Qualche giorno fa ho partecipato al webinar “Il ritorno dello Stato sociale? Mercato, Terzo Settore e comunità oltre la pandemia” nel quale è stato presentato il Quinto Rapporto sul secondo welfare.
Ogni due anni “Percorsi di secondo welfare”, il laboratorio di ricerca legato al Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università degli Studi di Milano, elabora un rapporto che analizza lo stato di salute del sistema sociale italiano mettendo in luce le traiettorie e le prospettive del “secondo welfare”.
Il Rapporto raccoglie dati, valutazioni e analisi elaborate nel corso delle attività di ricerca e offre spunti di riflessione per meglio comprendere le dinamiche in atto nel settore.
Il laboratorio di ricerca lavora in stretta collaborazione con “Veneto Welfare” un’unità operativa regionale che sostiene lo sviluppo della previdenza complementare e del welfare integrato.
Il Quinto Rapporto analizza il welfare italiano nel biennio 2020-2021 e ne considera la composizione della spesa pubblica sociale, l’impatto della pandemia e le traiettorie di sviluppo del secondo welfare.
Prima di entrare nel merito di alcuni dei contenuti emersi durante il webinar credo sia utile ricordare, il più sinteticamente possibile, le fasi di trasformazione del sistema di sicurezza sociale attraverso cui si è giunti al modello del “secondo welfare” (se si ha interesse ad approfondire ulteriormente si veda welfarebenecomune_IFE-2.pdf (ifeitalia.eu).
Le fasi di trasformazione del sistema di welfare
Prima fase: da “welfare State” a “welfare mix”
Negli anni ‘70, grazie alle grandi mobilitazioni dei movimenti sociali abbiamo assistito al massimo sviluppo dell’intervento dello Stato nei servizi di welfare. Le importanti lotte del movimento operaio e dei movimenti delle donne fanno sì che vengano approvate alcune leggi fondamentali quali la 1044/71 sugli asili nido, la 405 /75 sui consultori, il nuovo diritto di famiglia nel ’75, la 833/78 che costruisce il Sistema sanitario pubblico, la 194 /78 sul diritto all’IVG, la 180/78 detta legge Basaglia.
Leggi che danno corpo al modello pubblico di stato sociale, la cui base materiale risiedeva nel versamento delle tasse, e rendono esigibile il diritto alla salute intesa in senso lato.
Negli anni ‘80/fine anni ‘90 si dà il via alla rimessa in discussione del modello e quindi ad una trasformazione del sistema pubblico di welfare che vede una consistente diminuzione dell’intervento statale.
Gli elementi di fondo di questa trasformazione possono essere individuati:
- nella precarizzazione del lavoro salariato che fa saltare lo schema del “salario complessivo”, nelle sue forme di salario diretto, sociale (rete pubblica dei servizi), differito (pensioni). Precarizzazione che abbassa di molto gli introiti provenienti dalla tassazione diretta;
- nella nascita del terzo settore, immaginato dalla Comunità Europea alla fine degli anni ’70 e nato in Italia nei primi anni ‘90, sotto la spinta del Trattato di Maastricht viene pensato come concettualmente distinto dallo Stato ma collegato ad esso attraverso il principio di “sussidiarietà orizzontale”. Un principio che modifica nella sostanza il concetto di “pubblico”.
A partire dagli anni ’90 viene approvata una serie di leggi (la legge quadro sul volontariato, quella sulle cooperative sociali, la 328 del 2000, che pure contiene una serie di aspetti positivi a partire dalla definizione dei LEA, cioè i Livelli Essenziali di Assistenza) attraverso le quali , assumendo come principio la “sussidiarietà orizzontale”, si riduce significativamente il ruolo dello Stato sia come regolatore del sistema sia come erogatore di servizi e si determina la presenza di una pluralità di soggetti (cooperative sociali, associazioni no profit, fondazioni, …) finanziati con denaro pubblico.
Il modello di riferimento è stato quello lombardo (ricordo la formigoniana legge 31/97 in materia di sanità nella quale richiamandosi alla dottrina sociale più integralista della chiesa cattolica si postula l’equiparazione fra soggetto pubblico e privato sostenendo che chiunque svolge una funzione pubblica è da considerarsi “de facto” soggetto pubblico).
