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Meditazioni Keynesiane (Seconda Parte)

di Pino
Nicolosi

 Under pressure

«Se cado nella buca di un tombino si potrebbe attribuire la colpa alla mia distrazione; ma se scopriamo che c’è stato un improvviso incremento statistico del  numero di persone che cadono nei  tombini in una certa città, occorre cercare un altro genere di spiegazione: occorre capire come mai i tassi di distrazione lì crescono oppure, più verosimilmente, come mai i tombini vengono lasciati aperti».1

David Graeber

Come abbiamo visto nell’introduzione, la progressiva riduzione del lavoro, secondo Keynes, avrebbe finito con il creare seri problemi mentali ai nipoti. In termini generali, le  “Possibilità” possono essere lette come una sorta di appello affinché il genere umano riesca ad affrontare con intelligenza una fase nuova dello sviluppo della specie, in cui il tempo di lavoro cessa di costituire la parte più significativa della vita delle persone. Keynes, in quelle pagine, consegnava al futuro un meditato messaggio di alert, un sapiente avviso ai naviganti.

Se  prendiamo sul serio l’idea che la “fine del lavoro” sia stata oscurata dai processi che abbiamo sommariamente indicato nell’introduzione e lasciamo che il nostro ragionamento prenda le mosse dal convincimento che il fenomeno, come sosteneva David Graeber, è pienamente dispiegato [sebbene non venga ufficialmente riconosciuto], allora la domanda fondamentale diviene quale forma il ”nervous breakdown” paventato da Keynes ha assunto, in condizioni così diverse da quelle che aveva previsto. Dal suo punto di vista, il lavoro necessario si sarebbe ridotto progressivamente senza modificare sostanzialmente l’organizzazione generale del lavoro. Per questa via il “nervous breakdown” sarebbe stato principalmente la conseguenza di un eccesso di tempo libero. Per questo il professore di Cambridge indicava esplicitamente nella disoccupazione tecnologica il problema fondamentale con cui si sarebbero misurati i nipoti. Riteneva che la nostra specie fosse legata al lavoro in modo talmente profondo che sarebbe stato necessario distribuire il lavoro residuo con estrema saggezza per evitare situazioni di estremo disagio psicologico. Una preoccupazione simile esprimerà vent’anni dopo dalla filosofa Hannah Arendt, secondo la quale:

«Ci troviamo di fronte a una società di lavoratori senza lavoro, privati cioè della sola attività rimasta loro. Certamente non potrebbe esserci niente di peggio».2

Keynes nelle “Possibilità” arriva a paragonare il lavoro residuo a del pane da dividere:

«Ma oltre a ciò dovremo adoperarci a far parti accurate di questo “pane” affinché il poco lavoro che ancora rimane sia distribuito fra quanta più gente possibile».

Sebbene questa sua proposta sembri anticipare il celebre slogan degli anni Settanta “lavorare meno lavorare tutti”, l’enfasi di Keynes sugli aspetti “psicologici” della disoccupazione tecnologica suonerà stonata a quanti sono consapevoli della povertà ancora oggi ampiamente diffusa, non solo sull’intero pianeta, ma anche nell’Occidente ricco e industrializzato. Si direbbe che Keynes, in quelle pagine, avesse dato per scontato che ci sarebbe stato benessere per tutti. Secondo lui, il principale problema dei nipoti non sarebbe stato quello di procurarsi il necessario per vivere, ma quello di non lasciarsi irretire dalla frustrazione generata dal crescente tempo libero. Purtroppo, lo scenario in cui si svolge la nostra vita non sembra corrispondere alla sua descrizione. Che poi il lavoro sia un “pane” nei confronti del quale si prova un forte “appetito”, ben pochi oggi sarebbero disposti a riconoscerlo. Piuttosto, esso continua ad essere considerato il mezzo, per lo più detestabile, attraverso cui si è costretti a guadagnarsi il necessario per vivere. E tuttavia, anche a questo riguardo, il ragionamento di Keynes è meno ingenuo di quel che appare e va approfondito per una varietà di ragioni che via via diventeranno chiare.

