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Meditazioni keynesiane (Prima parte)

di Pino
Nicolosi

Nel 1930, John Maynard Keynes aveva previsto che, entro la fine del secolo, lo sviluppo della tecnologia sarebbe stato tale da consentire a paesi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti di avere una settimana lavorativa di quindici ore. Ci sono tutti i motivi per credere che avesse ragione.  Dal punto di vista tecnologico le condizioni esistono già. Ciononostante non è accaduto1.

David Graeber

 

Il famoso discorso che J. M. Keynes tenne nel 1928 davanti agli studenti del Winchester College, pubblicato due anni dopo con il titolo Possibilità economiche per i nostri nipoti,  ha raggiunto negli ultimi anni una celebrità che in passato gli era stata negata. Oggi, Keynes viene spesso ricordato tra i profani come l’economista inglese che sostenne che entro il 2028 avremmo lavorato tutti meno di tre ore al giorno. E se oggi i non economisti (come chi scrive) spesso si riferiscono a Keynes come a un teorico della “fine del lavoro”, anche gli economisti, negli ultimi dieci anni, hanno iniziato a dedicare un numero crescente di pubblicazioni e interventi a quel suo celebre discorso (d’ora in poi Possibilità). Ma si tratta di una passione recente. Guido Rossi, curatore dell’ultima edizione italiana delle Possibilità, uscita nel 2007, si chiedeva nel suo commento al testo:

perché gli economisti snobbano all’unisono, fra le diverse migliaia di pagine scritte dal loro maestro, quasi tutte mandate a memoria, proprio quelle venti o giù di lì, lette davanti ai loro colleghi e agli studenti di Winchester e Cambridge nel remoto 1928?2

Dunque, Rossi non lamentava, come molti fanno oggi, il fatto che intorno a quel discorso di Keynes vi fosse una gran confusione ma, al contrario, che ve ne fosse poca. La ragione del silenzio degli economisti sul celebre discorso del Winchester College, secondo Rossi, andava individuata nel vulnus che Keynes avrebbe inflitto nelle sue conclusioni alla loro corporazione professionale, paragondola a quella dei dentisti. Secondo Keynes il problema economico si sarebbe dovuto considerare:

(…) un problema da specialisti, come la cura dei denti. Se gli economisti riuscissero a farsi considerare gente umile, di competenza specifica, sul piano dei dentisti, sarebbe meraviglioso.

Beninteso: gli economisti non hanno nulla contro i dentisti, al contrario, li stimano e li rispettano per numerosissimi motivi. Quello che però, sempre secondo Guido Rossi, gli economisti non potevano accettare, era il ruolo che Keynes aveva assegnato loro paragonandoli ai dentisti: quello di chi deve intervenire al solo scopo di prevenire e curare le disfunzioni, le piccole carie dell’economia. Proprio come un dentista, l’economista avrebbe dovuto rassegnarsi a un ruolo di controllo e riparazione, con rarissime opportunità per l’invenzione e l’iniziativa.

Sospetto, tuttavia, che il silenzio degli economisti sulle Possibilità non fosse dovuto soltanto alla difesa della propria immagine professionale e del proprio ruolo. Il testo doveva suonare loro particolarmente urtante soprattutto perché Keynes, uno dei massimi teorici dell’economia capitalista, poneva un problema che in diverse occasioni era stato utilizzato per annunciare la crisi del capitalismo. Il processo di riduzione progressiva del lavoro necessario alla produzione, discusso da Keynes in quelle pagine, aveva troppi punti in comune con la famosa “caduta tendenziale del saggio di profitto”  prospettata da Marx, perché gli economisti contemporanei potessero affrontarlo con disinvoltura.

Se era relativamente facile rimproverare a Karl Marx3, a Paul Lafargue4 o a Oscar Wilde5 la matrice ideologica dei loro argomenti sulla riduzione progressiva del lavoro umano ad opera delle macchine, ben più imbarazzante sarebbe stato farlo con il grande Keynes o con il suo celeberrimo amico e sodale, il premio Nobel Bertrand Russell, altra autorità indiscussa che certo non poteva essere accusata di simpatie verso regimi autoritari. Occorre tuttavia specificare che, pur nelle analogie di fondo, la teoria di Marx arriva a conclusioni sostanzialmente opposte rispetto a quelle di Keynes circa il problema della riduzione del tempo di lavoro ad opera delle macchine. Per Marx, gli aumenti di produttività non implicano necessariamente una conseguente riduzione dell’orario di lavoro. Secondo il filosofo di Treviri, quando l’innovazione tecnologica aumenta la produttività oraria, di riflesso aumenta il plusvalore come tempo di lavoro non retribuito. Ma da questo non segue, almeno per il capitalista, l’esigenza di ridurre l’orario. Come ha scritto Marco Craviolatti:

L’analisi marxista evidenzia le dimensioni strutturali che legano tecnologia e orari, giungendo alla conclusione controintuitiva che quanto più aumenta il capitale fisso dell’impresa e diminuisce il peso del lavoro salariato, tanto più aumenta la pressione allo sfruttamento del lavoro stesso: una prospettiva completamente opposta a quella di Keynes, ma certamente con maggiori riscontri nella realtà.6

Il che spiega bene, per esempio, perché Jeff Bezos, fondatore e responsabile dell’ipertecnologica Amazon, ricordi compulsivamente ai suoi dipendenti che possono lavorare a lungo, intensamente o con scaltrezza, ma che non possono limitarsi a scegliere due delle tre opzioni.

Se ne conclude che, nella prospettiva di Marx, la riduzione dell’orario di lavoro non è un destino economico in attesa di realizzarsi sull’onda dell’innovazione tecnologica. Va considerato, al contrario, come un obiettivo politico da conquistare con battaglie aspre e dall’esito tutt’altro che scontato. Qui basterà notare che, a tutt’oggi, riformisti o rivoluzionari che siano, i teorici della “fine del lavoro” continuano a creare imbarazzo in una corporazione storicamente fondata sulla centralità del lavoro quale è indubbiamente quella degli economisti. Un imbarazzo analogo serpeggia tra i sindacalisti, storicamente legati al lavoro dalle ferree catene della necessità politica.

Se negli anni che hanno seguito la pubblicazione del testo di Guido Rossi (2007), abbiamo registrato una significativa inversione di tendenza, con un florilegio di interventi degli economisti sulle Possibilità, è stato soprattutto perché, nell’attuale rigoglio di ricerche applicative sull’Intelligenza Artificiale, il problema degli aumenti di  produttività e della relativa riduzione del tempo di lavoro necessario non può essere aggirato con la stessa disinvoltura con cui lo è stato finora. Troppe pubblicazioni recenti, sia di carattere specialistico che di carattere divulgativo, hanno sottolineato i pesanti effetti dell’automazione sul lavoro salariato. Tutto lascia pensare che il 2028, data del centenario delle Possibilità e anno entro il quale Keynes aveva previsto che l’orario di lavoro sarebbe stato ridotto a tre ore al giorno, sarà per gli economisti un anno di riflessioni e bilanci, in cui molti di loro si sentiranno chiamati a un confronto diretto con la famosa “profezia” e con il suo misterioso fallimento. Forse per questo è quasi di moda, nei dibattiti tra sociologi ed economisti, interrogarsi reciprocamente sul perché la “profezia” del professore di Cambridge non si sia realizzata. Gli aumenti di produttività sono stati molto superiori a quelli previsti da Keynes e, tuttavia, l’orario di lavoro non è diminuito. Nel cercare una spiegazione a questo dilemma, alcuni hanno pensato di eliminare il problema alla radice sostenendo che, con le Possibilità,  Keynes si era semplicemente prestato ad un intervento di propaganda contro il pensiero socialista che, in quegli anni di crisi e di  depressione economica, dilagava nel Regno Unito e in America. Le Possibilità, secondo questa interpretazione, sarebbero state solo un tentativo di promuovere un’ utopia capitalista che, nella sua (ipotetica) realizzazione, sarebbe parsa ai lavoratori più desiderabile di quella socialista. In effetti, Le Possibilità disegnavano un futuro idilliaco per i nipoti, prevedendo un diffuso benessere, ampie libertà personali e tempo libero in abbondanza. Che si sia trattato di una “favoletta” è una spiegazione che torna utile, per motivi opposti, sia ai rivoluzionari che ai riformisti: per i primi, si tratterebbe solo di una truffa, per i secondi, di una “bugia che manda in paradiso”. Ma è una spiegazione che in entrambi i casi sottende un’accusa di cialtroneria nei confronti di Keynes che suona improbabile (se non indegna) a chiunque conosca l’etica del professore cantabrigese.  Aveva le sue debolezze, ma pare proprio non fosse il tipo d’uomo che si presta a simili messe in scena.