E’ utile ricordare anche la legge Amato-Carli del 1990 attraverso la quale nascono le fondazioni di carattere bancario che poi, nel ‘98, diventeranno enti di tipo privato; - nella modifica del Titolo V della Costituzione (L. 3/2001) attraverso la quale viene introdotta la regionalizzazione, cioè la delega alle Regioni di alcune competenze legislative e gestionali in materia sanitaria, socio-sanitaria e sociale, che determina una pluralità di sistemi di welfare con la conseguenza di frammentare il carattere universalistico del diritto alla salute determinando un universalismo selettivo;
- nell’impostazione ideologica delle politiche dell’Unione Europea, in particolare riguardo a due aspetti:
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- la sottoscrizione, nel 1997, del patto di stabilità o “Trattato di Amsterdam” cioè l’accordo, fra i paesi membri dell’Unione Europea, che riguarda il controllo delle politiche di bilancio pubbliche, al fine di rafforzare il percorso d’integrazione monetaria intrapreso nel 1992 con la sottoscrizione del Trattato di Maastricht, che nei fatti riduce le risorse a disposizione degli Enti Locali, con la scusa del contenimento del debito;
- la costruzione ideologica del “debito pubblico” che ha trasformato l’alto debito pubblico del nostro paese da problema non trascurabile a priorità assoluta, dall’alto della quale far discendere non solo ogni scelta politica ed economica, bensì una vera e propria visione della società. In “Debito pubblico: uscire dalla trappola ideologica” scrive Marco Bersani: “Per lungo tempo il debito pubblico italiano non è stato né alto, né allarmante; nello specifico, dal 1960 al 1981, il rapporto debito/Pil del nostro Paese è stato costantemente inferiore al 60%. La più importante impennata – un vero e proprio raddoppio- del debito pubblico italiano si è avuta nel decennio 1982-1991 ed è stata conseguente all’avvento della dottrina liberista, con la liberalizzazione dei movimenti di capitali e la progressiva privatizzazione dei sistemi bancari e finanziari”.
Prende dunque corpo un modello misto (welfare mix) nel quale agli interventi del pubblico si affiancano quelli di soggetti privati come imprese, parti sociali e organizzazioni del Terzo Settore, finanziati da denaro pubblico.
Seconda fase: da “welfare mix” a “community welfare market” (o “secondo welfare”)
La crisi economica del 2008 complica il quadro.
La recessione insieme alla perversa logica del debito non consentono neppure la tenuta di un “welfare mix” tanto che nel 2011 l’UE lancia la “Social Business Initiative” volta a promuovere una “economia sociale di mercato altamente competitiva”.
Se non bastasse, con la legge costituzionale n.1 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 23 aprile 2012 si introduce anche nel nostro Paese la cosiddetta “regola d’oro” (una delle regole contenute nel Fiscal compact, il patto di bilancio firmato da tutti i Paesi dell’Unione europea) ovvero il pareggio di bilancio che obbliga lo Stato ad “assicurare “l’equilibrio” tra quello che incassa e quello che spende.
Quindi la recessione economica determina il passaggio dal “welfare mix” ad una nuova forma di welfare: il “community welfare market” o “secondo welfare”.
In Italia nel 2013 Fondazione Cariplo e Borsa Italiana, insieme ad altri partner finanziari europei lanciano l’IPO (Initial Public Offering) solidale mentre Cariplo, Compagnia San Paolo, Banca Prossima, Assifero, Alleanza Cooperative Italiane varano “Il manifesto per l’alleanza fra la finanza e le grandi rete di rappresentanza del terzo settore” con l’obiettivo di creare un nuovo modello di welfare.
Un modello che accentua i caratteri di mercato attraverso società private che vendono prodotti di welfare (in particolare nel settore delle case di riposo) e società di supporto (brokers assicurativi, imprese di software, ..) volte a facilitare la promozione di “welfare aziendale”, una delle componenti fondamentali del “secondo welfare”.
Alcuni aspetti che emergono dal Quinto Rapporto sul “secondo welfare”
Nel presentare il Quinto Rapporto si è voluto in apertura sottolineare che con il termine secondo welfare (noto in Europa anche come welfare community) si intende l’insieme di politiche sociali garantite da soggetti non-pubblici, che si affiancano al welfare state di natura pubblica per garantire risposte a specifici ai ai rischi e bisogni sociali.