“Collasso nervoso” o “esaurimento nervoso” sono termini che nella psicologia clinica non significano nulla, dei cosiddetti “termini ombrello” diffusi nel linguaggio comune per indicare patologie mentali indefinite. A prima vista, Keynes nelle “Possibilità” ha dunque fornito un’indicazione relativamente generica della forma di disagio mentale che prevedeva si sarebbe dispiegata nel corso del Novecento. Indicazione non priva, peraltro, di un certo sessismo, visto che l’unico esempio che ha fornito nel merito, è quello di alcune donne benestanti inglesi che, esonerate dalle tradizionali mansioni domestiche, stentavano a trovare significati nuovi alla propria esistenza.

«donne che non riescono a trovare sufficiente interesse nel cucinare, pulire, rammendare quando vi manchi la spinta della necessità economica: e che tuttavia sono assolutamente incapaci di inventare qualche cosa di più divertente».

Ai contemporanei l’esempio può sembrare infelice, considerando che oggi ben poche donne godono di una simile autonomia e che i lavori domestici e di cura non sono affatto diminuiti. Peraltro, il privilegio di queste altolocate signore inglesi dell’epoca di Keynes, non dipendeva da innovazioni tecnologiche, quali lavatrici, lavastoviglie o altri elettrodomestici (che erano in gran parte di là da venire) ma, principalmente, da lavoro servile. Anche da questo punto di vista si tratta sicuramente di uno dei passaggi più discutibili delle “Possibilità”. Ma c’è un argomento, al suo interno, che va analizzato con attenzione. Se in quell’esempio Keynes ribadiva l’aspetto prevalentemente psicologico della crisi indotta dalla riduzione del lavoro necessario, allo stesso tempo suggeriva qualcosa di decisivo in merito alla sua origine, all’ eziologia del nervous breakdown. In sintesi: gli esseri umani hanno bisogno di verificare costantemente l’efficacia delle proprie azioni e dei propri comportamenti. Venuta meno la motivazione economica del rammendare, pulire o cucinare, le signore inglesi perdevano il significato del proprio agire e faticavano a trovarne di nuovi. Qualcosa del genere, pensava Keynes in quel lontano 1928, sarebbe accaduto entro cento anni al resto del genere umano alle prese con le conseguenze dell’automazione.

Roland Paulsen, il già citato studioso svedese, sottolineava in un dibattito pubblico di qualche anno fa, come il lavoro, tradizionalmente inteso, non fornisca alla nostra vita alcun significato ma, al contrario, ne sottragga in continuazione. E su questo punto Keynes gli avrebbe sicuramente dato ragione. Ma il professore di Cambridge aveva anche capito  che, per altri versi, nel genere umano resiste una spinta verso l’impegno costruttivo e la verifica continua delle proprie azioni e dei loro risultati:

«Per ancora molte generazioni l’istinto del vecchio Adamo rimarrà così forte in noi che avremo bisogno di un qualche lavoro per essere soddisfatti».

Il termine “istinto”, nell’accezione che aveva nell’Inghilterra degli anni Trenta, non indica strutture rigide e congenite del comportamento umano, ma disposizioni comportamentali relativamente modificabili. Tuttavia, quel riferimento di Keynes al capostipite, ad Adamo, lascia intendere che questa spinta dell’antenato verso il lavoro non sarebbe stata un fenomeno marginale e transeunte, da risolvere nel volgere di qualche decennio, ma un problema radicato, che avrebbe afflitto la specie per molte generazioni.

Ebbene, l’esigenza di verificare l’efficacia delle proprie azioni, che Keynes aveva intravisto nelle righe dedicate alle casalinghe inglesi e che possiamo considerare una buona descrizione dell’istinto del vecchio Adamo, costituisce l’argomento centrale di una delle più importanti teorie contemporanee sulla depressione (che avremo modo di discutere in un capitolo successivo). Ma c’è un’altra questione di grande rilievo che rivela il rapporto tra il “collasso nervoso” presagito nelle “Possibilità” e la depressione contemporanea: ripercorrendo a ritroso gli ultimi cento anni, l’unica varietà di “nervous breakdown”, di patologia mentale, con una diffusione di massa paragonabile a quella ipotizzata da Keynes è, senza ombra di dubbio, la depressione. È sufficiente osservare i dati di trend di questa patologia negli ultimi quarant’anni per rendersi conto che, a partire dalla fine degli anni Settanta del Novecento, la depressione non ha mai cessato di diffondersi, fino a raggiungere dimensioni gigantesche su tutto il pianeta. La previsione keynesiana di un “collasso nervoso” di massa trova dunque una significativa conferma empirica nel progressivo dilagare del “male oscuro”.