Altri, mettendo la questione in termini di antropologia filosofica, hanno sostenuto che Keynes aveva una concezione ingenua dei bisogni umani e della loro soddisfazione. Si sarebbe illuso del fatto che, soddisfatti i cosiddetti bisogni di base, l’esigenza diffusa di ricchezza e la spinta alla competizione economica sarebbero gradualmente diminuite.  Robert Skidelsky, allievo e biografo di Keynes, ha sostenuto la stessa tesi con il gergo degli economisti:  il suo venerato maestro avrebbe pensato che, di fronte alla garanzia di una piena soddisfazione dei bisogni fondamentali, l’utilità marginale del reddito si sarebbe ridotta progressivamente7. Tradotto in termini terrestri significa che, per le persone, darsi da fare per accumulare quattrini sarebbe divenuto progressivamente meno importante. Pare non sia andata così. Ma sul fatto che l’errore di Keynes sia stato davvero questo, come vedremo, c’è molto da discutere.

Altri ancora, tra i quali molti degli appartenenti al cosiddetto neo-operaismo italiano, sostengono che la ragione principale del fallimento della profezia di Keynes vada individuata nel fatto che la produzione si è via via spostata al di fuori dell’alveo del lavoro regolare, certificato e pagato, andando ad abitare altre zone, meno visibili e chiare. Innanzitutto, il lavoro cosiddetto “immateriale”, per esempio quello degli artisti, dei programmatori o dei matematici, è difficile da quantificare e da valutare. La profezia di Keynes, dunque, si sarebbe avverata, il tempo di lavoro necessario si sarebbe effettivamente ridotto, almeno nell’ambito della produzione industriale, ma la configurazione complessiva del lavoro, divenuto in gran parte immateriale ed “implicito”, sarebbe nel frattempo cambiata così profondamente da confondere gli osservatori, fino a rendere vano qualsiasi approfondimento nel merito che non tenga in giusto conto i nuovi processi di estrazione del valore8. Come accennato sopra, nel linguaggio marxiano, condiviso dai neo-operaisti, il cosiddetto plusvalore è lavoro non pagato. Ma come individuarlo, misurarlo, metterlo in discussione, quando si ha a che fare con il lavoro di un programmatore informatico o con quello di un creatore di slogan pubblicitari? Qualcuno forse ricorderà lo sconcerto che colse gli osservatori quando, qualche anno fa, il noto giornalista Riccardo Staglianò mise in evidenza, calcolatrice alla mano, che i tredici (13!) dipendenti di Instagram valevano, nell’Aprile del 2012, al momento dell’acquisto del gruppo da parte di Facebook, qualcosa come 77 milioni di dollari ciascuno9. La parte di plusvalore estratta dalle loro prestazione sarà stata certamente cospicua ma, ben pagati come sono, difficilmente avranno seri motivi per lamentarsene. A lamentarsi, secondo i neo-operaisti, dovrebbero invece essere quelli che partecipano al dispositivo da cui quel valore viene estratto, i milioni di utenti che, con le loro fotografie, i loro commenti, le loro preferenze, contribuiscono a far girare la giostra della Silicon Valley a pieno regime, senza ricevere in cambio alcun tipo di emolumento. Qui emerge un altro elemento di confusione che da molti anni è sotto la lente critica dei neo-operaisti: l’estrazione del valore avviene in modo crescente al di fuori del circuito del lavoro ufficiale. A volte questo fenomeno si verifica senza alcuna consapevolezza da parte degli attori, come nel caso degli utenti di Instagram o di Facebook, a volte per loro scelta deliberata, come nel caso dei tirocinanti o del volontariato. Per un verso cresce la produzione senza lavoro riconosciuto, per un altro l’attività produttiva non viene retribuita. In entrambi i casi il lavoro salariato ne risulta eroso in modo subdolo, strisciante.

Il lavoro si presenta dunque in forme nuove, di cui si può discutere l’utilità e la necessità, ma che sembrano sfuggire alle metodologie di cui si serviva Keynes alla fine degli anni Venti del Novecento per descriverlo e quantificarlo. La fine del lavoro è come l’araba fenice: che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa.