Si sono ricordate le componenti del secondo welfare che sono:
- un welfare aziendale e territoriale relativo ai “dispositivi in denaro e servizi forniti ai dipendenti da datori di lavoro come conseguenza del rapporto di impiego (per es. misure sostegno al reddito, previdenza complementare, tutela della salute, flessibilità oraria, servizi di conciliazione)”;
- un welfare filantropico che comprende le iniziative di enti filantropici (Fondazioni di origine bancaria – Fob, di comunità, di impresa, di famiglia…) rivolte al sostegno e/o all’attivazione di organizzazioni, istituzioni e comunità per rispondere ai bisogni e/o promuovere coesione, crescita e sviluppo in una logica di innovazione e cambiamento sociale;
- un welfare di prossimità cioè “interventi e misure co-progettate che mirano al benessere collettivo partendo da una lettura condivisa di bisogni e comportano la valorizzazione e la promozione di reti territoriali formali e informali (composte da attori pubblici, privati, associazioni e cittadini).
Secondo Franca Maino, direttrice del “Laboratorio Percorsi di secondo welfare” e docente associata all’Università degli Studi di Milano, dal Rapporto, grazie ai focus group attivati con i principali esperti del sistema, emergerebbe che nei tre ambiti cruciali del secondo welfare (aziendale e territoriale, filantropico e di prossimità) e lungo le direttrici pubblico-privato e nazionale-locale, il secondo welfare avrebbe contribuito in maniera decisiva a mitigare l’impatto della pandemia e potrebbe continuare a limitarne le ricadute sociali.
Nello specifico per quanto riguarda il welfare aziendale, all’interno del quale i sindacati sul piano contrattuale svolgono un ruolo non secondario, il Rapporto sottolinea che l’impegno delle imprese in era pandemica non sembra essersi fermato, contribuendo a dare risposte ai nuovi bisogni scaturiti dall’emergenza sanitaria e sociale. In particolare si è sottolineata l’efficacia dei “flexible benefit” (ossia l’insieme di beni o servizi non monetari che le aziende distribuiscono ai propri dipendenti in aggiunta al salario. Stiamo parlando di mezzi di trasporto collettivo quali bus o navette per raggiungere il posto di lavoro; voucher e buoni acquisto come buoni pasto o buoni carburante; corsi di lingua e altri corsi di formazione; benefit di utilità sociale; polizze sanitarie; tasse di previdenza complementare; interessi agevolati su mutui e prestiti; asili nido, campi scuola e borse di studio e rimborso spese scolastiche; abbonamenti a cinema e teatri).
Dal Rapporto si evince che ad oggi sono 10 i contratti collettivi nazionali che contengono “flexible benefit”, per un totale di 2,5 milioni di lavoratori e quasi 160 mila imprese. Si aggiunge che “Secondo i dati del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, la quota di accordi in vigore che prevedono sia strumenti premiali sia welfare è andata progressivamente aumentando, fino ad attestarsi nel 2022 intorno al 60% del totale”. Il Rapporto segnala altresì che negli ultimi 3 anni anche grazie all’aumento della soglia di detassazione a favore delle imprese, si è assistito ad una forte diffusione dei fringe benefit, ovvero benefici in natura quali la concessione del telefono cellulare, del computer portatile o del tablet, l’abitazione in affitto, un’assicurazione, la cessione di azioni, l’uso dell’automobile…
Secondo Tiziano Barone, direttore di Veneto Lavoro, “A fronte della crisi e dell’indebolimento delle basi sociali del welfare state tradizionale, è probabile che nel prossimo futuro assisteremo a una crescita esponenziale della presenza di strumenti di welfare nella contrattazione aziendale e territoriale”.
Al contempo Barone riconosce (bontà sua!) uno delle criticità di fondo di welfare aziendale e cioè il fatto che “se non strutturati, gli interventi possono comportare divisioni nel mercato del lavoro, tra chi è disoccupato e chi invece lavora e, tra questi, tra chi è impiegato in grandi aziende che hanno implementato misure di welfare e chi invece lavora in piccole imprese che non ne hanno alcuna”.
