parlare in Europa e in Italia di Povertà; 1992 primi incontri europei sul reddito minimo; 1999 – 2000, Strategia europea per l’Inclusione Sociale; 2000, art. 34 della carta Europea dei Diritti Fondamentali; 2008 Risoluzione del Parlamento Europeo sul Reddito minimo adeguato; 2001-2019 organizzazione di 18 incontri europei delle persone in povertà; 2010, Anno europeo di lotta alla povertà; Europa 2020 – target quantitativo per l’uscita dalla povertà di 20 milioni di persone, di cui 2 milioni e 200 mila in Italia; 2014-2020, 20% del fondo sociale europeo destinato alla lotta contro la povertà. Solo per citarne alcuni.

Dall’inizio abbiamo lavorato affinché i sistemi di welfare esistenti in Europa si armonizzassero per arrivare ad un solo modello sociale europeo basato sulla protezione sociale per tutti i cittadini, che salvaguardasse chi è in povertà o ne è a rischio, lavoratore o disoccupato, precario o garantito, senza distinzione alcuna. Per un po’ ci è sembrato che questo potesse accadere, almeno fino ai primi anni dieci del 2000. Poi è subentrata la schizofrenia europea: se da una parte al Parlamento venivano riconosciuti più poteri (come il veto nella scelta dei Commissari e il voto sul bilancio), dall’altra restava un’Europa intergovernativa, in capo al Consiglio dell’Unione dei 28, ora 27 (Trattato di Lisbona). A decidere, quindi, non sono i cittadini attraverso i loro rappresentanti eletti.

Quello che, per semplificare, chiamiamo “sociale” non si è mai realizzato in una politica europea: una materia che, secondo il principio di sussidiarietà, dovrebbe essere concorrente, ma che, al contrario, è rimasta materia esclusiva degli Stati membri. Ci siamo dovuti accontentare di Risoluzioni o Dichiarazioni del Parlamento e della Commissione che non sono vincolanti e gli Stati membri hanno mantenuto il potere esclusivo su una politica che avremmo voluto fosse comune in tutta Europa.  

Per le nostre reti sociali europee e le loro sezioni nazionali, che negli anni si sono confrontate con organizzazioni di base, volontari, lavoratori, operatori sociali, accademici, ricercatori provenienti da tutta Europa, con le quali sono stati scambiati modelli di intervento, buone prassi e mal practice, analisi e studi per migliorare le condizioni delle persone in povertà e di coloro che lavorano, per e con loro, non possiamo dire che sia un successo quello che stiamo vivendo.

Le crisi certo non aiutano. Quella finanziaria del 2008 si è tirata dietro l’economia reale di tutta Europa: le scelte assunte dai governi più potenti sono state devastanti per molti europei, soprattutto del Sud, in primis i greci. Le politiche di austerità hanno allargato la faglia della disuguaglianza tra l’1% che detiene la ricchezza e il 20% più povero. Solo oggi, a causa o grazie al COVID-19 in Europa si parla di superamento del patto di stabilità. Vedremo.

Ciò che bisogna spiegare, sia a chi si occupa del livello europeo – che non sono solo i tecnocrati – che a chi opera nel livello locale, è che esiste, anche se in modo discontinuo, una stretta correlazione tra loro: innanzi tutto non è totalmente vero che ciò che accade e viene deciso nelle istituzioni europee non arriva al singolo cittadino, nel bene e nel male. Ad esempio: nel periodo finanziario 2014-2020 il 20% del Fondo Sociale Europeo è stato destinato alla lotta contro la povertà e gestito dalle regioni, le quali a loro volta hanno promosso azioni in favore delle persone in povertà attraverso le organizzazioni di volontariato, di promozione sociale e della cooperazione sociale. In Italia, come in Europa. È solo un esempio. Questo stanziamento a livello europeo fu richiesto e ottenuto a gran voce dalle reti europee come Eapn.

Anche i bisogni dei cittadini devono poter arrivare ai decisori europei, attraverso le istituzioni regionali e nazionali e le reti sociali. Non singolarmente, altrimenti, la voce dei cittadini e delle organizzazioni di base sarebbe troppo debole per farsi sentire, per questo esistono le reti sociali, che sono organismi di rappresentanza, ma che devono avere un forte radicamento territoriale, con quanto accade quotidianamente nei diversi contesti e settori in cui le organizzazioni operano.

L’azione dall’alto verso il basso è reale e ha delle ricadute (come detto nel bene e nel male di alcune scelte non condivisibili); il movimento dal basso verso l’alto va ancora rafforzato. É come se alcuni fossero all’interno di una fortezza (chi sta nelle istituzioni e si confronta con esse) e altri stiano fuori. Per non stare bisogna avere una rappresentanza, altrimenti si rischia di rimanere ai margini. Per anni, abbiamo creduto che la rappresentanza fosse un mandato in bianco: una volta costituita una rete sociale, diventata interlocutore istituzionale, sarebbe stata riconosciuta a tempo indeterminato anche dalle organizzazioni che da essa erano rappresentante. Così non è, forse non è mai stato.