Il sociologo svedese Roland Paulsen, con un diverso approccio, ha individuato brandelli di “fine del lavoro” abbastanza cospicui all’interno del lavoro “certificato e pagato”. È  stato accertato che il 70% del traffico sui siti pornografici americani avviene nel corso dell’orario di lavoro. Analogamente, le spese online avvengono nel 60% dei casi in orari compresi tra le nove del mattino e le cinque del pomeriggio. A queste forme di sottrazione dalla prestazione lavorativa, che avvengono all’interno dell’orario di lavoro, Paulsen ha dato il nome di “lavoro vuoto” (Empty Labor). Secondo la definizione di Paulsen “lavoro vuoto è tutto ciò che fai nel tuo lavoro che non è il tuo lavoro”10. Varie ricerche convergono sul fatto che il tempo medio di “lavoro vuoto” per ciascun lavoratore si muove oggi in un range che va dall’ora e mezzo alle tre ore al giorno. Dunque la fine del lavoro serpeggia anche all’interno del lavoro ufficiale, quello certificato e pagato.

Un’altra posizione, situata al confine tra la tesi dell’errore di Keynes riguardo i bisogni umani e la tesi operaista del lavoro immateriale ed implicito, la troviamo in un celebre testo dell’antropologo David Graeber, scritto qualche anno fa e che ha raggiunto una notevole diffusione tra i giovani. Si chiedeva Graeber in quelle pagine:

Come mai l’utopia promessa da Keynes – attesa con impazienza ancora negli anni Sessanta, non si è mai concretizzata ? La spiegazione più comune, oggi, è che lui non aveva calcolato l’enorme crescita del consumismo. Davanti alla scelta tra meno ore e più giochi e divertimenti, abbiamo collettivamente optato per questi ultimi. Si tratta di un bel racconto morale, ma basta rifletterci un attimo e si capisce che non può essere vero. Certo, è dagli anni Venti che assistiamo alla creazione di un’infinita varietà di nuovi impieghi e settori, ma ben pochi di questi hanno a che fare con la produzione e vendita di sushi, iPhone, o scarpe da ginnastica alla moda.11

Secondo questo geniale studioso anarchico, morto due anni fa, la spiegazione della profezia “mancata” andrebbe cercata nella proliferazione di lavori inutili (bullshit jobs). Graeber non si è concentrato sugli spazi di “lavoro vuoto” all’interno del lavoro certificato e pagato, come ha fatto Paulsen, ma ha rilevato la proliferazione di lavori certificati e pagati che non hanno alcuna utilità sociale e pratica. In questione non sono quindi i margini di libertà che i lavoratori possono ritagliarsi nel lavoro, ma l’inutilità e la mancanza di senso di una varietà di lavori presi nella loro interezza.

L’anticipazione visionaria di Keynes contenuta nelle Possibilità viene considerata sostanzialmente corretta da Graeber che tuttavia, rispetto agli operaisti, sposta l’accento sul concetto di inutilità, più che sullo sfruttamento del tempo libero e dell’intelligenza diffusa.

L’automazione, in realtà, ha provocato la disoccupazione di massa. Noi ci siamo limitati a colmare il vuoto con l’aggiunta di lavori fasulli, in sostanza inventati. (…) Ma se dal quadro si eliminano i lavori senza senso e i veri lavori che esistono solo in funzione di quelli, si potrebbe ben dire che la catastrofe prevista negli anni Trenta si è verificata sul serio. Oltre il 50-60% della popolazione è stata in effetti estromessa dal mondo del lavoro.

Ne emerge, peraltro, l’elemento di forte discriminazione tra chi un reddito e un lavoro (ancorché “inutile”) ce l’ha e chi invece ne è privo, oppure è costretto a svolgerne uno massacrante. Discriminazione fino a un certo punto, perché Graeber sostiene, non senza buone ragioni, che un lavoro inutile può essere perfino più frustante di un altro lavoro, assai più faticoso ma che, almeno, possiede un senso e un’utilità sociale immediatamente riconoscibili. Sul senso di frustrazione che affigge gli addetti a lavori inutili torneremo nelle prossime pagine. Graeber chiarisce, tra le altre cose, che se anche fosse vero che siamo disposti a lavorare di più pur di poterci divertire, viaggiare, mangiar bene e vestire alla moda, non siamo noi a produrre i giochi, i gadget, i cibi e gli indumenti che tanto ci appassionano. Se la produzione e i consumi sono aumentati, non è aumentato in modo corrispondente il lavoro. Il pieno compiersi della profezia di Keynes sarebbe stato dunque “mascherato” e reso quasi invisibile dai “lavori inutili” attraverso cui si finge di lavorare e ci si lava la coscienza dallo sfruttamento cui sottoponiamo i cosiddetti paesi in via di sviluppo, quelli da cui provengono la maggior parte dei nostri “giocattoli”.