Sempre per quanto riguarda il welfare aziendale,Valentino Santoni, ricercatore del Laboratorio “Percorsi di secondo welfare”, ha sostenuto che bisognerebbe andrebbe data rilevanza alle prestazione sociali e sanitarie quindi sarebbe cruciale facilitare l’utilizzo dei “fringe benefit” sarebbe cruciale facilitare il loro utilizzo promuovendo (anche attraverso la normativa) la nascita di “voucher welfare” o “welfare card”. Così come servirebbe promuovere professionalità e ascolto dei bisogni favorendo per esempio l’introduzione nelle aziende (o a livello territoriale) di figure professionali (welfare manager o l’assistente sociale di fabbrica) che puntino a “facilitare” l’attivazione di misure di welfare attente ai bisogni dei lavoratori. Lavorando soprattutto sulla dimensione territoriale destinando sgravi fiscali e incentivi alle imprese che fanno rete – e che quindi si aprono al Terzo Settore e promuovendo la promozione di reti multi-stakeholder (portatori di interessi) in cui Terzo settore e istituzioni pubbliche sono coinvolte (sia nell’erogazione di servizi sia nella governance).
Il Rapporto ha altresì sottolineato il posizionamento delle diverse organizzazioni coinvolte nel “secondo welfare” che dimostrerebbero una generale apertura all’ibridazione tra pubblico e privato e alla territorializzazione del welfare. Il mondo del privato, sia profit che non profit, è quello che dimostra il maggior interesse alla costruzione di alleanze e di ibridazione, mentre i sindacati, benché con accenti differenti, sembrano essere, seppur non contrari, più conservatori. In ogni caso nel Rapporto si sostiene che nessuna organizzazione si colloca su posizioni estreme, grazie probabilmente al fatto, hanno sostenuto i relatori, che la crisi del 2008 ha agito da “legacy”, cioè ha favorito “coesione” sociale e contenuto possibili conflittualità… (viene subito da pensare alla “shock economy” ben spiegata da Naomi Klein nel libro omonimo secondo la quale il capitalismo sfrutta cinicamente i momenti di crisi e tutti i momenti drammatici e cruciali per imporre il fondamentalismo del libero mercato).
In sintesi le sfide che il Rapporto indica per il futuro stanno nelle capacità:
- di promuovere digitalizzazione, accompagnamento strategico oltre che tecnico-operativo sull’uso dei dati, creazione di un sistema della conoscenza e di nuove logiche per la creazione di servizi locali innovativi, piattaforme e/o canali che mettano in contatto gli individui con altri individui con bisogni simili e con offerta di servizi professionali del territorio;
- di mettere le “persone al centro” decodificando i nuovi bisogni, co-progettando nuovi servizi e rigenerando i legami sociali;
- di favorire processi di ibridazione fra profit e non profit superando ogni resistenza;
- di utilizzare le risorse del PNRR consolidando co-progettazione e co-programmazione per ridefinire l’offerta dei servizi all’insegna di integrazione, sostenibilità, qualità e solidarietà.
“Bisogna ripensare il sistema di welfare – ha dichiarato Franca Maino, direttrice del Laboratorio “Percorsi di secondo welfare” e professoressa associata all’Università degli Studi di Milano – favorendo un duplice riequilibrio tra pubblico-privato e tra nazionale-locale all’interno di una cornice in cui le interdipendenze tra livelli di governance e tra stakeholder (cioè i portatori di interesse) siano riconosciute come leva strategica e siano rafforzate”.
Alcuni commenti di natura personale
Mi pare di poter dire che anche il quinto Rapporto confermi il carattere ideologico sul quale si sono fondate le trasformazioni del sistema.
Il modello di “secondo welfare” non risponde, nella sostanza e come dovrebbe, ai bisogni di una società che cambia nella prospettiva di garantire ben-essere e buona vita alle persone, riconoscendo le differenze che attraversano la società (di genere, di classe, di provenienza) e avendo presente il quadro preoccupante dell’oggi (l’aumento esponenziale di spese militari a sostegno della guerra in Ucraina, la crisi energetica, il cambiamento climatico…).
Quando si dice di voler metter “le persone al centro” non si pensa a come definire i diritti collettivi ed individuali da rendere esigibili per superare diseguaglianze e le esclusioni. Le si mette invece al centro del “mercato dei servizi” aiutandole semmai a scegliere o destinando loro voucher o benefit per l’acquisto di beni o servizi.
Il cuore del sistema di welfare non è più la lettura dei bisogni e la risposta adeguata ad essi ma la loro profittabilità.