Le organizzazioni cambiano perché gli eventi non sono gli stessi, perché chi le compone, volontario o operatore che sia, si evolve, cambiano le necessità, cui spesso da soli non possono rispondere: c’è bisogno di più informazione da assumere e far circolare, è necessaria maggiore formazione per l’apprendimento o aggiornamento su modelli di intervento, anche basati su un apprendimento reciproco con altri organismi, colleghi, cittadini di altri paesi europei.

Veniamo all’oggi. La crisi del virus che è esplosa anche in Europa sta mettendo in evidenza l’importanza del lavoro in rete, istituzionale e non. I sistemi sanitari si stanno scambiando informazioni, sono pubblici, perché solo se l’accesso alle cure è in mano allo Stato, è possibile intervenire in situazioni di emergenza come quella che stiamo vivendo. Non è necessario scomodare filosofi, economisti o giuristi per poter dire quello che è sotto gli occhi di tutti. Il primo settore, lo Stato con l’intervento pubblico, è l’unico che può affrontare situazioni come questa, come i terremoti o come grandi tragedie (vedi il Ponte Morandi). Cosa sta mettendo insieme lo Stato? Il lavoro congiunto di organismi diversi: Ministero della Sanità, Istituzione Superiore di Sanità, Protezione Civile, Regioni, OMS. Ha avviato un lavoro di rete istituzionale. Perché l’obiettivo dello Stato è definito negli articoli della Costituzione italiana e il fine primario è il benessere collettivo, non il profitto che caratterizza l’intervento del secondo pilastro, il Mercato.

Anche gli organismi non profit, stanno lavorando in rete, non sono né pubblico, né privato, né primo né secondo settore, ma terzo settore appunto. Nonostante ciò le reti sociali, stanno vivendo una crisi di appartenenza e di identità, in Italia come in Europa. La mission delle reti sociali è di sostenere le organizzazioni che lavorano sul terreno in una logica di sviluppo locale, ora anche sostenibile: collegano cioè il livello locale, con quello europeo e viceversa.

A fronte dell’importanza del valore aggiunto di cui le reti sociali sono portatrici, negli anni più recenti si è aperto un gap tra queste e le organizzazioni aderenti. Il collegamento tra il lavoro europeo e quello nazionale e locale sembra essersi indebolito, anche se l’obiettivo delle reti sociali resta lo stesso. Dare risposte ai bisogni delle organizzazioni aderenti: informazioni, finanziamenti, chiarimenti su come intervenire su problemi complessi che da sole le organizzazioni non sarebbero in grado di affrontare, aggiornamenti, formazione. Essere una cassa di risonanza degli impegni quotidiani delle organizzazioni di base: far sapere che nei centri di accoglienza per immigrati bisogna continuare a garantire la fornitura degli alimenti. I beneficiari hanno capito la situazione e sono stati i primi a girare con le mascherine. Si evita il più possibile spostamenti; bisogna dotare gli appartamenti di computer per continuare a seguire le lezioni d’italiano. Vengono sanificati gli ambienti e agli ospiti vengono forniti prodotti disinfettanti per l’igiene personale. Dal fronte dei centri accoglienza pare che tutto stia funzionando. Ancora non è “la fine del mondo”.

Ma non ovunque va bene. La crisi provocata dall’epidemia ha fatto chiudere tutti i servizi semiresidenziali e i centri diurni polivalenti, così anche i servizi domiciliari per anziani e disabili, ad eccezione dei servizi per le persone senza alcun sostegno familiare. Proseguono le telefonate, gli scambi di e-mail, le richieste di chiarimenti tra operatori dei servizi sociali e le organizzazioni che gestiscono i servizi. Alcuni servizi come i centri famiglia fanno assistenza psicologica on line, per evitare i contatti fisici.

Il volontariato in molti Comuni è a disposizione per la spesa e le medicine a domicilio per persone anziane o in stato di necessità.

Per alcuni i danni lavorativi sono abbastanza contenuti, mettono a disposizione le proprie competenze professionali, offrono consulenza gratuita mediazione linguistica, per altri sta emergendo tutta la fragilità del lavoro sociale, soprattutto quello a prestazione: se non lavori non hai la firma sul foglio presenza, non sei pagato.

In questo momento il lavoro delle reti sociali è soprattutto concentrato sull’ascolto, sullo scambio reciproco su come affrontare le situazioni, date le diverse risorse in ogni territorio.

Le reti sociali non gestiscono servizi, ma danno voce a quelle organizzazioni, volontari e operatori che voce non hanno in Italia, in Europa, nel Mondo, ecco perché non possono essere considerate delle Cenerentole.

17 marzo 2020

* Presidente Cilap Eapn Italia

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