Non penso minimamente che i quattro appunti occasionali che ho appena esposto costituiscano una seria analisi della situazione del lavoro attuale. Il quadro che ne viene fuori, mi pare tuttavia indicare che la “fine del lavoro” si presenta “distribuita” a macchia di leopardo sul tempo generale di vita, con effetti visibili (ma difficili da verificare e quantificare) tanto nell’ambito del lavoro certificato e pagato, quanto al di fuori di esso. Ci sono sacche di “non lavoro” dentro il lavoro certificato e pagato, come nel caso del lavoro inutile di Graeber e del lavoro vuoto di Paulsen, e ci sono sacche di lavoro che prende forma all’interno di quello che, almeno in teoria, dovrebbe essere tempo libero, come nel caso del lavoro ombra (o implicito) discusso dai neo-operaisti. In entrambi i casi, il lavoro salariato ne risulta eroso.

Fornire un’idea, per quanto generale e approssimativa, di questa situazione peculiare e nuova del lavoro, mi è sembrato indispensabile per introdurre il lettore al nucleo centrale di questo testo, che riguarda un aspetto delle Possibilità piuttosto trascurato dagli economisti ma di straordinaria rilevanza, particolarmente per gli psicologi: mi riferisco alle righe che Keynes in quello scritto ha dedicato alle “patologie mentali”. In due passi fondamentali di Possibilità, l’autore ha fatto espliciti riferimenti ai gravi problemi mentali che sarebbero seguiti alla crisi del lavoro che vedeva profilarsi. Il primo riferimento riguarda il diffondersi di quello che definì nervous breakdown, il “collasso nervoso” in cui il genere umano, a suo parere, sarebbe precipitato a causa della riduzione progressiva del tempo di lavoro. Il secondo, si occupa di quel desiderio irrefrenabile di possedere oggetti e denaro che, Keynes sperava, i nipoti avrebbero finalmente riconosciuto come:

una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali.

Nelle parti che seguiranno indagherò le due patologie menzionate da Keynes: il “collasso nervoso” e quella passione un po’ ripugnante che gli inglesi definiscono con il termine “greed”, espressione che nei dizionari viene tradotta con l’italiano “cupidigia”.

Nel prossimo articolo, che uscirà la prossima settimana, intitolato “Under pressure”, vedremo come la presunta epidemia di depressione che attanaglia l’Occidente industrializzato costituisca, per l’essenziale, il pieno dispiegarsi del “nervous breakdown” paventato da Keynes nelle Possibilità. Storicizzare la depressione ci permetterà di ragionare sul “male oscuro” in termini non esclusivamente clinici, ma anche politici ed economici. Nel terzo e ultimo scritto della serie, “Escalation”, discuteremo invece di come, lungi dall’essere stata riconosciuta dai nipoti come una patologia, la greed abbia finito con il divenire il vero motore del sistema economico vigente,  progettato e implementato dagli economisti di orientamento neoliberista. E tuttavia, contro ogni “realismo capitalista”, arriveremo a concludere che Keynes aveva perfettamente ragione: di una patologia mentale, non di altro, si tratta.  E non nasconderò il convincimento che se alcuni prestigiosi economisti avessero accettato il consiglio di Keynes e si fossero considerati “gente umile, di competenza specifica, al livello dei dentisti”, il futuro dei nipoti (e dei pronipoti) forse non sarebbe stato “meraviglioso”, ma sicuramente sarebbe stato meno devastante di come oggi si presenta

Pino Nicolosi

  1. David Graeber, Bullshit jobs, Garzanti, 2018.[]
  2. John Maynard Keynes, Guido Rossi,   Possibilità economiche per i nostri nipoti seguito da possibilità economiche per i nostri nipoti ?, Adelphi, 2007.[]
  3. Karl Marx, Le macchine, Editori Riuniti, 1990.[]
  4. Paul Lafargue, Il diritto all’ozio, Garzanti, 1998.[]
  5. Oscar Wilde, L’anima dell’uomo sotto il socialismo, Rea Multimedia, 1998 (E-book).[]
  6. Marco Craviolatti, E la borsa e  la vita, Ediesse, 2014.[]
  7. Robert Skidelsky, Edward Skidelsky, Quanto è abbastanza?,  Mondadori, 2012.[]
  8. Vedi a riguardo: Andrea Fumagalli, Bioeconomia e Capitalismo cognitivo, Carocci Editore, 2007.[]
  9. Riccardo Staglianò, Al posto tuo, Einaudi, 2016.[]
  10. Roland Paulsen, Empty Labor, Cambridge University Press, 2014.[]
  11. David Graeber, Bullshit Jobs, Garzanti, 2018.[]
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