Si valorizza molto la dimensione territoriale. Una dimensione certamente ineludibile per garantire sicurezza sociale. In teoria però perché nella realtà, a causa del contenimento dei costi nella Pubblica Amministrazione e specie negli Enti Locali, assistiamo da tempo ad un altissimo livello di precarizzazione del lavoro, alla quasi scomparsa del turn-over ed ad una diminuzione costante dei servizi a favore di politiche di bonus e sussidi. Una recente indagine giornalistica (a cura della trasmissione Presa Diretta) ha dimostrato che molte amministrazioni locali, specie nel Sud d’Italia, non potranno presentare progetti finanziabili dal PNRR perché non hanno più personale in grado di scrivere i progetti!
Nella valorizzazione del livello locale si tende a sostenere e promuovere sempre più la dimensione regionale (magari avendo in mente percorsi di autonomia differenziata che renderebbero ancor meno uniformemente esigibili i diritti sociali). Se ciò fosse vero varrebbe la pena di ricordare che la regionalizzazione del sistema di welfare sociale e sanitario ha prodotto livelli di diseguaglianza insopportabili: basti pensare che, in base agli ultimi dati disponibili, la spesa media pro capite nel nostro Paese è di 124 euro, ma a Bolzano sale a 504 mentre in Calabria scende a 22! E al Sud, in cui risiede il 23% della popolazione, si spende solo il 10% delle risorse destinate ai servizi socio-assistenziali.
Il welfare aziendale viene considerato uno degli elementi cardine del “secondo welfare” peccato che, come sostenuto anche da coloro che lo promuovono, esso rischia di produrre differenze formidabili fra chi ha un lavoro e chi no, e fra chi può contare su un contratto di lavoro che prevede benefici e chi invece no.
Anche qui non si garantiscono diritti resi egualitariamente esigibili ma si produce ulteriore differenzialismo.
A chi è svantaggiato o, più facilmente, svantaggiata vista la peggiore condizione delle donne specie se di classe impoverita o migrante, non resta che il welfare filantropico.
Ricordo che l’art. 37 del decreto legislativo 117/2017, cioè il Codice del Terzo Settore, definisce l’ente filantropico come ente costituito in forma di associazione riconosciuta o di fondazione con il fine di erogare denaro, beni o servizi a sostegno di categorie di persone svantaggiate.
Benché il Rapporto riconosca che il rischio degli interventi di welfare filantropico sia quello di acuire le disparità territoriali, viene comunque sottolineato che gli esperti considerano il welfare filantropico una win-win solution cioè una soluzione vincente e un vettore per l’innovazione sociale.
Il re diventa nudo se andiamo al significato della parola, visto che si è scelto di usare questa e non altro. La filantropia, secondo il vocabolario, è la disposizione dell’animo a iniziative umanitarie che si traduce in attività dirette a realizzarle mentre il filantropo è senza dubbio una persona generosa che aiuta il prossimo ma altresì una persona molto ricca e usa una parte del suo cospicuo patrimonio per iniziative caritatevoli. Sentimento e carità, per l’appunto, non diritti.
Brevi conclusioni
Se questa è la realtà e queste sono le prospettive del welfare non ci potrà essere nessun ritorno allo stato sociale per come lo si era inteso e come pure titolava il webinar, ma purtroppo il consolidamento di un mercato dei servizi dentro il quale il ruolo dello Stato si limiterà a quello di ente pagatore.
Di fronte agli attuali scenari di guerra, alla recessione che ne consegue, alla crisi ambientale ed energetica che realisticamente produrranno ulteriore povertà ed esclusione un welfare mercantile è il meno adatto a rispondere ai bisogni e a garantire diritti.
Sarebbe quindi auspicabile che tutte le realtà sociali che si occupano di questo tema (taluni difendendo giustamente quel che resta dei servizi pubblici e chi ci lavora per sostenere l’importanza della dimensione pubblica come garanzia dell’esigibilità dei diritti che la Costituzione ancora sancisce ed altri, sperimentando forme di neo-mutualismo territoriale) si confrontassero e dessero vita a percorsi di convergenza delle lotte per poter contrastare in modo efficace il nuovo che avanza.
Un nuovo che per quanto riguarda i modelli di welfare sa maledettamente di un ritorno non al secolo scorso ma a quello precedente.
Nicoletta Pirotta