Per farsi un’idea delle dimensioni del fenomeno, è sufficiente dare una rapida occhiata alle osservazioni, del tutto occasionali, che riportiamo di seguito a scopo puramente indicativo.

La grande espansione

Nel Gennaio del 2016 si è tenuta in Vaticano una conferenza della Pontificia Accademia delle Scienze, intitolata “Depression State of the Art”, in cui di è sottolineato come la depressione abbia raggiunto nel tempo dimensioni spaventose, con circa 350 milioni di persone colpite, l’equivalente delle popolazioni di Brasile e Messico messe insieme.

Un esempio del tutto occasionale ma particolarmente impressionante della diffusione del “male oscuro”, lo possiamo ricavare da un episodio riportato dalla stampa alcuni anni fa. Correva l’anno 2004 quando l’agenzia inglese che si occupa delle acque segnalava al governo la presenza di tracce di Prozac, un famoso farmaco antidepressivo, negli acquedotti. L’episodio non ha cessato di destare sconcerto anche dopo è stato chiarito che la spiegazione non andava cercata in fantasiose interpretazioni da science fiction. Con grande scorno di complottisti e dietrologi, non si è trattato di un’oscura operazione progettata da governi o polizie segrete per elevare l’umore, proverbialmente bigio, della popolazione britannica. Più banalmente, il fenomeno è stato provocato dalle scorie derivate dall’uso ordinario di questo farmaco da parte della popolazione del Regno Unito. Sciolto nelle acque reflue, l’antidepressivo era stato rilevato dalle autorità deputate al controllo della qualità delle acque. Come chiariva un articolo dedicato a questo singolare episodio uscito in quei giorni sulle pagine de “L’Unità” : «Secondo le statistiche, nei dieci anni tra il 1991 e il 2001, il numero delle ricette mediche per l’uso di tranquillanti in Gran Bretagna è passato da nove a ventiquattro milioni l’anno».

Il processo di progressiva diffusione della malattia, del resto, era stato mostrato con chiarezza già nei primi anni Novanta, con una serie di ricerche che rilevavano come le persone nate nel secondo terzo del Novecento soffrissero di depressione con una probabilità dieci volte maggiore rispetto a quelle nate nel primo terzo del secolo. Al di là delle varie interpretazioni che si possono dare di tali risultati, cui faremo qualche cenno più avanti, essi evidenziavano che il fenomeno presentava una dimensione storica molto specifica che avrebbe sicuramente meritato maggiore attenzione.

Nel 2004 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha lanciato un forte segnale di allarme sulla depressione, affermando che entro il 2020 la depressione sarebbe stata la principale causa di “disabilità lavorativa” dopo i disturbi cardiovascolari. Una decina di anni dopo l’OMS ha rilanciato, sostenendo che nel 2030 sarebbe diventata la più disabilitante di tutte le malattie del mondo. A quel che pare, via via che ci avviciniamo al 2028, l’anno in cui Keynes aveva previsto la riduzione dell’orario di lavoro a tre ore al giorno, una paralisi generalizzata della volontà e del desiderio si diffonde sull’intero pianeta. Una coincidenza?

Per avere un quadro più dettagliato della situazione conviene ricorrere a uno dei più interessanti lavori pubblicati sull’argomento negli ultimi anni. Allan V. Horwitz e Jerome C. Wakefield sono due accademici statunitensi, specializzati negli aspetti sociali della malattia mentale. Il loro fortunato libro “La  perdita della tristezza” è stato tradotto e pubblicato in Italia nel 2015.3

Nell’introduzione, i due forniscono un quadro documentato della diffusione della depressione negli Stati Uniti. Si tratta di pagine che analizzano il fenomeno nelle sue varie articolazioni, dall’incidenza nella comunità, ai costi sociali, alle prescrizioni di antidepressivi, alla crescita delle pubblicazioni scientifiche sul tema, all’attenzione dei media, al numero di pazienti trattati per depressione. Qui sarà sufficiente riportare dall’introduzione alcuni dati di carattere generale sul quantitativo di pazienti trattati per depressione (i), sulle prescrizioni di antidepressivi (ii) e sui costi sociali (iii), ricordando che i dati si riferiscono agli anni Novanta.

i) Il numero delle persone trattate per depressione negli Stati Uniti è cresciuto di colpo negli anni recenti. La maggior parte delle persone che soffrono di depressione è trattata a livello ambulatoriale, dove si è avuto un aumento del 300% dei casi trattati tra il 1987 e il 1997.

ii) Gli antidepressivi, come il Prozac, il Paxil, lo Zoloft e l’Exfor, sono attualmente tra i farmaci da prescrizione più venduti in assoluto. Il loro impiego fra gli adulti è quasi triplicato fra il 1988 e il 2000. (…) Nel corso degli anni Novanta la spesa per antidepressivi aumentò del 600% negli Stati Uniti, superando i 7 miliardi di dollari annui nel 2000.

iii) L’ OMS stima che la depressione è già la causa principale di disabilità per i soggetti tra i 15 e i 40 anni. Negli Stati Uniti gli economisti stimano che la depressione provoca una spesa di 43 miliardi di dollari l’anno.

La situazione presentava dunque le caratteristiche dell’epidemia già alla fine del millennio. Dopo il 2000 l’allarme non ha fatto che crescere, con una rapida diffusione della patologia anche tra gli adolescenti e con un’impennata nel corso della pandemia Covid-19.

Tuttavia, contrariamente a quel che ci si potrebbe aspettare, Horwitz e Wakefield non si allineano al sensazionalismo con cui vengono solitamente presentati questi dati sulla depressione. Al contrario, ne ridimensionano significativamente la portata. La tesi sostenuta da Horwitz e Wakefield in quel libro è che la definizione della malattia pubblicata a partire dalla terza edizione del DSM (il manuale diagnostico-statistico che da anni fornisce il quadro sintomatologico delle malattie psichiatriche) tende a confondere la tristezza normale con la depressione, generando una moltitudine di falsi positivi. Nelle loro parole:

«Quello che è accaduto – a nostro avviso – è soprattutto un’inflazione della diagnosi dovuta a una definizione relativamente nuova del disturbo depressivo che non funziona e che, combinata con altri sviluppi della società, ha accresciuto drasticamente la presenza del presunto disturbo».

Per quanto si tratti di un libro coraggioso e di alto profilo, i due autori hanno limitato la loro analisi a questo specifico problema, con l’onesto obiettivo di riuscire ad ottenere, nelle versioni successive del DSM, qualche opportuna correzione. Non è andata così. Al contrario, all’uscita del DSM V i criteri per la diagnosi della depressione risultavano modificati in una direzione opposta rispetto a quanto suggerito da Horwitz e Wakefield.

I due, pur non lanciando accuse esplicite, lasciano capire benissimo quali siano gli interessi che remano ostinatamente contro qualsiasi ridimensionamento dei criteri diagnostici basati sui sintomi indicati dal DSM. Basti ricordare quelli, davvero immensi, di Big Pharma. Ma Horwitz e Wakefield non sembrano particolarmente interessati ad un’indagine di carattere storico-politico sulle ragioni profonde di questa situazione, tema che, del resto, esula ampiamente dai loro ruoli istituzionali. Personalmente, sono del parere che il problema della crescita progressiva della depressione e/o della tristezza invochi da tempo spiegazioni che si spingano oltre il problema, sicuramente urgente, delle definizioni del DSM e delle conseguenti “diagnosi allegre”. Sebbene la tesi di Horwitz e Wakefield sull’inflazione delle diagnosi sia valida, resta infatti da spiegare in che modo la civiltà occidentale abbia finito con il rimanere incastrata in un simile dispositivo. È piuttosto evidente che gli interessi delle industrie farmaceutiche, delle assicurazioni sanitarie, delle corporazioni mediche, dei dispositivi pubblicitari e così via, hanno dato un fondamentale contributo alla costruzione di un gigantesco apparato di diagnosi e cura della depressione (per non entrare nel merito dell’enorme quantità di lavoro inutile, nel senso di Graeber, che un siffatto dispositivo riesce a generare). La risposta istituzionale alla depressione è stata  una tipica risposta “soluzionista” nel significato del termine indicato dal suo ideatore, Eugeny Morozov:

«il soluzionismo “presuppone”, anziché studiare, i problemi che vuole risolvere, saltando alla risposta prima ancora che la domanda sia stata formulata per intero».4

Vale notare, incidentalmente, come il soluzionismo non sia uno stile esclusivo dei tecnocrati  informatici contro cui si accanisce Morozov. In realtà, si tratta della forma di pensiero dominante delle burocrazie statali novecentesche, come ha brillantemente spiegato John Ralston Saul  nel suo I bastardi di Voltaire (1992). Descrivendo il metodo delle scuole di burocrazia come l’Ecole Nationale d’Administration, Ralston Saul scriveva:

«L’insegnamento impartito in tutte queste scuole è mirato non ha sviluppare il talento nel risolvere i problemi, ma a fornire un metodo per individuare soluzioni che potranno soddisfare il sistema. Dopo di che la logica interna provvederà alle necessarie giustificazioni».

Ma limitando la nostra indagine sulla depressione agli interessi economici e alle risposte istituzionali retrostanti, lasciamo irrisolta la questione della domanda sociale di cura della tristezza, delle continue richieste di assistenza che giungono ogni giorno dalla popolazione di ogni strato della società. Ammesso che i medici di base, sotto la pressione dei promotori del farmaco e degli utenti dei servizi, agiscano con una certa leggerezza, distribuendo antidepressivi come si trattasse di pastiglie per il mal di gola, resta da capire perché le richieste, nel tempo, si siano fatte via via più insistenti. Se, come sostengono Horwitz e Wakefield, le forme ordinarie di intensa tristezza vengono facilmente confuse con la depressione maggiore, rimane da capire perché tali forme di tristezza siano cresciute così visibilmente. I due studiosi americani hanno ragione: nella maggioranza dei casi diagnosticati non abbiamo a che fare con “vera depressione”. Ma allora, di cosa si tratta ? Se anche si trattasse soltanto di forme di intensa tristezza, il problema dei nessi di causalità sembra simile a quello posto da Graeber nella citazione posta in esergo a questo paragrafo. Visto che non esiste un virus patogeno della depressione o della tristezza cui attribuire la responsabilità dell’epidemia, occorre chiedersi in quale altro modo il fenomeno si debba indagare. Bisogna domandarsi, riprendendo Graeber, come mai i tombini vengono lasciati aperti.

Se la diffusione della depressione (o della tristezza) è aumentata nel tempo, non è poi così peregrino iniziare ad indagarne le dimensioni storiche. Va da sé che se analizzata da un punto di osservazione esclusivamente medico-clinico, la malattia mentale non rivela alcun legame visibile con la storia economica e sociale delle nostre società. Ma l’ipotesi secondo cui le malattie mentali possono, almeno in alcuni casi, avere delle spiegazioni storico-politiche, è meno ingenua di quel che può parere ad uno sguardo di superficie. Vale riportare, a questo proposito, il punto di vista di due indimenticabili pionieri della psicoterapia italiana. Mario Trevi, tra i fondatori dell’Associazione italiana di psicologia analitica e del Centro italiano di psicologia analitica, scrisse in un intervento sulla depressione:

«La storia delle malattie, e in particolar modo quella della malattie psichiatriche, non può prescindere da una sua precisa contestualizzazione di tipo epocale, sociale e culturale. Dalla storia di una malattia può essere desunta la storia di una società, dei suoi atteggiamenti, dei suoi valori, sia di quelli consapevolmente assunti, sia di quelli che pur non essendo espressi formalmente, purtuttavia costituiscono la trama entro la quale si organizza la vita sociale di una determinata epoca storica».5

Giovanni Jervis, insigne psichiatra italiano, scrisse a sua volta righe illuminanti su cosa significhi storicizzare una malattia mentale:

«”Storicizzare” significa vedere un fenomeno umano in un contesto ampio, quello delle culture e della grandi dinamiche storiche. Per “contestualizzare” si intende invece di solito qualcosa di più limitato, che riguarda la psicologia interpersonale e dei gruppi, con le sue caratteristiche universali; non riguarda l’evolvere delle grandi dinamiche delle idee e delle forze sociali. Facciamo un esempio: quello dell’anoressia. Contestualizzare significa esaminare il caso di una ragazza anoressica nell’ambito dei suoi rapporti interpersonali; storicizzare invece, significa porsi un quesito epidemiologico, cioè chiedersi come mai l’anoressia era rarissima quarant’anni fa e ora invece è molto frequente.» 6

Dunque, storicizzare la depressione significa collocarla all’interno di un contesto ampio, quello delle grandi dinamiche delle idee e delle forze sociali.

 L’epoca della passione triste

Il poeta inglese William H. Auden definì il periodo successivo alla seconda guerra mondiale come “l’età dell’ansia”. Si riferiva agli eventi straordinari di quegli anni, capaci di generare panico nelle persone, quali le persecuzioni razziali, le armi nucleari, la guerra fredda. Horwitz e Wakefield scrivono che se Auden fosse stato ancora vivo, avrebbe definito il nuovo secolo come “l’età della depressione”. Difficilmente sarà sfuggito a Horwitz e Wakefield che un primo tentativo di definire questo periodo storico come l’età della depressione risale al 1979, anno in cui Gerald Klerman, all’epoca amministratore della Alcohol, Drug Abuse and  Menthal Healt Administration, scrisse per Psychology Today un articolo intitolato, appunto, The age of melancholy. Questa data ci permette di valutare meglio la situazione: la diffusione della depressione, segnalata da  Klerman in quel lontano 1979, da allora non ha fatto che crescere. Se decidessimo di assegnare all’articolo di Klerman il ruolo di pietra miliare dell’inizio dell’epoca della depressione, se ne dovrebbe concludere che l’epoca della melanconia dura da oltre quarant’anni, un periodo più lungo di quello che ha caratterizzato l’età dell’ansia di Auden. Ma i due luminari statunitensi si affrettano a precisare che, tra l’età dell’ansia e l’età della depressione, corre “una differenza cruciale”. Quale ?

«Mentre l’età dell’ansia era vista come una risposta naturale a circostanze sociali che richiedevano soluzioni collettive e politiche, la nostra è vista come un’età di tristezza che è anormale – un’età di disturbo psichiatrico depressivo che richiede un trattamento da parte di professionisti».

Stando alla spiegazione del concetto di storicizzazione delle malattie mentali fornita da Jervis, la formula di Auden può essere considerata un esempio di storicizzazione dell’ansia: Auden presentava una serie di ragioni di natura storico-politica che, nel loro insieme, costituivano una spiegazione plausibile del diffondersi di questa forma di disagio. E tuttavia, segnalano sapientemente Horwitz e Wakefield, con la depressione le cose stanno andando assai diversamente. Per mettere in evidenza in cosa consista questa differenza, questo cambio di passo, i due studiosi americani prendono spunto da un episodio che, alla fine degli anni Novanta, scatenò un dibattito serrato sulle pagine dei principali quotidiani statunitensi. La vicenda riguarda una rappresentazione teatrale, tenutasi a fine anni Novanta a Broadway, del celebre dramma Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller, (scritto nel 1949).  A quanto pare, il regista di questa rappresentazione aveva mandato il copione a due psichiatri, sperando di ottenerne in cambio stimoli e nuove idee per il suo lavoro teatrale. Contrariamente alle sue aspettative, entrambi gli interpellati glielo restituirono con una chiara ed esplicita diagnosi di depressione per Willy Loman, il protagonista del dramma di  Miller (che nella commedia morirà suicida). Arthur Miller, che era ancora vivo, intervistato sull’argomento, rispose senza esitare:

«Willy Loman non è un depresso. È semplicemente oppresso dalla vita.  Ci sono ragioni sociali perché si trovi nel punto in cui è. Penso che se il pubblico avesse interpretato l’opera in termini psichiatrici avrebbe trattato la cosa con  distacco e  avrebbe detto: “quest’uomo ha bisogno di una  pillola”. Ma io ho sentito persone del pubblico piangere. Non credo che sarebbe potuto accadere se la gente avesse interpretato l’opera esclusivamente in termini clinici».7

Insomma, il dramma di Miller, secondo il suo autore, aveva un significato storico e un significato politico che rendevano la vicenda socialmente, emotivamente e narrativamente comprensibile. La diagnosi di depressione inflitta dai due psichiatri al protagonista del dramma di Miller suggerisce invece che oggi, per il medesimo problema, vengono adottati criteri interpretativi profondamente diversi. La biochimica neuronale sembrerebbe aver sostituito la narrazione, la storia, il contesto sociale. Dove in passato c’era un soggetto pensante e narratore, oggi si rilevano soltanto dei sintomi che denunciano una disfunzione chimica nel cervello cui porre tempestivamente rimedio.

Lo stesso titolo del libro di Wakefield e Horwitz “La perdita della tristezza” suggerisce questo senso di svuotamento semantico, come se la società contemporanea abbia smarrito qualsiasi capacità di riflettere su se stessa, di dare un significato alle sue emozioni. Ma sarebbe un errore leggervi un ritorno del classico dibattito natura vs. cultura, in cui la pillola per il Willy Loman di Arthur Miller starebbe a indicare, come uno spartitraffico, l’attuale trionfo del biologico a spese di un “culturale” in crescente declino. Al contrario, una delle tesi principali di Horwitz e Wakefield è quella che la tristezza costituisce un fenomeno naturale, una risposta biologica a determinati eventi della vita (lutti, fallimenti, incidenti etc.) che ha una precisa funzione adattativa. Questo è un argomento importante per iniziare a individuare i reali termini della questione: la biologia non è estranea alla tristezza, anzi ne costituisce il principale fondamento. Il sentimento della tristezza condivide con il dolore fisico la funzione di sensore interno, di dispositivo di allarme organico sviluppato nel corso dell’evoluzione per proteggere la specie. Meno immediata e diretta del dolore, la tristezza ne costituisce la dimensione estesa nel tempo, il ricordo persistente e vivo, il prolungamento immaginativo e corporeo. In questo senso, la perdita della tristezza indica, soprattutto, una peculiare amputazione sensoriale, l’ottundimento di un importante radar della specie. Come per le altre passioni, gli aspetti culturali e linguistici della tristezza sono intrinseci alla condizione dell’animale umano, dotato di linguaggio e destinato biologicamente a un incessante lavoro di interpretazione dei suoi stati interni. Chiedersi perché le passioni tristi siano diventate oggetto di rimozione mentre il cosiddetto “felicismo” sia divenuto una sorta di obbligo morale ci porta nel vivo del problema politico che questo scritto intende sollevare.

La storicizzazione della depressione di massa andrebbe pensata come una grande impresa di comunicazione sociale, il tentativo di recuperare collettivamente il funzionamento originario del radar della tristezza e il suo peculiare ruolo di strumento di conoscenza e di risorsa euristica. Un’operazione di ecologia della mente. Come ha scritto qualcuno, “noi non difendiamo la natura, noi siamo la natura che si difende”. Vale anticipare che la messa al bando della tristezza va collocata all’interno di un più vasto fenomeno di rimozione generale del dolore – culminato in America nelle oltre quattrocentomila morti per overdose provocate, negli ultimi quindici anni, dall’uso selvaggio e devastante di farmaci antidolorifici a base di oppioidi. Questa pretesa di voler rimuovere con ogni mezzo il dolore e la tristezza, è una conseguenza diretta della torsione cui la filosofia e l’etica dell’utilitarismo, già fragili, sbrigative e riduzioniste, sono state sottoposte dalla svolta neoliberista avvenuta alla metà degli anni Settanta. Ci torneremo.

“Non era depressione, era capitalismo” è la celebre scritta comparsa su uno striscione durante la protesta popolare esplosa nelle piazze cilene nell’Ottobre del 2019, e poi circolata in milioni di foto e di messaggi sul web. Una rivelazione ?

 

  1. David Graeber, Bullshit Jobs, 2018[]
  2. Hannah Arendt, Vita Activa, Bompiani, 1994.[]
  3. Allan Horwitz, Jerom Wakefield, La perdita della tristezza, l’asino d’oro, 2015.[]
  4. Eugeny Morozov, Internet non salverà il mondo, Mondadori, 2014.[]
  5. AA.VV., La cura dell’infelicità, Theoria, 1994[]
  6. Giovanni Jervis, Gilberto Corbellini, La razionalità negata, Bollati Boringhieri, 2008[]
  7. Il New York Times ha fornito un riassunto esaustivo del dibattito che seguì a questa vicenda in un articolo di Jess McKinley del febbraio del 1999.[]
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